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Il Tibet raccontato ai ragazzi
Marzo 13th, 2011 by admin

Sua Santità il Dalai Lama dichiara tra l'altro di volersi ritirare dalla vita politica nel suo discorso alla comunità tibetana in esilio il 10 marzo 2011 in occasione dell'anniversario della rivolta nazioinale del Tibet contro l'occupazione cinese.

Sua Santità il Dalai Lama dichiara tra l'altro di volersi ritirare dalla vita politica nel suo discorso alla comunità tibetana in esilio il 10 marzo 2011 in occasione dell'anniversario della rivolta nazioinale del Tibet contro l'occupazione cinese.

Quando si parla del Tibet bisogna pensare a un paese ampio quanto l’Europa occidentale, ma scarsamente abitato per la natura del territorio; il quale consiste nel vasto altipiano che si distende a nord dell’Himalaya, la catena montuosa più elevata del pianeta, avendo a est le fertili pianure della Cina e a nord ancora i deserti della Mongolia.

Si tratta dunque di una terra che si trova nel cuore dell’Asia, difficilmente accessibile e incombente sull’India, sulla Cina e sulle immense aree dell’Asia centrale. Tutti i grandi fiumi che bagnano l’India, la Cina e l’Indocina scendono dall’altopiano tibetano.

La natura di questa terra e la sua collocazione non potevano non condizionarne la storia. Fin dai tempi più antichi, le pianure fluviali dell’India e della Cina furono sedi di splendide civiltà. In particolare l’India generava una straordinaria cultura religiosa, in cui ogni esigenza dell’anima umana pareva trovar posto.

La Cina creava invece la più duratura struttura statale del pianeta, destinata a giungere fino a oggi. Non sarebbe neppure il caso di ricordare che più a occidente la Persia, la Mesopotamia, l’Egitto e poi la Grecia stavano forgiando, attraverso una vicenda di conflitti e dominazioni successive, quella che sarebbe stata la civiltà occidentale. Giova comunque tener presente che Oriente ed Occidente non furono mai del tutto separati: ad esempio i greci, dopo aver acquistato la supremazia sulle altre civiltà del Mediterraneo e del Vicino Oriente, si spinsero sotto Alessandro Magno fino alle porte dell’India; e quando il complesso delle civiltà d’occidente, ad eccezione della Persia, trovò unità entro l’edificio dell’Impero Romano, quest’ultimo si trovò unito all’altro grande impero mondiale, quello cinese, dai traffici che si svolgevano lungo la via della seta. Due diverse vie comunque Oriente e Occidente avevano intrapreso.

L’Oriente si era mantenuto nel solco della cultura tradizionale. Ogni atto e abitudine della vita erano il ripetersi di ciò che da tempo immemorabile ogni precedente generazione aveva compiuto, e la saggezza consisteva nell’esserne consapevoli e nel trasmetterlo a propria volta, in accordo con le leggi immutabili che regolano l’universo. L’Occidente invece, pur non essendo ignaro di quelle leggi né del pericolo che deriva dalla loro violazione, viveva l’inquietudine che sospinge verso l’ignoto.

L’uomo orientale accoglieva la sua collocazione nel mondo e tra i suoi simili come un destino inscritto nella vicenda stessa dell’universo, quello occidentale si sentiva indotto a metterla in discussione, cercando per la condizione umana una dignità del tutto nuova, ma violandola al tempo stesso atrocemente, facendo di alcuni uomini, attraverso la schiavitù, puri strumenti per il sostentamento di altri.

E poiché l’intuizione del senso della vita in cui le culture in ultimo consistono è depositata nel simbolismo religioso, l’esistenza col suo carico di sofferenze è per l’uomo dell’Oriente come un enigma da decifrare, la cui risoluzione è più degna di qualsiasi altra occupazione, mentre per l’uomo d’Occidente come il frutto di una colpa, che lo inchioda alla pena e alla fatica, da cui Dio solo lo può salvare. Così avviene che il simbolo più significativo dell’Oriente sia il Buddha seduto in meditazione sotto l’albero del Risveglio, e quello dell’Occidente il Cristo crocifisso.

Mentre dunque i due grandi fiumi della storia d’Oriente e d’Occidente venivano formandosi, il Tibet poté a lungo apparire estraneo a entrambi: un mondo concentrato nel suo immobile isolamento, cui solo la maestà della natura conferiva significato. Avvenne così che per i popoli d’Oriente cominciò ad apparire come una terra sacra e misteriosa, una sorta di centro del mondo, intorno alle cui vette compiere atti di pellegrinaggio.

Nei fatti i suoi abitatori erano piccole comunità di pastori, che si aggiravano coi loro armenti ad altitudini vertiginose, abbastanza ignari del mondo circostante, in profonda sintonia con quella terra così vicina al cielo. Ciò non impedì che si facessero la fama di guerrieri temibili, tant’è vero che, un po’ per la natura un po’ per loro, nessun esercito invasore osava penetrare in quelle lande. Furono invece i tibetani, quando si riunirono sotto un unico regno, verso la fine del primo millennio dell’era cristiana, a diventare una potenza militare in grado addirittura di sconfiggere i cinesi.

Fu allora che accadde un evento singolare, destinato a condizionare la storia successiva.

Le correnti spirituali originatesi dall’India, che attraverso il Buddhismo si erano già diffuse a gran parte dell’Asia, dalla Cina al Giappone, dall’Indocina all’Indonesia, giunsero anche in Tibet. Attraverso due successive diffusioni, il Paese delle Nevi se ne lasciò così profondamente permeare da diventare il paese dei monaci e degli eremiti, di coloro che cercano un oltrepassamento di questo mondo per raggiungere una realtà più profonda e vera.

Fu così che il Tibet, all’inizio del secondo millennio, raggiunse quella fisionomia per cui ha un posto così importante nella vicenda umana: potendo continuare a godere di un relativo isolamento e della sicurezza da minacce esterne, diede vita a una civiltà pacifica, interamente organizzata intorno ai monasteri: una civiltà al cui centro era la vita spirituale.

Siamo nei secoli in cui altrove, precisamente in Europa, aveva inizio l’epoca moderna, cioè una svolta in direzione opposta. Abbandonata la spiritualità medievale, ci si volgeva avidamente verso il mondo materiale.

In Europa si ponevano le premesse per una rivoluzione antropologica, che avrebbe proiettato l’uomo dall’interno verso l’esterno, fruttando all’Occidente un predominio mondiale senza precedenti; mentre in Tibet aveva luogo una rivoluzione che richiamava l’uomo al centro di se stesso: una rivoluzione interiore.

Ciò non era senza conseguenze storiche: furono i mongoli, i più grandi conquistatori della storia, ma anch’essi ammansiti dall’insegnamento buddhista, a prendere sotto la loro protezione il Tibet, dopo aver sottomesso la Cina. Insignirono anzi il più illustre dei monaci tibetani del titolo di Dalai Lama, che vuol dire ‘maestro di sapienza oceanica’. Quando ai mongoli succedettero, nel dominio sulla Cina e sull’Asia centro-orientale, i mancesi, il Dalai Lama finì per rivestire, rispetto all’imperatore manciù, un ruolo sotto certi aspetti analogo a quello che in Occidente aveva avuto il Papa rispetto al Sacro Romano Impero: il ruolo del supremo capo spirituale di fronte al supremo detentore del potere. Ma tali conseguenze erano secondarie rispetto a un tipo di civiltà, come quella tibetana, il cui centro non era certo nella storia.

Tra l’altro il Tibet, dopo che la conquista musulmana aveva cancellato il Buddhismo da vaste aree dell’Asia centro-meridionale e dall’India stessa, era ormai lo scrigno entro cui si custodivano i tesori di quell’antica tradizione spirituale.

Eppure la storia, quella di cui l’Europa moderna è creatrice, stava dispiegando la sua immane potenza ed era inevitabile che un giorno il Tibet ne sarebbe stato travolto.

Invenzione delle armi da fuoco e della stampa, grandi scoperte geografiche, Rivoluzione Scientifica, Rivoluzione Industriale: un processo inarrestabile che conduce la civiltà volta all’esterno a diventare dominante su ogni altra. L’uomo europeo dilaga, forte di mezzi finora sconosciuti, su tutti i continenti, sommergendo ogni altra cultura e facendola apparire un residuo primitivo di fronte alla sola vera civiltà che avanza.

Anche le grandi culture asiatiche devono chinare il capo. L’India, l’Indocina e il mondo islamico vengono inglobati in grandi imperi coloniali, alla Cina e al Giappone si presenta un grave dilemma: o venire sottomessi a loro volta, oppure intraprendere una via inaudita, cioè uscire dalle forme finora conosciute e diventare come le potenze occidentali, competendo sul loro stesso terreno.

È il Giappone a muoversi per primo. L’antico paese dei samurai diventa, nell’arco di pochi decenni, una potenza industriale e militare di prima grandezza, in grado, agli inizi del Novecento, di sconfiggere la Russia e poi, nella Seconda Guerra Mondiale, di competere insieme alla Germania nazista per il dominio mondiale.

La modernizzazione della Cina è ancora più traumatica. Dopo che, un secolo fa appena, ha termine l’impero manciù e nasce la Cina moderna, essa è travagliata a lungo da un’interminabile guerra civile, fino a che prende il poter quella forza che già ha trionfato in Russia, e che chiama alla rivolta le classi subalterne di tutto il mondo: il comunismo. Si tratta della forma estrema assunta dallo spirito rivoluzionario europeo, che condanna ogni precedente assetto sociale in quanto viziato dall’oppressione di una parte della società sull’altra.

Questa forma di pensiero penetra nella Cina e in altre società asiatiche, venendo incontro a un bisogno di giustizia che mal si concilia con la durezza e la corruzione dei tempi; ma la sua realizzazione comporta il più immane sradicamento di ogni tradizione che la storia abbia conosciuto, accompagnato da deportazioni e stermini di entità maggiore di quelli che già aveva determinato in Russia. Come afferma il capo del comunismo cinese, Mao Tse-tung, si tratta di ridurre la Cina a un foglio del tutto bianco, su cui scrivere una storia del tutto nuova.

Pur con molte contraddizioni, la modernizzazione dell’India segue invece un cammino opposto: grazie all’impronta conferitale, durante la lotta per l’indipendenza dall’Inghilterra, da quella straordinaria figura che è il Mahatma Gandhi, l’India non recide i legami con la tradizione, cercando in essa la forza per sostenere l’impatto di condizioni nuove. Oggi infatti, mentre la Cina è un colosso la cui forza, ma anche fragilità, consiste nell’aver cancellato il passato, l’India presenta lo spettacolo straordinario e unico di un immenso paese in cui tutte le stratificazioni della vicenda umana riescono a convivere.

La modernizzazione della Cina ha conseguenze letali per il Tibet, che infatti viene occupato con la forza.

Si crea una falsa versione storica, che vuole il Tibet parte da sempre della Cina: cosa non vera, perché l’unione era avvenuta nel quadro di un’entità sovranazionale come l’impero manciù, per poi venire meno alla sua caduta. In realtà i cinesi vogliono il controllo dell’altopiano tibetano per ragioni strategiche, in modo da scongiurare ogni possibile attacco da quella direzione; e per dare sfogo alla loro enorme crescita demografica.

C’è poi una ragione più profonda per desiderare, non solo di occupare il Tibet, ma di esercitarvi un’azione particolarmente distruttiva. L’ideologia comunista, nemica di ogni tradizione, vede nella religione un veleno da estirpare dal cuore degli uomini, e il Tibet rappresenta l’essenza di quel veleno.

Accade così che, non solo al Tibet viene da allora negata l’indipendenza, ma è fatto oggetto di un vero e proprio genocidio, accompagnato dalla distruzione sistematica di templi e monasteri. Come se di quella civiltà volta verso l’interno non dovesse rimanere più traccia.

Ma ecco, nuovamente, un evento singolare.

Con molte migliaia di esuli l’attuale Dalai Lama, che come tutti i suoi predecessori è considerato incarnazione di Chenrezig, personificazione dell’infinita compassione di tutti gli esseri illuminati, ha trovato rifugio in India, nella terra d’origine della sua tradizione spirituale. Dall’India si muove con viaggi continui in tutto il mondo, non solo per sostenere di fronte alle nazioni la causa del suo popolo, ma per portare ovunque un messaggio di pace: pace tra i popoli, tra le religioni e le culture, tra gli uomini e la natura. Per questo gli è stato conferito, nel 1989, il Premio Nobel per la Pace.

Egli sa che il Tibet non è più solo un luogo favoloso del passato, in quanto tale destinato forse a non più risorgere dalla distruzione subita. Egli stesso, insieme a tutti gli esuli del suo popolo e a quanti in tutto il mondo ne sostengono la causa, diventa messaggero di una speranza profonda dell’uomo d’oggi: la speranza che le forze scatenate del dominio sul mondo esterno non si volgano distruttivamente contro l’uomo stesso; che l’uomo sappia trovare in sé ciò che consente di guidarle.

Non è più questione d’Oriente e d’Occidente, e l’insegnamento profondo del Buddhismo non è diverso da quello del Cristianesimo e di ogni altra sorgente spirituale a cui gli uomini nei secoli e nei millenni abbiano attinto. Il Tibet sotto questo aspetto è oggi per il mondo intero il simbolo, non solo della violenza che la storia dei potenti ha inflitto agli individui e ai popoli, ma della necessità per l’umanità attuale di trovare un equilibrio tra esterno e interno, tra le forze materiali suscitate e ciò che l’uomo è nel cuore del suo essere.

Fonte: http://www.interdependence.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=260:il-tibet-raccontato-ai-ragazzi&catid=48 di Claudio Torrero, che si ringrazia.


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