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Il Dalai Lama racconta
Marzo 25th, 2009 by admin

Sua Santità il Dalai Lama riceve l'omaggio della sua gente sulla via dell'esilio dal Tibet nell'aprile 1959.
Sua Santità il Dalai Lama riceve l’omaggio della sua gente sulla via dell’esilio dal Tibet nell’aprile 1959.

Era il tardo pomeriggio del 30 marzo 1959. Il Prezioso Protettore stava iniziando quella vita da profugo che dura ancora oggi. Cinquant’anni fa in Tibet la rivolta e l’esilio. Le confessioni di Oceano di saggezza al suo biografo ufficiale. Di Piero Verni, Martedì 10 Marzo 2009.
Proprio in queste ore, esattamente 50 anni or sono, la situazione in Tibet stava per toccare un punto di non ritorno. Lhasa, la capitale, aveva visto più che triplicare in pochi mesi la sua popolazione. Oltre ai pellegrini che tradizionalmente vi si recavano per la celebrazione del Monlam Chenmo (Festa della Grande Preghiera), ogni giorno arrivavano centinaia di profughi che fuggivano dalle province nord orientali dell’Amdo e del Kham dove la repressione di Pechino si accaniva sia sui membri della guerriglia tibetana ormai in rotta sia sulla popolazione civile che tanto l’aveva sostenuta. In breve tempo la miscela rappresentata da profughi, abitanti esasperati da anni di angherie e pellegrini convenuti per il Monlam, si rivelò esplosiva. Ognuno aveva la propria storia tragica da raccontare, i propri rimedi da proporre. Ci si eccitava gli uni con gli altri e il numero dava l’errata sensazione di essere abbastanza forti per poter sconfiggere l’occupante. E la tensione arrivò al culmine quando il 7 marzo il generale Tan Kuan-se, comandante del distaccamento dell’Armata Rossa di stanza a Lhasa, chiese al Dalai Lama di presenziare ad uno spettacolo teatrale che si sarebbe tenuto il 10 presso il campo dell’esercito cinese. Nonostante Tan-Kuan-se avesse chiesto di non divulgare la notizia, nel giro di poche ore questa circolava di bocca in bocca per tutta Lhasa. La gente sembrava impazzita. Gridava che si voleva rapire l’Oceano di Saggezza. Che i cinesi l’avrebbero ucciso o portato a Pechino come avevano fatto in altre occasioni con importanti lama ed abati. Il governo era accusato di non essere più in grado di difendere Kundun e si invocava la vigilanza della popolazione.La tensione crebbe ulteriormente quando si venne a sapere che Radio Pechino aveva annunciato la partecipazione del Dalai Lama ai lavori della imminente riunione dell’Assemblea Nazionale Cinese. Testimoni oculari dissero di aver visto tre aerei pronti a decollare sulla pista del piccolo aeroporto di Damshung che si trovava a un centinaio di chilometri da Lhasa. Il clima era pre-insurezionale. E quando venne comunicato al comandante della guardia del corpo del Dalai Lama che il Prezioso Protettore sarebbe dovuto andare da solo e senza alcuna scorta armata alla rappresentazione, il sospetto che si volesse rapire il Dalai Lama divenne, agli occhi dei tibetani, certezza. Nel corso delle tante interviste che ho avuto con lui, il Dalai Lama mi ha spesso parlato di quei giorni e di quelle ore. “Durante la notte tra il 9 e il 10, la tensione era palpabile. Era una sensazione strana che mai in vita mia avevo provato. Sentivo che l’irreparabile stava per accadere ed era molto difficile per me prendere una decisione”, mi disse durante uno dei nostri primi incontri, “Non andare avrebbe significato una completa rottura con i generali cinesi, andare consegnarmi nelle loro mani. Alla fine decisi comunque di andare”. Ma il popolo aveva stabilito altrimenti. La mattina del 10 marzo oltre quarantamila persone circondarono il palazzo del Norbulinka, dove si trovava il Dalai Lama, urlando slogan contro i cinesi e a favore dell’indipendenza del Tibet. Chiedevano che il Kundun non lasciasse la sua residenza e giuravano di prenderlo essi stessi sotto la loro protezione dal momento che non si fidavano più del governo. Ci furono anche violenze da parte della folla. Un ministro non venne riconosciuto e preso a sassate, a stento lo si potette salvare. Un altro invece, di cui erano note le simpatie per i cinesi, fu linciato sul posto dalla gente inferocita. Man mano che trascorrevano le ore la folla cominciava ad organizzarsi. Venne eletto un comitato di una sessantina di persone che giurò di impedire, anche a costo della vita, che il Perzioso Protettore cadesse nelle mani cinesi. “Erano per me ore convulse” ricorda ancora oggi il Dalai Lama, “Tutto quello che avrei voluto evitare stava accadendo. Ero commosso dalla fedeltà del mio popolo ma allo stesso tempo capivo che il divario delle forze in campo era troppo grande. Tutto quel tumulto non poteva che concludersi con una carneficina”.
Tenzin Gyatso inviò dal generale Tan tre dei suoi ministri affinché gli spiegassero di persona quanto stava accadendo e fece avvertire la folla che non sarebbe andato al quartier generale cinese. I generali cinesi, quando furono informati che il Dalai Lama non sarebbe arrivato, andarono su tutte le furie. Insultarono e minacciarono i tre ministri tibetani i quali, una volta tornati al Norbulinka, riferirono all’Oceano di Saggezza che temevano per la sua stessa vita. Nel frattempo la riunione di massa davanti al portone del Norbulinka si era sciolta. Solo alcune migliaia di persone erano rimaste a presidiare l’edificio mentre il grosso era tornato in città a tenere comizi e ad incitare alla rivolta. Tutta Lhasa ormai era scesa in piazza. Nei discorsi la gente chiedeva che le truppe di Pechino si ritirassero immediatamente. La parola d’ordine era: ‘Libertà e indipendenza’. La gente, temendo da un momento all’altro un attacco dei cinesi, aveva eretto barricate in diversi punti di Lhasa e si preparava a combattere. I soldati dell’esercito tibetano gettarono via le divise fornite dai cinesi e si unirono ai ribelli. La gente faceva incetta di ogni possibile arma: coltelli, bastoni, vanghe, martelli. Solo pochi avevano bastoni o fucili ma non ci si faceva caso, tanto grande era il fervore rivoluzionario e la voglia di cacciare l’occupante. Dieci anni di frustrazioni, violenze, intimidazioni, oppressione facevano drammaticamente sentire il loro effetto. Si preferiva morire in piedi piuttosto che continuare a vivere in ginocchio. La mattina del 12 marzo, per la prima volta nella sua storia, Lhasa assistette a un imprevista manifestazione. Le donne della città, oltre ventimila, diedero vita a un combattivo corteo che attraversò tutta la capitale chiedendo l’indipendenza del Tibet. Fu uno spettacolo imponente. Giovani e anziane, madri di famiglie e monache, si erano raccolte dapprima davanti al Potala, Poi avevano sfilato per le strade sfidando i cinesi a sparare su di loro. Mai si era vista in Tibet una cosa del genere.
Al Norbulinka intanto il Dalai Lama aveva ormai compreso che uno scontro aperto tra i cinesi e i tibetani probabilmente non si sarebbe potuto più evitare. “Cercai di spiegare ai tibetani che attraverso una rivolta aperta non si sarebbe ottenuto nulla. Ma non mi ascoltavano. Piangevano disperati, raccontavano di quello che avevano fatto i cinesi nelle province orientali. Erano convinti che la mia vita fosse in pericolo e non volevano permettere che il Dalai Lama finisse nelle mani dei militari di Pechino”. Alla fine Tenzin Gyatso arrivò alla conclusione che solo la sua partenza avrebbe potuto evitare guai ancora peggiori al suo popolo. Pensava che una volta fuggito, le cose avrebbero potuto placarsi e si sarebbero potute riaprire delle trattative con la Cina comunista senza l’incubo di un bagno di sangue che poteva avvenire da un momento all’altro. “Ricordo, come fosse ieri, la tensione delle ore che precedettero la mia scelta. Infine decisi di partire e quando si è presa una decisione, giusta o sbagliata che sia, la mente diventa più calma”.
Alle quattro del pomeriggio del 17 marzo due colpi isolati di mortaio caddero nei pressi del Norbulinka. Non furono seguiti da altri ma produssero una grande impressione. Non si seppe mai chi li avesse sparati e perché. Comunque, quei due proiettili accelerarono la decisione. “In ultimo prevalse la speranza che, una volta partito, forse i cinesi avrebbero evitato il massacro”. Venne stabilito che la notizia della fuga doveva rimanere segreta per evitare sia che i cinesi lo scoprissero sia che i tibetani, creando confusione, rivelassero involontariamente che il Dalai Lama stava fuggendo. Si formarono tre gruppi che comprendevano i famigliari del Dalai Lama (la madre, la sorella maggiore e il fratello più piccolo), i suoi due tutori, alcuni attendenti e diversi ministri e funzionari governativi. I famigliari andarono via per primi alle nove di sera. Uscirono furtivamente da una porta laterale del muro di cinta attenti a non farsi scoprire. Il Prezioso Protettore partì con il secondo gruppo verso le dieci. Abbandonati gli abiti monastici e vestito con l’uniforme di un soldato semplice, uscì utilizzando lo stesso passaggio dei suoi parenti. Prima aveva scritto una lettera in cui ringraziava il suo popolo e si era recato per un’ultima meditazione nella sua cappella privata. “Sedetti sul solito trono, aprii il testo della Dottrina del Buddha e lessi in silenzio. Giunto al punto dove il Buddha invita il discepolo ad essere coraggioso, chiusi il libro, benedissi brevemente la cappella e spensi le luci. Uscii senza la minima esitazione: sentivo i miei passi secchi sul terreno battuto e il ticchettio del mio orologio nella notte silenziosa. Il ricordo di quei momenti è ancora vivido. Ad esempio di quando attraversai un piccolo corso d’acqua proprio davanti al bianco muro di cinta del Norbulinka. In quel momento mi tolsi gli occhiali per non essere riconosciuto. Ero vestito da soldato e portavo a tracolla un fucile molto pesante. Il letto del fiume era cosparso di piccoli ciottoli e senza occhiali non riuscivo a distinguerli bene. Feci molta fatica ad attraversarlo. All’alba, mentre stavamo valicando un passo, una persona del mio gruppo mi disse che era l’ultimo posto dal quale si poteva osservare la valle di Lhasa. Girai il cavallo e gettai uno sguardo verso la città e il Potala. Fu un momento molto intenso”. La battaglia di Lhasa cominciò nella notte tra il 19 e il 20 marzo. Fu terribile e vi perirono almeno ventimila tibetani. Le speranze del Dalai Lama che la sua partenza avrebbe potuto smorzare la tensione risultarono vane. Anche se i cinesi non ricevevano più sue notizie, volevano comunque chiudere la partita. Il popolo tibetano si era spinto troppo oltre. Non era più possibile tornare indietro. La rabbia dei militari maoisti non poteva più essere placata altro che dal sangue. E del resto anche per i tibetani non era momento di compromessi. La tragica partita era iniziata e in un modo o nell’altro doveva concludersi. Il mattino del 20 marzo il palazzo del Norbulinka era un cumulo di macerie. Durante la notte un bombardamento cinese aveva martoriato templi e palazzi dell’edificio. Alle prime luci dell’alba si potevano vedere alte colonne di fumo alzarsi da quella che era stata una delle più belle costruzioni del Tibet. Nel pomeriggio i cinesi cominciarono l’attacco, preceduto da un fitto fuoco d’artiglieria. Venivano bombardati il Potala, il Jokang, il Centro di Medicina, i monasteri e le abitazioni private. Le barricate che erano state erette venivano spazzate da raffiche di mitraglia e da colpi di mortaio. La gente combatteva per le strade, metro per metro, una lotta impari ed eroica. Gli uomini della resistenza che erano in città si battevano come leoni contro un avversario immensamente superiore per numero ed equipaggiamento. Nel pomeriggio del 22 marzo i cingolati di Pechino erano ormai padroni della situazione. Le truppe di Pechino procedevano senza misericordia a rastrellamenti, arresti, esecuzioni sommarie. L’ordine regnava a Lhasa.
Dopo un viaggio difficile e pericoloso durato quasi due settimane, il Dalai Lama raggiunse finalmente il confine indiano. Al termine di una vasta pianura c’era un arco di bambù eretto in segno di benvenuto vicino al quale si trovavano sei militari di origine gurka dell’esercito di Nuova Delhi. Era arrivato in Assam. “Non mi accorsi quasi di essere entrato in India. Vidi che i gurka mi presentavano le armi in segno di rispetto e che il loro comandante mi rendeva omaggio porgendomi una sciarpa di seta bianca. Ringraziai di cuore ma mi sentivo veramente sfinito. E molto depresso”. Era il tardo pomeriggio del 30 marzo 1959. Il Prezioso Protettore stava iniziando quella vita da profugo che dura ancora oggi.


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