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Tibet, rivolta contro la Cina
Marzo 15th, 2008 by admin

Repubblica — 15 marzo 2008   pagina 1   sezione: PRIMA PAGINA

DHARAMSALA – L’ ultima notizia arriva dal parente di un funzionario che lavora per il governo in esilio del Dalai Lama. «Lhasa è in mano ai tibetani», dice. Ha quasi le lacrime agli occhi. Non sa se piangere o se ridere dalla gioia, perché il prezzo delle rivolte contro il governo cinese sembra altissimo, eppure la notizia lo rende euforico come tutti i suoi connazionali che non parlano d’ altro nelle strade della cittadina indiana di Dharamsala, dove vive gran parte dei tibetani esuli. Le cifre ufficiali fornite dalle autorità cinesi sono infatti di due morti, ma quelle dei testimoni oculari, i tibetani che possono parlare al telefono e spedire email e foto, dicono che in un solo punto sono stati contati 31 cadaveri. La protesta pacifica dei monaci di qualche giorno fa si è trasformata da ieri nella insurrezione di una popolazione quasi intera. In poche ore è esploso tutto l’ odio verso i cinesi che hanno trasformato il volto del paese, distrutto monasteri, costruito case e negozi per le migliaia di immigrati han che oggi dominano l’ economia e la società, imposto perfino lama e culti religiosi di loro gradimento. Le informazioni più dettagliate di quanto sta avvenendo non solo a Lhasa, ma perfino in Amdo, Gansu, nel lontano Kham, paradossalmente giungono proprio a Dharamsala attraverso la rete dei parenti rimasti in Tibet. Qui vivono centomila anime, soprattutto monaci ma anche laici che hanno costruito le loro case attorno alla residenza del loro leader spirituale, il Dalai Lama. è lui che le autorità cinesi hanno subito accusato ieri di essere il mandante delle rivolte, affermando che «i disordini a Lhasa sono orchestrati dalla cricca del Dalai», accusa che lo stesso Lama ha definito «totalmente infondata». Ma a scatenare l’ improvvisa fiammata di questi giorni sono state parecchie cause: il recente anniversario della fallita insurrezione del 1959, la vicinanza delle Olimpiadi e soprattutto l’ inasprimento della repressione contro religiosi e popolazione civile denunciata proprio pochi giorni fa dal Dalai Lama nel discorso che celebrava la rivolta di cinquant’ anni fa, alla quale seguì la sua fuga nell’ esilio indiano. A Dharamsala un pulmino con altoparlante diffonde in lingua tibetana le ultime drammatiche notizie dalla capitale sotto occupazione cinese. Si parla di un possibile stato d’ emergenza, di incendi di mercati, negozi, auto, di cortei di monaci e laici caricati e colpiti a colpi d’ arma da fuoco dalla polizia, di ferimenti e scioperi della fame, di tentati suicidi all’ interno dei monasteri. La notizia dei morti nelle strade giungerà più tardi, con la conferma di due vittime vicino al monastero di Ramoche, un monaco e una ragazzina di 16 anni. Dappertutto circola la foto di due monaci del più grande complesso religioso attorno a Lhasa, Drepung, dove è cominciata la protesta. Lottano tra la vita e la morte dopo essersi tagliati le vene. Si chiamano Lobsang Kelsang e Lobsang Dhamchoe, entrambi sono poco più che ventenni. è solo una delle tante notizie che escono dai perimetri dei grandi monasteri circondati dalle forze dell’ ordine dopo le loro marce dei primi giorni. Testimonianze di proteste giungono da regioni remote come l’ Amdo, che ha dato i natali al Dalai Lama, dal Gansu, dove i tibetani sono minoranza, da Kandtze, e perfino dalla regione orientale del Kham, che fu la prima a essere invasa dai cinesi e dove vivono i guerrieri tibetani Khampa, da anni in attesa dell’ occasione giusta per ribellarsi. A Dharamsala gli esuli ascoltano le informazioni con un misto di eccitazione e allarme. Sanno che nella loro capitale, dove per ogni tibetano ci sono almeno quattro, cinque cinesi han, i propri familiari potrebbero restare coinvolti direttamente o indirettamente nelle repressioni che – ne sono tutti certi – seguiranno alle proteste. Phuntsok Wangchuk, il segretario generale di Gu Chu Sum, l’ associazione degli ex prigionieri politici arrestati durante le analoghe rivolte di Lhasa avvenute esattamente vent’ anni fa, è in costante contatto con i suoi informatori. Spiega che dopo giorni di proteste dei grandi centri religiosi come Drepung, Sera e Ganden, oggi sigillati dalla polizia, ieri è stato il popolo laico a scendere in piazza, perché ai religiosi è impedito ogni movimento e stanno effettuando un massiccio sciopero della fame. Le prime proteste al mattino sono avvenute al mercato Tromsikhang, costruito di recente nel Jockang, cuore di Lhasa e luogo più sacro della città. Una folla inferocita ha dato alle fiamme auto, bus, negozi e banchi, senza prendersi cura che le fiamme devastassero anche le attività commerciali dei pochi tibetani e musulmani Hui che fanno affari fianco a fianco coi cinesi. Poi sono giunti in città a protestare i monaci del tempio di Ramoche, e a loro si sono uniti altri cittadini, scatenando una delle reazioni più violente della polizia. Le manifestazioni sono andate avanti fino a notte inoltrata. A Nyangra, un villaggio a 50 chilometri dalla capitale, una gran parte della popolazione è scesa in strada per difendere i monaci del vicino monastero di Sera che erano stati picchiati e arrestati, com’ era avvenuto per una settantina di altri loro compagni del monastero di Drepung. Phuntsok riferisce anche delle proteste nel tempio di Labrang nell’ Amdo, mentre altri gruppi del dissenso parlano di cortei nelle strade di Sangchu Conty Kanlho, nella Prefettura autonoma tibetana. è un susseguirsi di informazioni che lasciano Dharamsala col fiato sospeso. Ma anche le autorità di Pechino, che avevano finora minimizzato gli eventi, adesso tremano: l’ agenzia ufficiale Nuova Cina parla di «numerosi poliziotti gravemente feriti» a Lhasa, di incendi divampati ovunque e di una moschea data alle fiamme. L’ organo d’ informazione del governo afferma che le violenze delle ultime ore sono state provocate da «agitatori» e da «vandali», alcuni dei quali «avevano zaini pieni di sassi e di bottiglie incendiarie». Le autorità sanno che l’ immagine di pace e armonia del Tibet costruita dai loro media era solo illusoria. E che questo condizionerà le Olimpiadi fortemente volute per aprire il Paese al mondo. – RAIMONDO BULTRINI

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/03/15/tibet-rivolta-contro-la-cina.html


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