L’Ars Moriendi nel Vajrayana Indo-Tibetano

I cinque Dhyani Buddha

I cinque Dhyani Buddha

Intervento del Dott. Massimiliano A. Polichetti al CONVEGNO SULLA MORTE: riflessioni sull’ultimo capitolo della vita, tenutosi a Roma, il 18 e il 19 novembre 1995

Quae valde longe sunt non timentur:

sciunt enim omnes, quod morientur;

sed quia non prope est, nihil curant.

Aristotele, Retorica – II

La necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria condizione

è la necessità di rinunciare a una condizione che ha bisogno di illusioni

C.Marx

Introduzione: rinascita e reincarnazione

Nel linguaggio che si sta formando all’interno del Buddhismo nella sua diffusione in occidente, vengono distinti il concetto di “rinascita” da quello di “reincarnazione”. Per rinascita si dovrebbe pertanto intendere il divenire inconsapevole (in sanscrito bhavati), mosso coattivamente dal karma, ovvero dalle azioni compiute, vita dopo vita, dal corpo, dalla parola e dalla mente. La rinascita è, secondo la Dottrina dell’Illuminato (il Buddhadharma), il fenomeno che riguarda la maggioranza degli esseri che sperimentano il samsara, il ciclo delle rinascite contaminate dai tre tipi di sofferenza (sofferenza della sofferenza, sofferenza del mutamento e sofferenza che tutto pervade); la reincarnazione riguarderebbe invece quei pochissimi che avendo stabilito un controllo eccezionale sul proprio continuum mentale riescono a veicolare consapevolmente questo flusso di coscienza in continua modificazione. Solitamente si tratta dei Maestri della Dottrina; tale definizione implica che intorno a essi vi siano dei discepoli. Sentendo approssimarsi la fine del corpo fisico il Maestro, mosso da compassione verso gli esseri che ancora necessitano di guida spirituale, può allora scegliere di chiamare intorno a sé la cerchia dei propri intimi per dare loro indicazioni più o meno precise in merito al luogo e al tempo della successiva reincarnazione. Solo in questi limitatissimi casi è perciò lecito parlare di reincarnazione.

Il Tibet e il Dalai Lama

Il caso di reincarnazione più noto in occidente è sicuramente Sua Santità Tenzin Ghyatso, XIV Dalai Lama del Tibet, il quale è appunto il quattordicesimo di una serie di Maestri reincarnatisi consapevolmente che oramai da sei secoli giunge fino all’epoca contemporanea.

Oltre al Dalai Lama, la tradizione tibetana annovera anche altri adepti reincarnati (in tibetano thulku) appartenenti ai vari Lignaggi di trasmissione spirituale (sampradaya) per i quali si rinfrange, come in un meraviglioso diamante, la dottrina del Buddha trapiantata sul “Tetto del Mondo”. Purtoppo la civiltà tibetana, i cui tesori culturali e artistici sono stati dall’O.N.U. definiti a buon diritto appartenere a tutta l’umanità, è gravemente minacciata dalla forse più crudele oppressione militare oggi in atto da parte di un regime totalitario nei confronti di un popolo inerme. Rattrista considerare quanto poco sia diffusa in occidente, e soprattutto in Italia, la conoscenza di questa vera tragedia della storia contemporanea. Se si considera che è almeno dal 1959 che esiste in Tibet una situazione per la quale sono morti un milione e duecentomila tibetani su un totale di sei-sette milioni (circa un quinto della popolazione), si può affermare che mai un genocidio ha avuto minor rilievo internazionale di quello perpetuato in Tibet.

I presupposti razionali e cosmologici alla rinascita

Tornando più da presso all’argomento in oggetto, si è avanzata spesso in occidente la tesi dell’impossibilità a spiegare razionalmente quello che per alcune tradizioni spirituali è il fatto, puro e semplice, della rinascita.

Il dato fondamentale da comprendere è che la causa sostanziale di una mente può essere soltanto un fenomeno caratterizzato da tutte le proprietà della consapevolezza, ovvero un’altra mente omologa esistente nel momento immediatamente anteriore. Si torni allora al concepimento: la cellula paterna e la cellula materna (la causa sostanziale del corpo) da una parte e, dall’altra, la coscienza, provvista di funzioni eteronome relativamente a qualsivoglia causa materiale, irriducibile rispetto alle proposizioni fisiche. Nelle religioni teistiche, ovvero in quelle tradizioni spirituali che ammettono un Dio creatore, a questo punto si parla di teleologia verticale, volendo con ciò intendere che all’atto del concepimento la causa sostanziale corporea diventa il vaso, o il sostegno, adatto per poter accogliere l’anima personale (o il jiva, nel caso che le scuole teistiche siano hindu) quale particola luminosa, sorta di frammento di divinità direttamente, espressamente e gratuitamente creata a immagine e somiglianza del Dio. La risposta delle tradizioni spirituali che non implicano necessariamente la concezione teistica, tra le quali va annoverato appunto il Buddhadharma, è che questo elemento chiaro e conoscente, questa specifica consapevolezza, lungi dall’esser stata creata da un agente esterno, deriva da un flusso precedente di momenti di coscienza.

Il processo si svolge, secondo una visione del mondo utilizzata più come uno strumento di indagine che come un dogma da difendere a tutti i costi, all’interno dell’esistenza tutta (bhava) che viene distinta in tre sfere: la sfera del desiderio (kamadhatu), la sfera della forma (rupadhatu) e la sfera del senza forma (arupadhatu). Questi tre ambiti, formanti il “trimundio” (triloka), sono in realtà tra loro interconnessi in quanto soggiacenti alle stesse leggi della causa e dell’effetto, non essendo mai possibile conseguire al loro interno l’indefettibile possesso del Sommo Bene, il nirvana. Tutti gli esseri impermanenti che sperimentano l’esistenza condizionata si ritrovano dunque in una di queste tre sfere trapassandovi incessantemente, vita dopo vita, e questo continuo trapasso da una sfera all’altra spiegherebbe tra l’altro il “ricambio” nel numero degli esseri senzienti presenti in questo mondo.

La società contemporanea a confronto con l’impermanenza

Si è accennato all’impermanenza, concetto che sinteticamente indica tutto ciò che è prodotto da cause, parti e condizioni e che per questa sua natura di prodotto è destinato a mutare costantemente. Tutto ciò che muta, sia che si tratti tanto di un’emozione che di un impero, è destinato un bel giorno a dissolversi; quando le varie componenti cessano di mantenersi insieme, tutto giunge dunque alla propria fine. La profonda riflessione condivisa a questo proposito dalle grandi tradizioni religiose è che la vita dovrebbe essere vissuta come una specie di prova nella quale sforzarsi di non farsi cogliere impreparati dalla morte, ma di entrarvi, piuttosto, ad occhi bene aperti. Morite prima di morire ammonisce Mohammed. All’interno della venerabile tradizione del Cattolicesimo Romano, la dottrina dei gradi di gloria (per i quali si differenzia nei santi la “tollerabilità” della visione beatifica) esorta i credenti a lasciare il corpo di carne per rinascere al cospetto della Santissima Trinità come esseri pienamente maturi, pur se in attesa della resurrezione, laddove vi è purtroppo il rischio di rimanere degli embrioni spirituali incompiuti, non avendo esercitato in terra le proprie potenzialità, i propri “talenti”.

Chiamandosi fuori dai sentieri sapienziali tradizionali, l’uomo corre oggi molto più che in passato il rischio di far modellare la propria personalità dalla presunzione e dalla ottusa pietà verso se stesso. Che fare, dunque? Se da una parte la persona ordinaria preferisce porsi quale termine di paragone l’autocommiserazione, il Bodhisattva, il “Guerriero del Risveglio”, accetta invece di confrontarsi francamente con la morte, eleggendola a propria fedele consigliera. Tra le tanti componenti eccentriche che trascinano la società contemporanea fuori dal proprio centro essenziale vi è al contrario la “ghettizzazione” della morte, ovvero l’allontanamento il più rapido possibile dei defunti accompagnato dalla eliminazione indefessa del concetto stesso di mortalità, fino a determinarla forse quale la principale rimozione della società contemporanea. Senza ossessione o morbosità, al contrario con lucida valutazione di questa realtà oggettiva (alla quale vengono contrapposte le più disparate valutazioni allucinate, non importa se più romantiche o più ciniche), la persona impegnata a sperimentare la propria interiorità accetta di camminare costantemente con la morte quale compagna, con essa eleggendo una relazione di confidente amicizia. Come magistralmente indicato nella principale preghiera mariana, al mondo vi è certezza di soli due eventi: l'”ora” e il “momento della nostra morte” (nunc et hora mortis nostrae). Il resto, tutto il resto, è aspettativa, pianificazione, pretesa di solidità nell’esistente in un mondo che implacabilmente dimostra in ogni momento l’esatto opposto.

La morte viene così generalmente ad assumere le caratteristiche di una idea posta sullo sfondo, sul margine razionale della coscienza. E’ talmente lecito poter fare questa osservazione, che la morte personale, la “mia” morte, viene dall’ideologia psicologistica freudiana definita essere per antonomasia il concetto “irrappresentabile”. Le occasioni in cui la morte tocca il sentimento non vengono solitamente analizzate a fondo, così che il dato del termine fisico naturale possa rivelarsi prezioso stimolo per collocare nella giusta prospettiva la misura del nevrotizzante attaccamento al “terribile quotidiano”. Gli uomini che si cimentano nel tentativo di confrontarsi vieppiù con la propria interiorità hanno in ogni tempo dimostrato di nulla scartare dalla propria analisi. Per essi tutto diviene combustibile per alimentare il sacro fuoco della retta investigazione. Tanto più dunque la verifica delle limitate aspirazioni convenzionali messe di fronte al levigato specchio oscuro in cui rimirare, impavidi, la fine del proprio corpo. Se si giungesse a sentirsi braccati dalla morte, come il cervo inseguito dal leopardo, quale spessore acquisterebbe la più piccola azione! La opportuna, dosata valorizzazione dell’attimo presente viene quantomai favorita dal sentimento ponderato della mortalità, laddove le infinite mitologie personali o collettive, ovvero le convenzioni con le quali si tenta di ottundere questo dato ineluttabile, illudendo i processi cognitivi li fanno deviare dalla realtà stessa delle cose.

Gli esiti karmici: i sei mondi della rinascita

Al momento della morte, il principio sottile al quale si deve la capacità senziente sarà estratto come una spada dal suo fodero e, per la prima volta dopo anni di calda e ovattata protezione nel guscio corporeo, la coscienza sarà esposta nuda ai venti del karma, rischiando per questo d’essere trascinata, tremante di terrore, dal peso delle azioni fisiche, verbali e mentali che sole si accompagnano, come un ombra che segue il suo corpo, nelle trasmigrazioni di vita in vita. In effetti, sia il karma positivo che negativo tengono avvinti al ciclo delle rinascite impure. Le stesse azioni virtuose non potranno esprimere quale loro effetto la Liberazione di un Buddha perfettamente illuminato se non coadiuvate dal Sentiero della Rinuncia (nicharana), dal Sentiero della Saggezza (prajnaparamita) e dal Sentiero del Pensiero altruistico (bodhicitta). La maturazione completa di un karma negativo (implicante dunque la premeditazione, il compiersi dell’atto e la soddisfazione per esso) è descritta dalla Dottrina quale causa “proiettante” per una dolorosissima dimensione definita come una rinascita di tipo “infernale”. Un karma meno abietto si pone quale proiezione nel mondo degli “spiriti famelici” (preta). In misura ulteriormente minore, la gravità negativa del karma è causa proiettante per una rinascita di tipo animale. Le azioni positive contaminate dall’attaccamento alle sensazioni compongono un karma positivo mondano che proietterà il continuum di coscienza nuovamente nel mondo degli esseri umani. Il karma tendenzialmente positivo, ma venato dal sentimento dell’invidia causerà la rinascita nel mondo degli Antidei (asura). Il karma mondano virtuoso sostenuto dal desiderio della felicità causerà una rinascità nel mondo delle Divinità mondane (deva). Il karma mondano virtuoso contaminato dal desiderio dell’oblio causerà una rinascita nella sfera del Senza Forma (arupaloka). Purtoppo, in ognuno dei mondi del desiderio, della forma e del senza forma, si permane all’interno del samsara, condizione nella quale sperimentare di nuovo il dolore, poi periodi più o meno estesi di sospensione della sofferenza, e in seguito di nuovo altro dolore e altra sofferenza. Talvolta, sulla base dei propri meriti, si è in grado di conquistarsi una “preziosa rinascita umana”, per utilizzare un’espressione cara al Mahayana, il “Grande Veicolo” dei Bodhisattva. La coscienza umana è infatti ordinariamente in grado di esprimere con relativo agio dei validi giudizi di tipo morale, capacità per la quale poter almeno intuitivamente riconoscere la gravità del bene e del male. Questa condizione consente di avvicinarsi all’inestimabile insegnamento del Buddha, stante la possibilità di entrare in contatto con i detentori viventi di questo insegnamento, le compassionevoli guide spirituali visibili dagli occhi della carne.

La consapevolezza della morte

L’impegno attivo della consapevolezza nella spassionata valutazione del fatto, crudo e inesorabile, della morte costituisce una delle meditazioni più antiche per tutte le scuole buddhiste. A tal proposito il Buddha così si esprime: “Di tutte le orme, quella dell’elefante è la maggiore; allo stesso modo, tra tutte le meditazioni di consapevolezza, la meditazione sulla morte (in pali maranasati) è quella suprema”. Secondo Buddhagosha, autore del Visuddhimagga (il “Sentiero della Purificazione”), due sole sono le pratiche meditative sempre opportune ed in ogni caso utili allo sviluppo interiore, quali che possano essere le circostanze variabili: lo sviluppo della solidarietà con gli altri esseri e, appunto, il ricordo della morte. Per quanto possa urtare la sensibilità convenzionale, l’allenamento a riconoscere oggettivamente il dato dell’impermanenza dei composti tramite la meditazione sulla morte dovrà condurre ad essere presenti a se stessi in ogni momento, tanto più dunque quando dovrà accadere di lasciare il corpo. L’approccio alla meditazione sulla morte non si limita certo ad essere un indulgente esercizio permeato da romantica commiserazione della sensibile fragilità umana, nonostante che questa vulnerabilità sia, tra i molti paradigmi afferenti alla condizione esistenziale umana, un connotato la cui valutazione possa rivelarsi tra le più fruttuose. Si è insomma chiamati a lavorare, con cautela, su tutte le passioni, quindi anche sulla paura di morire, ma per giungere a capire che ciò che spaventa non è tanto la morte, ma, e qui sta il punto, l’idea che se ne ha.

Suscitare scientemente le qualità emozionali legate a questa naturale fonte d’ansia potrebbe indurre le condizioni sperimentali ottimali per discernere la morte per se dalla proiezione allucinatoria che si opera su questo evento. Il problema che è opportuno riuscire a fare affiorare alla superficie dell’attività cosciente è che semplicemente non si conosce nulla o quasi delle risposte profonde ad un fatto ovvio e fondamentale quale la possibilità di potere in qualsiasi momento abbandonare la realtà conosciuta per avventurarsi in un reame sconosciuto. Se ne sa senz’altro di più, su se stessi, quanto al rapporto con la fame, la sete, l’istinto di riproduzione, la bellezza. Ma che rapporto si è instaurato con l’unico accadimento assolutamente certo nella vita, oltre all’attimo presente? Mille espedienti vengono escogitati per smussare questa fonte di ansietà, e in fondo per alcuni (soprattutto per chi nega o pone come eventualità remota la possibilità di rinascere in condizioni di esistenza inferiori a quella umana) persino una errata interpretazione della rinascita, principio ammesso d’altra parte non solo nel Buddhadharma, potrebbe rivelarsi in un certo senso una scappatoia, un’alternativa all’angoscia della totale estinzione della vita.

Farsi visitare dal timore della morte potrebbe allora rivelarsi funzionale a una migliore conoscenza di se, a una meno approssimata valutazione delle potenzialità di risposta alla molteplice sfida del reale. Ma perchè la percezione ragionata della realtà della morte possa stimolare una significativa reditio in se, è necessario affinare la visione ordinaria che si ha di essa tramite la riflessione filosofica.

La morte come tecnica: il processo dell’estinzione

La morte non viene dal Buddhadharma concepita come una cesura netta delle funzioni fisiche e mentali, ma piuttosto come un processo di estinzione dal corpo del principio cosciente in preparazione della rinascita successiva. Secondo una concezione che il Buddhadharma potrebbe avere ripreso da un darshana brahmanico, quello del Samkhya, tutti gli esseri nascono con ventisei fattori o componenti grossolane che al momento della morte si dissolverebbero gradualmente. L’importanza attribuita al riconoscimento dei rapporti tra i primi cinque fattori, o componenti, ovvero gli aggregati (skanda), e le cinque Saggezze (jnana), che costituscono l’ultimo gruppo nell’elencazione dei ventisei fattori, si giustifica nel collocarsi questa teoria all’interno di un sistema di riferimento più generale che interpreta il processo di divinizzazione dell’adepto in definitiva come la trasformazione dei cinque aggregati impuri nella natura purissima dei Cinque Buddha del mandala. Questi Buddha, che prevalentemente in Nepal vengono chiamati Dhyani Buddha (“Buddha di Meditazione”), in Tibet prendono il nome di Ghyelwa (in sanscrito: Jina, letteralmente “Vittoriosi”) e sono appunto preposti alla trasformazione di ognuna delle componenti tanto grossolane che sottili del composto corpo-mente dell’essere ordinario che affronta il processo che lo porterà all’Illuminazione. I cinque skanda partecipano ad un’ amplia serie di corrispondenze dato che, in ultima analisi, è proprio dal disciplinato sviluppo di questi che il praticante conseguirà lo stato di un Buddha. Per la loro fondamentale importanza tali corrispondenze vengono enucleate con particolare riferimento al “prendere la morte come il sentiero” ovvero la trasformazione della morte ordinaria nel Corpo della Legge, il dharmakaya di un Buddha, all’interno della sadhana tantrica, ovvero la pratica formale intesa a trasformare inoltre lo stadio intermedio tra una vita e l’altra nel Corpo di Fruizione Visionaria (sambhogakaya) e la rinascita nel Corpo di Emanazione (nirmanakaya) di un Buddha.

L’aggregato della forma (rupaskanda) si comporrebbe dunque di cinque qualità:

l’aggregato preso in se stesso;

– la saggezza fondamentale detta “Simile ad uno Specchio”, in quanto si riferisce alla capacità della mente, considerata nella sua modalità ordinaria, di percepire molti oggetti simultaneamente, come appunto accade con uno specchio che riflette allo stesso tempo molti oggetti (il termine “fondamentale” applicato al termine “saggezza” vuole sottolineare la contingenza di essere questa e le altre quattro saggezze fondamentali ancora soggette al ciclo delle rinascite, non si tratta ancora perciò della saggezza-prajna che mette in grado di emanciparsi dal samsara);

l’elemento grossolano (mahabutha) della terra;

la vista;

– la qualità delle forme, così come sono ora percepite da un continuum mentale ordinario.

Al rupaskanda sono quindi associati cinque segni esterni della sua dissoluzione durante il processo della morte. Prima di elencarli è opportuno però precisare che quando si descrive l’elemento terra “dissolversi” nell’elemento acqua, l’acqua nel fuoco e così via, non si intende che quel dato elemento si trasformi o venga in qualche modo omologato alla natura dell’elemento successivo; in realtà accade che un elemento normalmente agente quale supporto della coscienza viene a perdere questa sua funzione strutturale e, a causa della perdita di capacità operativa di un elemento, l’elemento immediatamente successivo, in ordine di minore grossolanità, appare più chiaramente manifesto e operante.

Il primo segno esterno della dissoluzione dell’aggregato della forma è costituito da perdita di vigore, tono e consistenza dell’involucro fisico. Quale segno della dissoluzione della saggezza corrispondente, in questo caso la saggezza fondamentale simile a uno specchio, il potere di percezione visuale si indebolisce. Il segno della dissoluzione dell’elemento terra corrisponde a sentire il corpo estremamente pesante, mentre le membra si indeboliscono fino a diventare estremamente torpide. Mentre in condizioni normali le palpebre tremano lievemente, il segno della dissoluzione della facoltà visiva si riconosce dalla fissità degli occhi, che diventano vitrei, e dall’immobilità delle palpebre. Il segno del dissolvimento della qualità della forma mantenuta nel proprio continuum corrisponde ad un ulteriore acuirsi dell’indebolimento del tono fisico del corpo.

Il primo segno interno ad apparire alla coscienza che sta sperimentando il processo della morte, è l’apparizione di miraggi d’acqua, una visione paragonabile al fenomeno ottico della “fata morgana” che si verifica nel deserto o lungo le autostrade in estate.

Allo stesso modo, anche l’aggregato della sensazione (vedanaskanda) presenta cinque qualità: l’aggregato stesso, che nella fattispecie risulta essere quel fattore mentale sperimentante sofferenza, felicità o indifferenza; la saggezza fondamentale “Equanime”, che è quella mente o cognizione che è in grado di ritenere l’esperienza delle tre specie di sensazioni, piacevoli, spiacevoli e neutre, sotto forma di ricordo; vengono poi le altre tre qualità, ovvero l’elemento acqua, l’udito e i suoni.

I cinque segni esterni associati alla dissoluzione del vedanaskanda nel processo della morte: le sensazioni associate ai vari organi e coscienze di senso divengono sempre più flebili, fino a svanire del tutto. Non si è più consapevoli delle sensazioni che accompagnano la cognizione dei dati che compongono la realtà ordinaria. La lingua diviene secca, come pure si arrestano la traspirazione, i fluidi e il sangue. Diviene inoltre impossibile articolare le parole in modo comprensibile causa della secchezza delle fauci. La facoltà uditiva si dissolve fino al punto di non riuscire più a percepire i suoni esterni. Il ronzio interno, il suono fisiologico che accompagna la vita cosciente, si interrompe.

Il segno interno che accompagna questo punto è l’apparizione di miraggi di fumo, come in una stanza, ove sia stato fatto ardere incenso, sono presenti sottili vòlute e impalpabili strati.

Aggregato della discriminazione (samjnanaskanda). La prima qualità è anche qui l’aggregato stesso, ovvero la facoltà discriminante della mente; la saggezza fondamentale “Discriminante”; l’elemento associato è il fuoco; il senso, l’olfatto; l’oggetto di senso, gli odori.

I cinque segni esterni legati alla sua dissoluzione sono: non si ha più la facoltà di distinguere o riconoscere oggetti o situazioni. Non si collegano più i nomi agli oggetti o alle persone. Il calore abbandona il corpo, lasciando per ultima porzione riscaldata il cuore. L’esalazione del respiro è abbastanza forte, mentre l’inalazione diviene sempre più debole. Non si percepiscono più gli odori.

Il segno interno è la visione di scintille in mobile sospensione nello spazio.

Aggregato delle formazioni o impulsi volizionali (samskaraskanda), distinto in: l’aggregato stesso, che permette il movimento volontario allo scopo di perseguire un qualsivoglia scopo; la saggezza fondamentale “Realizzatrice”, ovvero la facoltà della mente che mette in condizione di compiere azioni; l’aria; il gusto; i sapori.

I cinque segni esterni legati alla sua dissoluzione: non è più possibile applicare la volizione ai movimenti fisici. Non ci si ricorda più dello scopo delle azioni. Cessa la respirazione. Non è più possibile parlare in alcun modo; la lingua è a questo punto diventata dura, la sua radice assume una tonalità bluastra. Non si percepiscono più i gesti.

Segno interno: alla coscienza del morente appare una luce fissa, simile a quella prodotta da un lume alimentato a olio.

Ultimo aggregato, quello della coscienza (vijnanaskanda). La prima qualità è anche in questo caso l’aggregato prese in se stesso, che è quello che coordina e sopraintende ai rapporti sensoriali e consapevolezza. La saggezza fondamentale che vi corrisponde è quella detta della “Sfera della Verità”. L’elemento è lo spazio vibrante (akasha). La capacità sensoriale è costituita dalle concezioni mentali e l’oggetto dalla mente stessa.

Il dissolvimento del vijnanaskanda, l’aggregato più sottile, determina la discesa del principio energetico maschile dalla sua sede, posta al centro dell’encefalo, lungo il canale centrale (sushumna – avadhuti) rispetto a tutto il tracciato proprio alla fisiologia immaginale dello yoga, la sacra disciplina dell’integrazione del corpo e della mente. E’ proprio in avadhuti (in tibetano: uma) che le energie psichiche, dopo esservi state radunate tramite la forza del sestuplice metodo yoghico (ritrazione, concentrazione, sforzo, fermezza, attenzione e stabilità meditativa), compiranno la trasformazione definitiva dell’adepto. Al termine della propria discesa, l’energia si poserà sulla “goccia indistruttibile”, elemento importantissimo in questa fisiologia sottile, ricoprendone la parte superiore. La “goccia bianca”, ovvero l’energia ottenuta dal principio generativo paterno, normalmente si troverebbe situata nel centro immaginale (chakra) detto della “Grande Beatitudine”, corrispondente al piano corticale del cervello, trattenuta dal vento psichico (prana) sostenente la vita al centro del nodo che si forma dall’unione del chakra con il canale centrale. Il nome e il numero dei chakra varia da sistema a sistema, ma generalmente sette sono i chakra più ricorrenti: muladhara (letteralmente: il “sostegno radice”), situato presso la base della colonna vertebrale; svadhistana (“propria dimora”), nei genitali; manipura (“città gioiello”), quattro dita al di sotto dell’ombelico; anahata (“impenetrato”), nel cuore; vishuddhi (“puro”), nella gola; ajna (“comando”), tra le sopracciglia; sahasrara (“mille”, sottintendendo “petali”), nella corteccia cerebrale. I chakra sono descritti come corolle di fiori di loto distinte da un numero variabile di petali e caratterizzate da toni di colore e da corrispondenti diverse forme geometriche. E’ in essi che confluiscono i canali ove scorre l’energia mentale, da essi riversandosi nella rete del corpo sottile trattenuti però da occlusioni che determinano le qualità negative della consapevolezza e dunque del vissuto esistenziale.

Un praticante tantrico progredito riesce a sciogliere i vari nodi disseminati lungo i canali sottili e a provocare in tal modo la discesa della goccia bianca sperimentando consapevolmente gli stadi di dissoluzione propri al processo della morte. Durante la morte tale processo si compie infatti naturalmente, senza il controllo yoghico. Il vento psichico si ritira nel chakra corrispondente al cuore e la goccia bianca, non essendo più da esso trattenuta, dal chakra della Grande Beatitudine discende nel chakra detto del “Dharma”, situato appunto presso il cuore fatto di materia sensibile. Nei testi tantrici, la goccia bianca prende a questo punto il nome di “goccia indistruttibile per tutta la durata della vita”. Il luogo nel quale convergono progressivamente tutti i venti sottili e le coscienze ad essi corrispondenti viene invece definito la “goccia indistruttibile”. Si tratta qui di materie molto rarefatte, di quelle menti/energie che accompagnano l’essere senziente vita dopo vita fino al conseguimento dell’Illuminazione. Durante la discesa della goccia bianca si sperimenta la visione di una pallida radiosità simile al sorgere della luna piena in una notte serena. La coscienza mentale durante questo stato è chiamata “coscienza mentale dell’apparire”, presentandosi al contempo la possibilità della percezione della prima di una serie di quattro vacuità (shunyata), riguardanti la sempre meno approssimata percezione del modo ultimo d’esistenza dei fenomeni, detta la “vacuità dell’apparire”. Continuando la progressione, la coscienza mentale dell’apparire e le energie essenziali di pura consapevolezza ad essa relate si dissolvono nella cosiddetta “coscienza mentale dell’incremento di apparenza”. Il segno interno che viene così sperimentato è la visione di una luce rossa. La vacuità corrispondente è chiamata “vera vacuità”.

In base alla definizioni del processo sino a ora enunciato, ciò che accade riguarda primariamente i movimenti del prana che già a questo punto, vuoi nel processo della morte ordinaria che nella sua simulazione dapprima “virtuale” e poi yoghica, si è ritirato dalla parte superiore del corpo rendendo possibile la discesa della goccia bianca. Simultaneamente a ciò, le energie che fanno da supporto alla vitalità cosciente ordinaria si ritirano dalla porzione inferiore del corpo e si concentrano nel chakra del cuore. Come risultato, le energie psichiche ricevute dal principio generativo materno al momento del concepimento non sono più trattenute presso la loro sede abituale, ovvero il chakra prossimo all’ombelico, e si dirigono pertanto verso il cuore raggiungendo la goccia indistruttibile ricoprendone parimenti la porzione inferiore. La coscienza mentale dell’aumento di apparenza, sempre accompagnata dalle energie corrispondenti, si dissolve allora nella coscienza mentale successiva, detta “coscienza mentale dell’ottenimento prossimo”. A questo punto l’energia maschile, bianca, e quella femminile, rossa, ricoprono completamente la goccia indistruttibile del cuore avvolgendola come un velo. L’esperienza interna in questa fase viene descritta essere quella della tenebra, come in una notte estremamente oscura senza alcuna luce, neanche quella delle stelle, che la rischiari un poco. Questa fase di cognizione interiore è associata alla “grande vacuità”. Nei testi sacri vengono distinte due fasi della coscienza mentale dell’ottenimento prossimo in cui si affaccia l’esperienza della tenebra. Nell’ultima di queste fasi la consapevolezza ordinaria, che aveva finora quotidianamente accompagnato l’individuo, cessa. In questo preciso momento, e solo allora, le coscienze e le energie sviluppate nell’ultima vita hanno fine. Dopo un periodo di totale mancanza di un qualsiasi grado di consapevolezza sorge una condizione caratterizzata da una estrema lucidità mentale. Questo accade in quanto divengono momentaneamente manifeste coscienze ed energie ancora più sottili. E’ il momento in cui si percepisce una straordinaria chiarezza mentale, paragonabile a un cielo radiante, estremamente chiaro e brillante, totalmente libero da ogni foschia. In questa fase la vacuità non viene però ancora effettivamente e definitivamente realizzata, ma la mente viene descritta sperimentare un tale livello di limpidità che al contrario sembra in grado di percepirla. Questa esperienza è descritta come la “chiara luce della morte”. Ciò che vi si rende manifesto è il continuum dell’energia e della coscienza estremamente sottili che, se riconosciuto, può condurre all’ottenimento della buddhità tramite la visione della quarta e ultima vacuità, la “completamente vacua”.

Essendo nell’osservanza tantrica ammesso che una sensazione abbia la capacità di comprendere, l’oggetto amato, dunque conosciuto, diviene null’altro che la vacuità, e la mente soggettiva, che ama, nulla meno della Grande Beatitudine (mahasukha). Questo soggetto conosce allora perfettamente tutto se stesso; interpenetrandosi in questo atto noetico di reciproca comprensione, di mutuo riconoscimento, la mente e la vacuità si fondono come acqua versata nell’acqua, divenendo la stessa cosa. Tale è il significato di unione inscindibile di beatitudine e vacuità. Questa unione è ritenuta essere il vero e definitivo bodhicitta, il “pensiero del risveglio” verso la cui maturazione è tesa la dottrina nella sua interezza. Si afferma infatti che laddove venga sviluppata un’ attitudine nella quale shunyata e karuna, verità e compassione, saggezza e beatitudine, siano indivisibili, là risiede il messaggio del Triplice Gioiello, l’essenza del Buddha, del Dharma e del Sangha.

Lo stato intermedio

Purtroppo la maggior parte degli esseri senzienti non è ancora in possesso di un tale grado di maturazione interiore da potere utilizzare il processo della morte per identificarsi con il modo ultimo d’essere dei fenomeni. La più parte semplicemente muore per rinascere in una successiva vita pur tuttavia sottoposta alla legge della causa e dell’effetto. Tra le fasi del morire e le fasi della rinascita, la concezione del Vajrayana (il veicolo esoterico del Buddhadharma) pone una condizione esistenziale intermedia, detta in sanscrito antarabhava, in tibetano bardo. Si tratta di uno stato in cui la consapevolezza utilizza un corpo estremamente sottile, detto “corpo di bardo“, quale sorta di navicella per spostarsi da un piano all’altro del trimundio in attesa che maturino le condizioni circostanziali più adatte alla maturazione di quel determinato esito karmico. Il corpo di bardo, composto di materie estremamente rarefatte, viene descritto possedere qualità e capacità prossime a quelle che avrebbe posseduto il Corpo detto di “Gloria” o di “Resurrezione” del Cristo. Ad ogni modo, le caratteristiche dello stato intermedio, dall’inizio del processo del morire fino alla descrizione analitica delle modalità del concepimento, hanno nella letteratura tibetana ampio spazio. Abbastanza noto in occidente è, al proposito, il cosiddetto “Libro tibetano dei morti”, titolo enunciato da W.Y.Evans Wents, curatore della prima edizione europea, sulla falsariga del solo apparentemente analogo “Libro egiziano dei morti”. Si tratta in realtà di una serie di testi aventi per argomento le istruzioni che vanno a completare i rituali da eseguire, o fare eseguire, in occasione della morte di una persona. Spesso l’officiante, tanto monaco che laico, sussurra all’orecchio del defunto i consigli che serviranno a risvegliare nella coscienza, non ancora completamente dipartita dal corpo, il ricordo degli insegnamenti spirituali ricevuti in vita. Per questo motivo tali testi liturgici vengono definiti con il termine collettivo di Bardo Todol, ovvero la “Liberazione attraverso l’ascolto durante lo stato intermedio”.

Dallo studio di questa letteratura, alla quale ricondurre buona parte di quanto precedentemente affermato nel precedente punto riguardante il processo del dissolvimento degli aggregati, si evince una anamnesi estremamente acuta, che analizza ogni più minimo fenomeno relativo alla morte e ai segni che la morte annunciano o accompagnano. Generalmente parlando, emerge chiara l’indicazione di lasciare tranquilla la persona del trapassante per un certo periodo di tempo dopo la morte grossolana, affinché la manipolazione del corpo, purtroppo frequentissima in una cultura dove i morti vengono “vestiti”, non turbi il delicatissimo processo dell’estinzione.

Per questo l’U.B.I. (Unione Buddhista Italiana) ha incluso, tra i punti che auspicabilmente quanto prima verranno trattati ai fini dell’intesa con il governo italiano, a tutela dei cittadini buddhisti, soprattutto della tradizione Vajrayana, la possibilità di trattenere e proteggere il corpo, e conseguentemente il principio sottile, di un praticante fino a un periodo di 78 ore dal decesso “clinico” senza che questo esercizio di pietà configuri il reato di sottrazione di cadavere, come attualmente previsto dalla normativa in vigore. Analogamente, sono lecite riserve sulla opportunità della cosiddetta “predazione di organi a cuore battente”, argomento portato avanti da associazioni di ispirazione cristiana, ma al quale i praticanti del Buddhadharma, pur non avendo a tutt’oggi espresso una posizione formale al riguardo, non possono non essere sensibili.

Conclusioni

Tutto il processo dell’estinzione descritto in precedenza dovrebbe essere sperimentato dall’adepto tantrico, o sadaka, nel corso delle sessioni formali della propria meditazione quotidiana, costituendone parte integrante e fondamentale. Come è facile valutare, solamente una personalità estremamente matura può sostenere l’impatto psichico di esporsi a questa disciplina senza correre la possibilità del rischio di procurarsi pericolosi scompensi caratteriali. Ma d’altro canto, solo chi ha iniziato a padroneggiare i processi psichici sottili può sperimentare realmente quelle inquietanti sensazioni e utilizzare le corrispondenti visioni per accelerare la propria tesi, la trasmutazione da essere ordinario, sottoposto alla miseria del mondo transeunte, in nume beato e onnisciente, in una divinità che ha permeato d’estasi spirituale la natura degli elementi materiali del proprio corpo, pronta a manifestare al mondo i tre segreti del Buddha.

Il Segreto del Corpo: qualsiasi forma risulta adatta per addestrare gli innumerevoli esseri senzienti lungo il sentiero del dharma.

Il Segreto della Parola: si trovano le parole più efficaci a intenerire i cuori convincendoli ad anelare alla liberazione dal samsara.

Il Segreto della Mente: si conoscono le cose nella loro realtà e, potendo così valutare i veri desideri e i veri bisogni degli esseri, si può efficacemente ricambiare il bene ricevuto dai trasmigratori in vite senza numero porgendo loro lo stendardo della liberazione.

Rinascendo dal seme di una compassione che abbraccia tutto l’universo, si apprezzerà ogni istante come facente parte di una immensa configurazione di energia, un campo meraviglioso vibrante in forza dell’incontro tra il principio beatifico e la natura, pervasi da un’incessante estasi in cui ogni conflitto dualistico è stato risolto, per sempre.

Arrischiarsi lungo il sacro sentiero per giungere allo scopo di cui si è goffamente tentato di dare adesso una descrizione, è tanto giusto e opportuno quanto il porre la propria piena fiducia nelle risorse dell’umanità è un atteggiamento ben più solido di qualsiasi ristretta visione piattamente utilitaristica dell’esistenza. “Rischiare di fare quanto è giusto e umano e avere fede nella forza della voce dell’umanità e della verità è un atteggiamento più concreto del cosidetto realismo dell’opportunismo” (E.Fromm).

La generazione contemporanea, generazione che, secondo la gran parte degli studiosi della filosofia della religione, doveva rivelarsi essere la più refrattaria alle istanze “irrazionalistiche”, potrebbe oggi rischiare, vuoi per impreparazione esistenziale vuoi per incapacità speculativa, addirittura il fondamentalismo religioso. Si conclude questa nota auspicando che l’apparente anomalia sociologica costituita dalla “riemersione” della religiosità nella civiltà post-industriale, consenta nel prossimo futuro, se non già da ora, una migliore percezione delle politiche globali del responsabile perseguimento del bene tanto individuale che collettivo.

Esercizio della Consapevolezza della Morte

“Have a good look at my form!

All the flesh is gone, and look –

Bodhidharma and the beatiful maiden

both end up the same.

Let’s be enlightened about this!

Everyone, come dance with abandon,

on and on”

Ryu, 1895

Fase I

L’inevitabilità della morte

1. noi tutti dobbiamo inevitabilmente morire

2. la durata della nostra vita decresce continuamente senza sosta

3. la quantità di tempo che abbiamo a disposizione per sviluppare la mente durante la nostra vita è molto poca

L’incertezza sul tempo della morte

4. la durata della vita è incerta

5. esistono molteplici cause di morte

6. il corpo umano è estremamente vulnerabile

Solo l’approfondimento del Dharma può aiutarci al momento della morte

7. i possedimenti e gli oggetti di godimento materiali non possono aiutarci

8. le persone che amiamo non possono aiutarci

9. il nostro proprio corpo non può esserci di nessun aiuto

Fase II

1. vedo il mio corpo, morto da pochi giorni, gonfio, livido, in suppurazione –

2. vedo il mio corpo infestato da vermi ed insetti –

3. vedo che tutto quanto rimane del mio corpo è uno scheletro con della carne e del sangue ancora attaccati –

4. considero ulteriormente lo scheletro del mio cadavere spoglio d’ogni traccia di carne, ma ancora sporco di sangue e tenuto insieme dai tendini –

5. tutto quello che rimane del mio corpo morto è uno scheletro non più macchiato di sangue, tenuto insieme dai tendini –

6. vedo che tutto quanto è rimasto si riduce ad un mucchio d’ossa disperse: le ossa dei piedi sono scomparse, così pure le ossa delle mani; i femori, il bacino, la colonna vertebrale, la mascella, i denti ed il cranio sono sparsi verso differenti direzioni; non sono altro che nude ossa –

7. tutto quello che rimane è una raccolta di ossa sbiancate –

8. passa un anno e vedo che il mio corpo morto è ridotto ad un mucchio di vecchie ossa –

9. queste ossa degradano, divenendo polvere; soffiate via e disperse dal vento esse non possono più nemmeno essere ancora chiamate ossa.