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Piergiorgio Odifreddi: Il regno magico dove la felicità è puro calcolo
Agosto 20th, 2015 by admin

Piergiorgio Odifreddi: Il regno magico dove la felicità è puro calcolo

La leggenda vuole che il Buddha storico sia nato a Lumbini, un paesino nepalese a pochi chilometri dai confini con l’India. E poiché la sua predicazione si è poi diffusa in tutto l’Oriente, in quella Betlemme del buddhismo si trovano templi di ogni provenienza asiatica, suddivisi nelle due grandi denominazioni di quella religione: il Piccolo Veicolo “individualista”, praticato in Thailandia, Birmania, Sri Lanka, Cambogia e Laos, e il Grande Veicolo “collettivista”, praticato invece in Cina, Giappone, Vietnam, Corea e Mongolia.

Esiste però anche una particolare sottodenominazione esoterica del Grande Veicolo, chiamata Lamaismo dal nome dei suoi monaci, che ha attecchito in favolosi regni a cavallo dell’Himalaya: sia al Nord, nel Tibet, sia al Sud, in Ladakh, Mustang, Sikkim e Bhutan. Benché a loro volta divisi da specificità religiose e politiche di vario genere, questi regni sono uniti da genericità geografiche e folcloristiche che li accomunano agli occhi del turista. In tutti la natura si erge maestosa in montagne stratosferiche o si inabissa paurosa in valli profonde, disseminando il terreno di ostacoli che rendono impervio e faticoso il viaggio. Il territorio è punteggiato da multicolori bandiere rituali, che sventolando disperdono simbolicamente nell’aria le preghiere che recano scritte. I luoghi di interesse si concentrano in spettacolari e isolati monasteri, simili a castelli o fortezze medievali che si stagliano sui picchi o si abbarbicano lungo le pareti montuose.

Gli affreschi e i dipinti d’arte sacra spaziano da agresti ruote della Vita a scheletri danzanti, a metà tra il macabro e il carnevalesco. I rulli rossi recanti mantra incisi a lettere dorate vengono fatti incessantemente girare dai fedeli. I sai porpora dei monaci risaltano sulla loro pelle bruna, cotta dal Sole e seccata dall’aria montana. I riti religiosi spaziano da interminabili e noiosissime nenie cantilenate a movimentate e variopinte danze mascherate. Le offerte e gli alimenti preferiti vanno da ottimi ravioli ripieni di carne o verdura a disgustosi thé salati al burro di yak.

Dopo esser stati per qualche secolo delle teocrazie lamaiste, analoghe al nostro Stato Pontificio, i regni del Tetto del Mondo hanno dovuto gradualmente soccombere al potere politico. L’unico regno himalayano a sopravvivere oggi è, paradossalmente, l’ultimo arrivato: quello del Bhutan, la cui dinastia è stata fondata da Ugyen Wangchuck nel 1907. L’attuale “quinto re”, come viene semplicemente chiamato, è salito al trono nel 2006, a ventisei anni, dopo essersi laureato in scienze politiche a Oxford. Ma la vera figura chiave del piccolo paese himalayano è stato suo padre, il “quarto re”. Salito al trono nel 1974, a diciassette anni, ha dapprima impresso al paese un’accelerazione rigidamente controllata, e poi ha rinunciato spontaneamente al potere assoluto, instaurato una monarchia costituzionale e abdicato in favore del figlio, andando in pensione a cinquantun anni in compagnia delle sue quattro mogli (tutte sorelle).

Grazie alla sua originale ricetta di “innovazione nella tradizione”, il Bhutan è oggi un paese unico al mondo: una specie di Shambala, il mitico regno di pace e felicità di cui favoleggia il Kalachakra Tantra, che lo immagina governato da Maitreya, il Buddha del futuro che verrà alla fine dei tempi. Il riferimento alla felicità non è casuale: è stato infatti proprio il “quarto re” a dichiarare, nel 1979, che era più interessato alla Fil (Felicità Interna Lorda) che al Pil (Prodotto Interno Lordo) del suo paese. In tempi e luoghi dove regnano i Dracula del mercato, come nell’Occidente di oggi, una tale affermazione verrà considerata una stupidaggine. Ma alla sua base c’è in realtà un’intera tradizione economica, che va dal “calcolo felicistico” di Jeremy Bentham nel Settecento, agli “indicatori non convenzionali” del premio Nobel per l’economia Amartya Sen nel Novecento. E lo slogan del Fil acquista uno spessore visionario quando si scopre che si fonda su quattro solidi pilastri: sviluppo sostenibile, cultura, conservazione dell’ambiente e buon governo.

Premesse teoriche a parte, che il Bhutan sia una perla rara sul globo terrestre lo si capisce in pratica fin da quando si decide di andarci. A proposito di sviluppo sostenibile, infatti, il turismo è severamente selezionato in modo da produrre massimo valore e minimo impatto. Invece di aprire le porte alle orde selvagge, il visto d’ingresso ai turisti non indiani viene concesso soltanto a coloro che abbiano pagato in anticipo un pacchetto turistico del valore di almeno 250 dollari al giorno a testa, e permette solo tour accompagnati da guide che tengano d’occhio i potenziali disturbatori o vandali.

Fin dall’arrivo si percepisce subito una salutare differenza con il resto del mondo. Il tabacco e la pubblicità, cioè due cause simbolo di morte fisica e intellettuale, sono semplicemente proibiti in tutto il paese, insieme all’uso di sacchetti e bottigliette di plastica. Due terzi del territorio sono stati dichiarati non disboscabili e non edificabili, mentre le costruzioni nel rimanente terzo devono rispettare lo stile del paese e gli standard ecologici. È proibita l’esportazione del legno, per scoraggiare ulteriormente il disboscamento. Il 50% del Pil proviene dalla vendita di energia idroelettrica rinnovabile all’India. E il Fil richiede di investire gli introiti anche e soprattutto nei settori passivi, primi fra tutti l’educazione, la sanità e i servizi pubblici.

La crescita viene dunque vista come un mezzo, non come un fine, e più che alla produttività sul lavoro e al mercato si mira alla qualità della vita e al benessere. In particolare, in un paese che fino agli anni Sessanta non conosceva il denaro e non aveva scuole, ospedali, poste e telefoni, oggi si cerca di limitare l’impatto contagioso e distruttivo della modernità. Ad esempio, limitando oltre al turismo anche i mezzi di comunicazione di massa, dalla televisione a internet. Preservando il caratteristico abbigliamento dei gho maschili e delle kira femminili, la tradizionale architettura con le rifiniture di legno intarsiato e lo sport nazionale del tiro con l’arco. E proteggendo le specie locali, prima fra tutte la gru dal collo nero che sverna nella valle di Phobjikha.

La preservazione della struttura sociale del paese fa ovviamente sì che i lama continuino indisturbati a detenere un potere duale, testimoniato dalle zhong. Queste fortezze medievali sono infatti specie di prefetture- vescovadi, nelle quali risiedono gli uffici congiunti delle gerarchie politica e religiosa. Alcune zhong sono tra i più caratteristici e rappresentativi monumenti del paese: in particolare, le quattro di Trongsa, Punakha, Thimphu e Paro, situate in posizioni spettacolari e legate in vari modi alla storia del paese.

Ma neppure esse possono competere con il sito più famoso e indimenticabile del Bhutan: il monastero di Taktshang, aggrappato come un’aquila con gli artigli alla parete a picco di una montagna. Da lontano sembra un irraggiungibile puntino bianco, ma durante il lento avvicinamento fra i boschi e l’ascesa sui sentieri della montagna acquista gradualmente forma e colore. Poi di colpo appare tra uno sventolio di bandiere multicolori, che salutano il turista- pellegrino ormai affaticato e sudato per lo sforzo, ma ricompensato dalla vista e dalla conquista.

Un’esperienza quasi mistica, che contrasta vivamente con la sensualità degli ubiqui simboli fallici di ogni colore e dimensione che si trovano nel paese, dai piccoli amuleti sulle porte agli enormi disegni sui muri. Stranamente per noi, sono anch’essi di ispirazione religiosa, e ricordano le tradizioni tantriche del Lamaismo che sopravvivono in questo paese semicongelato nel passato, per visitare il quale bisogna viaggiare all’indietro nel tempo.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/08/19/il-regno-magico-dove-la-felicita-e-puro-calcolo33.html


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