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Tibet, Regione “autonoma” di Pechino
Settembre 6th, 2015 by admin

Tibet, Regione “autonoma” di Pechino di Raimondo Bultrini

Le rivolte anticinesi del '59 davanti al Potala.

L’apparato di Stato cinese ha celebrato in grande stile l’8 settembre un anniversario che ritiene di grande importanza, i 50 anni dall’inizio formale del governo della Repubblica popolare e la nascita della cosiddetta Regione autonoma del Tibet. Davanti al leggendario Potala di Lhasa trasformato in attrazione turistica e per un giorno al centro della festa politica di bandiere, schieramenti militari e genti sorridenti in costume tibetano, sono stati pronunciati discorsi di orgoglio per l’”Epoca d’oro” del Tibet e i successi ottenuti sugli altipiani un tempo “arretrati” grazie al ruolo del Partito e della Cina tutta.

Alla solita sfilza di cifre delle realizzazioni ottenute in questo mezzo secolo di “progresso socialista”, come il numero di industrie prima e dopo la “liberazione pacifica”, o il reddito procapite, l’educazione e via elencando, Yu Zhengsheng, consigliere politico per i gruppi religiosi e le minoranze etniche del governo, ha aggiunto un capitolo dedicato ai nemici della Cina e del Tibet. Tra questi svetta ovviamente la “banda del Dalai Lama”, assieme a “forze ostili straniere” che starebbero “costantemente conducendo attività separatiste tra tutti i gruppi etnici”.

La garanzia ribadita per l’occasione da Mr Yu ai tibetani fedeli alla nuova “madrepatria”, ai religiosi e laici che la appoggiano, è di applicare la legge e di “rafforzare la battaglia contro il separatismo” e “salvaguardare risolutamente l’unità nazionale e la stabilità del Tibet”.

La storia insegna che le prime truppe cinesi marciarono sul Tibet orientale nel 1950. Nel 1951, mentre il Dalai lama si trovava incerto sul da farsi lungo il confine indiano a due passi dall’esilio, anche alcuni suoi consiglieri lo invitarono a tornare a Lhasa e trattare direttamente con i rappresentanti di Pechino, sebbene fosse stato appena incoronato e senza alcuna esperienza politica. In quegli stessi giorni un suo fratello maggiore era ostaggio nella capitale cinese con la delegazione che trattava i punti della resa, e aveva un fucile, non solo letteralmente, puntato alla tempia. Fu impossibile modificare quei 17 capitoli capestro del trattato in testa ai quali c’era la dichiarazione di sovranità cinese sul Tibet.

Solo filo comunisti e opportunisti, che non erano pochi e coi loro discendenti formano ancora buona parte della gerarchia sociale favorita negli affari e negli incarichi di regime, si misero subito al fianco delle nuove autorità. Anno dopo anno, prima e dopo la fuga del Dalai lama nel 1959, si unirono al nuovo potere comunista anche i più malleabili tra i lama dei monasteri importanti attorno a Lhasa. Lo volessero o meno, molti altri sacerdoti, monaci e laici in tutto l’altipiano furono costretti ad abiurare il loro antico leader ed eliminare le foto del Dalai dai loro altari. Ogni segno di ribellione ha avuto come conseguenza non solo arresti, torture e uccisioni, ma la distruzione stessa dei monasteri ribelli. Un anticipo delle devastazioni che durante la rivoluzione culturale presero di mira tutto il “vecchio”, dai religiosi ai luoghi di culto.

Parata cinese al Potala per i 50 anni della Regione autonoma.

Parata cinese al Potala per i 50 anni della Regione autonoma.

Solo sei anni dopo la fuga del Dalai nel ’59 la Cina mise in atto la promessa contenuta nei 17 punti di “donare” al Tibet una amministrazione autonoma guidata dal Dalai Lama. Ma il leader tibetano non avrebbe mai abbandonato la sua terra e la sua gente se il governo cinese avesse concepito quell’autonomia nel vero senso del termine. Invece i segnali dei capi militari cinesi furono inequivocabili, e durante le rivolte di Lhasa del ’59, timorosi per la sua stessa vita, i fedelissimi spinsero il giovane Dalai a scegliere la dura traversata dell’Himalaya verso l’esilio indiano, così da evitare una guerra civile persa in partenza. Fu senza di lui, ancora oggi cuore e anima di questo popolo nomade trasformato in strumento del potere coloniale, che venne istituita formalmente la Regione autonoma del Tibet nel 1965.

Nel giorno della relativa ricorrenza che le autorità hanno celebrato in gran tripudio, il capo del governo tibetano in esilio Lobsang Sangay ha detto che non c’è proprio “nulla da festeggiare in Tibet”, un Paese che è “ancora sotto occupazione” e dove i tibetani “sono ancora brutalmente repressi”.

A dimostrazione che la Cina non intende far dimenticare al resto del mondo la sua supremazia nella Terra delle Nevi, gli organizzatori  di due concerti della prossima settimana di Bon Jovi a Pechino e Shangai sono stati costretti a rimborsare i biglietti e cancellare l’evento per un piccolo dettaglio che lega l’artista al dissidente numero uno del regime. Le autorità hanno scoperto infatti che sul palco di uno spettacolo del 2010 a Taiwan, la banda di Jovi aveva sullo sfondo una foto del Dalai Lama..

Se per i musicisti stranieri il divieto di suonare a causa di quella immagine non ha avuto altre conseguenze, ogni tibetano scoperto con il ritratto del leader spirituale esule “rischia arresto e torture  – ha spiegato Sangay – senza contare che la sua famiglia sarà privata di lavoro e sussidi del governo”. “Lo stesso – ha concluso – vale per le famiglie degli auto-immolati”, che per inciso sono stati 142 dal 2009, quando è iniziata la drammatica catena di proteste con il fuoco. L’ultima in ordine di tempo a darsi alle fiamme è stata Tashi Kyi, 55 anni dall’Amdo, madre di cinque figli.

http://bultrini.blogautore.repubblica.it/2015/09/09/tibet-regione-autronoma-di-pechino/


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