Ven. Khenrab Rinpoche: La Storia del Buddha

Ven. Lama Khenrab Rinpoche

Ven. Lama Khenrab Rinpoche

Ven. Khenrab Rinpoche: La Storia del Buddha.

Cominciamo subito col dire che il termine ‘Buddha’ non è un nome di persona, significa semplicemente “Risvegliato”. Risvegliato alla vera realtà del mondo. Tuttavia, esistette davvero un personaggio storico con il nome di Buddha.Dopo moltissime vite condotte in piena santità, il Buddha viveva tranquillo nel più alto dei cieli, quando Brahma, il grande dio degli indù, e i quattro Re Celesti lo pregarono di rinascere sulla Terra. La madre del Buddha era una regina, e si chiamava Srimahamaya. La notte prima del concepimento del suo bimbo, lei sognò che un elefante bianco era disceso dalle montagne d’oro e d’argento e le aveva portato un fiore di loto. La madre del futuro Buddha, secondo le consuetudini del tempo, volle tornare alla casa paterna per dare alla luce la sua creatura. Ma lungo la strada, mentre la madre si stava chinando per raccogliere un fiore, il bimbo nacque.

Era una notte di luna piena, sei secoli prima della nascita di Gesù, nel meraviglioso parco di Lumbini. Subito dopo la nascita il bimbo fece sette passi, sostenuto ad ogni passo da un grande fiore di loto. Alzando un dito disse “Io sono senza eguali”.Un anziano asceta di nome Kaladevila, dotato di grandi poteri, capì che era nato un

Salvatore e andò a visitare il bimbo nella reggia del padre, il re Suddhodana. Ad un certo punto l’asceta scoppiò a piangere, e il re preoccupato gli chiese se era perché vedeva nel futuro un triste destino per suo figlio.

Kaladevila disse che piangeva perché era troppo vecchio e sarebbe morto prima che il bimbo avesse cominciato ad insegnare la Via di liberazione dalle pene di questo mondo. Il futuro Buddha, per consolare Kaladevila apparve sospeso sulla testa dell’asceta. Il re, la regina e tutti i presenti si inchinarono di fronte al principe.

Al piccolo principe fu dato il nome di Siddharta. Ogni anno, in occasione dell’inizio della stagione dell’aratura, si teneva una grande festa, a cui partecipava tutto il popolo. Quando Siddharta partecipò per la prima volta alla festa dell’aratura era un bambino. Rimase impressionato dal fatto che mentre tutti gli umani erano in festa, i buoi che tiravano l’aratro venivano frustati. Il bambino, addolorato, si mise a meditare sotto un grande albero. Verso il tramonto le ombre di tutti gli alberi si erano allungate, ma non quella dell’albero sotto cui meditava Siddharta. Il padre gioì di questo fatto prodigioso e si inchinò ancora una volta davanti al figlio.

Il principe Siddharta era nato da un re guerriero, e per molti anni fu addestrato a diventare forte e invincibile. Un giorno dimostrò la sua straordinaria abilità come arciere con un arco durissimo, che a memoria d’uomo nessuno era riuscito a usare. Tutti pensarono che quella era la forza meravigliosa di un Re Universale. Secondo i costumi dell’epoca Siddharta si sposò molto giovane, con una bellissima principessa di nome Yasodhara. Alla cerimonia parteciparono i quattro Re Celesti e il dio Brahma che avevano chiesto al futuro Buddha di scendere sulla Terra.

Brahma stesso spruzzò l’acqua santa sui giovani sposi. Il padre del futuro Buddha, il re Suddhodanama, per ospitare gli sposi fece costruire tre grandi palazzi, colmi di tesori e con grandi giardini. Siddharta viveva in un mondo di sogno, voluto dal padre, in cui vi erano solo persone giovani e belle, pieno di fiori e di gioielli, in cui le pene del mondo non potevano entrare.

Ma un giorno, Siddharta volle uscire dal palazzo, e vide un vecchio piegato in due dall’età avanzata, un malato, piagato e in fin di vita, e un cadavere, immobile. Allora, egli, spaventato chiese a Channa, il cocchiere del carro in cui viaggiava, se quelli che stava vedendo erano fatti straordinari. Dopo molte preghiere, il cocchiere rispose a Siddharta: “La vecchiaia è il nostro destino, la malattia tocca a tutti noi, la morte ci aspetta e non possiamo sfuggirle”. Alla fine Siddharta vide un asceta, tranquillo e composto, e fu attratto dall’aura di pace che ispirava.

La sposa di Siddharta diede alla luce un bel bambino, che fu chiamato Rahula. Ma

Siddharta aveva pensato a lungo su quanto l’attendeva nei prossimi anni: la malattia, la vecchiaia e la morte. L’unica soluzione a questa angosciosa attesa gli sembrò quella della vita ascetica del monaco. Decise di rinunciare a tutte le ricchezze, al potere e alla famiglia. Quando andò nella stanza della sposa per guardare un’ultima volta sia lei che il figlio, Siddharta vide che i corpi delle fanciulle che accudivano Yasodhara giacevano a terra, scomposti come i morti su un campo di battaglia.

Il principe Siddharta, poi, si allontanò dal suo palazzo in groppa ad un magnifico cavallo, seguito soltanto dal fido Channa. Giunsero in riva al grande fiume Anoma, che superarono con un unico prodigioso balzo del cavallo di Siddharta. Il principe Siddharta trasse la spada e con un sol colpo recise la sua lunga chioma, in segno di rinuncia ad ogni ornamento. Donò il cavallo e i propri vestiti a Channa, e raggiunse gli asceti che vivevano nella foresta.

Il principe Siddharta, il futuro Buddha, visse per sei anni nella foresta, praticando in grado estremo la rinuncia al cibo e al riparo, e le mortificazioni del corpo, fino a ridursi ad essere uno scheletro vivente. Ma queste severe privazioni non lo portarono alla liberazione dalle angoscia dell’esistenza.

Un giorno Indra, signore della folgore e del temporale, dio guerriero protettore della gente cui apparteneva Siddharta, si avvicinò a Siddharta. Indra cantò una canzone, accompagnandosi con un liuto. Siddharta fu colpito dal fatto che ad ogni corda e ad ogni tensione della corda corrispondeva una nota precisa. Capì che ogni nota, come ogni cosa del mondo derivava, senza scampo, da un insieme preciso di cause.

Siddharta, il futuro Buddha, si convinse che la mortificazione estrema del corpo non era altro che un orgoglioso atto di disprezzo verso il mondo, e che l’orgoglio non lo avrebbe portato alla liberazione dall’angoscia. Accettò quindi il ristoro di una ciotola di latte, farina di riso e miele, che gli venne offerta da Sujata.

Sujata era una ricca signora che aveva scambiato Siddharta, il futuro Buddha, per un dio a cui porgere la ciotola in segno di ringraziamento per le grazie ricevute. Così, rinvigorito dal buon cibo, Siddharta, il futuro Buddha, decise che non si sarebbe più mosso se non si fosse sciolto definitivamente dalle catene dell’angoscia. Si immerse così in una profonda meditazione, ma Vasavatti Mara, il Re del male, ripetutamente lo assalì con i suoi malvagi servi. Però, una dea di grande bellezza sorse dalla terra e aiutò Siddharta a resistere agli assalti. E Mara, sconfitto rese omaggio a Siddharta. Durante la notte di luna piena del mese di maggio (vesak) Siddharta ebbe la certezza incrollabile che era possibile sfuggire all’interminabile sequela di nascite e di dolori, di angosce e di morti. La cessazione dalla sofferenza era possibile, seguendo il percorso di rispetto e compassione che lui stesso aveva fatto nella vita presente, e nelle vite precedenti. All’alba, immerso nella più profonda delle meditazioni, la certezza di Siddharta divenne Risveglio, e Siddharta divenne il Buddha, il Risvegliato – colui che vede il mondo così com’è. L’intero cosmo fu scosso dal Risveglio di Siddharta, e Mara, il re del male, fece ancora un tentativo per riattizzare il desiderio sessuale nel Buddha, che era comunque un uomo nel pieno della sua virilità. Mara inviò le sue tre bellissime figlie per sedurre il Buddha, che rispose con un semplice gesto della mano, in grado di allontanare ogni tentazione. Il momento del Risveglio risuonò come un tuono universale. I primi a giungere ai piedi del Buddha furono due mercanti, Tapussa e Bhalika, che gli offrirono il loro povero pasto di orzo. Giunsero anche i quattro Re Celesti che offrirono al Buddha cibi prelibati in preziose ciotole. Il Risvegliato prodigiosamente unì le quattro ciotole e le offerte in una unica ciotola, ed un unico cibo, indicando così che la Via verso la liberazione era una sola, per gli uomini e per gli dei. Il Buddha fu a lungo incerto. Si chiedeva se la visione del mondo così com’è potesse essere spiegata agli uomini in termini comprensibili. Ad implorarlo, affinché portasse fra gli uomini il messaggio della possibile liberazione vennero ai piedi del Buddha i quattro Re Celesti, Indra e lo stesso Brahma, il Supremo dai molti volti. Dopo sette settimane di riflessione, il Buddha decise di portare fra gli uomini il suo messaggio liberatorio, adeguando di volta in volta il linguaggio al grado di avanza-mento sulla Via dei suoi interlocutori.

Negli anni di privazioni trascorsi nella foresta, Siddharta aveva avuto come compagni cinque altri asceti. Quando Siddharta aveva accettato di rifocillarsi con il cibo offerto da Sujata, i suoi compagni avevano gridato al tradimento, ma al momento dell’incontro nel Parco dei Daini, dopo il Risveglio, non poterono far altro che inchinarsi di fronte al ritrovato Maestro. Il Buddha, il Maestro degli uomini e degli dei, chiarì che non era più uno di loro, ma spinto dalla compassione mise in moto la ruota del Dharma, e impartì loro l’insegnamento, il Dharma, che applicato tenacemente nella loro vita quotidiana avrebbe potuto portarli al Risveglio.

Tra i primi uomini a cui il Buddha insegnò il Sentiero verso il Risveglio vi fu Yasa, un giovane di una famiglia ricca e potente, che era arrivato nella foresta dove viveva il Risvegliato accompagnato da 54 amici, in cerca di gioia e divertimento. Il Buddha accolse con compassione Yasa, in cui vedeva se stesso prima del suo abbandono della sposa, del figlio e delle ricchezze. Alle parole illuminanti del Buddha, Yasa capì che l’inseguimento del solo piacere non portava da nessuna parte, e accettò le regole severe di una vita orientata verso il Risveglio. Anche la famiglia di Yasa seguì l’insegnamento del Buddha, e i suoi genitori furono i primi a prendere rifugio nelle tre gemme: il Risvegliato, il Buddha; l’insegnamento, il Dharma; la comunità dei praticanti, il Sangha.

Nell’India dei tempi di Siddharta vi erano molti asceti, severi e diligenti, con un largo seguito, ma incapaci di portare se stessi e i loro seguaci al Risveglio. In un giorno memorabile il Buddha insegnò la Via a tre fratelli asceti, Uruvela Kassapa, Nadi Kassapa, e Gaya Kassapa, che complessivamente avevano un seguito di mille allievi. Il Buddha tenne un discorso che fu poi detto ‘del fuoco’, perché spiegò che in ciascuno dei nostri sensi può bruciare “il fuoco della brama, il fuoco dell’illusione ed il fuoco dell’odio”, con il loro corteo di dolori e lamentazioni, nascite e morti, angoscia e disperazione. I tre fratelli e il loro seguito si convinsero della giustezza del Dharma, e da allora in poi praticarono l’insegnamento del Buddha.

L’ordine monacale fondato dal Buddha crebbe a dismisura, e il Risvegliato ritenne necessario condensare il Dharma, l’insegnamento, in una regola comprensibile da tutti. Ad una assemblea di 1250 monaci, egli disse semplicemente: “Non fate il male; fate il bene; purificate la vostra mente; questi sono gli insegnamenti di tutti i Buddha”.

Nanda era un fratellastro di Siddharta. Il Buddha fu presente al fidanzamento di Nanda con una bellissima ragazza, ma al termine della cerimonia Nanda fu costretto a dover seguire il Risvegliato nella foresta. Sentendo l’estremo desiderio sessuale verso la sua promessa sposa del fratellastro, il Buddha trasportò Nanda nel quinto cielo, dove furono circondati da fanciulle di indescrivibile, stupenda bellezza. Nanda capì che anche la bellezza è relativa, e riuscì a controllare i suoi desideri.

Il giovane Siddharta aveva lasciato la famiglia senza nominare come erede del regno il figlio Rahula. Il re Suddhodana e la principessa Yasodhara suggerirono al piccolo Rahula di rivendicare l’eredità dal padre in visita nel palazzo reale. Durante l’incontro Rahula decise invece di entrare nell’ordine monacale fondato dal padre.

Il re Suddhodana fu molto dispiaciuto della scelta del nipote, e chiese al Buddha di non accettare altri giovani monaci senza l’approvazione dei genitori. Il Buddha accettò il suggerimento di Suddhodana.

Devadatta era un cugino malvagio di Siddharta. Da innumerevoli vite le esistenze del cugino, accecato dall’invidia, e del futuro Buddha si erano intrecciate, ma ora che Siddharta aveva conquistato il completo Risveglio, l’invidia si era trasformata in vero odio. Dopo molti tentativi di scalzare l’autorità del Buddha, Devadatta decise di ucciderlo, facendogli rotolare addosso un macigno dall’alto di una montagna.

Nessuno può uccidere un Buddha, e il Risvegliato fu colpito leggermente ad un piede da una scheggia. Ma la Terra stessa non poté sopportare un simile gesto. Il suolo si aprì sotto i piedi di Devadatta che scomparve inghiottito in un turbine di fuoco. La zia di Siddharta, Prajapati, lo aveva allevato amorevolmente dopo la morte prematura della madre, che era sua sorella. Un giorno andò dal Buddha e gli offrì un paio di vesti, fatte con le sue stesse mani. Il Buddha la ringraziò, ma le disse di donare le vesti all’ordine dei monaci, il Sangha, perché così avrebbe acquistato un maggior merito, dato che non vi sarebbe stato un legame di affetto personale. Alla morte del padre, il re Suddhodana, il Buddha partecipò alla cerimonia funebre, e secondo l’usanza diede fuoco alla pira su cui giaceva il cadavere del genitore. Il Risveglio non aveva estinto la pietà filiale, e il gesto del Buddha servì di insegnamento a tutti i praticanti. Il Buddha non si dimenticò della madre, morta subito dopo la sua nascita. Raggiunse Mahamaya nel quinto cielo in cui lei dimorava. A lei, a Brahma, ai quattro Re Celesti, e alla miriade di esseri presenti e attenti, il Buddha spiegò tutti i dettagli del Dharma, il suo incomparabile insegnamento. Il giorno in cui il Buddha discese dal cielo in cui aveva predicato alla madre e agli dei incontrò una folla di uomini e di divinità che lo attendevano. In un’unica visione il Buddha mostrò loro la miriade di mondi esistenti, come ammonimento del minuscolo potere che ciascuno di loro esibiva con orgoglio.

Angulimala era un terribile bandito, che si ornava con una collana di dita tagliate alle sue vittime. Un certo giorno, nel momento peggiore della sua follia sanguinaria, si apprestava ad uccidere sua madre, quando vide il Buddha, mentre faceva il giro per elemosinare il cibo. Angulimala provò subito il desiderio di trucidare il Santo, e gli gridò “Fermati!”. Il Buddha gli rispose sereno “Io mi sono già fermato”. Angulimala capì che il Buddha intendeva dire che ormai da tempo aveva fermato qualsiasi gesto che potesse far male a qualcuno. Vinto dalla luminosa beatitudine del Risvegliato il bandito lasciò cadere la spada e si pentì.

Le ultime parole del Buddha, rivolte ai monaci che lo assistevano furono: “Tutte le cose del mondo sono impermanenti“, quindi anche tutto ciò che ci lega al ciclo delle vite e al dolore. E aggiunse: “Impegnatevi strenuamente per il vostro risveglio“. Poi si stese appoggiato sul lato destro del corpo, entrò in una meditazione profonda e morì.

Il Buddha si estinse completamente, senza ritorno, nell’anno 543 prima della nostra era, dopo aver predicato per 45 anni. Il mondo dei potenti non era però cambiato soltanto perché un Risvegliato aveva predicato la pace per 45 anni. Infatti sette re si prepararono a combattere per conquistare le ceneri del Buddha. Un bramino di nome Tona intimò ai sette re di seguire il Dharma, l’insegnamento del Buddha, e di risolvere pacificamente la contesa. Tona divise le ceneri del Buddha in sette parti e le consegnò ai sette re.

In Tibet, dove tutto sale verso il cielo: le montagne, lo sguardo ed i pensieri degli uomini, le bandierine di preghiera (che in questi giorni particolari vengono stese ovunque), sono molto più di un semplice elemento decorativo; diffondono buoni auspici a tutti gli esseri viventi perché il vento che le agita porta in tutto il mondo i pensieri e le preghiere che vi sono impresse. La loro presenza ricorda agli uomini la forza delle loro aspirazioni, aiutandoli nella vita quotidiana. Le bandiere sono nei cinque differenti colori collegati ai 5 elementi: blu (acqua), bianco (metallo), rosso (fuoco), verde (legno), e giallo (terra). Il cavallo del vento rappresentato al centro è considerato una forma di protezione contro le insidie dei viaggi. Esso è simbolo di grande fedeltà e potenza, portatore di fortuna. Sulla parte inferiore è scritto:
“Possano tutti avere una esistenza dignitosa, trascorsa tra felici circostanze e vivere una vita in armonia nella quale i desideri si avverino.”

Pubblicato su Facebook da Eli Parisio. Tratto dal sito http://www.centronirvana.it/home.htm, http://www.centronirvana.it/articolididharma116.htm che devotamente ringraziamo per la sua compassionevole gentilezza verso tutti gli esseri che soffrono in questa dolorosa esistenza samsarica.