Ven. Khensur Ciampa Thegchog: Insegnamenti sulla vacuità

Ven. Khensur Ciampa Thegchog

Ven. Khensur Ciampa Thegchog: Insegnamenti sulla vacuità tratti dall’esperienza.

Sviluppare la motivazione corretta. Perché meditare sulla vacuità. La realizzazione della vacuità recide la sofferenza alla radice. Differenti livelli di sorgere dipendente. Il sorgere dipendente dei fenomeni permanenti. Come la concezione di una vera esistenza genera attaccamento ed odio. Come la concezione di un’esistenza intrinseca conduce alla produzione di karma negativo. Le due differenti modalità d’afferrasi alla vera esistenza. L’io convenzionalmente esistente. Sorgere in dipendenza di una designazione mentale. Base valida e conoscitore valido. Vuoto o vacuità d’esistenza intrinseca e sorgere dipendente sono sinonimi. 

Sviluppare la motivazione corretta All’inizio di ogni pratica spirituale occorre riflettere su quale sia la nostra motivazione: si tratta di un punto estremamente importante!

Ciò vale quando recitiamo mantra o leggiamo scritture, quando facciamo un ritiro, ma anche quando svolgiamo una qualsiasi azione a beneficio degli altri, e di certo prepararsi generando una buona motivazione è fondamentale sia per chi impartisce che per chi riceve insegnamenti. I lama della tradizione Khadam del Tibet erano soliti dire: “Vi sono due atteggiamenti mentali fondamentali, uno all’inizio e uno alla fine!”. Il tipo di pensieri che generiamo intraprendendo un’azione ha un grande valore, e anche dopo che la si è conclusa, ve ne sono altri che è bene non manchino. Se non abbiamo una buona motivazione iniziale, può succedere che, per quanto ci impegniamo a livello fisico, verbale o mentale, non otteniamo alcun buon risultato.

Di sicuro è importante trascorrere la maggior parte del tempo in pratiche effettive, come un ritiro, la recitazione di mantra e così via, però dovremmo assolutamente fare la massima attenzione alla loro qualità, di gran lunga più importante della quantità di tempo che vi dedichiamo; la bontà di ogni pratica spirituale è appunto determinata da una corretta motivazione, e se ci si basa su questa, allora andrà sempre meglio, e allungheremo spontaneamente anche il tempo del nostro impegno. Se la motivazione con la quale intraprendiamo un’azione reca traccia di un tipo di interesse che riguarda la vita attuale, come il desiderio di essere felici in essa, di ottenere ogni genere di buone condizioni, di voler guarire da una malattia, o di evitare tutti i possibili altri ostacoli del momento, allora non si tratta di una pura pratica di Dharma. Così, impegnandoci ad esempio in una pratica di lunga vita sulla base dell’esclusiva motivazione di godere di longevità, essa potrà forse produrre l’effetto desiderato, ma questo sarà l’unico buon risultato ottenuto. Come possiamo trasformare una semplice pratica di lunga vita in una autentica pratica spirituale? Dobbiamo pensare in questo modo: ora dispongo di questa preziosa rinascita umana con le otto libertà (1) e le dieci ricchezze (2), che sono davvero difficili da ottenere. Ho ottenuto questa rara opportunità, e devo assolutamente farne buon uso, al fine di raggiungere l’illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri senzienti. Se però la mia vita sarà breve, la situazione è difficile, e io non potrò più agire per gli altri in maniera efficace. Per realizzare questo scopo ho bisogno di vivere a lungo, e con tale motivazione mi impegnerò ora in una pratica di lunga vita. È a questo punto che sarà diventata un’effettiva pratica di Dharma!

Lo stesso principio si lascia applicare in molti altri casi; per esempio, se siamo malati e desideriamo recitare dei mantra al fine di guarire, possiamo procedere come prima esposto, riportando la mente al la consapevolezza che adesso disponiamo della preziosa opportunità di aiutare gli altri raggiungendo l’illuminazione per il loro beneficio, e che non possiamo lasciarla inutilizzata. La preziosità della nostra esistenza umana La nostra attuale esistenza umana è una forma di vita assunta senza il minimo controllo da parte nostra, ma sulla base di karma e afflizioni, ed è caratterizzata dal dolore. Eppure, essa ci offre la possibilità di ottenere la liberazione dal ciclo di morti e rinascite condizionate, nonché la meta finale dell’illuminazione; per questo motivo, negli insegnamenti la si definisce ‘preziosa’. Se possedessimo un gioiello capace di esaudire i desideri, lo considereremmo di estremo valore, poiché ci farebbe ottenere tutto ciò di cui abbiamo bisogno in questa vita. Comunque, se pure ne possedessimo in enorme quantità, tali gioielli non ci aiuterebbero in alcun modo a sviluppare la rinuncia, l’amore, la compassione e la visione corretta della vacuità. Grazie a una preziosa rinascita umana, che va perciò considerata di valore superiore alla gemma che esaudisce i desideri, saremo invece in grado di ottenere tutte quelle realizzazioni, e se la utilizziamo in maniera corretta, addirittura potemo raggiungere l’illuminazione in una sola vita con questo stesso corpo, e persino impiegarci meno tempo, come tre anni e tre cicli lunari e mezzo. Poiché attraverso di essa si può acquisire tanto, i vantaggi di possedere questa forma di esistenza vengono evidenziati con enfasi, anche se, naturalmente, il nostro attuale tipo di esistenza umana non è in alcun modo perfetta; è segnata da errori, caratterizzata da problemi, ci costringe a sperimentare i tre, sei e otto tipi di sofferenza (3), ed essendo un risultato di karma e afflizioni, è comunque da superare. Karma e afflizioni mentali: le cause dell’esistenza ciclica Abbiamo ottenuto questa vita sulla base di karma e afflizioni mentali, secondo un processo ben definito. Dapprima la mente si afferra alla vera esistenza; da tale ignoranza derivano quindi le differenti afflizioni, quali l’attaccamento, l’odio e così via; agendo sotto il loro influsso creiamo karma; questo ci spinge infine verso un tipo specifico di rinascita. Un’esistenza umana è da attribuirsi per certi aspetti a karma positivo, creato tramite la pratica della disciplina etica e delle altre perfezioni, come la generosità e la pazienza, e tramite pure preghiere. Tali cause virtuose sono necessarie, però non ci danno la facoltà di scegliere dove rinascere, e infatti la nostra è un tipo di esistenza ancora sotto il controllo del karma e delle afflizioni. Queste ci assoggettano da tempo senza inizio al dolore; siamo ancora oggi loro schiavi, e ci troviamo quindi ad essere spinti in rinascite negli inferni, nel reame degli spiriti famelici, nel reame degli animali e così via. Adesso, però, abbiamo la possibilità di fare qualcosa: almeno di tentare di scappare dal ciclo di morti e rinascite! Se non cogliamo ora questa opportunità, cosa potremo mai fare in futuro, quando ci troveremo nuovamente in dimensioni in cui non vi è alcuna possibilità di liberarsi, come nei reami inferiori? E anche se rinascessimo come esseri umani, potrebbe capitarci di vivere in un’area isolata o non civilizzata, priva d’insegnamenti che riguardano la causa, la natura e le radici dell’esistenza ciclica, e i metodi per liberarsene. In tali casi, che possibilità avremmo di cambiare qualcosa della nostra situazione? I lama khadampa dicevano: “Adesso che disponiamo delle otto libertà e delle dieci ricchezze, dobbiamo davvero stare attenti. Siamo arrivati ad un punto decisivo, dal quale o si procede verdo l’alto o verso il basso. Fino ad ora tutto è sempre stato sotto il dominio delle afflizioni, perché esse controllano la mente, la quale a sua volta controlla le nostre azioni di corpo e parola. Ebbene, dobbiamo determinarci a impedire che ciò continui ad accadere, utilizzando gli antidoti adeguati”.

La nostra esistenza è dunque sorta sulla base di karma ed afflizioni. E l’ignoranza che si afferra alla vera esistenza e oscura la mente è a sua volta la loro radice, quindi è considerata l’effettiva radice anche dell’esistenza ciclica. Essa è una disposizione mentale che fa sì che un oggetto appare esistere dalla propria parte, e come tale la mente lo percepisce; in seguito a questo sorgono poi le altre afflizioni, come l’attaccamento e l’odio, e sotto il loro influsso intraprendiamo attività attraverso le quali creiamo il karma che ci proietterà verso una nuova rinascita nell’esistenza ciclica, e quindi verso nuova sofferenza. Quando ascoltiamo insegnamenti sulla vacuità, ciò che cerchiamo di scoprire è proprio cosa fare per indebolire, danneggiare e finalmente distruggere tale ignoranza. Ebbene, solo la saggezza che realizza la vacuità è in grado di annientare la disposizione mentale che si afferra alla vera esistenza. Le quattro nobili verità Il primo insegnamento del Buddha fu quello sulle quattro nobili verità. Dapprima egli parlò della verità della sofferenza, dei diversi modi in cui si manifesta, e di come riconoscerli. Una volta compresi questi, si può analizzare la causa della sofferenza, e nella seconda nobile verità è spiegato che ogni tipo di sofferenza sorge da karma e afflizioni. Con la terza nobile verità si afferma che, abbandonando le cause, si ottiene la cessazione della sofferenza. La quarta nobile verità, infine, espone il sentiero tramite il quale possiamo ottenere tale cessazione, ossia le pratiche per lo sviluppo della saggezza che realizza la vacuità. Tutto ciò è comparabile al processo di guarigione di un malato. Una persona sofferente per una malattia innanzi tutto si rivolge ad un medico, a cui ne spiega i sintomi. Appena il medico diagnostica la malattia che li ha causati, il paziente sarà senz’altro interessato a sapere quali siano le cure e le medicine adatte, e mentre gli viene descritta la strategia della cura, ascolterà con estremo entusiasmo, essendogli stato prospettato un percorso verso l’eliminazione dei propri disturbi, e quindi verso la guarigione. Similmente, attraverso le quattro nobili verità, all’inizio diventiamo consapevoli dei sintomi che sperimentiamo, ossia dei vari tipi di sofferenza. Avendoli riconosciuti, generiamo allora il desiderio di scoprire da dove derivi tutto questo dolore, ed è per questo motivo che la verità della causa della sofferenza viene esposta dopo la verità della sofferenza. Una volta compreso che il karma e le afflizioni mentali ne sono la causa, nasce quindi il desiderio di liberarsene. Infine, ascoltando gli insegnamenti del Buddha, che affermano che tramite la saggezza che ha la piena comprensione della vacuità ci si può liberare dalle cause di ogni sofferenza e perciò dalla sofferenza stessa, sorge quindi un profondo interesse verso il sentiero che mostra come generare tale saggezza e realizzare la verità della cessazione.

Perché meditare sulla vacuità

Avendo costantemente presente che la radice dell’esistenza ciclica può essere recisa attraverso la realizzazione della vacuità, la nostra pratica spirituale diventerà migliore e sempre più potente. Se agiamo con attenzione e con reale impegno saremo davvero in grado di fare molto. Nelle scritture si ripete di continuo: “Se desideriamo praticare, facciamolo adesso, altrimenti potremmo non farlo mai più”. Sfruttando la vita attuale in modo corretto, forse potremo avere un’altra preziosa rinascita umana nella prossima vita, sebbene normalmente sia raro, tuttavia anche se ottenessimo nuovamente una rinascita umana con i diciotto segni, questo non significherà necessariamente che riusciremo ancora ad utilizzarli bene. Abbiamo una grande responsabilità nei confronti delle nostre rinascite future, e se ora non agiamo adeguatamente, gli effetti si ripercuoteranno sulla nostra prossima vita e su quelle successive. Si può affermare che se non ci assumiamo ora la responsabilità che dovremmo, molte nostre vite future saranno rovinate, viceversa, se adottiamo un comportamento corretto, non solo ci staremo prendendo cura della nostra felicità futura, ma anche del benessere di molti altri esseri. Se una persona non capisce cosa occorre fare, la sua situazione resta bloccata, e non ci stupiremmo se non facesse nulla. Noi, invece, abbiamo tutte le possibilità, e se continuiamo a non agire, la nostra diventa un’occasione preziosa che è andata sprecata. Equivarebbe all’essere arrivati sull’isola del tesoro e, pur essendo stati consapevoli di poter portare a casa ogni genere di oggetti preziosi, ritornare da quel viaggio a mani vuote. A quel punto tutti ci deriderebbero, perché ci saremmo lasciati sfuggire un’occasione unica, e in effetti ci saremmo dimostrati davvero stupidi! Considerando le sei perfezioni, comprendiamo come sia di particolare importanza la saggezza che realizza la vacuità. Le prime cinque – la generosità, la moralità, la pazienza, lo sforzo entusiastico e la concentrazione – se prive della saggezza che realizza la vacuità, sono paragonabili ad un gruppo di ciechi che non riesce a raggiungere la propria meta, laddove se avessero come guida qualcuno in grado di vedere potrebbero andare ovunque. Ora, la saggezza che realizza la vacuità è come un occhio offerto alle prime cinque perfezioni, capace di guidarci fino all’illuminazione, a cui esse da sole non sono in grado di condurci. Buddha Shakyamuni è venuto in questo mondo, e ha insegnato, affinché superassimo tutti gli errori dell’esistenza ciclica e ogni tipo di sofferenza, e potessimo così entrare nel giardino dell’illuminazione. Egli stesso definiva i Sutra sulla Perfezione della Saggezza come i supremi fra tutti i sutra, poiché spiegano la vacuità in maniera diretta, e affermava che occorre considerarli come inseparabili da lui, poiché ovunque i Sutra sulla Perfezione della Saggezza si trovino, in quel luogo il Buddha è presente. Trascrivere questi sutra, leggerli, e fare loro offerte rappresenta le più eccellenti tra le pratiche, perché hanno come oggetto la vacuità. Viene affermato che si accumulano più meriti studiando insegnamenti il cui soggetto esplicito è la vacuità, seppure ancora si hanno dei dubbi in merito, che non praticando le altre cinque perfezioni per cento ere cosmiche.

Confrontando gli insegnamenti sulla vacuità con quelli sull’amore e la compassione, i primi risultano lineari, mentre meditare sui secondi è alquanto difficile. Quando Buddha raggiunse l’illuminazione, la prima cosa che disse fu: “Ho trovato istruzioni simili ad un nettare, ma non le insegnerò, poiché non vi sono esseri umani che le possano capire. Si riferiscono ad un fenomeno non composto, ad uno stato profondo che pacifica tutte le costruzioni mentali causate dall’afferrarsi alla vera esistenza, e che è chiara luce”. I segni sopra indicati – l’essere non composto, profondità, pacificazione, libertà dalle distorsioni e chiara luce – si riferiscono tutti proprio alla vacuità! Il riconoscimento del non sé nell’Hinayana e nel Mahayana C’è una sola porta che conduce alla pace della liberazione: la saggezza che realizza la vacuità. Gli arhat hinayana shravaka e pratyekabuddha hanno anch’essi dovuto basarsi su tale saggezza per raggiungere la pace della liberazione, lo stato nel quale ogni sofferenza dell’esistenza ciclica viene superata. Letteralmente, la parola arhat significa ‘distruttore del nemico’, intendendo con ‘nemico’ le afflizioni mentali di attaccamento, odio e via di seguito, anche dette ‘ostruzioni alla liberazione’. Tra i due tipi di ostacoli, le ostruzioni alla liberazione e le ostruzioni all’onniscienza, un arhat hinayana ha superato le prime, ma non le seconde. Le ostruzioni alla liberazione impediscono soprattutto l’ottenimento della liberazione, o nirvana, proprio come le nuvole impediscono di vedere l’azzurro del cielo, ma una volta che sono state spazzate via si ha finalmente la possibilità di ammirarlo. Le ostruzioni alla conoscenza, invece, impediscono di realizzare la piena e completa illuminazione di un buddha, e un arhat hinayana non le ha ancora eliminate. La differenza tra i due tipi di ostruzioni si può esemplificare così: se conserviamo dell’aglio in un sacchetto, questo ne assumerà l’odore; le ostruzioni alla liberazione sono paragonabili all’aglio, e l’arhat a una persona che lo toglie dal sacchetto; l’odore dell’aglio però continuerà a permearlo, e ciò è simile alle ostruzioni all’onniscienza, che quell’arhat ancora non ha eliminato. Gli arhat hanno superato le ostruzioni alla liberazione – ossia la mente che si afferra alla vera esistenza, le afflizioni che stanno alla radice dell’esistenza ciclica e anche le loro impronte – tuttavia permangono in loro le ostruzioni all’onniscienza – ossia ancora qualcosa di erroneo nella mente, simili a macchie lasciate dalle afflizioni – che gli arhat pratyekabuddha e shravaka non sono in grado di superare, mancando dei metodi specifici. Nel buddhismo possiamo distinguere tra due sentieri: l’Hinayana (Piccolo Veicolo) e il Mahayana (Grande Veicolo). Il termine ‘veicolo’ indica qualcosa che può essere portato o sostenuto; ebbene, i seguaci dell’Hinayana non sono in grado di sviluppare amore e compassione al punto da assumere su di sé la responsabilità di liberare tutti gli esseri dalla sofferenza e condurli alla felicità – aspirazione propria ai seguaci del Mahayana – e possono solo nutrire il desiderio di liberare se stessi. Buddha conosceva le differenti predisposizioni, sistemi di valori e interessi degli esseri, e sapeva che per alcuni anche solo pensare di sviluppare amore e compassione verso tutti gli altri, e di assumersi la responsabilità di liberarli dal samsara è qualcosa di insostenibile. Poiché, quindi, tale vasta visione non avrebbe potuto essere condivisa da tali individui, egli non cercò in alcun modo di forzarli, ma diede loro insegnamenti su i quattro ancoraggi della consapevolezza, i quattro perfetti abbandoni, le quattro gambe delle emanazioni magiche, i cinque poteri, le cinque forze, i sette rami per l’illuminazione, gli otto sentieri degli arya (4), pratiche grazie alle quali si può raggiungere la liberazione, e che quindi sono fondamentali, in particolare, per i seguaci dell’Hinayana. I loro testi non contengono alcuna spiegazione sullo sviluppo di bodhicitta, e anche se è probabile che tra loro vi siano praticanti che leggono e studiano le scritture mahayana, o che ne incontrano i maestri, ciò non basta a rendere le pratiche mahayana centrali per gli hinayanisti. Viceversa, nei grandi monasteri della tradizione mahayana tibetana si usano studiare anche le scritture hinayana, infatti i monaci devono apprendere come i loro praticanti percorrano i rispettivi sentieri dell’accumulazione, della preparazione, della visione, della concentrazione e del non più apprendimento, giungendo finalmente allo stato di arhat.

Descriviamo ora le varie tappe del Mahayana: dapprima i suoi praticanti percorrono il sentiero dell’accumulazione, distinto nei livelli di piccolo, medio e grande; quindi percorrono il sentiero della preparazione distinto nei livelli di calore, vetta, pazienza e Dharma supremo; poi, con il sentiero della visione, iniziano i dieci bhumi (terreni) dei bodhisattva, fino ad arrivare al sentiero della meditazione e del non più apprendimento; percorrendoli, essi eliminano gli ultimi ostacoli alla liberazione, e poi purificano anche le ostruzioni all’onniscienza. Alla fine del settimo terreno, i bodhisattva hanno abbandonato tutto ciò che gli arhat hinayana abbandonano durante l’intero cammino verso il nirvana (5). I secondi impiegano molto tempo a riflettere sugli svantaggi dell’esistenza ciclica e ad osservare la natura dei piaceri samsarici, arrivando al riconoscimento che tutto ciò che è proprio dell’esistenza ciclica è della natura della sofferenza; poi, quando alla fine ne emergono tramite lo sviluppo della saggezza che realizza la vacuità, in loro sorge una grande gioia, ed essi si assorbono in questo stato di pace – che assomiglia molto ad uno stato di sonno profondo – grazie al potere della concentrazione univoca. In ogni caso, però, hanno bisogno di essere risvegliati da questo samadhi, e ciò avviene per l’intervento di buddha e bodhisattva, che li rendono consapevoli di come non abbiano ancora abbandonato tutto ciò che è da abbandonare, e non ancora ottenuto tutto ciò che si può ottenere; a quel punto anche questi arhat si determinano ad entrare nel Mahayana, ma sebbene abbiano già superato tutto ciò che un bodhisattva alla fine del settimo terreno ha superato, devono percorrere i diversi sentieri del Mahayana dall’inizio, semplicemente per accumulare meriti. Essi hanno completato l’acquisizione di saggezza, avendo realizzato la vacuità, ma la loro pratica è priva di aspetti che riguardano il metodo, ovvero della generazione di amore, compassione e bodhicitta. Chi ha ottenuto l’illuminazione possiede due corpi: il corpo di verità (dharmakaya) e il corpo della forma (rupakaya) (6). La causa sostanziale per il primo è la saggezza che realizza la vacuità, e sia gli shravaka che i pratyekabuddha la possiedono; essi però mancano delle cause sostanziali per ottenere il secondo, ossia di quell’amore e grande compassione sulla cui base si accumulano i necessari meriti. Un Sutra sulla Perfezione della Saggezza è anche detto Grande Madre, proprio poiché la saggezza che realizza la vacuità è quella madre che dà alla luce (illuminazione) shravaka, pratyekabuddha e bodhisattva, laddove il termine ‘illuminazione’, per i primi due, si riferisce ai rispettivi stati di arhat. In quei sutra è spiegato: “Tutti i Buddha dei tre tempi – del passato, del presente e del futuro – hanno raggiunto l’illuminazione basandosi sulla saggezza che realizza la vacuità”. Questa è una verità estremamente importante, e poiché è contenuta nei Sutra sulla Perfezione della Saggezza, anch’essi sono ritenuti tali.

La realizzazione della vacuità recide la sofferenza alla radice

La causa alla base di ogni problema dell’esistenza ciclica è la cosiddetta ‘visione della raccolta del transitorio’ (7), che può essere superata solo tramite la meditazione sulla vacuità. Quell’oscurazione è la radice di tutte le altre afflizioni – attaccamento, odio, orgoglio, invidia e così via –, e si usa paragonare la meditazione sulla vacuità allo scoccare una freccia avvelenata che va a distruggere la forza vitale di un organismo maligno, paralizzando quindi tutte le sue funzioni. Se, per mezzo della saggezza che realizza la vacuità, riconoscessimo la non-esistenza dell’oggetto che viene ingannevolmente percepito dalla mente che si afferra alla vera esistenza, svanirebbero automaticamente anche tutte le altre afflizioni, come pure tutti gli errori che sorgono da esse, poiché avremmo distrutto la loro causa radice. D’altra parte, attraverso la meditazione costante sull’amore, la compassione e la bodhicitta, possiamo senz’altro diventare familiari con queste attitudini positive, ma non saremo in grado di superare la mente ancora oscurata che le sostiene. Tali qualità, di fatto, non possono essere un antidoto contro l’ignoranza, in quanto non si riferiscono al suo stesso oggetto, da osservare in maniera opposta; invece, per esempio, l’amore può fungere da antidoto all’odio – proprio perché i due fattori mentali osservano lo stesso oggetto e in maniera diametralmente opposta – e, per lo stesso motivo, la compassione può opporsi alla mente che desidera fare del male.

Insegnamenti differenti per differenti allievi

Quando parliamo e riflettiamo sulla vacuità, dobbiamo assolutamente evitare di credere che ‘vuoto’ significhi che ‘nulla esiste’. Se arrivassimo a pensare che fenomeni come il karma, il rifugio o altro non esistono poiché mancano di vera esistenza, cadremmo in una visione errata, capace persino di condurci ad una rinascita nei reami inferiori. Ogni altro tipo di karma negativo può essere purificato, ma quando si possiede in una visione della vacuità di tipo nichilista, tale possibilità viene meno. Buddha voleva evitare che i suoi discepoli cadessero in una simile trappola, perciò insegnò la vacuità in molti differenti modi, così che ognuno trovasse la spiegazione per lui più idonea, e fu sulla base di tali differenti esposizioni che sorsero poi quattro principali scuole filosofiche buddhiste: la Vaibashika, la Sautrantika, la Cittamatra, la Madhyamaka. Solo nel sistema Madhyamaka, il più alto, fin dall’inizio si asserisce che i fenomeni non esistono veramente, mentre non si espone subito ciò a coloro che aderiscono ai principi dottrinali delle altre scuole, e che comunque alla fine giungono ugualmente alla comprensione corretta della vacuità. Nella scuola Cittamatra si asserisce che le nature potenziate da altro (i fenomeni composti) e le nature interamente stabilite (tre tipi di mancanze o vacuità) esistono veramente. Se Buddha avesse detto a quanti hanno questo tipo di visione che tali fenomeni non esistono veramente, essi avrebbero solo potuto capire che non esistono; per questo motivo spiegò loro la vera esistenza, con il risultato che tale genere di persone, pur continuando a credere che le cose esistano veramente, seguono la dottrina del karma, evitano azioni negative, prendono rifugio e così via. I meriti che accumulano tramite queste pratiche, col tempo li rendono poi adatti a ricevere insegnamenti più sottili sulla vacuità. Buddha esortò un suo discepolo, l’eruditissimo Ananda, a memorizzare ognuno dei differenti Sutra sulla Perfezione della Saggezza, senza che una sola parola andasse persa o venisse alterata, e precisò anche che, se non lo avesse fatto, avrebbe considerato ciò come un segno di rifiuto o di poco rispetto verso gli insegnamenti del Buddha; se invece avesse tenuto a mente questi insegnamenti, ma dimenticato tutti gli altri che da lui impartiti nel corso della vita, la mancanza, al confronto con la prima, non sarebbe stata tanto grave. In questo modo Buddha voleva sottolineare la grande responsabilità che Ananda aveva: dal momento che la realizzazione della vacuità è in definitiva l’unico mezzo con cui gli esseri senzienti possono superare tutta la loro sofferenza, se egli ne avesse dimenticato i relativi insegnamenti tale opportunità sarebbe andata persa, e ne sarebbe derivata un’enorme perdita per gli infiniti esseri. In quell’occasione, Buddha evidenziò tanto l’importanza dei Sutra sulla Perfezione della Saggezza per esortare Ananda a impegnarsi seriamente nella comprensione della vacuità, presupposto per potervi focalizzare la mente durante la concentrazione. Se interpretassimo erroneamente il significato della vacuità, per esempio equiparando la non intrinseca esistenza alla non-esistenza, e con ciò rifiutassimo la visione corretta, allora creeremmo una grande quantità di karma negativo, visto che la vacuità è la porta attraverso la quale tutti gli esseri possono ottenere la pacificazione dalla sofferenza. Vi sono infinite pratiche, ma il seme dell’illuminazione si può impiantare solo con tre specifiche: quella della rinuncia, della bodhicitta e della visione corretta della vacuità. Ora, relativamente alle prime due, una semplice comprensione degli argomenti non è sufficiente per porre tali semi, e infatti, sulla base della retta comprensione, occorre poi esercitarsi affinché la mente si trasformi concretamente; relativamente alla visione corretta della vacuità, invece, anche semplicemente pensare: “È dunque questo il significato della vacuità!” fa sì che nel proprio continuum mentale si depositi subito il seme della liberazione. Quindi vi sono dei buoni motivi per dedicarsi con infinita gioia alla realizzazione della vacuità, e dobbiamo impegnarci a comprenderne il significato il più presto possibile. Come Lama Tzong Khapa realizzò la vacuità Lama Tzong Khapa era in effetti una manifestazione di Manjushri, ma apparve con una forma fisica ordinaria per potersi relazionare con esseri ordinari, come noi. Di conseguenza mostrava di avere grandi difficoltà a comprendere la vacuità; neppure rivelava di poter comunicare direttamente con Manjushri, e infatti, inizialmente, chiedeva al proprio maestro, il Lama Umapa, di inoltrare per lui a Manjushri le domande che aveva bisogno di rivolgergli. Più avanti, dopo aver effettuato molte pratiche di purificazione e aver accumulato molti meriti, le sue ‘oscurazioni’ si dissolsero ed egli riuscì a vedere e a parlare a Manjushri direttamente. Quando riconobbe che tutte le scritture non erano altro che istruzioni per la pratica, offrì dei doni a Manjushri e lo pregò di poter essere in grado di comprendere la vacuità al più presto.
Un giorno Lama Tzong Khapa stava recitando il Sutra sulla Perfezione della Saggezza in forma breve – conosciuto come Sutra del Cuore – con un gruppo di altri monaci. Quando arrivarono alla frase ‘La forma è vuota, la vacuità è forma; la forma non è altro che vacuità, la vacuità non è altro che forma’ cadde in uno stato di profondo assorbimento meditativo. Gli altri continuarono la recitazione e alla fine lasciarono la sala di meditazione, ma Lama Tzong Khapa rimase nello stato di samadhi, al punto che gli altri dovettero ritornare nella sala e portarlo nella sua stanza. In quell’occasione non aveva ancora realizzato la vacuità, ma l’episodio mostra quale fosse la forza della sua concentrazione. Lama Tzong Khapa trovava la visione di quel suo maestro tibetano facile da meditare, e vi si applicò. In seguito, però, domandò a Manjushri se essa si riferisse al sistema prasangika o svantantrika, e la risposta fu: “Non rientra in nessuno dei due, ma è piuttosto una visione dei tibetani del passato” e poi “in molte scritture è stato predetto che Nagarjuna sarebbe venuto per chiarire la visione ultima del Buddha esponendola nel Madhyamaka, quindi studia i suoi scritti. Ed anche Chandrakirti è venuto in questo mondo da una terra pura per affiancare Nagarjuna nello stesso compito, perciò dovresti studiare anche i suoi testi”. Forte di questi consigli, Lama Tzong Khapa s’impegnò molto nella meditazione sulla vacuità, ma poiché non aveva ancora raggiunto la perfetta visione, decise di recarsi in India, dove a quel tempo vivevano esperti maestri, per studiare sotto la loro guida. A quel tempo Lama Tzong Khapa aveva già migliaia di studenti, e tutti caddero in preda allo sconforto, allorché egli annunciò la propria partenza. Il suo viaggio ebbe come prima tappa una regione del Tibet occidentale, dove si trovava un grande maestro chiamato Namkhai Gyeltsen, che insegnava il sentiero graduale verso l’illuminazione. Lama Tzong Khapa ne seguì le spiegazioni e gli raccontò dei propri progetti, e Namkhai Gyeltsen, che poteva entrare in contatto diretto con Vajrapani, lo consultò: “Il monaco Losang Dragpa vuole assolutamente recarsi in India per studiare, e credo di non poterlo trattenere in alcun modo. Cosa si può fare?”. Vajrapani rispose: “Sarebbe un peccato! Andando in India, dove senz’altro splende il sole della dottrina, diventerebbe l’abate del Monastero situato a Bodhgaya, ma è improbabile che ritorni poi in Tibet, e senza di lui questa diventerà una terra buia. Riferiscigli dunque che ho detto che non si preoccupi di realizzare la perfetta visione altrove, e di rimanere pure in Tibet, perché anche qui sarà presto in grado di ottenerla!” Lama Tzong Khapa decise allora di non recarsi in India, e andò invece ad Olkha – un luogo ancora oggi visitabile – e di nuovo chiese consiglio a Manjushri, questa volta riguardo all’entrare in ritiro da solo o insieme ad altri, ottenendo come risposta di portare con sé otto discepoli. Durante quel ritiro, effettuava quattro sessioni al giorno, aprendole con le prostrazioni ai trentacinque Buddha, per purificare gli ostacoli, e con l’offerta del mandala – che effettuava su di una pietra piatta – per accumulare meriti. Una notte, in sogno, gli apparve un alto monaco dal viso blu che sosteneva di essere Buddhapalita, e che lo percosse tre volte sul capo, con un volume dello stesso colore. Il giorno seguente, un monaco che non conosceva gli fece visita, e gli diede un testo dal titolo Buddhapalita, ossia il Commentario di quel pandita alla Prajna di Nagarjuna. Lama Tzong Khapa si immerse nella sua lettura e, giunto al xviii capitolo, manifestò di realizzare la perfetta visione, che secondo le sue stesse parole era ‘profonda, veloce, vasta e completamente priva di ostacoli’. Aveva realizzato la vacuità e, ispirato, compose quindi la Lode a Buddha Shakyamuni per il Suo Insegnamento sul Sorgere Dipendente. La vacuità non è facile da realizzare. Chi ha un interesse profondo ra per la filosofia buddhista, ne ottiene gradualmente una comprensione sulla base di ascolto e riflessione, ma non si tratta ancora di una realizzazione diretta. Anche Lama Tzong Khapa spiega quanto sia arduo arrivarvi, ma allo stesso tempo assolutamente necessario, nella sua opera Esposizione delle Differenze tra i Sutra Interpretativi e Definitivi. Se si hanno pochi meriti è difficile comprendere il significato della vacuità, mentre se si sostenuti da una loro vasta accumulazione risulta molto più agevole. Chi non possiede alcun merito neppure si chiede se le cose esistano intrinsecamente oppure no, mentre possedendone abbastanza si inizia almeno a dubitare dell’esistenza intrinseca delle cose, e si dice che già soltanto un simile dubbio ha il potere di minare la base dell’esistenza ciclica. Disponendo di sufficienti meriti, realizzare direttamente la vacuità diventa senz’altro possibile, dal momento che tutti abbiamo comunque il potenziale per raggiungere l’illuminazione.

Differenti livelli di sorgere dipendente

Nelle scritture si afferma che tutto è sorgere dipendente, la qual cosa riconduce alla vacuità, dal momento che riflettere sul sorgere dipendente è proprio un metodo eccellente per realizzarla. Vi sono tre differenti livelli per spiegare il sorgere dipendente, secondo un crescente grado di sottigliezza: i fenomeni sorgono dipendendo da cause e condizioni, dalle loro parti e da una coscienza che li designa nominalmente. Noi possiamo raggiungere l’illuminazione esattamente come Lama Tzong Khapa, e quindi ottenere i due corpi di un buddha. E se è possibile ottenere questi risultati, è altrettanto possibile porne le cause. Che le cose dipendano da cause e condizioni è facile da capire, poiché si tratta di una cosa evidente; per esempio, una pianta dipende dal seme come sua causa, e noi esseri umani dipendiamo dai nostri genitori, come causa della nostra vita. In merito a ciò, si possono adottare due espressioni che hanno quasi lo stesso significato ‘sorgere dipendendo da altro’ e ‘sorgere sostenuti da altro’. I bambini, ad esempio, sorgono dipendendo dai propri genitori, ma si potrebbe anche dire che sorgono sostenuti dai propri genitori, o sul sostegno dei propri genitori. I fenomeni dipendono tutti anche dalle loro proprie parti. Ne è un esempio il tempo: un anno dipende dai suoi dodici mesi, un giorno dipende dalle sue ventiquattro ore, un’ora dipende dai suoi sessanta minuti, i minuti dai secondi, e i secondi dalle rispettive parti. Ancora, una casa, che è costituita da molti differenti materiali, quali pietre, legno e così via, è un sorgere dipendente in quanto esiste anche per via di quelle sue parti. I sostenitori delle scuole Sautrantika e Vaibhashika sono in grado di comprendere che le cose sorgono dipendendo da cause e condizioni; i sostenitori della Cittamatra comprendono che sorgono anche dipendendo da parti; solo i sostenitori della Madhyamaka-Prasangika, però, comprendono che i fenomeni dipendono anche da una mente che attribuisce loro un nome, ossia che li designa. I fenomeni possono essere di diversa natura: tutti dipendono dalle loro proprie parti e da una mente che ne fa una designazione, ma alcuni, quelli impermanenti, dipendono anche da cause e condizioni. I fenomeni esistono in questo modo, ma ci appaiono diversamente, ossia come se esistessero dalla propria parte, e noi abbiamo la tendenza a considerarli appunto come intrinsecamente esistenti. Solo dopo vari ragionamenti possiamo arrivare a capire che i fenomeni sono in effetti sorgere-dipendente. Osserviamo ad esempio la casa in cui ci troviamo: dapprima ci appare con un tipo di esistenza indipendente e dalla propria parte, poi questa apparenza fa sorgere una mente che percepisce la casa come esistente in modo intrinseco, ossia quello che le appare. La mente che percepisce la casa come intrinsecamente esistente è chiaramente erronea – dal momento che la casa esiste in dipendenza di altri fattori – e ciò si chiama anche ‘afferrarsi alla vera esistenza’. Ebbene, qual è l’oggetto di questo afferrarsi? Un fenomeno che esiste intrinsecamente. E che cosa si contrappone alla mente che lo percepisce in tal modo? La comprensione che il fenomeno in realtà sorge sulla base di altri fattori. Chi conosce anche solo superfialmente il pensiero scientifico, dovrebbe sapere con chiarezza come ogni cosa sorga in dipendenza di altro. Se si è compreso tramite l’osservazione di molteplici casi che tutto è sorgere-dipendente, e se questa visione si è ancorata nella nostra mente, ciò va a negare la visione errata secondo la quale i fenomeni sono indipendenti. Se ci fosse un fenomeno indipendente e privo di relazione con alcunché, e se esistesse senza essere etichettato dalla mente, allora sarebbe esistente veramente, intrinsecamente, autonomamente, naturalmente, dalla propria parte. Se esistesse qualcosa priva del sostegno di altro, allora sarebbe prodotta da sé ma, in effetti, sia tra i fenomeni permanenti che impermanenti, non si trova nulla che esista in maniera totalmente priva di relazione e che non sia sostenuto da qualcos’altro. Comunque, dovremmo osservare personalmente i due tipi di fenomeni, e verificare se ce ne sia davvero qualcuno dotato di un’esistenza intrinseca.

Il sorgere dipendente dei fenomeni permanenti

Tutti i prodotti, ossia i fenomeni composti, impermanenti, vengono ad esistere dipendendo da cause e condizioni, e questo tipo di dipendenza è facile da riconoscere. Ma per i fenomeni permanenti, come ad esempio lo spazio, che è non composto, è diverso. Pensiamo allo spazio vuoto che troviamo in questa stanza e fuori: in che modo anche questo è un sorgere-dipendente? Ebbene, lo è perché dipende dalle sue proprie parti, che sono lo spazio del lato a destra, lo spazio del lato a sinistra, e così via. E ancora: “In che modo lo spazio del lato a destra dipende dalle sue proprie parti?” Lo è perché anche questa parte di spazio possiede una rispettiva parte superiore e una inferiore, che a loro volta hanno parti superiori e inferiori. Anche l’esempio di un tavolo – che invece è un fenomeno impermanente – ci può facilmente far comprendere la dipendenza da parti, infatti, indagando in che modo il centro dipenda dai quattro lati, e che cosa succederebbe se li segassimo e li portassimo via, si può arrivare ad affermare che il centro del tavolo dipende dal bordo. Lo spazio dipende anche dal non-spazio, dal momento che per stabilire l’esistenza dello spazio occorre negare il non-spazio. Proviamo a domandarci se riempendo una borsa di plastica con dell’acqua, rimanga ancora spazio nella borsa. Ora, quando all’inizio la teniamo in mano, vi è dello spazio al suo interno ma, una volta riempitala, quello spazio si sarà esaurito, poiché al suo interno si trova qualcosa che oppone resistenza ed è tangibile, cosicché non può trovarsi nello stesso luogo anche dello spazio. Lo stesso dicasi per lo spazio in una stanza: esso esiste dipendendo dall’assenza di un fenomeno che oppone resistenza ed è tangibile. Si può quindi asserire che lo spazio non composto dipende dall’assenza di resistenza e tangibilità, ed infatti esso viene definito come una mera negazione, nello specifico come ‘la mera assenza di fenomeni tangibili che oppongono resistenza al contatto’. Consideriamo ora un altro fenomeno permanente, la vacuità. Anch’essa è un sorgere-dipendente, che dipende dal conoscitore valido che la riconosce; inoltre, osservando una vacuità specifica – per esempio quella del tavolo – ecco che essa dipende dall’oggetto di cui costituisce la vacuità, in questo caso appunto dal tavolo. Un altro fenomeno permanente è la ‘verità della cessazione’, terza delle quattro nobili verità, che viene ottenuta in dipendenza della meditazione sulla verità del sentiero, l’antidoto per l’afferrarsi all’esistenza intrinseca. In pratica, la verità della cessazione trova il suo sostegno nella verità del sentiero. Abbiamo così mostrato come tutti i fenomeni, sia permanenti che impermanenti, siano sorgere-dipendente.

Come la concezione di una vera esistenza genera attaccamento e odio

Sulla base della visione erronea di un’esistenza vera, intrinseca, autonoma, sviluppiamo attaccamento, o bramosia, riguardo a determinati oggetti. Di conseguenza ci impegniamo in azioni in accordo all’obiettivo perseguito dal nostro attaccamento, creando così un particolare karma che ci porterà in futuro ad una nuova rinascita nell’esistenza ciclica. L’attaccamento è abbinato al desiderio di possedere qualcosa di specifico, un determinato corpo, amici, oggetti e così via, ma da solo non ci porta a possedere ciò che desideriamo, infatti occorre poi agire, ed è così che creiamo il karma: questo è il processo attraverso il quale l’attaccamento ci obbliga a rimanere nel nostro stato di dolore. Lo stesso avviene nel caso della rabbia. Un oggetto che non ci piace appare alla mente, che si afferra ad esso come se esistesse dalla propria parte, proprio come le appare; su questa base sorge allora la rabbia. Per esempio pensiamo: “Questa persona in passato mi ha danneggiato” oppure “ ora mi sta danneggiando” oppure “probabilmente mi recherà danno in futuro”, o anche “questa persona in passato ha aiutato il mio nemico” o “lo aiuta ora” o “lo aiuterà in futuro”. Sulla base di tali pensieri la mente si agita, diventa aggressiva, e vuole danneggiare quella persona, colpendola o persino uccidendola. Ma, poiché l’odio da solo non conduce alla meta, occorre agire in un certo modo al fine di riuscirci, e così si produce karma, che porterà ad una rinascita nei reami inferiori dell’esistenza ciclica, dove si sperimenterà una sofferenza indicibile. Di solito si afferma che creiamo karma sulla base dei tre veleni mentali di attaccamento, odio e ignoranza, ma la causa primaria, quella che ci motiva ad accumulare karma, è l’ignoranza, ovvero la mente che si afferra alla vera esistenza. Con ‘ignoranza’ qui si intende una mente che non (ri)conosce come le cose effettivamente esistono, ossia come nulla esista con un tipo di esistenza indipendente, ma all’opposto crede che i fenomeni che apprende siano intrinsecamente esistenti. Questa ignoranza è una mente erronea, e anche l’attaccamento e l’odio che sorgono sulla sua base lo sono. Di solito, nei confronti di un oggetto attraente, reagiamo sviluppando attaccamento. Tuttavia, domandiamoci se un simile oggetto possieda la bellezza dalla sua propria parte. Come stanno effettivamente le cose? Proviamo a descrivere i diversi passaggi del processo mentale che si viene ad attivare. La mente che si afferra al sé crea l’illusione di un oggetto esistente in modo indipendente, e quindi sviluppa attaccamento verso di esso. Ora, quell’oggetto – un corpo, una casa, o qualsiasi altro possedimento – è forse bello, o comodo, diciamo al 25%, ma cosa succede? Sorge una determinata visione che va ad esagerare le sue qualità effettive, così a quel 25 % se ne aggiunge un altro 25%, ed ecco che è diventato ‘bello’ al 50%. L’attaccamento si basa su una cosiddetta ‘attenzione scorretta’, una mente concettuale che presta un’attenzione sproporzionata ad un certo oggetto. Quando un uomo e una donna sentono sorgere attaccamento reciproco, ciò che accade è che, anche se magari l’altro ha commesso alcuni errori, sotto l’influsso di quel tipo di mente si è portati a non vederne i difetti, e invece gli si attribuiscono ulteriori qualità, oltre a esagerare quelle che effettivamente possiede. Analogamente, quando ci arrabbiamo, succede che a un certo oggetto forse spiacevole in una certa misura, l’attenzione scorretta va ad aggiungere una sgradevolezza supplementare. Contro di esso sorge allora rabbia o odio, e su questa base si accumulano differenti tipi di karma negativi. Queste dinamiche scaturiscono in ogni caso da tipi di mente erronei, che percepiscono il loro oggetto in modo sbagliato. Quando ci impegniamo in pratiche di purificazione del karma negativo – per esempio effettuando la meditazione di Vajrasattva e recitando il mantra specifico – la purificazione sarà tanto più efficace quanto più si richiama alla mente la vacuità delle ‘tre sfere’. Esse si riferiscono all’agente, ossia colui che ha creato il karma, all’azione stessa e all’oggetto dell’azione. Dovremmo riflettere sul fatto che le tre sfere non possiedono la benché minima esistenza intrinseca, in quanto sorgono in dipendenza l’una dall’altra. Se durante la pratica si pensa anche a questo, ci si contrappone alla mente che si afferra alla vera esistenza, e il processo di purificazione diviene particolarmente efficace.

Come la concezione di un’esistenza intrinseca conduce alla produzione di karma negativo

Consideriamo più in dettaglio come si venga a creare karma sulla base della mente che si afferra alla vera esistenza. Mossi dalla rabbia, in un primo istante creiamo del karma; al secondo istante questo karma si disintegra, ma dopo quel primo istante di cessazione ne attiva un secondo, poi un terzo e così via. Il processo di disintegrazione (cessazione di uno stato che si trasforma senza interruzione in un altro, n.d.t.) continua istante dopo istante fino al risultato doloroso di quel karma negativo, e sarà arrestato solo se lo si purifica. Questo avviene perché tutto ciò che è impermanente muta e si trasforma istante dopo istante. In un dato istante si produce un certo karma, e nel successivo questo si è già disintegrato; il potenziale di sperimentare il risultato di quel particolare karma però permane (per la funzionalità dello stesso processo di disintegrazione-evoluzione, n.d.t.). In certi sistemi filosofici, come quello Cittamatra, si afferma che l’impronta karmica contiene in sé il potenziale per sperimentarne il risultato; nel sistema Prasangika, invece, si afferma che è la disintegrazione del karma a contenere il suo potenziale; essa si riproduce fino a che verrà sperimentato il risultato, proprio come avviene con lo scorrere del tempo: una prima ora lentamente si consuma, poi si giunge alla seconda e così via, e ciò che rimane è un continuum che si perpetua, mentre qualcosa si trasforma istante per istante. Se ci impegniamo nella meditazione sulla vacuità, andremo a scalfire la mente che si afferra alla vera esistenza, e andremo a danneggiare anche il processo di evoluzione degli stati mentali dannosi creati sulla sua base.

Le due differenti modalità di afferrarsi alla vera esistenza

Considerando la mente che si afferra alla vera esistenza, possiamo distinguerne due tipi: la mente che percepisce come veramente esistente la persona, e la mente che percepisce come veramente esistenti i fenomeni (diversi dalle persone). Il primo tipo viene detto ‘afferrarsi alla vera esistenza della persona’, il secondo ‘afferrarsi alla vera esistenza dei fenomeni’. Prima sorge l’afferrarsi alla vera esistenza dei fenomeni e poi, di conseguenza, l’afferrarsi alla vera esistenza della persona; prima ci appaiono gli aggregati della persona, e poi sulla loro base identifichiamo la persona. Essi ci appaiono come autonomamente, veramente, intrinsecamente esistenti, dopodiché sorge una mente che li percepisce anch’essa come tali, e si tratta di un processo di afferrarsi alla vera esistenza dei fenomeni, dal momento che gli aggregati sono fenomeni. Sulla base degli aggregati sorge l’apparenza della persona, ossia identifichiamo la persona per via dell’apparire dei suoi aggregati, però quando essa appare alla nostra mente lo fa come se esistesse dalla propria parte, e così viene percepita; questo è ciò che si intende con ‘afferrarsi alla vera esistenza della persona’. Meditando su i due tipi di non-sé l’ordine da adottare è inverso, in quanto prima si riconosce il non-sé della persona e poi il non-sé dei fenomeni. La prima domanda che ci si pone è: “Per quale motivo circolo nell’esistenza ciclica?”, e si inizia quindi a ragionare sul fatto che siamo completamente dominati dal karma e dalle afflizioni mentali, che ci portano a rinascere senza possibilità di scelta in essa. Si riconosce poi che, tra i due fattori causali, le afflizioni mentali hanno la responsabilità maggiore, e che esse sorgono sotto l’influsso della mente ignorante che si afferra alla vera esistenza. Al passaggio successivo, si riflette su tale ignoranza, e si arriva a stabilire che si tratta di una mente che percepisce il proprio oggetto, l’‘io’ o sé, come del tutto indipendente da ogni altra cosa. Quindi si medita così: “La mente che si afferra alla vera esistenza dell’‘io’ è una coscienza erronea, il cui oggetto non esiste nel modo in cui viene percepito. In realtà, non c’è nulla che possieda una vera esistenza, perché ogni cosa sorge in dipendenza da altro”. In pratica, la contemplazione sulla sofferenza presente nell’esistenza ciclica è il motivo che ci porta a familiarizzarci dapprima con il non sé della persona, e quando ci si medita sopra ripetutamente, si giunge infine a realizzarlo. La vacuità è analizzabile secondo vari tipi di suddivisioni, per esempio se ne individuano sedici e così via. Tutte le diverse categorie sono comunque riconducibili alle due di cui sopra – ossia del non-sé della persona e del non-sé dei fenomeni – e sono tutte della stessa fondamentale natura, ossia sono mancanza di vera esistenza. I sedici tipi di vacuità si distinguono solo relativamente alla base a cui si riferiscono, per il resto sono del tutto identici. Così si parla, ad esempio, di vacuità dei fenomeni propri al continuum mentale di un essere senziente, oppure di vacuità di fenomeni che non vi sono inclusi; in ogni caso, per tutti si tratta di assenza di una vera esistenza.

L’‘io’ convenzionalmente esistente

Quando pensiamo: “Arrivo” o “vado”, possiamo riconoscere una mente che sorge in modo spontaneo e si riferisce ad un ‘io’. Questo tipo di mente è un valido conoscitore (o cognizione) che si basa sull’‘io’ convenzionalmente esistente, e in tal senso non si parla di ‘afferrarsi all’‘io’ o di ‘afferrarsi alla vera esistenza’. Allo stesso modo, il pensiero: “Io mangio” è una mente che percepisce un io che convenzionalmente esiste, e si riferisce ad una persona che esiste esclusivamente in quel modo. Se però osserviamo come questo ‘io’ appare a quel valido conoscitore, allora riconosciamo che sembra qualcosa di solido, indipendente da cause e condizioni, veramente esistente, non sostenuto da nient’altro. Più precisamente: l’‘io’ che esiste convenzionalmente appare sulla base degli aggregati come se fosse veramente esistente, e non come meramente prodotto dalla mente grazie all’attribuzione di un nome, o etichetta. In pratica, alla mente che pensa: “Io vado”, l’‘io’ appare come se fosse sempre stato lì, come esistente dalla sua propria parte, o esistente naturalmente, o esistente in senso ultimo, o esistente autonomamente. L’‘io’ è una mera designazione nominale fatta da una mente concettuale sulla base degli aggregati, però non appare così. Dapprima, l’‘io’ appare ad una coscienza valida e sembra esistere dalla propria parte; quella coscienza, però, non lo sta etichettando ancora come veramente esistente, e per questo non si tratta di un ‘afferrarsi alla vera esistenza’; comunque, poco dopo subentra la mente che si afferra alla vera esistenza, e l’‘io’ viene allora percepito come qualcosa che esiste dalla propria parte, intrinsecamente, fin dall’inizio, sulla base degli aggregati. In effetti, però, l’‘io’ è una semplice creazione della mente, poiché meramente designato da essa.

Sorgere in dipendenza di una designazione mentale

Riflettiamo su come ogni cosa sia frutto di una designazione ad opera di una mente concettuale. Osservando i fenomeni esistenti, occorre domandarsi in che modo essi esistano. Le cose esistono fin dall’inizio autonomamente? O sono meramente designate da una mente concettuale? Utilizziamo allora un esempio che può agevolare la nostra comprensione, pensando al processo secondo il quale si diventa ‘presidente’ di uno Stato. Innanzitutto occorre una base valida: non possiamo nominare ‘presidente’ un qualsiasi essere umano, e tanto meno una cosa, ma abbiamo bisogno di una persona dotata di particolari caratteristiche. Poi vi sono specifiche modalità, indicate nella costituzione di quel certo Stato, che stabiliscono come si può diventare ‘presidente’, e una persona sarà il ‘presidente’ non appena nominato tale sulla base di quelle regole. Prima della conclusione della specifica procedura di nomina, nessuno potrebbe validamente pensare: “Sono il presidente!”, e nessuno potrebbe validamente affermare: “Arriva il presidente!” quando una certa persona arriva. Se un presidente potesse esistere come tale in maniera indipendente da altro, dovrebbe essere presidente fin dalla nascita, e avrebbe potuto pensare anche prima della nomina, senza incorrere in errore: “Io sono il presidente!”, così come sarebbe stato corretto che altri avessero detto già in precedenza: “Ecco arrivare il presidente!”. Comprendendo i passaggi logici di questo esempio, li potremo applicare a tutti i fenomeni, arrivando a capire come ogni cosa sia meramente etichettata da una mente concettuale. Riconosceremo che, relativamente a ciò, tutti i fenomeni sono uguali, come un tavolo davanti a noi ora, che è un blocco di materia. Se qualcuno, prima che esso venisse nominato ‘tavolo’, avesse chiesto: “Porta qui il tavolo!”, nessuno avrebbe portato qui questo blocco di materia, poiché le parole sarebbero state del tutto prive di significato. Solo dopo che lo si è etichettato come ‘tavolo’, è diventato sensato riconoscere e portare il tavolo qui. Quando iniziamo a comprendere cosa si intende con l’espressione ‘meramente nominato’ o ‘meramente designato’ o ‘meramente etichettato’, andiamo a toccare qualcosa di estremamente profondo, che ci conduce direttamente al significato della vacuità.

Base valida e conoscitore valido

Con ‘oggetto di negazione’ ci si riferisce alla vera o intrinseca esistenza, e la ragione che porta a negarla è che le cose non esistono autonomamente, poiché sono sorgere-dipendente. Quando affermiamo che ogni fenomeno è una mera designazione ad opera di una mente concettuale, dobbiamo comprendere che la mente che attribuisce un nome ad un oggetto deve essere un conoscitore valido, e che quel nome deve essere dato ad una base valida, ossia ad una base che deve poter funzionare in maniera congrua con il nome ad essa attribuito. Per esempio, un tavolo non sarebbe una base valida per l’attribuzione del nome ‘microfono’, in quanto per essere chiamata ‘microfono’ una base dovrebbe poter funzionare come tale, e un tavolo non ne ha la possibilità; allo stesso modo, non possiamo chiamare un cuoco ‘presidente’, poiché egli non è in grado di svolgere i compiti di un presidente. A questo punto, potrebbe sorgere un dubbio: “Ma quanto appena detto non sta forse ad indicare che le cose esistono autonomamente? In fin dei conti, le diverse funzioni esistono dalla loro propria parte!” Ebbene, questa considerazione non è corretta. Anche se una base valida per l’attibuzione di un particolare nome deve possedere precise caratteristiche, queste a loro volta sorgono solo dipendendo da altri fattori. Dal lato dell’oggetto devono essere presenti le caratteristiche consone al suo nome, ma le caratteristiche stesse sono a loro volta dipendenti da cause e condizioni, e non possiedono alcuna esistenza autonoma. I fenomeni esistono solo in dipendenza di altri fattori e non autonomamente, ma allo stesso tempo dovremmo essere consapevoli che con tale affermazione non andiamo a negare che essi siano prodotti conformemente alle convenzioni generali del mondo. E siamo così giunti nel pieno di un’analisi molto raffinata, presente solo nel sistema Prasangika, tenendo presente però che per noi è impossibile parlare dei fenomeni avendo lo stesso punto di vista di un bodhisattva di livello estremamente avanzato; al contrario, dovremmo farlo sulla base di quanto si può verificare a un livello convenzionale ordinario. Torniamo ora all’esempio del microfono. Non sappiamo chi abbia deciso inizialmente di chiamare questo particolare tipo di oggetto ‘microfono’, ma prima che una certa persona gli assegnasse questo nome, esso non esisteva come tale. Quando affermiamo che tutto esiste in quanto meramente designato, con l’avverbio ‘meramente’ intendiamo dire che la base cui si attribuisce un nome non esiste dalla sua propria parte. Tuttavia, il microfono appare alla nostra coscienza visiva come se esistesse in quel modo, e non in dipendenza del processo di attribuzione di quel nome. Comunque non è la coscienza visiva a percepire il microfono come intrinsecamente esistente, infatti nessuna delle cinque coscienze sensoriali percepisce gli oggetti come esistenti dalla loro parte, sebbene appaiano loro così, in quanto tale percezione è sempre una funzione della coscienza mentale. La mente che percepisce il microfono come autonomamente esistente è un tipo di afferrarsi alla vera esistenza dei fenomeni, anche se con questa espressione ci si riferisce principalmente alla mente che percepisce come veramente esistenti gli aggregati. Dapprima pensiamo: “Io vado” o “io arrivo” e così via, e l’‘io’ ci appare come se esistesse veramente sulla base degli aggregati; quindi nasce lo spontaneo afferrarsi della mente a tale ‘io’, che però non esiste intrinsecamente, essendo sorto dipendendo da altro. Questo processo si comprende meglio con l’esempio di un viso riflesso in uno specchio: sappiamo con totale certezza che l’immagine nello specchio non è un viso autentico, eppure ci appare come se lo fosse. Ancora, ad una particolare coscienza sensoriale visiva, una montagna innevata può apparire blu, o una conchiglia bianca può apparire gialla. Sebbene le cose non esistano veramente, possono però svolgere una funzione, in quanto esistono a livello convenzionale, livello al quale vi sono infatti danno e beneficio, caldo e freddo, lungo e corto. Le cose esistono nominalmente, e nominalmente distinguiamo fra agente, azione e oggetto dell’azione, come nel caso dell’agente ‘fuoco’ che agisce sull’oggetto ‘legna’ svolgendo l’azione di ‘bruciare’. Tutto ciò avviene effettivamente, pur essendo ogni cosa vuota di vera esistenza. È in questo modo che dovremmo meditare sulla vacuità! Se abbiniamo questa meditazione alle pratiche di purificazione, esse diventano molto efficaci. Occorre pensare così: tutto il karma negativo che abbiamo accumulato da tempo senza inizio non è intrinsecamente esistente, non esiste dalla propria parte, ma è un sorgere-dipendente, ossia esiste solo per via di cause e condizioni, ecc. Poi ci concentriamo nuovamente sulla vacuità: poiché il karma sorge in maniera dipendente, è vuoto di un’esistenza dalla propria parte. E si applica questa meditazione a tutte le tre sfere: la persona che svolge l’azione, l’azione stessa e l’oggetto cui la si rivolge. Mentre meditiamo sulla mancanza del sé della persona, osserviamo come essa appare alla mente che si afferra all’‘io’, e se il suo modo di esistere corrisponde al suo modo di apparire. Troveremo allora che vi è una discrepanza tra apparenza e realtà: la persona appare come se fosse veramente esistente, ma in effetti è un sorgere-dipendente.

Vuoto (di esistenza intrinseca)’ e ‘sorgere dipendente’ sono sinonimi

I termini ‘vuoto’ e ‘sorgere-dipendente’ sono sinonimi secondo otto casi. Se qualcosa è vuoto, deve essere un sorgere-dipendente; se è un sorgere-dipendente, deve essere necessariamente vuoto; se non è vuoto, non può essere un sorgere-dipendente; se non è un sorgere-dipendente, non può essere vuoto; se esiste il vuoto, allora esiste il sorgere dipendente; se esiste il sorgere dipendente, allora esiste il vuoto; se non esiste il sorgere dipendente, allora non esiste il vuoto; se non c’è il vuoto, allora non c’è il sorgere dipendente. Dovremmo però fare attenzione al fatto che ‘vuoto’ e ‘vacuità’ non sono la stessa cosa. Se ‘vuoto’ e ‘sorgere-dipendente’ sono sinonimi, invece non lo sono ‘vacuità’ e ‘sorgere dipendente’. Possiamo infatti dire che il tavolo è vuoto (di esistenza intrinseca), dal momento che è un sorgere-dipendente, ma in nessun caso affermeremo che il tavolo è vacuità. Se fosse vacuità dovrebbe essere una mera negazione – che non implica nient’altro – e dovrebbe quindi avere l’aspetto di una negazione, ed invece il tavolo può essere riconosciuto come un fenomeno positivo per mezzo di un’affermazione. Sorgere dipendente e vuoto sono simili ai due lati di una mano: la loro relazione è ugualmente stretta. Poiché vi è il palmo della mano, vi è anche il dorso, e viceversa; l’interno e l’esterno della mano sono legati con grande forza l’uno all’altro. Se ci chiedessero: “Perché definisci questa come la parte interna?” risponderemmo: “Perché quell’altra è la parte esterna!” 

https://www.laruotadeldharma.org/nostri-libri/commentario-a-lessenza-delle-buone-spiegazioni/ (Chiara Luce Edizioni – 2005)