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I tesori della valle dello Swat
Gennaio 7th, 2020 by admin

Lo stupa dI Amluk Dara, X Sec. d.C. anticamente alto come il Pantheon.

Nel divino Pakistan. Un team di archeologi italiani sta riportando alla luce i tesori della valle dello Swat. Dove duemila anni fa le religioni si arricchivano a vicenda. Magicamente.

Reportage di Raimondo Bultrini.

Pubblico l’articolo uscito il 3 gennaio 2020 su Il Venerdì de la Repubblica. Riguarda gli scavi archeologici nello Swat, l’antica Uddiyana (nella mia foto) dove nacquero molti maestri della tradizione Vajrayana del Tibet, come Padmasambhava e Garab Dorje. Dallo Swat proveniva anche uno dei Re Magi della leggenda cristiana….Un grazie di cuore all’archeologo Luca Maria Olivieri e alla storica dell’Arte Anna Filigenzi, per il loro aiuto, nonché alla professoressa Giacomella Orofino per avermeli presentati.

Mingora (valle dello Swat) – pressappoco quando in Europa venivano fondati i primi conventi e borghi benedettini, i monaci orientali buddhisti del 500-600 d.C. praticavano l’ora et labora meditando e amministrando campi e canali d’irrigazione. Nelle fertili vallate del fiume Swat lungo la Via della Seta, incastonate tra i contrafforti dell’Hindukush nell’attuale Pakistan nord occidentale, ricevevano le decime su raccolti e armenti dai braccianti e pastori del circondario dell’antica città oggi chiamata Barikot e di altri borghi dove si produceva e distillava anche il vino forse sotto la loro diretta supervisione.
Grazie alle loro capacità manageriali e all’ordine mantenuto con la mitezza, i benedettini d’Asia godevano da secoli di uno speciale status presso chiunque si trovasse a governare, dai greci di Alessandro il Grande che più di 2300 anni fa sostituirono i persiani Achemenidi, ai Saka, i Kushana e i Sassanidi, perfino i temuti “Unni bianchi”. Poi l’Islam si insedio’ nell’anno 1000 con una dinastia giunta da Ghazni in Afghanistan, preparando la strada che portò cinque secoli dopo all’arrivo della grande tribù pashtun degli Yusufzai della quale fa parte il premio Nobel per la Pace Malala, nata e cresciuta a Mingora fino all’attentato dei talebani di sette anni fa.

Abbiamo incontrato decine di donne in burqa nei villaggi di fianco ai resti diroccati di monasteri e simboli buddhisti come i cosmici “monoliti” a forma di cono chiamati stupa, ma al tempo dello splendore di Barikot il Profeta non era ancora nato e ogni angolo dello Swat era parte di uno spettacolare percorso sacro e iniziatico. Bisogna usare però l’immaginazione per visualizzare i crocicchi di pellegrini e mercanti di ogni razza e religione seduti su polverosi tappeti a bere tè e cibi cotti come oggi nei calderoni e sulle braci spargendo ovunque il fumo denso e odoroso dei grassi animali.
A quel tempo lo Swat si chiamava Uddyana (tradotta con “Giardino”), e come certi boschi di fauni dei nostri culti silvani godeva in Oriente l’aura di luogo magico delle dakini, entità femminili buone o cattive come fàte dal potere di restare invisibili oppure di manifestarsi nella dimensione fisica umana. C’erano anche i corrispettivi maschili, e i monaci conoscevano bene questa o altre credenze delle popolazioni indigene, oggi chiamate genericamente Dardi, di origine indo-iranica.
Fin dall’arrivo negli anni ’50 il più celebre orientalista italiano, Giuseppe Tucci (1894-1984), fu d’accordo con un suo prestigioso predecessore, Sir Aurel Stein, sull’analisi storica e antropologica che attribuiva a questa terra un ruolo di primo piano nelle origini del buddhismo tantrico e delle influenze greche già rinomate con l’arte del Gandhara, che aveva avuto tra le capitali la vicina e celebre Taxila.
Come in una visione Tucci e Stein videro entrambi – attraverso tracce impossibili da decifrare per gli stessi abitanti del secolo scorso – la vita laboriosa che si svolgeva attorno ai monasteri. Pare che nel periodo di maggior fulgore ne fossero in piedi fino a 1400, mostrando la capacità d’adattamento delle stesse rigide regole monastiche del Vinaya buddhista a costumi animisti locali e stranieri, garantendo stabilità e ordine certosino.
Molti artefatti visibili al Museo dello Swat di Mingora-Saidu Sharif aperto da Tucci nel 1963 e rimodernato dai suoi eredi della Missione Archeologica italiana dopo le bombe dei talebani di appena 12 anni fa, dimostrano che le credenze locali, indiane e buddhiste non solo convivevano fianco a fianco, ma permeavano l’una l’altra, come nel caso della stele di una divinità autoctona delle montagne, ritrovata in uno dei templi tardo-buddhisti di Barikot. Sulla mano destra regge un calice chiaramente per il vino e sulla sinistra la testa di una capra, entrambi simboli di antiche libagioni e sacrifici rituali.
Il processo di integrazione dei culti ancestrali (per molto meno andavano al rogo le “streghe” nell’Europa dell’Inquisizione), non innescò nel clero buddhista né scomuniche né rivoluzioni, ma un’evoluzione verso nuove forme di spiritualità. Fu un processo storicamente così importante da aver creato il modello di buddhismo magico o anarchico chiamato in Tibet Vajrayana o “Veicolo di Diamante”.
Che non fosse un fenomeno alieno e transitorio lo dimostra il fatto che dal 700 d.C. tra i tibetani il Vajrayana rimase religione di stato per 1200 anni come lo è ancora in Bhutan, e fin dall’inizio integrò nei suoi rituali i demoni delle antiche pratiche semisciamaniche del millenario Bon grazie a un Maestro che usava i loro stessi metodi: Padmasambhava, noto in Tibet come Guru Rimpoche. Il suo legame con l’Uddyana comincia dalla nascita su di un fiore di loto del lago Danakosha, forse nel nord dello Swat.
Tucci scoprì che Padmasambhava – o una serie di maestri identificati con questo nome – si reco’ sugli altipiani tibetani dopo aver insegnato esorcismo a Nalanda in India, la più grande università buddhista del mondo. Il Maestro di Urgyen (altra dizione per Uddyana) trattò i demoni tibetani che provocavano siccità, alluvioni e pestilenze come manifestazioni dell’energia cosmica in perenne movimento e non c’è prova che i suoi poteri magici sapessero veramente domarli se non il risultato, i 12 secoli di dominio del Vajrayana attribuiti al suo arrivo nel 700 d.c.. Ancora oggi certi rituali di “trasformazione” da lui insegnati sono ancora praticati da milioni di discepoli asiatici e occidentali del Dalai lama e di altri maestri tantrici.
“…E dal Tibet sono giunto in Uddyana”, scrisse Giuseppe Tucci aprendo le note delle sue prime esplorazioni della Valle dopo i numerosi viaggi precedenti sugli altipiani dell’Himalaya tra il 1920 e il 1930 per conto dell’IsMEO, l’allora Istituto di studi per il Medio ed Estremo Oriente finanziato da Mussolini e diretto da Giovanni Gentile. E’ lui ad accompagnarci all’indietro nel tempo con testi come il libro culto La Via dello Swat e l’aiuto di due dei discepoli della terza generazione, Anna Filigenzi e Luca Maria Olivieri, depositari di molti segreti delle “rocce parlanti” di cui scrivono spesso nelle loro pubblicazioni scientifiche.
Luca, 57 anni, è anche il quinto direttore della Missione Archeologica aperta da Tucci nel 1955 col pieno supporto dell’ex Wali (principe) dello Swat e poi con quello del governo pakistano che ne ha preso il posto nel 1969. Tutto è pronto dopo anni di turbolenze ormai alle spalle per trasformare questa regione in luogo di turismo religioso e storico di prim’ordine tra scenari da Shambala, e presto – come vedremo – inizierà la riesumazione di oltre la metà della parte centrale di Barikot con tutti i suoi tesori sepolti almeno da 2000 anni.
Anna, che dirige la Missione del nuovo ISMEO in Afghanistan, altra terra di diffusione del buddhismo lungo la Via della Seta, è la consulente principale anche nello Swat per le materie buddhiste e insegna storia dell’arte antica all’Università Orientale di Napoli. Ci spiega che per Tucci l’interlocutore della storia non è mai stato il dominatore con le sue grandi strutture religiose, ma la ricchezza delle culture: “Ce l’abbiamo fatta – dice – a proseguire sul suo cammino grazie a decenni di studi, e sappiamo che anche all’interno dell’arte religiosa buddhista è possibile rintracciare filoni legati alla cultura autoctona dei Dardi, gli stessi abitanti dell’Uddyana incontrati da Alessandro e dai primi monaci”.
Religiosamente – spiega Anna – “erano simili ai prebuddhisti Bon tibetani, e rappresentavano una sorta di cintura di culture montane con chiari collegamenti tra loro. Spesso le loro effigi di culti arcaici, se non dipinte in ripari rocciosi, erano in legno, un tratto culturale importante perché erano destinate a consumarsi col tempo a differenza della nuova arte buddhista solida e massiccia.
Ottenuti i permessi di scavo e di trasporto del materiale in Italia, i reperti di Tucci (con Domenico Faccenna e Giorgio Gullini) furono divisi tra Pakistan e Italia, al semplice patto che venissero esposti pubblicamente e non smembrati. Così nacque la collezione del Museo Nazionale d’Arte Orientale (oggi visibile al Museo delle Civiltà all’EUR), anche se con mossa anticipatrice Tucci cancellò nel 1976 l’accordo pre-esistente lasciando tutti i nuovi reperti delle campagne di scavo al Museo dello Swat. Il grande orientalista sosteneva che l’arte dovesse essere goduta nel luogo dov’era fiorita, anche se purtroppo tanta attenzione non ha evitato che molti siti venissero depredati dai “tombaroli” e i pregevoli pezzi venduti anche in aste importanti “legali”.
I nostri archeologi si innamorarono delle teorie antropologiche del loro maestro leggendo la personale e meticolosa ricostruzione del suo viaggio indietro nel tempo e da monte a valle alla ricerca delle origini della cultura tibetana del Vajra-diamante, raffigurato nell’iconografia dell’Uddyana e del Tibet in mille forme diverse da quelle indiane tradizionali. Armato di Vajra era il dio hindu Indra, così come lo era il presunto padre di Padmasambava, re Indrabhuti, senza contare Vajrasattva, che purifica il cattivo karma e Vajrapani, un protettore feroce del Buddha, riprodotti in numerose statue, incisioni e immagini sacre.
Attorno a Barikot dove stiamo per dirigerci, in un megalite non distante dalla città antica, gli archeologi italiani hanno analizzato una grande sagoma minacciosa formata da tanti incavi a forma di coppelle dove si potevano mettere polveri colorate per dare l’impressione che l’immagine fosse viva. Un espediente come tanti – ci spiega Anna Filigenzi – in una terra dove il volto ineffabile del sacro si cercava nella Natura e nella naturalezza delle forme, spesso scolpite cercando di seguire le venature delle rocce per farle apparire come “autogenerate”.
Il Monte Ilam dirimpetto a Barikot è l’inizio o termine del percorso sacro compiuto fino al 1200 da pellegrini giunti da Tibet e Cina, vie di devozione percorse anche quando gli Unni “bianchi” prima e i musulmani poi vennero ingiustamente accusati di aver flagellato gran parte delle vestigia buddhiste, mentre invece furono le conseguenze di catastrofi naturali a fare i danni peggiori.
In ogni caso quassù si rifugiarono 2400 anni fa le popolazioni di Barikot e di Ora (o Udegram, dove risuona l’antico nome dei sovrani di Odi e del termine Uddyana) in cerca di protezione durante l’avanzata dei soldati di Alessandro. Ma da allora sia i successori dell’imperatore macedone detti greco-bactriani e indo-greci (come Menandro, convertito al buddhismo), sia i primi propagatori della nuova fede spediti dall’imperatore indiano Ashoka, vissero in relativa pace favorita dal modello di efficienza e affidabilità dei monaci.
Proprio nei giorni in cui ci recavamo nello Swat seguendo le sue istruzioni, Olivieri, dopo 30 anni di battaglie per sottrarre alle speculazioni l’intera area archeologica, ha ottenuto dalle autorità del Pakistan il provvedimento di acquisizione pubblica dell’area di Barikot, che darà luce verde all’inizio degli scavi nel nucleo antico entro le mura perimetrate dagli invasori greci. L’archeologo ci spiega che questo risultato si deve, oltre che alla lungimiranza del governo di Islamabad deciso ad aprire sempre più lo Swat e il paese islamico al turismo, anche all’insistenza della nostra Missione sulla possibilità di utilizzare forme di reinvestimento del credito sostenute dalla Cooperazione italiana. I prezzi delle terre rischiavano infatti di raggiungere livelli proibitivi, e paradossalmente proprio grazie alla crescente importanza dei ritrovamenti nel sito archeologico italiano.
“Non possiamo dire ancora cosa troveremo là sotto – spiega Olivieri – ma sappiamo che attorno al nucleo può essere conservato un tesoro di arte e manufatti in grado di farci ricostruire periodi cruciali per la diffusione del buddhismo e dei culti di un’umanità che popolava queste regioni di passaggio tra Est e Ovest. Ma forse sapremo qualcosa di più anche su cio’ che accadde verso le fine del VI secolo, quando tutto sembra fermarsi per un lungo periodo come annichilito da un cataclisma”.
Anna Filigenzi racconta che nel 500 un pellegrino cinese di nome Songyun vide a To lo o Ta lo, l’odierna Mingora (dove Tucci e Faccenna aprirono i primi scavi oggi celebri di Butkara I), seimila immagini del Buddha create con l’oro di cui c’era abbondanza nella valle. Descrisse il clima piacevole, i generosi raccolti, il suono delle campane che la sera risuovanano dalle centinaia di monasteri dediti a una fervente e rilassata attività missionaria e commerciale. Ma ecco che un secolo e mezzo dopo un altro buddhista cinese di nome Xuangzang torna negli stessi luoghi e coi suoi diari fa scoprire a Tucci che – nel frattempo – dev’essere successo qualcosa di terribile alle genti dello Swat e ai monaci. Parla di raccolti miseri, monasteri in rovina e una sparuta popolazione di religiosi che,”incapaci di comprendere il vero significato della dottrina” – scrisse – sono “dipendenti dalla magia”.
Xuangzang era un pellegrino di rigida disciplina e i suoi giudizi potrebbero essere stati troppo severi, ma certamente qualcosa di traumatico, oltre alla sequenza di due violenti terremoti registrati tra il 250 e il 300 a Barikot, doveva essere accaduto per spingere i religiosi sopravvissuti a invocare rituali “magici” anziché meditare o recitare mantra tradizionali. Olivieri ci spiega che pressappoco durante quell’intervallo di tempo tra l’arrivo dei due pellegrini avvenne una serie di eruzioni artiche e tropicali, nota agli studiosi come LALIA (una piccola èra glaciale) che ricoprì di nubi e vapori i cieli dell’Eurasia per un secolo e abbassò le temperature al suolo di circa 15 gradi. “Questo potrebbe spiegare – dice Olivieri – il crollo produttivo della Valle e la crescita d’importanza di principati montani tradizionalmente più “freddi”, com’era ad esempio Bamiyan in Afghanistan, dove si trasferirono intere popolazioni e gli artisti che crearono le grandi statue distrutte dai talebani nel 2001”.
In quest’era di buio e paure dell’apocalisse saranno loro, i Dardi dei riti ancestrali, a insegnare ai monaci i segreti di adattamento ai poteri della Natura, e nell’VIII secolo – con il ritorno della Valle all’antico corso delle stagioni – nasce quella vera o leggendaria sintesi tra le due culture che fu Padmasambhava detto anche “Il Maestro del Vajra”, spesso raffigurato con uno scettro-diamante.
Leggendo Tucci non siamo troppo sorpresi di scoprire che già quando fu creata in età achemenide nel VI secolo a.C., la città di Barikot si chiamasse proprio Bazira o Vajrasthana, la Fortezza di Diamante. E’ qui attorno che crebbe Padmasambhava, il cui mito è associato in Tibet al “corpo di arcobaleno”. Dicono le scritture che quando lascio’ questo mondo si manifesto’ in atomi di luce la cui composizione cromatica corrisponde al colore dei 5 elementi. Proprio come il riflesso della luce sul diamante.
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