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L’ antico Tibet che scompare
Febbraio 15th, 1998 by admin

Repubblica — 15 febbraio 1998   pagina 14   sezione: POLITICA ESTERA

LHASA – Le ragazze tibetane ci spiazzano fin dai tempi in cui il primo dei nostri, Marco Polo, capitò da queste parti. Se nel mondo le donne in età da marito si comportassero come in Tibet “niuno uomo piglierebbe neuna pulcella per moglie”, scrisse il veneziano nel Milione, scandalizzato per la disinvoltura con cui quelle ragazze si appartavano con i mercanti di passaggio: e quella che riusciva ad avere più regali (e più amanti) si sposava prima, in quanto “dicono ch’ è più graziosa dell’ altre”. Sette secoli dopo Marco Polo si scandalizzerebbe ancora, e forse di più, scoprendo che nel Tibet rurale un terzo delle mogli ha almeno un paio di mariti, di regola fratelli decisi a mantenere unite proprietà che altrimenti sparirebbero. Nelle città è un costume in disuso ma appena usciti da Lhasa, nei villaggi costruiti sulla linea che dirime valli piatte dai costoni di montagne scabre, non faticherete a trovare ragazze come Luna di Giovedì, compagna di due fratelli tra i quali si divide. Luna ha 19 anni ed essendo così giovane per adesso convive. Tra quattro-cinque anni deciderà se formalizzare la sua unione e dare figli ai due mariti. In quel caso i bambini chiameranno “papà” o “gran papà” il marito più anziano, e “zio” o “piccolo papà” l’ altro; nessuno si chiederà chi sia il proprio padre biologico. I due possibili mariti, anch’ essi giovani, forse amano entrambi gli occhi allegri e le gote porpora di Luna. Ma certamente ritengono saggio non dividere il poco che posseggono, un campo, qualche yak, la bettola sulla strada tra Lhasa e Nagqu in cui capitiamo prim’ ancora che il sole scavalchi il profilo delle montagne. Di prima mattina la sala è gelida, così facciamo colazione in una delle due camere da letto. Una tv già accesa, un armadio, un braciere, lo specchio rotto di fronte al quale le due sorelline di Luna si ripassano il rossetto. Luna di Giovedì, è meglio avere un marito o averne due? Due, dice di slancio. E perché? Ci pensa su. Sorride. Si copre il viso con le palme delle mani, ammutolita dall’ imbarazzo. Due terzi della popolazione tibetana vive in valli e altopiani troppo poveri e gelidi per attirare l’ ondata dell’ emigrazione cinese che invece ha sommerso le città. Questo Tibet profondo potrebbe sparire tra un paio di generazioni, come il matrimonio poliandrico, i pastori nomadi, i funerali che ingrassano gli avvoltoi e gli eremiti che spariscono per auto-dissolvimento nei racconti cui ogni tibetano oggi fermamente crede. Ha resistito all’ invasione cinese, alla Rivoluzione culturale, alle Guardie rosse, al socialismo “scientifico”, alla legalità dell’ occupante. Ma non può reggere allo sviluppo economico che lentamente comincia a distribuire dividendi e danni anche quassù. Quando questo Tibet antico scomparirà, l’ umanità sarà più povera, più omologata dalla Cultura unica del’ economia globalizzata. Ma i tibetani di altopiano e di montagna forse tra vent’ anni non vedranno più i loro bambini crepare sulla terra nuda, uccisi da una banale polmonite (tra i nomadi oggi 12 su 100 muoiono prima dei cinque anni). Già ora molti di loro sperano in un futuro da portiere o da impiegato per i loro figli, e si stupirebbero non poco se sapessero che in Occidente li vorremmo per sempre tramortiti dal freddo e dalle malattie, ma fedeli al ruolo del Nobile selvaggio, ricettacolo di misteriosa spiritualità. Ma posto che quel Tibet antico è condannato, le morti tibetane non sono mai definitive, trattandosi di trapassi ad altra forma di vita, trasmigrazioni da cui si può uscire santo o scarafaggio, “perfetto” oppure anatra. Quale sarà il prossimo Tibet? Il Tibet di Lhasa è una riserva indiana, una sopravvivenza senza alcun potere, un recinto ogni anno rimpicciolito dall’ avanzata dei coloni, i cinesi. La Lhasa cinese si espande in verticale, per palazzi e cementificazioni incongrui con l’ urbanistica locale, e ormai circonda, stringe, avviluppa la Lhasa tibetana. Quest’ ultima è ridotta al vecchio centro, vicoli sghembi, caseggiati bassi, bui templi buddisti, deambulazioni circolari di pellegrini, e piazze controllate dalle telecamere per prevenire tumultii di pellerossa. A sera, quando lo stesso interruttore sembra spegnere il cielo azzurro e contemporaneamente accendere le insegne di ristoranti e discoteche, la città rivela la sua bipartizione. Il buio che inghiotte la Lhasa tibetana abbruna anche il Potala, il palazzo delle mille stanze, un grattacielo medievale, grandioso, mistico, residenza dei Dalai Lama e perciò simbolo storico del Tibet. Davanti al Potala oscurato squillano le rosse insegne vittoriose della città di luce, la discoteca JJ, i ristoranti, i karaoke, i night-club con annesso bordello: la Lhasa cinese. Lhasa è stata condannata, paradossalmente, dalla fase “liberale” della politica cinese (‘ 80-‘ 87), quando Pechino avviò in Tibet una politica di sviluppo. Arrivarono dalla Cina decine di migliaia di operai specializzati, poi osti, bottegai, burocrazia, e un vasto parentado di scorta. Deng pronunciò una frase inoppugnabile, purtroppo per il Tibet: due milioni di tibetani non possono da soli sviluppare un territorio tanto vasto (la regione autonoma del Tibet, assai più piccola del Tibet storico, ha la superfice di quattro Italie). In città cominciarono a circolare automobili e capitali. I cinesi si impossessarono rapidamente dell’ economia emergente, avendo tutto ciò che mancava ai tibetani: piccole somme da investire, un feroce intuito commerciale, soprattutto legami con la burocrazia, anch’ essa cinese. Poi il fatale 1989. Strage della Tienanmen, Nobel per la pace al Dalai Lama, drastico irrigidimento della politica cinese in Tibet. Da allora “sviluppo” sembra solo il pretesto per ribaltare i rapporti numerici tra tibetani e cinesi: mezzo secolo fa a Lhasa non c’ erano dieci cinesi, ora sono quasi due terzi dei 360 mila abitanti. Ma non tutto è già deciso. Come ci fa notare Tashi Tsering, ex docente dell’ università di Lhasa, i cinesi del Tibet sono ufficialmente “residenti temporanei”; e lo sono anche di fatto, poiché almeno in parte potrebbero tornare, prima o poi, nelle terre d’ origine. Quanto ai tibetani, le probabilità che diventino i Nuovi Cinesi sognati da Mao sono pressoché nulle. Semmai Nuovi tibetani. Che quasi non sanno più leggere il tibetano scritto. Che si lasciano ipnotizzare dalla tv cinese. Che devono imparare bene il cinese per sperare di trovare un posto nell’ amministrazione. Che ballano con i cinesi nelle stesse discoteche, e talvolta sposano cinesi. Ma che alla fine di tutto conservano una devozione straordinaria per il simbolo della nazione tibetana, il Dalai Lama, da quarant’ anni in esilio in India. Il semplice possesso di una foto del Dalai Lama può portare un tibetano diritto nel centro di tortura di Trapgi, dove poliziotti cinesi e tibetani, ci racconta chi ci è passato, non lo molleranno prima d’ un mese; il miglior ritrattista del Dalai Lama, un diciottenne, lì dentro ha perso la ragione. Se poi il prigioniero crede a ciò che gridano i muri di Trapgi, “Ammetti i tuoi errori e avrai clemenza”, si farà almeno un anno di carcere. Malgrado tutto questo, non è difficile imbattersi in un ritratto del Dalai Lama. Ne vedi nelle case tibetane di Lhasa, case poverissime, gelide. Nelle botteghe, travisati tra altre foto. Nei retrobottega di commerci che pure espongono all’ ingresso l’ immagine di Mao, per depistaggio. Perfino lì dove è asfissiante il controllo della polizia segreta: nei monasteri buddisti. Nei monasteri, quelli vent’ anni fa risparmiati dalle Guardie rosse, vecchi monaci sconfitti ora raccontano le umiliazioni degli ultimi mesi. Ovunque il regime ha ridotto d’ ufficio il numero dei monaci, espellendone centinaia. E agli altri ha imposto tre mesi di “rieducazione patriottica” affidata a squadre di apparatcik comunisti. Risposte a memoria, secondo la vecchia scuola. Alla domanda Chi è il Dalai Lama, il “rieducato” dovrebbe rispondere: E’ la testa del serpente, il gran capo dei traditori della patria… Ma appena un monaco giovane è sicuro di non essere spiato, ti prende da parte e sussurra con occhi spiritati che tra sette, otto, dieci anni il Tibet sarà libero, lo salverà il Dalai Lama, Sua Santità ha alleati potenti nel mondo. Certo questi monaci trasecolerebbero se sapessero che il Dalai Lama non chiede affatto l’ indipendenza. Chiede molto di meno o molto di più: la democrazia in Tibet, cioè la fine del dominio del Partito comunista. Questi monaci spiati e contingentati già sembrano parte della riserva indiana, figuranti del folklore natìo da mostrare ai turisti. Ma la Cina non ha affatto ucciso il buddismo tibetano, come generalmente si crede: l’ ha resuscitato. Nel 1950 era una religione agonizzante guidata da una teocrazia incapace e corrotta. Basta leggere il resoconto scritto da un grande orientalista, Giuseppe Tucci, che fu in Tibet due mesi prima dell’ invasione cinese. Costretta la “curia” buddista all’ esilio indiano, quella fede che si spegneva nascosta nell’ Himalaya ha incontrato l’ Occidente, si è tradotta in inglese, e ora conta milioni di fedeli e centinaia di centri nel mondo. Il Tibet è la sua Gerusalemme, la mitica terra dell’ origine. Gerusalemme buddista o riserva indiana? Laboratorio per una Cina possibile, una Cina democratica, o terra d’ oppressione, d’ un conflitto irrisolvibile? Il prossimo Tibet dipenderà soprattutto da Pechino, dal successore di Deng. Melvyn Goldstein, il massimo tibetologo americano, invita però a trovare in fretta una via d’ uscita. Altrimenti potrebbe scoppiare, prevede, “un’ Intifada tibetana” che potrebbe saldarsi a sollevazioni degli Uigur del Xinjiang e dei mongoli della Mongolia cinese. Una grande rivolta dalle conseguenze imprevedibili. – dal nostro inviato GUIDO RAMPOLDI

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