Dalai Lama: Discorso di presentazione al Nobel.

Sua Santità il Dalai Lama: “La  compassione è il vero seme della pace interiore”.

Sua Santità il Dalai Lama

Sua Santità il Dalai Lama, Premio Nobel per la Pace 1989: Discorso di presentazione al Nobel di Egil Aarvik, Presidente del Comitato Nobel Norvegese.

l Premio Nobel per la Pace è uno dei sei riconoscimenti che portano il nome di Alfred Nobel e che sono oggi presentati. Cinque di questi premi sono dati a Stoccolma e il Comitato Nobel Norvegese vuole cogliere questa occasione per congratularsi con gli assegnatari che saranno oggi onorati nella capitale svedese. Questa cerimonia annuale è un’occasione di gratificazione speciale per noi Norvegesi così come uno dei destinatari è un Norvegese, il Professor Trygve Haavelmo, il vincitore quest’anno, del Premio Nobel per l’Economia. Vogliamo congratularci con lui per questa onorificenza. …

Quest’anno il Premio Nobel per la Pace è stato assegnato a S.S. Il Dalai Lama, il primo ed il più in vista per la sua consistente resistenza all’uso della violenza nella battaglia del suo popolo nell’ottenere la propria libertà. Già dal 1859 il Dalai Lama, insieme ad alcune centinaia di migliaia di suoi concittadini, ha vissuto in una comunità organizzata in esilio in India. Questa non è certo la prima comunità di esiliati nel mondo, ma è sicuramente la prima e unica che non ha fondato alcun movimento di liberazione attivo. Questa politica di nonviolenza è del tutto la più rimarcabile quando si considera in relazione alle sofferenze inflitte al popolo Tibetano durante l’occupazione del suo paese. La risposta del Dalai Lama è stata quella di proporre una soluzione pacifica che è di gran lunga la più soddisfacente per gli interessi cinesi. Sarebbe difficile menzionare qualche esempio storico di lotta di minoranza, capace di raggiungere i propri diritti, in cui un atteggiamento più conciliante nei confronti dell’avversario sia stato mai adottato come nel caso del Dalai Lama. Sarebbe naturale confrontarlo col Mahatma Gandhi, uno dei più grandi protagonisti di questo secolo della pace, e al Dalai Lama piace considerarsi uno dei successori di Gandhi. La gente si è chiesta qualche volta perché Gandhi stesso non sia mai stato insignito del Premio Nobel per la Pace e il presente Comitato Nobel può con impunità condividere questa sorpresa, considerando l’attribuzione del premio di quest’anno in parte come tributo alla memoria del Mahatma Gandhi. L’assegnatario di quest’anno celebrerà anche un importante giubileo poiché ricorre il cinquantesimo della sua solenne proclamazione come S.S. il Quattordicesimo Dalai Lama del popolo Tibetano, da quando aveva quattro anni. Seguire il processo di selezione risultante nella sua scelta, comporterebbe addentrarsi, in particolare per un Occidentale, in terra sconosciuta, dove credo, pensiero ed azione convivono in una dimensione esistenziale di cui siamo ignoranti o di cui possiamo aver semplicemente dimenticato.

Secondo la tradizione buddista ogni nuovo Dalai Lama è la reincarnazione del suo predecessore, e quando il tredicesimo morì nel 1933 fu subito promossa una ricerca per trovare la sua reincarnazione; furono consultati oracoli e lama eruditi e furono osservati certi segni. Formazioni di strane nuvole disegnate nei cieli; il defunto, messo nella così detta posizione del Buddha con la faccia a sud, fu trovata due giorni dopo rivoltata a est. Questo indicava che la ricerca doveva essere condotta a est e allo scopo una delegazione fu mandata verso i laghi sacri del Tibet dove il futuro sarebbe stato rivelato sulla superficie delle acque. In questo caso fu indicato un monastero ed una casa con tegole dal colore turchese. La delegazione continuò sulla sua strada e trovò prima il monastero e poi la casa, nel villaggio di Takster, nella parte orientale del Tibet. Era la casa di un contadino e della sua famiglia, e chiesero a questi se avessero dei figli. Avevano un figlio di quattro anni chiamato Tenzin Gyatso. Un numero di atti inspiegabili di questo bambino convinse la delegazione a considerarsi alla fine del suo viaggio e che il Quattordicesimo Dalai Lama era stato trovato.

Come molto altro nel regno religioso questo non è qualcosa che abbiamo chiesto di comprendere senza ragione: incontriamo fenomeni che appartengono a realtà diverse dalla nostra e a cui dovremmo rispondere non con un tentativo di spiegazione razionale, ma con reverente meraviglia.

Per tutta la sua storia il Tibet è stato un paese chiuso, con pochi contatti con il mondo esterno. Questo è stato vero anche in epoche più recenti e spiega perché i suoi capi sbaglino ad attribuire la dovuta importanza al riconoscimento giuridico formale del loro paese come uno stato autonomo. Questo può anche essere una delle ragioni per cui il resto del mondo non si sentì obbligato a sostenere il Tibet quando il paese, nel 1950 e negli anni che seguirono, fu gradualmente occupato dai Cinesi, che – in opposizione diretta all’interpretazione propria dei Tibetani –  dichiararono che il Tibet era sempre stato parte della Cina. Nell’occupare il paese i Cinesi sono stati, secondo la conclusione raggiunta dalla Commissione Internazionale dei Giuristi, colpevoli dei “più atroci crimini di cui un individuo o una nazione possano essere accusati, cioè, un premeditato tentativo di annichilire un intero popolo”.

Nel frattempo, Tenzin Gyatso, aveva raggiunto l’età di sedici anni e nella situazione critica che ora si presentava, fu preso dal compito di assumere il ruolo di leader politico del suo popolo. Fino ad allora il paese era stato governato per suo conto da un reggente. Egli avrebbe dovuto assumere l’autorità che il Dalai Lama implicava, lui, un sedicenne senza alcuna esperienza politica e senza alcuna preparazione oltre ai suoi studi sulla tradizione buddista, che aveva assorbito nel corso della sua educazione. Nella sua autobiografia La Mia Vita e il Mio Popolo ci aveva dato un vivido resoconto del suo rigoroso apprendistato dalle mani dei lama tibetani, e dichiarava che quanto da lui imparato non provava una significativa preparazione per la sua carriera designata, non almeno per la parte politica del suo lavoro. Fu su queste basi che sviluppò la politica della nonviolenza con cui decise di confrontarsi con gli invasori cinesi. Come monaco buddista fu suo dovere non far del male ad alcuna creatura vivente, ma mostrare invece compassione per tutte le forme di vita. Può darsi che non destò meraviglia nelle persone così molto vicine a quello che chiamavano il mondo della realtà e che consideravano la sua filosofia come qualcosa di lontano dalle considerazioni correnti della strategia militare. La politica della nonviolenza fu anche, naturalmente, basata su considerazioni pragmatiche: una piccola nazione di circa sei milioni di anime, senza la dotazione di forze armate, aveva di fronte una delle super potenze militari del mondo. In una situazione di questo tipo l’approccio nonviolento fu, secondo l’opinione del Dalai Lama, l’unica praticabile.

Seguendo tale approccio fece diversi tentativi durante gli anni ’50 per negoziare con i Cinesi. Il suo obiettivo fu di arrivare ad una soluzione del conflitto che fosse accettabile per ambo le parti in disputa, basata sul mutuo rispetto e la tolleranza. Per raggiungere questo obiettivo usò tutta la sua autorità di Dalai Lama prevenendo ogni uso della violenza da parte dei Tibetani; e la sua autorità si dimostrò decisiva poiché un Dalai Lama rappresenta, secondo la fede buddista, più di un leader in senso tradizionale: egli simboleggiava l’intera nazione.

Dal suo esilio in India egli ora conduceva la lotta per il suo popolo con infaticabile pazienza. Aveva tutti i motivi per chiamare la sua autobiografia La Mia Vita e il Mio Popolo, poiché la vita dei Tibetani era in verità la sua vita. Ma il supporto politico del resto del mondo rimase cospicuo per la sua assenza, a parte qualche sdentata risoluzione delle Nazioni Unite che furono adottate nel 1961 e nel 1965. Per tutti gli anni ’60 e ’70 il Dalai Lama fu considerata una patetica figura del passato: la sua filosofia della pace, bellissima e di buon senso, sfortunatamente non aveva collocazione in questo mondo.

Ma nel corso degli anni ’80 le cose presero una svolta drammatica. Ci sono diverse ragioni per questo. Quello che è successo – e sta ancora succedendo – in Tibet è divenuto di maggior dominio pubblico, e la comunità delle nazioni ha cominciato a sentire un senso di responsabilità condiviso per il futuro del popolo Tibetano. Che le prove e le tribolazioni abbiano fallito nel rompere lo spirito dei Tibetani è un’altra ragione; al contrario, il loro sentimento di orgoglio nazionale, la loro identità e la loro determinazione a sopravvivere si sono sviluppati, e questo è stato espresso in dimostrazioni di massa. Qui, come in altre parti del mondo, sta diventando sempre più ovvio che i problemi non possono essere risolti con l’uso della brutale forza militare per spegnere dimostrazioni pacifiche. In Tibet, come in ogni altra parte, i conflitti devono essere risolti politicamente attraverso la mediazione di autentici negoziati.

La politica di negoziazione del Dalai Lama ha ricevuto il sostegno di un certo numero di assemblee nazionali e strutture internazionali come il Senato degli Stati Uniti, il Bundestag della Germania Occidentale, Il Parlamento Europeo, il Congresso degli Stati Uniti, 86 membri del Parlamento Australiano e l’Assemblea Nazionale Svizzera. Ne dovremmo dimenticare che il Dalai Lama è stato oggetto di numerosi premi e riconoscimenti internazionali per il suo lavoro e a sostegno della sua causa. Ora sembra infatti che le cose comincino a muoversi nella giusta direzione e che aver raggiunto questo risultato può essere interamente attribuito alla solida politica nonviolenta del Dalai Lama.

Per ragioni perfettamente comprensibili la politica della nonviolenza è spesso relegata come qualcosa di negativo, come un fallimento nel formulare una strategia ben congegnata, come una mancanza di iniziativa e tendenza a evadere il problema adottando un atteggiamento passivo. Ma non è così: la politica della nonviolenza è un altissimo livello di strategia di combattimento elaborato. Richiede un’azione risoluta e finalizzata ma escludendo l’uso della forza. Coloro che adottano questa strategia non si sottraggono certamente al problema: essi manifestano un coraggio morale che, quando tutto è detto e fatto, va oltre l’uomo che ricorre alle armi. È questo tipo di coraggio che insieme ad una incredibile dose di autodisciplina, ha caratterizzato la capacità del Dalai Lama. La sua politica della nonviolenza inoltre, è stata accuratamente considerata e determinata. Come egli stesso ha detto nell’aprile dello scorso anno, dopo una pacifica dimostrazione a Lhasa su cui fece fuoco l’esercito: “Come ho spiegato in molte occasioni, la nonviolenza per noi è la sola via. Molto palesemente, nel nostro caso, la violenza sarebbe equivalente al suicidio. Per questa ragione, che ci piaccia o no, la nonviolenza è il solo approccio e la sola cosa giusta. Abbiamo solo bisogno di pazienza e determinazione”.

Nel 1987 il Dalai Lama ha sottoposto un piano per il Tibet, in base al quale al Tibet sarebbe dato lo status di “zona di pace” alla stessa stregua di quanto era stato proposto per il Nepal, una proposta che i Cinesi di fatto hanno sostenuto. Il piano prevedeva anche uno stop all’immigrazione cinese nel Tibet. Questo è avvenuto in una tale proporzione che c’è il rischio per cui i Tibetani divengano una minoranza nel loro stesso paese. Di non ultimo interesse è il fatto che il piano contiene anche misure per la conservazione del Tibet come unico ambiente naturale. Le operazioni di grosse deforestazioni dei pendii dell’Himalaya sono sfociati in catastrofiche erosioni del suolo e sono una delle cause di inondazione subite dall’India e dal Bangladesh. Il piano di pace fallì nell’avviare negoziazioni con i Cinesi, anche se le discrepanze tra le due parti non fossero particolarmente profonde.

La buona volontà del Dalai Lama al compromesso fu espressa ancora più chiaramente nel suo discorso al Parlamento Europeo il 15 giugno dello scorso anno, dove affermò la sua prontezza ad abbandonare la richiesta di una piena indipendenza tibetana. Egli riconobbe che la Cina, come super potenza asiatica, aveva interessi strategici in Tibet ed era preparato ad accettare una presenza militare cinese affinché, alla fine, potesse essere adottato un piano per la pace regionale. Egli espresse anche la sua buona volontà a lasciare la politica estera e la difesa nelle mani dei Cinesi. Di ritorno ai Tibetani sarebbe stato garantito il diritto di piena autonomia interna. In questo sforzo nel promuovere la pace, il Dalai Lama ha mostrato che quello che perseguiva, non era il potere a discapito di altri. Per il suo popolo egli rivendicava niente di più – senza dubbi per gli stessi Cinesi – che gli elementari diritti umani. In un mondo in cui sospetto e aggressione hanno troppo a lungo caratterizzato le relazioni tra i popoli e le nazioni, e dove solo la politica realistica è dipesa dall’uso del potere, una nuova confessione di fede sta emergendo e cioè che l’ultima reale soluzione ai conflitti è il consistente uso della forza. Le armi moderne hanno infatti escluso tali soluzioni.

Il mondo si è ridotto. Sempre più popoli e nazioni sono cresciuti dipendenti l’uno dall’altro. Nessuno può agire più a lungo solo per il proprio interesse. È quindi imperativo dover accettare la mutua responsabilità per tutti i problemi politici, economici ed ecologici.

In vista di questo, sempre meno persone si avventurerebbero ad abbandonare la filosofia del Dalai Lama in quanto utopica: al contrario, si sarebbe sempre più giustificati nell’asserire che il vangelo della nonviolenza è l’unico veramente realistico con più promesse per il futuro. E questo si applica non solo al Tibet ma a tutti gli altri conflitti. Le future speranze di milioni di oppressi sono oggi legate ai battaglioni disarmati che vinceranno la pace: la giustizia delle loro richieste, inoltre, è ora così chiara e la normale forza delle loro battaglie così indomabile che solo temporaneamente possono essere fermati dalla forza delle armi.

Nell’assegnare il Premio per la Pace a S.S. il Dalai Lama affermiamo il nostro incondizionato sostegno al suo lavoro per la pace e per le masse disarmate che in molti paesi, marciano per la libertà, la pace e la dignità umana.

Da Nobel Lectures, Peace 1981-1990, Editor-in-Charge Tore Frängsmyr, Editor Irwin Abrams, World Scientific Publishing Co., Singapore, 1997

Tratto da http://www.sitodellapace.it/dalai_lama_discorso%20presentazione%20nobel.htm che ringraziamo.

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