Sogyal Rinpoche: Le pratiche per morire

Sogyal Rinpoche: L’aiuto spirituale ai morenti. Al capezzale del morente. Dare speranza e trovare perdono. Trovare una pratica spirituale. Elementi essenziali della pratica del Phowa. Tre modi per praticare. Usare gli elementi essenziali del Phowa nell’aiuto ai morenti. Dedicare la nostra morte. Le pratiche per morire. Il momento della morte. Lasciar andare l’attaccamento. Entrare nella chiara consapevolezza. Le istruzioni per la morte. Le pratiche per il momento della morte. Il phowa: il trasferimento della coscienza. La grazia della preghiera al momento della morte. L’atmosfera del momento della morte. Abbandonare il corpo.

L’aiuto spirituale ai morenti

Ciò che più mi turbò al mio arrivo in Occidente, all’inizio degli anni ’70, e che continua ancora a turbarmi nella cultura moderna, è la quasi completa assenza di aiuto spirituale ai morenti. In Tibet, come ho già detto, tutti avevano una qualche conoscenza delle verità buddiste e tutti erano in rapporto con un maestro. Nessuno moriva senza ricevere assistenza, al tempo stesso pratica e spirituale, dalla comunità. Ho sentito molti casi di occidentali lasciati morire in solitudine e tra gli strazi senza alcun aiuto spirituale, e perciò uno dei motivi che mi hanno spinto a scrivere questo libro è di trasmettere la saggezza risanante della terra in cui fui allevato a tutti gli uomini e le donne. Al momento della morte, non abbiamo tutti il diritto non solo al rispetto per il nostro corpo ma, fatto forse ancora più importante, per il nostro spirito? Morire tra le migliori cure spirituali, non dovrebbe essere uno dei diritti fondamentali di ogni società civile, di cui tutti i suoi membri devono beneficiare? Come possiamo definirci ‘civili’ finché questo non sia diventato un fatto diffuso? Che valore ha una tecnologia che manda l’uomo sulla luna se non sappiamo aiutare i nostri simili a morire in dignità e speranza?

L’aiuto spirituale non è un lusso per pochi, è il diritto fondamentale di ogni essere umano, altrettanto essenziale del diritto alla libertà, all’assistenza medica e ad avere le stesse possibilità degli altri. Una vera democrazia deve includere, tra le verità essenziali dei propri ideali, una provata assistenza spirituale per tutti.

Dovunque in Occidente mi ha colpito la grande sofferenza mentale, conscia o inconscia, causata dalla paura della morte. Come sarebbe rassicurante sapere che, quando moriremo, verremo assistiti con amorevole comprensione! La nostra cultura è tanto spietatamente imbevuta di profitto e di rifiuto verso ogni vero valore spirituale che la gente, di fronte a una malattia terminale, è terrorizzata dalla prospettiva di essere gettata via come un oggetto inutile. In Tibet era naturale pregare per i morenti e dare loro assistenza spirituale. In Occidente, l’unica attenzione spirituale è partecipare ai funerali.

Così, proprio nel momento di massima vulnerabilità, le persone sono abbandonate, senza appoggio e senza conoscenze spirituali. È una situazione tragica e umiliante, che deve cambiare. Tutte le pretese del mondo moderno di avere potere e successo saranno vane finché non sarà data a tutti la possibilità di morire in vera pace, o almeno non sarà stato fatto uno sforzo in questa direzione.

Al capezzale del morente

Una mia amica, subito dopo essersi laureata in medicina in una famosa università, iniziò a lavorare in uno dei più grandi ospedali di Londra. Nel suo primo giorno in corsia avvennero quattro o cinque decessi. Ne ebbe un colpo tremendo, perché niente nei suoi studi l’aveva preparata ad affrontare quella realtà. Non è sorprendente, considerando che aveva studiato per diventare medico? Un letto era occupato da un anziano che fissava il muro.

Solo, senza nessuno che andasse a trovarlo, aveva un disperato bisogno di qualcuno con cui parlare. La neo dottoressa gli si avvicinò. Aveva gli occhi gonfi di lacrime e la voce gli tremava mentre le rivolgeva l’ultima domanda che lei si sarebbe aspettata: “Crede che Dio mi perdonerà per i miei peccati?”. La mia amica non sapeva cosa rispondere, i suoi studi l’avevano lasciata totalmente impreparata per i problemi spirituali. Non le veniva niente da dire, poteva solo nascondersi dietro la propria immagine professionale di medico. Non c’erano cappellani a portata di mano. Rimase impietrita, incapace di rispondere a quella disperata richiesta d’aiuto e di rassicurazione sul senso della vita.

Confusa e addolorata, mi chiese: “Tu, che cos’avresti fatto?”. Risposi che mi sarei seduto vicino al malato, gli avrei tenuto la mano e l’avrei lasciato parlare. Mi sorprende sempre come, se solo la lasciate parlare, se solo dimostrate totale e compassionevole attenzione, la gente dice cose di insospettata profondità spirituale, anche chi pensa di non avere nessun credo spirituale. Tutti hanno una loro saggezza nei confronti della vita e, se lasciate parlare, questa saggezza viene fuori. Mi ha sempre commosso la possibilità di aiutare le persone ad aiutarsi aiutandole a scoprire la loro verità; una verità la cui ricchezza, dolcezza e profondità forse non hanno mai sospettato. La fonte della guarigione e della consapevolezza è sepolta in profondità dentro di noi, e il vostro compito non è mai, in nessuna situazione, quello di imporre le vostre credenze ma di permettere agli altri di scoprire le proprie.

Sedendo al capezzale di un morente, pensate di sedere accanto a una persona che ha in il vero potenziale di essere un buddha. Immaginate la sua natura di buddha come uno specchio fulgido e immacolato, mentre tutto il suo dolore e la sua ansia non sono che una nebbia sottile che può dissiparsi rapidamente.

Questo vi aiuterà a considerare la persona degna di amore e di perdono e a far fluire da voi l’amore incondizionato. Scoprirete che, davanti a questo atteggiamento, il morente vi si aprirà molto di più.

Il mio maestro Dudjom Rinpoche diceva che aiutare una persona morente è come tendere la mano a qualcuno sul punto di cadere per risollevarlo. Grazie alla forza, alla pace e alla profonda attenzione compassionevole della vostra presenza, risveglierete nel morente la sua stessa forza. In questi momenti estremi, di massima vulnerabilità, è essenziale la qualità della vostra presenza. Scrive Cicely Saunders: “La persona che muore ha lasciato cadere le maschere e le apparenze di tutti i giorni e, perciò, è molto più aperta e sensibile. Si accorge subito delle finzioni. Ricordo un malato che una volta mi disse: ‘No, niente letture. Voglio solo ciò che hai nella mente e nel cuore’.

Non mi accosto mai al capezzale di un morente senza aver fatto prima un periodo di pratica, senza essermi posto nella sacra atmosfera della natura della mente. In questo modo non devo sforzarmi per risvegliare la compassione e la sincerità, perché sono presenti e irradiano spontaneamente.

Ricordate: non potete ispirare la persona che vi sta di fronte se prima non avete trovato ispirazione voi stessi. Quindi, quando non sapete cosa fare, quando non vi sentite in grado di dare aiuto, pregate e meditate, invocate il Buddha o qualunque altra figura nel cui potere spirituale credete. Quando sono di fronte a casi terribili di sofferenza, prego con tutto il mio fervore l’aiuto di tutti i buddha e degli esseri illuminati, spalanco il cuore al morente che mi sta davanti e lascio che la compassione per il suo dolore permei tutto il mio essere. Invoco con la massima intensità la presenza dei miei maestri, dei buddha, degli esseri illuminati con i quali ho una speciale connessione. Chiamando a raccolta tutta la mia devozione e la mia fede, li vedo maestosi al di sopra dei morenti in atto di guardarli con amore, di aspergerli di luce e benedizione purificandone il karma passato e l’agonia presente. Contemporaneamente prego che alla persona di fronte a me sia risparmiata ulteriore sofferenza, e che possa trovare pace e liberazione.

Applico la massima concentrazione e sincerità, cercando di dimorare nella natura della mente perché la sua pace e radiosità permeino la stanza. Tante, tante volte ho provato soggezione alla sacra presenza che si manifestava spontaneamente e da cui il morente veniva ispirato.

Ora dirò qualcosa che vi sorprenderà: la morte può essere una grande ispiratrice. Nella mia esperienza con la morte mi sono spesso sorpreso al vedere come le mie preghiere e le mie invocazioni trasformassero l’atmosfera, e la mia fede si è rafforzata constatando l’efficacia delle invocazioni, delle preghiere e della presenza dei buddha. Stare al capezzale dei morenti ha reso la mia pratica molto più forte.

A volte mi accorgo che anche il morente avverte quest’atmosfera di profonda ispirazione, ed è riconoscente per essere stato l’occasione per toccare, insieme, un momento di vera estasi trasformatrice.

Dare speranza e trovare perdono

Vorrei esaminare in particolare due punti nell’assistenza spirituale ai morenti: dare speranza e trovare il perdono.

Quando siete con i morenti, mettete sempre l’accento sui loro successi e le cose ben fatte, aiutateli a considerare la loro vita in termini costruttivi e felici. Mettete a fuoco le virtù, non gli errori. I morenti sono molto vulnerabili alla colpa, al rimpianto e alla depressione: lasciate che esprimano liberamente questi sentimenti, ascoltateli e confermate ciò che vi dicono. Nello stesso tempo, quando è appropriato, ricordategli la loro natura di buddha e incoraggiateli a cercare di rimanere nella natura della mente con la meditazione. Ricordate soprattutto al morente che dolore e sofferenza non esauriscono tutto il suo essere. Trovate i modi più dolci e abili per ispirare e infondere speranza. Così, invece di tenersi stretto ai propri errori, può morire in una disposizione mentale più tranquilla.

All’uomo che supplicava: “Dio perdonerà i miei peccati?”, risponderei: “Il perdono è nella natura di Dio, è sempre presente. Dio ti ha già perdonato, perché Dio è perdono. ‘Errare è umano, ma perdonare è divino’. Ma tu, tu hai perdonato te stesso? Questo è il vero problema.

“Ciò che ti fa soffrire è la sensazione di non essere perdonato e di non poterlo essere. Ma è reale solo nel tuo cuore o nella tua mente. Non hai mai letto che, nell’esperienza di pre-morte, si manifesta una grande presenza dorata e luminosa che è tutta perdono? E molti dicono che, in definitiva, siamo noi che giudichiamo noi stessi.

“Per cancellare la tua colpa, chiedi di esserne purificato dal profondo del cuore. Se lo chiedi davvero, se vai fino in fondo, il perdono sarà lì. Dio ti perdonerà, come nella splendida parabola del Cristo in cui il padre perdona il figliol prodigo. Per aiutarti a perdonarti, ricorda tutte le cose buone che hai fatto, perdona tutti e chiedi perdono a tutti quelli a cui hai fatto del male”.

Non tutti credono in una religione formale, ma sono convinto che quasi tutti credano nel perdono. Potete dare ai morenti un aiuto incalcolabile se li portate a considerare l’avvicinarsi della morte come il momento per fare i conti, e per la riconciliazione.

Invitateli a riconciliarsi con amici e familiari, a purificare il proprio cuore perché non conservi la minima traccia di odio o di rancore. Se un incontro a faccia a faccia con una persona da cui si sentono estraniati è impossibile, suggerite di chiedere perdono telefonando, o incidendo la propria voce su una cassetta, o per lettera. Se c’è il sospetto che la persona interessata si opponga al perdono, non è saggio spingere a un incontro diretto, perché un rifiuto non farebbe altro che aggiungere altra angoscia. A volte c’è bisogno di tempo per perdonare. Meglio lasciare un messaggio con la richiesta di perdono, e ciò farà sentire al morente che ha fatto tutto il possibile, liberando il proprio cuore dalla rabbia e dalla difficoltà di chiedere perdono. Quante volte ho visto persone con il cuore indurito dal disprezzo di sé e dal senso di colpa che, grazie al semplice atto di chiedere perdono, hanno ritrovato una forza e una pace insospettate.

Tutte le religioni insistono sul potere del perdono, mai così necessario e mai così profondamente sentito come al momento della morte. Dando e ricevendo perdono, ci purifichiamo dall’oscurità delle nostre azioni e ci possiamo preparare meglio al viaggio attraverso la morte.

Trovare una pratica spirituale

Se il vostro amico o il vostro caro che sta morendo ha familiarità con qualche tipo di meditazione, incoraggiatelo a restare in meditazione il più a lungo possibile e, avvicinandosi il momento della morte, meditate con lui o con lei.

Se è aperto all’idea di una pratica spirituale, aiutatelo a trovare una pratica semplice e appropriata, fatela assieme il più spesso possibile, e stimolatelo dolcemente a richiamarla alla mente quando la morte si avvicina. In quel momento cruciale ricorrete a tutta la vostra creatività e inventiva, perché molto dipende da questo: l’atmosfera del momento della morte può essere completamente trasformata da una pratica che sappiamo fare con tutto il cuore prima e mentre moriamo. La pratica spirituale ha così tanti aspetti! Usate il vostro acume e la vostra sensibilità per trovare quello più adatto al morente: una pratica di perdono, purificazione, dedica, o di percezione di una presenza di amore e di luce. Aiutandolo a intraprenderla, pregate con tutto il cuore e la mente che la sua pratica abbia successo, pregate che gli sia data l’energia e la fede per seguire la via scelta. Ho conosciuto persone che, anche negli ultimissimi momenti, hanno fatto sorprendenti progressi spirituali usando un’unica preghiera, un mantra o una visualizzazione profondamente significativi per il loro cuore.

Stephen Levine riferisce di aver assistito una donna malata di cancro che si sentiva perduta perché, nonostante la sua spontanea devozione per Cristo, si era allontanata dalla chiesa. Insieme studiarono che cosa fare per rafforzare la sua fede e devozione. Scoprirono che la cosa che l’avrebbe aiutata di più a riavvicinarsi a Cristo, dandole un po’ di pace e di fiducia al momento della morte, era la continua ripetizione della preghiera: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”. Recitare questa preghiera le aprì il cuore, e iniziò a sentire la presenza di Gesù sempre accanto a lei.

Elementi essenziali della pratica del Phowa

La pratica più efficace e potente nell’aiuto ai morenti, che un numero impressionante di persone ha intrapreso con entusiasmo, è una pratica tibetana chiamata phowa (pronuncia po-wa), che significa ‘trasferimento della coscienza’.

La pratica del phowa per i morenti viene eseguita da amici, parenti e maestri, in modo molto semplice e naturale, in tutto il mondo moderno: in Australia, America ed Europa. Il suo potere ha dato a migliaia di persone la possibilità di morire serenamente. Per me è una gioia trasmettere il cuore della pratica del phowa a chiunque voglia usarla.

Voglio sottolineare che è alla portata di tutti. Benché semplicissima, è anche la pratica essenziale per prepararci alla morte e la pratica principale che consiglio ai miei studenti per aiutare un amico o un parente che muore, e per i cari già morti.

Vi sono tre modi per praticare.

Prima pratica

Assumete la vostra posizione di meditazione, accertandovi di sentirvi comodi. Se praticate mentre state per morire, limitatevi a sedere come meglio potete oppure sdraiatevi.

Riportate a casa la mente, lasciate andare e rilassatevi completamente.

  1. Invocate, nel cielo davanti a voi, l’incarnazione di qualunque verità in cui crediate, in forma di luce radiosa. Va bene qualunque essere divino o santo a cui vi sentite vicini. Se siete buddhisti, invocate un buddha con cui avete un’intima connessione. Se siete cristiani, sentite con tutto il cuore la viva, reale presenza di Dio, dello Spirito Santo, Gesù o la Vergine Maria. Se non avete una connessione con una figura spirituale in particolare, immaginate una pura luce dorata nel cielo davanti a voi. Il punto essenziale è considerare la figura che visualizzate o di cui sentite la presenza come la vera incarnazione della verità, saggezza e compassione di tutti i buddha, i santi, i maestri e gli esseri illuminati. Non preoccupatevi se non riuscite a visualizzare con chiarezza, basta avere fiducia e sentire il cuore pieno della loro presenza

  2. Concentrate la mente, il cuore e lo spirito sulla figura che avete invocato, e pregate così:

Mediante la tua benedizione, la tua grazia e la tua guida, mediante il potere della luce che da te rifulge possano il mio karma negativo, le emozioni distruttive, gli oscuramenti e i blocchi essere purificati e rimossi, possa sapermi perdonato per tutto il male fatto col pensiero e con le azioni, possa io compiere la profonda pratica del phowa e fare una morte buona e serena.

Attraverso il trionfo della mia morte, possa io beneficiare tutti gli esseri, vivi o morti.

  1. Ora immaginate che la presenza di luce che avete evocato sia così commossa dalla sincerità della vostra preghiera che vi risponde con un sorriso amorevole, emanando dal suo cuore amore e compassione in un fascio di raggi luminosi. Penetrando dentro di voi, i raggi puliscono e purificano tutto il vostro karma negativo, le emozioni distruttive e gli oscuramenti che sono le cause della sofferenza. Sentitevi completamente immersi nella luce.

  2. Siete totalmente purificati e risanati dal fascio di luce che emana dalla presenza. Immaginate il vostro corpo, che è anch’esso un prodotto del karma, dissolversi nella luce

  3. Ora siete un corpo di luce che si innalza nel cielo e si fonde, inseparabilmente, con la beatificante presenza di luce.

  4. Rimanete il più a lungo possibile in uno stato di unità con la presenza.

Seconda pratica

  1. Potete praticare in modo più semplice, assumendo come sempre una posizione comoda e invocando la presenza di un’incarnazione di verità.

  2. Immaginate che la vostra coscienza sia una sfera di luce all’altezza del cuore, che saettando da dentro di voi vola come una stella cadente al cuore della presenza.

  3. La luce della Vostra coscienza si dissolve fondendosi con la presenza.

Mediante questa pratica riponete la vostra mente nella mente di saggezza del Buddha o di un essere illuminato, il che è uguale ad abbandonare la vostra anima nella natura di Dio. Dilgo Khyentse Rinpoche diceva che è come gettare un ciottolo nel lago. Immaginatelo andare sempre più a fondo. Immaginate che, mediante la benedizione, la vostra mente si trasformi nella mente di saggezza della presenza illuminata.

Terza pratica

Il modo essenziale è questo: fondete semplicemente la vostra mente con la mente di saggezza della pura presenza. Sentite: “La mia mente e quella del Buddha sono una”.

Scegliete, tra i tre modi di praticare il phowa, quello che vi si adatta meglio o che, a seconda del momento, vi attira di più. A volte le pratiche più potenti sono le più semplici. Qualunque sia quella prescelta, ricordate che è essenziale incominciare da questo momento per diventarne familiari.

Altrimenti, come potreste trovare la fiducia per praticarla per voi stessi o per agli altri al momento della morte? Il mio maestro Jamyang Khyentse scrive: “Se meditate e praticate sempre in questo modo, al momento della morte vi sarà più facile”.

Dovete sviluppare una tale familiarità che la pratica del phowa diventi un vostro atteggiamento naturale, una seconda natura. Chi ha visto il film Gandhi ricorderà che, ricevendo la pallottola, la sua reazione fu di esclamare: “Ram… Ram”, che nell’Induismo è il nome sacro di Dio. Ricordate che non sappiamo in che modo moriremo, se ci sarà dato il tempo per richiamare alla mente una pratica. Quanto tempo avremo se ci schianteremo contro un camion a centocinquanta chilometri sull’autostrada? Non avremo neppure un secondo per ripensare alle istruzioni da seguire, e tanto meno per cercarle in questo libro. O avremo familiarità con il phowa, o non l’avremo. C’è un unico modo per saperlo: osservate la vostra reazione in una circostanza critica o in un momento di crisi, come un terremoto o un incubo notturno. Reagite applicando il phowa o no? E, se lo fate, quanto ferma e fiduciosa è la vostra pratica? Una volta, in America, una mia studentessa uscì per un giro a cavallo. Il cavallo la disarcionò, il piede le rimase impigliato nella staffa e venne trascinata nella corsa. La sua mente si svuotò. Cercava disperatamente di ricordare qualche pratica, ma non arrivava niente. Era terrorizzata. Quei momenti di panico servirono a farle capire la necessità di far diventare la pratica una seconda natura. Era la lezione che doveva imparare, e che dobbiamo imparare tutti. Praticate il phowa il più intensamente possibile, fino ad avere la certezza che sarà il phowa la vostra reazione m qualunque situazione imprevista. Ciò vi darà la garanzia che, in qualunque momento si presenti la morte, sarete pronti al meglio delle vostre possibilità.

Usare gli elementi essenziali del Phowa nell’aiuto ai morenti

Come possiamo usare il phowa per dare aiuto a chi muore?

I principi e l’ordine della pratica sono gli stessi, con l’unica differenza di visualizzare il Buddha o qualunque altra presenza spirituale sulla testa del morente.

Immaginate che i raggi luminosi scendano sul morente, purificandone l’intero essere. Quindi la persona si dissolve in luce e si fonde con la presenza spirituale.

Continuate la pratica durante il decorso della malattia della persona cara e soprattutto (punto essenziale) nel momento del suo ultimo respiro, oppure subito dopo l’ultimo respiro ma prima che il corpo venga toccato o disturbato in qualunque modo. Sapere che farete per lei questa pratica, e sapere di cosa si tratta, le darà una grande ispirazione e un grande conforto.

Sedete in silenzio accanto al morente, e accendete una candela o un lume offrendoli a un’immagine del Buddha, del Cristo o della Vergine Maria. Quindi praticate il phowa. Potete farlo in silenzio, senza che la persona se ne accorga. Se invece il morente è ben disposto verso la pratica, e a volte lo è, condividetela e spiegate come farla.

Spesso mi domandano: “Se la persona morente è cristiana e io sono buddista, non ci sarà conflitto?”. Come potrebbe esserci? La mia risposta è: state invocando la verità, e tanto Cristo che il Buddha sono manifestazioni compassionevoli della verità che appaiono in modi diversi per aiutare gli esseri.

Consiglio grandemente anche ai medici e agli infermieri di praticare il phowa per i pazienti. Immaginate che cambiamento meraviglioso nell’atmosfera dell’ospedale se anche chi assistenza medica ai morenti facesse questa pratica! Ricordo la morte di Samten, quando ero un bambino, con il mio maestro e tutti i monaci che praticavano per lui. Che atmosfera potente ed edificante! La mia più profonda preghiera è che tutti possano morire con la stessa serenità e nella stessa grazia.

Ho formulato questo modo essenziale di praticare il phowa soprattutto in base alle tecniche tradizionali tibetane per i morenti, delle quali racchiude i principi fondamentali. Non è esclusivamente diretta ai morenti, ma può essere usata anche per purificare e guarire. È utile ai vivi e ai malati. Se una persona si sta ristabilendo, questa pratica l’aiuterà a guarire; se sta morendo, l’aiuterà a guarire lo spirito nella morte; se è già morta, continuerà a purificarla.

Se una persona è gravemente malata, e non si sa se sopravviverà, praticate il phowa ogni volta che andata a trovarla. Poi, tornati a casa, praticatelo di nuovo. Più volte lo praticherete, e più il morente sarà purificato. Non sapete se rivedrete l’amico ammalato un’altra volta, o se sarete presenti al momento della sua morte. Perciò sigillate ogni vostra visita con questa pratica, come preparazione, e continuate a farla in tutti i momenti liberi.

Dedicare la nostra morte

Dal Libro tibetano dei morti: “Figlio/figlia di famiglia illuminata, ora la cosiddetta morte è giunta; assumi, perciò, il seguente atteggiamento: “Sono giunto al momento della morte, perciò, ora, per mezzo di essa, assumerò solo l’atteggiamento dello stato di mente illuminato, benevolenza e compassione, e realizzerò l’illuminazione perfetta per il bene di tutti gli esseri senzienti illimitati come lo spazio”.

Poco tempo fa una studentessa mi ha chiesto: “Ho un amico di venticinque anni, malato di leucemia. È pieno di una spaventosa amarezza, e sono terrorizzata dalla possibilità che vi affoghi. Continua a chiedermi: Cosa me ne faccio di questa terribile, inutile sofferenza?”.

Il mio cuore balzò verso la studentessa e il suo amico. Forse niente è più doloroso che pensare che la sofferenza che proviamo è inutile. Le risposi che c’era un modo per aiutare l’amico a trasformare la sua morte, pur nella grande sofferenza che gli toccava: dedicare, con tutto il cuore, la propria sofferenza e la sua stessa morte al bene e alla felicità definitiva degli altri.

Le dissi di parlargli così: “So quanto stai soffrendo. Immagina quanti, nel mondo, stanno soffrendo come te, se non peggio. Riempi il tuo cuore di compassione per loro. Prega qualunque cosa in cui credi e chiedi che la tua sofferenza possa alleviare la loro. Dedica continuamente il tuo dolore ad alleviare il dolore degli altri. Presto scoprirai dentro di te una nuova fonte di forza, una compassione che ora non puoi neppure sospettare, e la certezza, oltre ogni ombra di dubbio, che la tua sofferenza non è un inutile spreco ma riveste un significato meraviglioso”.

In realtà, le stavo descrivendo la pratica del Tonglen, che ho già trasmesso ai lettori, ma che si carica di significato speciale nel caso di una malattia terminale o dell’imminenza della morte. Quindi, se voi che state leggendo siete malati di cancro o di AIDS, cercate di immaginare con la massima vividezza tutti quelli che, nel mondo, soffrono del vostro stesso male.

Dite a voi stessi, con profonda compassione: “Possa io prendere su di me la sofferenza di tutte le persone che soffrono di questo male. Possano essere libere dal loro male e dalla loro sofferenza”.

Ora immaginate che la malattia e i tumori escano dal loro corpo sotto forma di fumo nero, dissolvendosi nella vostra malattia. Inspirando, assorbite tutto il loro dolore; espirando, trasmettetegli salute e benessere. Ogni volta che fate questa pratica, sentite con assoluta certezza che gli altri sono guariti.

Mentre la morte si avvicina, pensate continuamente: “Possa prendere su di me la sofferenza, la paura e la solitudine di tutti gli esseri che stanno morendo o moriranno nel mondo. Possano essere tutti liberati dal dolore e dalla confusione, possano tutti trovare conforto e pace mentale. Possa ogni sofferenza che sto provando ora e che proverò in futuro aiutare gli esseri a ottenere una buona rinascita e l’illuminazione definitiva”.

A New York ho conosciuto un artista malato di AIDS. Era di spirito sardonico e odiava la religione costituita, anche se, segretamente, sospettavamo che avesse più curiosità spirituale di quanto era disposto ad ammettere. Alcuni amici lo convinsero a parlare con un maestro tibetano, che capì immediatamente che ciò che più lo frustrava era sentire che il suo dolore non serviva a niente, né a lui agli altri. Gli insegnò solo una cosa: la pratica del Tonglen. Nonostante lo scetticismo iniziale, incominciò a praticarlo, e tutti assistemmo a un cambiamento stupefacente. Disse agli amici che, grazie al Tonglen, il dolore che prima era orribile e inutile era ora imbevuto di un senso quasi glorioso. Chi lo conobbe vide con i propri occhi come avere dato un senso al male trasformò la sua morte. Morì serenamente, riconciliato con se stesso e con la sua sofferenza.

Se la pratica di prendere su di la sofferenza altrui è in grado di trasformare una persona con pochissima esperienza di pratica, immaginate che potere ha nelle mani di un grande maestro. Nel 1981 moriva a Chicago il Gyalwang Karmapa. Ecco cosa scrisse uno dei suoi discepoli tibetani: “Quando lo vidi, Sua Santità aveva già subito diverse operazioni: gli erano state asportate parti del corpo, dentro gli avevano messo delle altre cose, trasfusioni di sangue e così via. Ogni giorno i medici scoprivano i segni di qualche nuova malattia, solo per vederli scomparire l’indomani sostituiti da un altro male, come se nel suo corpo trovassero posto tutte le malattie del mondo. Non prendeva cibo solido da due mesi, e i medici avevano abbandonato le speranze. Non poteva più continuare a vivere, e i medici pensarono di staccare le apparecchiature che lo tenevano in vita”.

Ma il Karmapa disse: “No, vivrò ancora. Non staccatele”. E continuò a vivere, sbalordendo i medici, apparentemente a suo agio in quelle condizioni: scherzoso, giocoso e sorridente come se traesse piacere dalle sofferenze del suo corpo. Capii, con la massima certezza, che il Karmapa si era consegnato intenzionalmente e volontariamente a tutte quelle asportazioni chirurgiche, al manifestarsi nel suo corpo di tutte le malattie possibili, alla non assunzione di cibo. Stava affrontando deliberatamente tutte le malattie per alleviare le sofferenze future della guerra, delle carestie, delle malattie del mondo, lavorando intenzionalmente ad allontanare il dolore da questa età oscura. Per tutti noi, la sua morte fu una fonte indimenticabile d’ispirazione, che rivelò la profonda efficacia del Dharma e la reale possibilità dell’illuminazione per il bene degli altri.

So e credo fermamente che non c’è alcuna necessità, per nessuno, di morire nell’amarezza e nel risentimento. Nessuna sofferenza, per quanto terribile, è priva di senso se la dedichiamo ad alleviare la sofferenza degli altri.

Abbiamo di fronte a noi il nobile esempio ispiratore dei supremi maestri di compassione che, si dice, vivono e muoiono nella pratica del Tonglen, prendendo il dolore di tutti gli esseri senzienti quando inspirano e dando salute al mondo intero quando espirano. Per tutta la vita, fino all’ultimo respiro. Talmente sconfinata e potente è la loro compassione che, dicono gli insegnamenti, alla morte li porta immediatamente a rinascere in un reame dei Buddha.

Come cambierebbe il mondo e la nostra percezione di esso se ciascuno di noi, nella vita e nella morte, recitasse questa preghiera, assieme a Shantideva e ai maestri di compassione:

Possa io essere il protettore di chi è privo di protezione, la guida di chi è in cammino, una barca, un ponte, un guado per chi desidera approdare all’altra sponda.

Possa il dolore di ogni creatura vivente essere completamente cancellato. Possa io essere il medico e la cura e possa essere l’infermiere di tutti i malati del mondo, finché ciascuno non guarisca.

Così come lo spazio e i grandi elementi come la terra, possa io sostenere la vita di tutte le innumerevoli creature.

E, fino a che non siano liberati dal dolore, possa io essere la sorgente della vita per tutti i reami dei diversi esseri che si estendono fino ai confini dello spazio.

Le pratiche per morire

Ricordo che molti venivano dal mio maestro Jamyang Khyentse solo per richiedere la sua guida al momento della morte. Era così amato e onorato in tutto il Tibet, soprattutto nella provincia orientale del Kham, che molti affrontavano mesi di viaggio solo per vederlo e ottenerne la benedizione prima di morire. Tutti i miei maestri davano questo consiglio che rappresenta in essenza tutto ciò di cui avete bisogno al momento della morte: “Siate liberi da attaccamento e avversione. Mantenete pura la vostra mente e unitela al Buddha”.

L’atteggiamento buddhista verso la morte si può riassumere in questi versi di Padmasambhava, tratti dal Libro tibetano dei morti:

Quando il bardo del morire sorge su di me abbandonerò ogni desiderio, brama e attaccamento; entrerò senza distrazioni nella chiara consapevolezza dell’insegnamento e proietterò la mia coscienza nello spazio del Rigpa privo di nascita. Lasciando questo composto corporeo di carne e sangue saprò che è un’illusione transitoria.

Al momento della morte, due sole cose contano: ciò che abbiamo fatto in vita e lo stato mentale in cui ci troveremo allora. Anche se abbiamo accumulato moltissimo karma negativo, se siamo davvero capaci di cambiare il nostro cuore al momento della morte, ciò può influenzare sensibilmente il nostro futuro e trasformare il nostro karma. Infatti il momento della morte è un’occasione straordinariamente potente per purificare il karma.

Il momento della morte

Ricordate che le abitudini e le tendenze immagazzinate nella mente ordinaria sono pronte per essere attivate alla prima occasione. Sappiamo

bene che basta la più piccola provocazione per far salire a galla le nostre reazioni istintive, abituali, e questo è soprattutto vero al momento della morte. Insegna il Dalai Lama: “Analogamente, in punto di morte di solito gli atteggiamenti con cui si ha una lunga consuetudine prendono il sopravvento e dirigono la rinascita. Per lo stesso motivo, si genera un forte attaccamento per il proprio sé, poiché si teme che il proprio sé stia per passare alla non esistenza. Questo attaccamento svolge la funzione del legame che collega gli stadi intermedi tra le vite; l’attrazione per un corpo, a sua volta agisce come causa nello stabilire il corpo dell’essere intermedio [bardo].”

Lo stato mentale al momento della morte è quindi decisivo. Morendo in una disposizione mentale positiva possiamo migliorare la nostra rinascita futura nonostante il karma negativo. Al contrario, una disposizione mentale negativa e inquieta può avere effetti dannosi anche se abbiamo usato bene la nostra vita. Ciò significa che l’ultimo pensiero ed emozione prima della morte hanno un effetto causale di enorme impatto sul nostro immediato futuro. Come la mente di un pazzo è invasa totalmente dalle sue ossessioni, che si ripropongono in continuazione, al momento della morte la mente è totalmente esposta e vulnerabile al pensiero predominante, qualunque esso sia. L’ultimo pensiero o emozione può assumere dimensioni spropositate, sommergendo ogni nostra percezione. Per questo i maestri insistono sul fatto che l’atmosfera che circonda il morente è di importanza cruciale. Dobbiamo fare tutto il possibile per ispirare, nell’amico o nella persona cara in punto di morte,

emozioni positive e sentimenti sacri come l’amore, la compassione e la devozione, facendo tutto quello che è in nostro potere per aiutarli a ‘lasciar andare desiderio, brama e attaccamento’.

LASCIAR ANDARE L’ATTACCAMENTO

Il modo migliore per morire è aver dato via tutto, sia internamente sia esternamente, così che nell’attimo cruciale ci sia il minimo di desiderio, brama e attaccamento a cui la mente possa afferrarsi. Prima di morire dovremmo esserci liberati dall’attaccamento alle proprietà, agli amici e alle persone care. Poiché non potremo portare niente con noi, diamo via in anticipo tutto ciò che possediamo donandolo o destinandolo a opere di carità.

In Tibet i maestri, prima di lasciare il corpo, dicono ciò che vogliono lasciare ad altri maestri. Un maestro che ha intenzione di reincarnarsi può lasciare un certo gruppo di oggetti alla propria reincarnazione futura, indicandoli con precisione. Sono convinto della necessità di indicare esattamente il beneficiario dei nostri beni o del nostro denaro. Esprimete le vostre ultime volontà con la massima chiarezza. In caso contrario, mentre sarete nel bardo del divenire vedrete i parenti litigare sull’eredità o sperperare il vostro denaro, e la cosa vi turberà. Stabilite con esattezza le somme da lasciare a opere di carità, ad altri scopi spirituali e a ciascuno dei familiari. Predisporre tutto con precisione, sin nei minimi particolari, vi rassicurerà e vi aiuterà a lasciar andare veramente.

Come ho detto, l’atmosfera attorno al morente dev’essere la più serena possibile. Per questo motivo i maestri tibetani sconsigliano la presenza al capezzale di amici e parenti in lacrime, per non suscitare emozioni perturbatrici nel momento cruciale. I volontari dell’hospice movement mi hanno detto che a volte i morenti non desiderano la presenza dei parenti più stretti, per paura che stimoli sentimenti dolorosi e induca un forte attaccamento. I familiari possono avere difficoltà a capire questa esigenza e sentire che il morente non li ama più, ma è bene considerare che la presenza delle persone care può favorire in lui un forte senso di attaccamento che rende ancora più difficile lasciar andare.

È difficile non piangere quando un nostro caro muore. Il mio consiglio è di esprimere fino in fondo il dolore e l’attaccamento assieme alla persona morente, prima della morte effettiva. Piangete, ditevi tutto il vostro amore, ditevi addio, ma cercate di esprimere tutto prima del momento effettivo della morte. È bene che i presenti non dimostrino troppo dolore perché la coscienza del morente è, in quel momento, straordinariamente vulnerabile. Il Libro tibetano dei morti dice che il morente percepisce le grida e le lacrime come tuoni e grandine. Ma, se non siete riusciti a trattenere le lacrime, non affliggetevi e non sentitevi in colpa.

Una mia prozia, Ani Pelu, era una straordinaria praticante spirituale. Aveva studiato con alcuni dei maestri leggendari di quegli anni, specialmente con Jamyang Khyentse, che la benedisse scrivendo apposta per lei un ‘consiglio del cuore’. Era solida e rotonda, il vero capo di casa, con un viso bello e nobile, e un comportamento da yogini disinibito e a volte capriccioso. Dava soprattutto l’immagine di una donna pratica che amministrava in prima persona gli affari di famiglia. Ma, un mese prima di morire, si trasformò radicalmente e nel modo più commovente. Lei, sempre così occupata, lasciò cadere tutto con un abbandono tranquillo e sereno. Sembrava essere sempre in meditazione, mentre recitava i passi preferiti delle opere di Longchenpa, il santo Dzogchen. Benché la carne le fosse sempre piaciuta, non la toccò più. Era stata la regina del suo mondo, e pochi sospettavano in lei una yogini. Morendo rivelò la sua vera personalità. Non dimenticherò mai la profonda pace che in quei giorni emanava dalla sua persona.

Ani Pelu fu per molti versi il mio angelo custode, e credo che mi amasse tanto perché non aveva figli. Mio padre, che faceva da amministratore a Jamyang Khyentse, era sempre molto occupato. Mia madre era assorbita dalle necessità

di una grande famiglia e non si soffermava a riflettere su cose che invece Ani Pelu non dimenticava mai. Spesso chiedeva infatti al mio maestro: “Che cosa accadrà al ragazzo quando sarà cresciuto? Gli andrà tutto bene? Troverà degli ostacoli?”. A volte il mio maestro rispondeva rivelando aspetti del mio futuro che avrebbe taciuto se lei non l’avesse assillato.

Alla fine della vita, Ani Pelu possedeva ormai una grande serenità e una grande stabilità nella pratica spirituale; eppure, al momento della morte, non volle che fossi presente, perché il suo amore per me non si trasformasse in un attimo di improvviso attaccamento. Ciò dimostra con quale serietà seguisse l’istruzione di Jamyang Khyentse: “Al momento della morte, abbandona tutti i pensieri di attaccamento e avversione”.

ENTRARE NELLA CHIARA CONSAPEVOLEZZA

Anche sua sorella, Ani Rilu, aveva dedicato la vita alla pratica e aveva conosciuto gli stessi grandi maestri. Possedeva uno spesso libro di preghiere che recitava tutto il giorno. A volte si appisolava, e quando si svegliava riprendeva da dove si era interrotta. Giorno e notte faceva un’unica cosa, non dormiva mai una notte intera e spesso si ritrovava a fare la pratica mattutina alla sera e quella serale al mattino. Ani Pelu, la sorella più anziana, era molto più decisa e regolare e, negli ultimi tempi, non riusciva più a sopportare quello scombussolamento della routine quotidiana. Le diceva: “Perché non fai la pratica mattutina al mattino e quella serale alla sera, e non spegni la luce e vai a letto assieme a tutti gli altri?”. Ani Rilu mormorava: “Sì, sì…”, ma continuava a modo suo.

Allora parteggiavo per Ani Pelu, ma oggi capisco la saggezza del comportamento di Ani Rilu: si era immersa in un fiume di pratica spirituale, e tutta la sua vita e il suo essere erano un flusso ininterrotto di preghiera. La sua pratica era tanto forte che credo che continuasse a praticare anche in sogno, cosa che rappresenta un’ottima opportunità di liberazione nei bardo.

La morte di Ani Rilu ebbe la stessa impronta calma e passiva della sua vita. Da un po’ di tempo era malata. Alle nove di una mattina d’inverno, la consorte del mio maestro sentì che la morte stava sopraggiungendo rapida. Da tempo Ani Rilu non poteva più parlare, ma conservava la lucidità. Fu mandato immediatamente a chiamare Dodrupchen Rinpoche, un maestro che abitava nelle vicinanze, perché venisse a offrirle le istruzioni finali e a fare il phowa, la pratica del trasferimento della coscienza al momento della morte.

Nella nostra famiglia c’era il vecchio A-pé Dorje, che morì nel 1989 a ottantacinque anni. Aveva conosciuto cinque generazioni della mia famiglia e la sua benevola saggezza e il buon senso, l’eccezionale forza morale, la bontà di cuore e il dono di riconciliare le liti incarnavano ai miei occhi tutte le buone qualità di un tibetano: una persona robusta, pratica e ordinaria che vive spontaneamente secondo lo spirito degli insegnamenti. A me bambino insegnò tante cose, soprattutto l’importanza di essere gentili con gli altri e di non nutrire mai pensieri negativi, anche se qualcuno ci fa del male. Aveva il dono di insegnare i valori spirituali con la massima semplicità, e mi induceva quasi a essere migliore con il suo fascino. Narratore nato, mi incantava con fiabe e racconti dell’epopea di Gesar, o con episodi della lotta nelle province orientali durante l’invasione cinese dei primi anni ’50.

Ovunque andasse diffondeva una leggerezza, una gioia e un umorismo che facevano sembrare più facile qualunque problema. Fino a ottant’anni fu brioso e attivo, e andò a fare quotidianamente la spesa fin quasi all’ultimo giorno. Di solito usciva verso le nove del mattino. Quando seppe che Ani Rilu era in punto di morte, entrò nella sua stanza. Aveva l’abitudine di parlare a voce alta, quasi urlando, e la chiamò: “Ani Rilu!”. Lei aprì gli occhi. “Mia piccola cara” le disse dolcemente col suo sorriso affascinante, “è il momento di tirar fuori tutta la tua tempra. Non vacillare. Sei stata talmente benedetta dall’incontro con tanti maestri, e tutti ti hanno dato insegnamenti. Inoltre, hai avuto l’inestimabile opportunità di praticare. Che cosa avresti potuto desiderare di meglio? Ora, l’unica cosa che devi fare è mantenere l’essenza degli insegnamenti nel tuo cuore, soprattutto le istruzioni dei tuoi maestri per il momento della morte. Tienile a mente, e non lasciarti distrarre.

“Non preoccuparti per noi, ce la caveremo ottimamente. Ora vado a comprare e forse, al mio ritorno, non ti rivedrò più. Quindi, addio”, concluse con un grande sorriso. Ani Rilu era ancora cosciente. Queste ultime parole la fecero sorridere e fece un piccolo cenno d’assenso col capo.

A-pé Dorje sapeva che è fondamentale, all’avvicinarsi della morte, condensare tutta la nostra pratica spirituale in un’unica ‘pratica essenziale’ che racchiude tutto. Le sue parole ad Ani Rilu riprendono il terzo verso di Padmasambhava che ci consiglia, al momento della morte, di: “entrare senza distrazioni nella chiara consapevolezza dell’insegnamento”.

Per chi ha riconosciuto la natura della mente e vi ha saldamente fondato la propria pratica, queste parole significano restare nello stato di Rigpa. Se non avete questa stabilità richiamate, nel più intimo del cuore, l’essenza degli insegnamenti del vostro maestro, soprattutto le istruzioni che vi ha dato sul momento della morte. Tenetele nella mente e nel cuore pensate al vostro maestro e, morendo, unite la vostra mente alla sua.

Le istruzioni per la morte

Una frequente immagine del bardo del morire è quella di una bellissima attrice seduta davanti allo specchio. Sta per incominciare la sua ultima recita.

L’attrice termina di truccarsi e controlla la propria immagine prima di esibirsi per l’ultima volta e uscire per sempre di scena. Nello stesso modo, al momento della morte il maestro ci reintroduce alla verità essenziale degli insegnamenti (lo specchio della natura della mente) e ci indica il cuore della pratica. In assenza del maestro, la stessa funzione dovrebbe essere svolta da amici spirituali con i quali abbiamo un buon legame karmico.

Si dice che il momento migliore per questa introduzione è dopo la fine del respiro esterno ma prima della fine del ‘respiro interno’, anche se è più sicuro incominciare durante il processo di dissoluzione, quando i sensi non hanno ancora smesso del tutto di funzionare. Se non avete la possibilità di vedere il vostro maestro prima degli ultimi momenti, dovete ricevere e familiarizzarvi con queste istruzioni molto in anticipo.

Se è presente al vostro letto di morte, il maestro della nostra tradizione segue quest’ordine. Inizia con le parole: “Figlio/figlia di famiglia illuminata, ascolta senza distrarti…”, poi conduce attraverso le fasi del processo di dissoluzione, una per una. Quindi punterà con forza ed esplicitamente al cuore dell’introduzione, con poche parole pungenti che creino una forte impressione nella mente, e ci inviterà a rimanere nella natura della mente. Se non ne siamo in grado, il maestro ci ricorderà la pratica del phowa, sempre che la conosciamo già; altrimenti, farà la pratica del phowa al nostro posto. Inoltre, come precauzione aggiuntiva, può spiegare la natura delle esperienze dei bardo del dopo morte, ricordando che sono senza alcuna eccezione proiezioni della nostra mente, e ispirandoci ad avere la fiducia necessaria per riconoscere questa verità attimo dopo attimo. “Figlio o figlia, riconosci tutto ciò che vedi, per quanto terrificante, come tua proiezione; riconoscilo come luminosità, come naturale radiosità della tua mente”. Infine ci istruirà a ricordare i puri reami dei Buddha, a generare devozione e a pregare per rinascervi. Il maestro ripete tre volte le parole dell’introduzione e, rimanendo nello stato di Rigpa, trasmette la sua benedizione al discepolo morente.

LE PRATICHE PER IL MOMENTO DELLA MORTE

Le pratiche fondamentali per il momento della morte sono tre: La migliore è dimorare nella natura della mente, o evocare il cuore essenziale della nostra pratica.

Segue la pratica del phowa, il trasferimento della coscienza”.

Ultima, affidarci al potere della preghiera, della devozione, dell’aspirazione e alle benedizioni degli esseri illuminati.

I migliori praticanti Dzogchen, come ho detto, realizzano la natura della mente in questa vita. Alla morte non devono far altro che continuare a dimorare nello stato di Rigpa mentre attraversano i vari stadi del morire. Non hanno bisogno di trasferire la coscienza in un buddha o in un reame di buddha o illuminato, perché hanno già realizzato in se stessi la mente di saggezza dei Buddha. Per essi la morte è la liberazione finale, il coronamento della loro realizzazione, il completamento della pratica. Il Libro tibetano dei morti ha solo poche parole da ricordare a tali praticanti: “Signore, ora la Luminosità fondamentale sorge di fronte a te; riconoscila e riposa nella pratica”.

Si dice che chi ha portato a compimento la pratica dello Dzogchen muoia “come un bambino appena nato”, privo di timori o di preoccupazione nei confronti della morte. Non deve preoccuparsi del momento o del luogo della morte, e non ha più bisogno che gli venga ricordata la pratica, né di insegnamenti o istruzioni.

“I praticanti intermedi di capacità superiore” muoiono “come mendicanti per la strada”. Nessuno li nota e niente li turba. Grazie alla stabilità raggiunta nella pratica, sono assolutamente indifferenti all’ambiente che li circonda.

Possono morire con la stessa tranquillità in un ospedale affollato o a casa tra il chiasso e i litigi dei familiari.

Non dimenticherò mai un vecchio yogi che conobbi in Tibet. Era una specie di pifferaio magico, seguito sempre da un codazzo di bambini. Dovunque andasse si metteva a cantare, e quando tutti gli si erano radunati attorno li invitava a praticare e a recitare “OM MANI PADME HUM”, il mantra del Buddha della compassione. Portava con sé una grande ruota di preghiere e si cuciva sul vestito tutte le cose che riceveva, così che, quando si girava, sembrava anche lui una ruota di preghiere. Aveva anche un cane che lo seguiva dappertutto. Lo trattava come un essere umano, mangiavano dalla stessa ciotola, dormivano vicini, lo considerava il suo migliore amico e parlava con lui.

Non tutti lo prendevano sul serio, alcuni anzi lo chiamavano lo ‘yogi pazzo’, ma molti lama lo lodavano e ammonivano di non guardarlo dall’alto in basso.

Mio nonno e tutta la mia famiglia lo trattavano sempre con rispetto, lo invitavano nella stanza dell’altare e gli offrivano pane e tè. L’usanza tibetana vuole che non ci si rechi in visita a mani vuote. Un giorno, mentre beveva il tè, lo ‘yogi pazzo’ si interruppe e disse: “Scusatemi, me ne stavo dimenticando… questo è il mio regalo per voi”. Prese lo stesso pane e la stessa sciarpa bianca che mio nonno gli aveva offerto, e glieli offrì come se quello fosse il dono che aveva portato con sé.

Spesso dormiva all’aperto e in una di queste occasioni, nel recinto del monastero Dzogchen, morì: su un mucchio d’immondizia in mezzo alla strada, con il cane accanto. Nessuno si sarebbe aspettato quello che successe, ma ci sono molti testimoni: attorno al suo corpo apparve una sfera brillante dei colori dell’arcobaleno.

Si dice inoltre che i “praticanti intermedi di capacità media” muoiano “come leoni o animali selvaggi sulle montagne innevate, in caverne o valli disabitate”. Essi possono prendersi perfettamente cura di sé e preferiscono recarsi in luoghi deserti dove morire tranquillamente, senza essere disturbati o molestati da amici e parenti.

A tali praticanti i maestri ricordano le pratiche da seguire al momento della morte. Ve ne offro due esempi, tratti dalla tradizione Dzogchen. In primo luogo si consiglia ai praticanti di giacere nella ‘posizione del leone dormiente’. Quindi, di focalizzare la consapevolezza negli occhi e di fissare lo sguardo nel cielo. Mantenendo la mente inalterata, restano in questo stato permettendo al loro Rigpa di fondersi con lo spazio primordiale della verità. Quando sorge la Luminosità fondamentale della morte, vi entrano spontaneamente e ottengono l’illuminazione.

Ciò è possibile solo a chi ha reso stabile la realizzazione della natura della mente mediante la pratica. Per quanti non hanno raggiunto questo livello di perfezione, e hanno bisogno di metodi più formali, esiste un’altra pratica: visualizzare la coscienza nella forma di una sillaba A, bianca, farla salire lungo il canale centrale ed espellerla attraverso la corona del capo nel reame del buddha. È una pratica del phowa, il trasferimento della coscienza, il metodo attraverso il quale il mio maestro guidò nella morte lama Tseten.

Si dice che chi completa una qualunque di queste due pratiche passerà attraverso il processo della morte, ma non dovrà attraversare i bardo successivi.

IL PHOWA: IL TRASFERIMENTO DELLA COSCIENZA

Quando il bardo del morire sorge su di me abbandonerò ogni desiderio, brama e attaccamento; entrerò senza distrazioni nella chiara consapevolezza dell’insegnamento e proietterò la mia coscienza nello spazio del Rigpa privo di nascita. Lasciando questo composto corporeo di carne e sangue saprò che è un’illusione transitoria.

‘Proiettare la coscienza nello spazio del Rigpa privo di nascita’ indica appunto il trasferimento della coscienza, la pratica più usata al momento della morte assieme alle istruzioni specifiche riguardanti il bardo del morire. Il phowa è una pratica yogica e meditativa usata da secoli per aiutare il morente e prepararlo a morire. Il principio è questo: al momento della morte il praticante proietta la sua coscienza e la fonde con la mente di saggezza del Buddha, in quello che Padmasambhava chiama lo ‘spazio del Rigpa privo di nascita’. Questa pratica può essere fatta dal morente, oppure effettuata per lui da un maestro qualificato o un praticante esperto.

Vi sono vari tipi di phowa, adatti alle diverse capacità, all’esperienza e alla preparazione degli individui. Quello più usato è il ‘phowa dei tre riconoscimenti’: riconoscimento del canale centrale come il sentiero, riconoscimento della coscienza come il viaggiatore, riconoscimento del reame di un buddha come meta.

Sono insegnamenti in cui i tibetani hanno profonda fede, anche se non possono dedicare la vita allo studio e alla pratica a causa del lavoro e delle responsabilità familiari. Quando i figli sono grandi e si avvicina la fine della vita (quello che in Occidente si chiama ‘pensionamento’), i tibetani vanno in pellegrinaggio, visitano i maestri e si concentrano sulla pratica spirituale, tra cui è frequente la pratica del phowa, per prepararsi alla morte. Negli insegnamenti il phowa viene spesso indicato come un metodo per ottenere l’illuminazione anche in mancanza di un’esperienza meditativa sviluppata lungo l’arco della vita.

Nella pratica del phowa si evoca soprattutto la presenza del Buddha Amitabha, il Buddha della luce infinita. Amitabha è molto popolare in Cina, Giappone, Tibet e in tutta la regione himalayana. È il Buddha primordiale della famiglia del Loto o Padma, la famiglia di Buddha a cui appartengono gli esseri umani.

Rappresenta la nostra natura pura e simboleggia la trasformazione del desiderio, che è l’emozione predominante del reame umano. Più specificamente, Amitabha è la natura infinita e luminosa della mente. Alla morte, la vera natura della mente si manifesta al momento del sorgere della Luminosità fondamentale, anche se non tutti abbiamo l’esperienza necessaria per riconoscerla. Quanto grande è l’abilità e la compassione dei Buddha che ci hanno trasmesso un metodo per invocare l’incarnazione stessa della luminosità, la radiosa presenza di Amitabha!

Non posso spiegare in questo libro tutti i particolari della pratica tradizionale del phowa, che dev’essere effettuata, sempre e comunque, da un maestro qualificato. Non cercate assolutamente di farla da soli senza una guida appropriata.

Gli insegnamenti spiegano che alla morte la coscienza, che è ‘a cavallo di un vento’, cerca un’apertura attraverso la quale uscire dal corpo. Tutte le nove aperture sono utilizzabili, ma quella prescelta determina il reame di esistenza in cui rinasceremo. Se esce dalla fontanella, sulla corona del capo, rinasciamo in una terra pura da cui progrediremo gradualmente verso l’illuminazione.

Ribadisco che si deve praticare solo sotto la supervisione di un maestro qualificato, in possesso della benedizione che permette una trasmissione corretta. Riuscire nel phowa non richiede speciali capacità intellettuali particolari realizzazioni, ma soprattutto devozione, compassione, stabilità di visualizzazione e il senso profondo della presenza del Buddha Amitabha.

Ricevute le istruzioni, lo studente le mette in pratica fino all’apparire dei segni del completamento, tra cui prurito alla cima della testa, mal di testa, la fuoriuscita di un fluido limpido, un rigonfiamento o un ammorbidimento attorno alla fontanella e persino l’apertura di un piccolo buco, in cui tradizionalmente si inserisce la punta di un filo d’erba per saggiare la riuscita della pratica.

Di recente alcuni tibetani in età avanzata stabilitisi in Svizzera intrapresero la pratica con un famoso maestro di phowa. I figli, cresciuti in Svizzera, erano molto scettici. Ma furono stupefatti dalla trasformazione avvenuta nei genitori che, in un ritiro di soli dieci giorni, presentavano alcuni dei segni appena descritti.

Un medico giapponese, il dottor Hiroshi Motoyama, ha studiato gli effetti psicofisiologici della pratica del phowa. Nei praticanti sono stati osservati precisi cambiamenti fisiologici nel sistema nervoso, nel metabolismo e nei meridiani dell’agopuntura. Il dottor Motoyama ha constatato che i flussi di energia lungo i meridiani del corpo del maestro di phowa erano molto simili a quelli verificati in soggetti dotati di poteri extrasensoriali.

L’elettroencefalogramma rivelò che, durante la pratica del phowa le onde cerebrali sono molto diverse da quelle rilevate durante sedute di altri tipi di meditazione condotte da yogi esperti. È risultato che la pratica del phowa stimola l’ipotalamo e arresta le normali attività mentali inducendo uno stato di meditazione profonda.

Può accadere che, grazie alla benedizione del phowa, persone comuni sperimentino intense visioni. Sono barlumi della pace e della luce del reame di buddha, visioni di Amitabha che ricordano certi aspetti delle esperienze di pre-morte. Come in queste esperienze, la riuscita nella pratica dona fiducia e assenza di paura nei confronti del momento della morte.

Come ho spiegato nel capitolo precedente, il phowa è tanto una pratica per il momento della morte che una pratica risanante per i vivi, e può essere fatta in qualunque momento senza alcun pericolo. Ma il momento dell’effettivo trasferimento della coscienza è di capitale importanza: trasferire la coscienza prima dell’attimo della morte equivarrebbe a un vero e proprio suicidio. Il trasferimento va fatto quando il respiro esterno è cessato ma continua ancora quello interno, anche se forse è più sicuro iniziare la pratica durante il processo di dissoluzione (che descriverò nel prossimo capitolo) e ripeterla molte volte.

La scelta del momento è capitale anche quando la pratica è fatta, al posto della persona morente, da un maestro esperto che ne visualizza la coscienza e la fa uscire dalla fontanella. Ma anche un praticante avanzato, che conosca bene il processo della morte, può controllare i canali, il movimento dei venti e il calore corporeo per individuare il momento giusto per il phowa. Se si ricorre a un maestro è bene contattarlo prima possibile, perché il phowa si può effettuare anche a distanza.

Possono presentarsi diversi ostacoli. Com’è di ostacolo uno stato mentale non salutare, tra cui anche il minimo residuo di desiderio di possessi, bisogna anche evitare di farsi dominare dal più piccolo pensiero negativo o bramosia. In Tibet si ritiene che un grande impedimento al successo della pratica sia la presenza, nella stanza del morente, di materiali di origine animale e di pellicce. Un altro ostacolo è il fumo che, come tutte le altre droghe, blocca il canale centrale.

Si dice che ‘anche un grande peccatore’ si possa liberare al momento della morte se un maestro realizzato trasferisce la sua coscienza in un reame di buddha. Anche se il morente è privo di meriti e di pratica, e se il maestro non riesce a effettuare perfettamente il phowa, il maestro può comunque dirigere il suo futuro, aiutandolo a rinascere in un reame più elevato. Ma, perché il trasferimento abbia pieno successo, occorrono condizioni perfette. Il phowa può aiutare una persona con un forte karma negativo, ma solo se il morente ha una salda e pura connessione con il maestro che effettua la pratica, se ha fede negli insegnamenti e se desidera la purificazione dal profondo del cuore.

In un ambiente ideale in Tibet, i familiari invitano molti lama che ripetono più volte la pratica del phowa fino all’apparire dei segni della riuscita.

Possono effettuarla centinaia di volte, per ore o per tutto il giorno. Per alcuni, una o due sessioni bastano perché si manifestino i segni, mentre per altri potrebbe non essere sufficiente l’intera giornata. Non c’è bisogno di dire che dipende dal karma del morente.

In Tibet vi furono praticanti che, benché non fossero noti come tali, avevano una speciale abilità nell’effettuare il phowa facendo apparire rapidamente i segni. I segni della riuscita della pratica sul corpo del morente sono di vario genere: un ciuffo di capelli che si stacca nell’area della fontanella, un calore o un vapore che si vede o si sente uscire dalla sommità del capo. In casi eccezionali, la potenza dei maestri o dei praticanti che effettuano il phowa è tale che, quando emettono la sillaba che provoca il trasferimento, tutti i presenti svengono oppure un frammento d’osso si stacca dal cranio del morto come se la coscienza ne fosse uscita con forza immensa.

LA GRAZIA DELLA PREGHIERA AL MOMENTO DELLA MORTE

Tutte le religioni affermano che morire pregando è estremamente potente. Per questo mi auguro che, al momento della vostra morte, possiate invocare di tutto cuore tutti i buddha e il vostro maestro. Pentendovi delle azioni negative commesse in questa vita e nelle precedenti, pregate che siano purificate e che possiate morire coscientemente e serenamente, ottenere una buona rinascita e raggiungere infine la liberazione.

Mantenete il desiderio, fermo e focalizzato, di rinascere in un reame puro o come essere umano, ma allo scopo di proteggere, nutrire e aiutare gli altri. Morire alimentando nel cuore, fino all’ultimo respiro, tale amore e tenera compassione è descritto, nella tradizione tibetana, come un’altra forma di phowa, e garantisce di ottenere almeno un altro prezioso corpo umano.

È essenziale produrre nel continuum mentale dell’attimo precedente alla morte l’imprint più positivo possibile. La tecnica più efficace a tale scopo è una pratica semplice del Guru Yoga, nella quale il morente unisce la mente alla mente di saggezza del maestro, del Buddha o di qualunque essere illuminato. Se non riuscite a visualizzare il vostro maestro, cercate almeno di ricordarlo, pensate a lui nel vostro cuore, e morite in stato di devozione. Quando la coscienza si risveglierà dopo la morte, si risveglierà anche l’imprint della presenza del maestro, e sarete liberati. Se morite con il ricordo del maestro, le possibilità della sua grazia saranno illimitate; le manifestazioni di suoni, luci e colori nel bardo della dharmata saranno le benedizioni del maestro e la radiosità della sua natura di saggezza.

Se è presente al letto di morte, il maestro si accerterà di imprimere la propria presenza nel continuum mentale del morente. Per distogliere il morente da elementi distraenti, il maestro può pronunciare parole forti e significative, oppure esclamare ad alta voce: “Ricordati di me!”. Manterrà ferma, con tutti i mezzi a disposizione, l’attenzione del morente e creerà un’impressione indelebile che nel bardo si manifesterà come il ricordo del maestro. Quando entrò in coma la madre di un noto maestro, Dilgo Khyentse Rinpoche, che era presente al suo capezzale, fece qualcosa di decisamente insolito: le diede un colpo sulla gamba. Se morendo si fosse ricordata di Dilgo Khyentse Rinpoche, ne avrebbe ricevuto una grande benedizione.

Inoltre, nella nostra tradizione i praticanti di normali capacità pregano il buddha per cui provano una devozione particolare e con il quale hanno una forte connessione karmica. Se si tratta di Padmasambhava, le preghiere sono rivolte a ottenere la rinascita nel suo reame puro e glorioso, il Palazzo della luce di loto o la Montagna color rame. Se venerano Amitabha, pregano di rinascere nel suo paradiso ‘Beato’, la meravigliosa Terra pura di Dewachen.

L’ATMOSFERA DEL MOMENTO DELLA MORTE

Qual è il modo più sensato di aiutare a morire i praticanti spirituali di normali capacità? Tutti avremo bisogno dell’amore e delle attenzioni che Si accompagnano al sostegno emotivo e pratico, ma per i praticanti spirituali assumono un senso speciale l’atmosfera, l’intensità e la portata dell’aiuto spirituale. L’ideale, e una grande benedizione, è la presenza del maestro. Se non è possibile, un aiuto enorme può essere dato dagli amici spirituali che ricordano al morente l’essenza degli insegnamenti e la pratica che gli è stata più a cuore in vita. Per un praticante che sta morendo sono fondamentali, in punto di morte, l’ispirazione spirituale e l’atmosfera di fede, fiducia e devozione che ne deriva naturalmente. La presenza amorevole e assidua del maestro o degli amici spirituali, l’incoraggiamento degli insegnamenti e la forza della pratica personale collaborano a creare e alimentare questa ispirazione, che nelle ultime settimane e negli ultimi giorni è preziosa come il respiro.

Avevo una studentessa che mi era molto cara e che stava morendo di cancro. Mi chiese quale fosse il modo migliore per praticare, soprattutto quando le fosse venuta a mancare la forza di seguire una pratica formale.

“Ricordati dell’enorme fortuna di aver conosciuto tanti maestri, ricevuto tanti insegnamenti, e di avere avuto il tempo e la possibilità di praticare”, le dissi. “Ti garantisco che i benefici di tutto ciò non ti abbandoneranno, che il buon karma che hai creato sarà sempre con te per aiutarti. Anche ascoltare un’unica volta l’insegnamento o incontrare un maestro come Dilgo Khyentse Rinpoche, con cui hai una forte connessione, è di per sé fonte di liberazione. Non dimenticarlo, e non dimenticare quanti invece non hanno avuto questa meravigliosa opportunità.

“Se non sarai più in grado di seguire una pratica formale rilassati, il più profondamente possibile, nella fiducia della Visione e rimani nella natura della mente. Non importa se il corpo e il cervello funzionano ancora: la natura della mente sarà sempre lì, simile al cielo, radiosa, beata, illimitata e immutabile… Riconoscila senza ombre di dubbio, e lascia che questo riconoscimento ti comunichi la forza per dire con sereno abbandono al tuo dolore, per quanto grande sia: ‘Ora vattene, lasciami stare!’. Di fronte a qualunque turbamento o sconforto, non perdere tempo nel tentativo di trasformarlo: ritorna ogni volta alla Visione.

“Fidati della natura della mente, fidatene profondamente e rilassati completamente. Non devi imparare, acquisire o capire niente di nuovo: lascia soltanto che tutto ciò che ti è stato trasmesso sbocci dentro di te e si apra sempre più profondamente.

“Affidati alla pratica che ti ispira di più. Se hai difficoltà a visualizzare o a seguire una pratica formale, ricorda quello che diceva sempre Dudjom Rinpoche: sentire la presenza è più importante che vedere con chiarezza i dettagli della visualizzazione. Ora è il momento di sentire, con la massima intensità e con tutto il tuo essere, la presenza dei tuoi maestri, di Padmasambhava, dei buddha. Qualunque cosa accada al tuo corpo, ricorda che il cuore non è mai malato mutilato.

“Hai amato Dilgo Khyentse Rinpoche: sentine la presenza, chiedi a lui aiuto e purificazione. Consegnati nelle sue mani: cuore e mente, anima e corpo. La semplicità della fiducia assoluta è tra le forze più potenti del mondo.

“Ti ho mai raccontato la bella storia di Ben di Kongpo? Era un uomo di grande semplicità e di fede immensa, originario della provincia di Kongpo, nel Tibet sud-orientale. Aveva sentito tanto parlare del Jowo Rinpoche, il ‘prezioso Signore’, una splendida statua di Buddha raffigurato come un principe dodicenne e conservata nel tempio principale di Lhasa. Si dice che sia stata scolpita mentre il Buddha era in vita, ed è l’immagine più sacra del Tibet.

Per scoprire se la statua raffigurasse un buddha o solo un essere umano, decise di andare a vederla con i suoi occhi. Infilò gli stivali e camminò per settimane e settimane verso Lhasa, nel Tibet centrale.

“Quando arrivò era affamato. Entrando nel tempio principale, vide la grande statua del Buddha e una fila di lampade a burro e di dolci portati in offerta all’altare. Pensò che i dolci fossero il cibo di Jowo Rinpoche, e si disse: ‘Senza dubbio i dolci vanno intinti nel burro delle lampade, che devono stare accese perché il burro non si rapprenda. Meglio che faccia anch’io come fa Jowo Rinpoche’. Intinse un dolce nel burro e lo mangiò guardando la statua, che sembrava sorridergli benevola.

“‘Che buon lama sei!’, disse. ‘I cani vengono a rubare il cibo che ti portano in offerta, e tu sorridi. Il vento spegne le lampade, e tu continui a sorridere. Bene, farò il giro del tempio pregando, per onorare il luogo. Ti spiace sorvegliare gli stivali fino al mio ritorno?’. Si tolse i vecchi, sporchi stivali, li mise sull’altare davanti alla statua, e uscì.

“Mentre Ben camminava intorno al tempio, il custode tornò e vide con orrore le offerte mangiate e un paio di sudici stivali sull’altare. Scandalizzato, prese gli stivali e stava per scagliarli via quando una voce proveniente dalla statua disse: ‘Fermo! Riponi gli stivali. Li sto sorvegliando per Ben di Kongpo’.

“Quando ritornò a prendere gli stivali, Ben guardò di nuovo il volto della statua, che continuava a sorridergli tranquillamente. ‘Sei davvero quello che io chiamo un buon lama. Perché non vieni a trovarmi l’anno prossimo? Arrostirò un maiale e preparerò un po’ di birra…’. La statua di Jowo Rinpoche promise di andare.

“Tornato a casa, Ben raccontò tutto alla moglie e le ordinò di stare all’erta, perché non sapeva esattamente il giorno dell’arrivo di Jowo Rinpoche. L’anno passò. Un giorno la moglie arrivò trafelata dicendo che, sotto l’acqua del fiume, aveva visto qualcosa che splendeva come il sole. Ben le disse di preparare l’acqua per il tè e corse al fiume. Vide Jowo Rinpoche scintillare nell’acqua, e pensò che fosse scivolato e stesse annegando. Si gettò in acqua, lo afferrò e lo trascinò fuori.

“Stavano camminando verso casa, chiacchierando, quando s’imbatterono in un grande volto di pietra. Jowo Rinpoche disse: ‘Temo di non poter venire a casa tua’, e si fuse con la pietra. Ancora oggi nel Kongpo ci sono due famosi luoghi di pellegrinaggio: la Pietra di Jowo, un masso con la figura del Buddha, e il Fiume Jowo, dentro il quale si vede la forma del Buddha. Si dice che benedizione e il potere guaritore di questi due luoghi siano identici al Jowo Rinpoche di Lhasa. E tutto fu grazie all’immensa fede e alla semplice fiducia di Ben.

“Vorrei che tu nutrissi la sua stessa, pura fiducia. Colma il cuore di devozione per Padmasambhava e Dilgo Khyentse Rinpoche, senti di essere alla sua presenza, che tutto lo spazio che ti circonda è lui. Invocalo, e rivedi mentalmente i momenti passati con lui. Unisci la tua mente alla sua dicendo, dal profondo del cuore e con parole tue: ‘Guarda la mia situazione disperata, che non mi permette più di praticare intensamente. Devo affidarmi completamente a te. Ho totale fiducia in te. Prenditi cura di me, fammi diventare uno con te’. Fai la pratica del Guru Yoga immaginando con particolare vividezza i raggi luminosi che escono dal tuo maestro e ti purificano, bruciando ogni tua impurità, la tua malattia, e risanandoti.

Immagina che il tuo corpo diventi luce, e unisci infine la tua mente alla mente di saggezza del maestro con totale fiducia.

“Non preoccuparti se ti sembra di non riuscire: abbi fiducia e sentilo nel profondo del cuore. Ora tutto dipende dalla tua ispirazione, perché solo essa può lenire la tua ansia e placare il tuo nervosismo. Appendi di fronte a te un’immagine di Padmasambhava o una fotografia di Dilgo Khyentse Rinpoche.

Inizia la pratica concentrandoti dolcemente sull’immagine, poi rilassati semplicemente nella sua radiosità. Immagina che sia una bella giornata di sole, di toglierti gli abiti e crogiolarti al caldo. Esci dai tuoi blocchi e rilassati nel calore della benedizione, quando la senti davvero. E lascia andare tutto, sempre più profondamente.

“Non preoccuparti di nulla. Anche se l’attenzione vaga qua e là, non afferrarti a qualcosa in particolare. Lascia andare, lasciati andare alla consapevolezza della benedizione. Non farti distrarre da futili domande, come: ‘E il Rigpa? Non lo è?’. Sii sempre più naturale. Ricorda: il Rigpa è sempre presente nella natura della tua mente. Ricorda le parole di Dilgo Khyentse: ‘Se la mente è inalterata, siete nello stato di Rigpa’. Hai ricevuto gli insegnamenti e l’introduzione alla natura della mente; ora, senza nutrire dubbi, rilassati nel Rigpa.

“Hai la fortuna di avere accanto buoni amici spirituali. Invitali a creare attorno a te un’atmosfera di pratica, a praticare vicino a te fino al momento della morte e anche dopo. Fatti leggere una poesia che ami, le istruzioni del tuo maestro o un insegnamento da cui prendi ispirazione. Ascoltate una registrazione di Dilgo Khyentse Rinpoche, un canto della pratica o musica che vi ispira. Prego perché ogni tuo momento di lucidità sia fuso con la benedizione della pratica, in un’atmosfera viva, luminosa e ispiratrice. “Lascia girare il nastro di musiche o di insegnamenti… addormentati in esso, risvegliati in esso, sonnecchia in esso, mangia in esso… Lascia che l’atmosfera della pratica pervada l’ultima parte della tua vita, come fece mia zia Ani Rilu. Non ti occupare di nient’altro che della pratica, che così continuerà anche nei tuoi Sogni. E, come Ani Rilu, fai in modo che la pratica sia l’ultima e più forte impressione sulla tua mente, sostituendo nel tuo flusso mentale le abitudini accumulate nel corso di una vita.

“Quando sentirai prossima la fine, con ogni respiro e ogni battito del cuore pensa soltanto a Dilgo Khyentse Rinpoche. Ricorda che l’ultimo pensiero prima di morire sarà quello che ritornerà con più forza quando ti risveglierai nei bardo del dopo morte”.

ABBANDONARE IL CORPO

Quando il bardo del morire sorge su di me abbandonerò ogni desiderio, brama e attaccamento; entrerò senza distrazioni nella chiara consapevolezza dell’insegnamento e proietterò la mia coscienza nello spazio del Rigpa privo di nascita. Lasciando questo composto corporeo di carne e sangue saprò che è un’illusione transitoria.

In questo momento, il corpo è indubbiamente il centro del nostro universo. Lo associamo inconsciamente con il nostro sé e il nostro io, ma proprio questa precipitosa, falsa associazione rinforza continuamente l’illusione della loro inseparabilità e della loro reale esistenza. Poiché l’esistenza del corpo appare così convincente, sembra esistere l’io e sembra esistere il ‘tu’; e il mondo illusorio e dualistico che non smettiamo mai di proiettare sembra solido e reale oltre ogni dubbio. Quando moriamo, questa costruzione fatta di composti cade clamorosamente a pezzi.

Allora, per dirlo nel modo più semplice possibile, la coscienza continua, al suo livello più sottile, senza il corpo e attraversa gli stadi chiamati ‘bardo’. Gli insegnamenti dicono che, proprio perché nei bardo non abbiamo più un corpo, non c’è reale motivo di avere paura delle esperienze che faremo dopo la morte, per quanto terrificanti. Che danno può infatti capitare a chi non ha corpo? Il problema è che, nei bardo, quasi tutti continuano ad afferrarsi a un senso di falso io spettralmente aggrappato a una solidità fisica; e il protrarsi di questa illusione, che è stata la causa della sofferenza durante la vita, li espone dopo la morte ad altra sofferenza, soprattutto nel ‘bardo del divenire’.

Vedete perciò l’importanza di capire ora, in questa vita, mentre abbiamo ancora un corpo, che la sua solidità, così ovvia e convincente, non è che illusione. Il modo più potente per capirlo è di diventare, dopo la seduta di meditazione, ‘figli dell’illusione’: astenerci dal solidificare, come siamo continuamente tentati di fare, le percezioni di noi stessi e del mondo; e, da ‘figli dell’illusione’, giungere a vedere direttamente, come durante la meditazione, che tutti i fenomeni sono illusori e simili a sogni. Ciò produce una comprensione della natura illusoria del corpo tra le più profonde e ispiratrici per aiutarci a lasciar andare.

Ispirati da questa comprensione, e armati di essa, quando al momento della morte saremo messi di fronte al fatto che il nostro corpo è illusione, riconosceremo senza paura la sua natura illusoria, ci libereremo tranquillamente dall’attaccamento per il corpo e ce lo lasceremo volentieri alle spalle, addirittura con gratitudine e con gioia, riconoscendolo per quello che è. Così saremo in grado di morire morendo, realmente e totalmente, e di raggiungere perciò la perfetta liberazione.

Pensate al momento della morte come a una strana zona di confine nella mente, una terra di nessuno in cui, se non comprendiamo la natura illusoria del corpo, la sua perdita sarà un grosso trauma emotivo; ma dove, d’altro canto, ci si presenta la possibilità di una libertà sconfinata, una libertà che scaturisce appunto dall’assenza di questo corpo.

Quando saremo infine liberi dal corpo, che ha strutturato e dominato per tanto tempo la nostra concezione di noi stessi, la visione karmica costruita in questa vita sarà totalmente esaurita, mentre il karma futuro non avrà ancora incominciato a formarsi. Nella morte c’è quindi un ‘intervallo’, uno spazio gravido di immense possibilità. È un momento di una forza enorme e pregnante dove l’unica cosa che conta, o potrebbe contare, è la condizione della mente. Spogliata di un corpo materiale, la mente è nuda, rivelata crudamente per ciò che è sempre stata: l’artefice della nostra realtà.

Se quindi, al momento della morte, abbiamo già una realizzazione stabile della natura della mente, possiamo purificare in un istante tutto il nostro karma.

Se poi manteniamo la stessa stabile realizzazione, potremo mettere fine completamente al nostro karma entrando nella vastità della purezza primordiale della natura della mente e ottenendo la liberazione Padmasambhava lo spiega così: “Come mai, potreste chiedervi, si può trovare stabilità nel bardo semplicemente riconoscendo la natura della mente per un singolo istante. La risposta e che, ora, la nostra mente è avvolta in una rete, la rete del ‘vento del karma’.”

Anche il ‘vento del karma’ è avvolto in una rete, la rete del corpo fisico. Il risultato è che non abbiamo indipendenza né libertà.

Ma quando il corpo si divide in mente e materia, nell’intervallo che precede il nuovo avviluppo nel corpo successivo, la mente, e insieme la sua produzione magica, è priva di un concreto sostegno materiale. Finché ne è priva, siamo indipendenti e possiamo riconoscere la natura della nostra mente.

Il potere di ottenere la stabilità semplicemente riconoscendo la natura della mente è come una lampada che, in un solo istante, può dissipare le tenebre di interi eoni. Se riusciamo a riconoscere nel bardo la natura della mente nello stesso modo in cui la riconosciamo quando vi veniamo introdotti dai maestro, non c’è il minimo dubbio che otterremo l’illuminazione. Ecco perché, da questo preciso momento in avanti, dobbiamo sviluppare familiarità con la natura della mente attraverso la pratica.

Fonte: Il libro tibetano del vivere e del morire. http://www.esonet.org/wp-content/uploads/2013/05/136069562-Il-Libro-Tibetano-del-Vivere-e-del-Morire-Sogyal-Rinpoche.pdf