3 S.S. Dalai Lama: Insegnamenti Londra 1994

Insegnamenti di Sua Santità il Dalai Lama a Londra settembre 1994 al Seminario “John Main”, sul tema: “Il buon cuore

Sua Santità il Dalai Lama all'Istituto Lama Tzongkapa di Pomaia PI, al centro con l'abito bianco Padre Laurence Freeman ed a destra il Ven. ghesce Tenzin Tenphel

Sua Santità il Dalai Lama all'Istituto Lama Tzongkapa di Pomaia PI, al centro con l'abito bianco Padre Laurence Freeman ed a destra il Ven. ghesce Tenzin Tenphel

Lettura buddista del Vangelo

III

Il Discorso della montagna: le Beatitudini

(Mt 5, 1-10)

Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e,

messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli.

Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:

Beati i poveri in spirito,

perché di essi è il regno dei cieli.

Beati gli afflitti,

perché saranno consolati. <!– @page { margin: 2cm } P { margin-bottom: 0.21cm } –>

Beati i miti,

perché erediteranno la terra.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,

perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi,

perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore,

perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace,

perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati per causa della giustizia,

perché di essi è il regno dei cieli …”.

Leggendo questi versetti delle Beatitudini, mi viene in mente subito una cosa: il brano sembra indicare semplicemente che chi è disposto a imboccare una via e ad accettare le difficoltà e le pene da essa derivanti sarà ricompensato per il suo impegno. Quando parliamo di un genere di tolleranza che implica accettare in concreto difficoltà, fatica e sofferenza, non dovremmo farci l’idea sbagliata che in base a questi insegnamenti spirituali soffrire sia bello, che dobbiamo assolutamente ricercare la sofferenza. Va da sè che non sono d’accordo con quest’opinione. Personalmente ritengo che lo scopo della nostra esistenza sia di cercare la felicità, di cercare la soddisfazione e l’appagamento. Tuttavia, poiché nella realtà le difficoltà e la sofferenza esistono, è essenziale sviluppare nei loro confronti un atteggiamento che ci permetta di affrontare in modo realistico le prove della vita, per riuscire a trarne qualche beneficio. Se esaminiamo la natura della sofferenza, scopriremo che ve ne sono certi tipi per cui esiste una soluzione, e che quindi è possibile superare. Quando ce ne rendiamo conto, dovremmo cercare tale soluzione, e quindi i modi per vincere le sofferenza. Ma ve ne sono anche altri tipi che sono inevitabili e insormontabili. In questi casi, è importante sviluppare uno stato mentale che consenta di affrontarli in modo realistico. Comportandoci così, riusciremo ad accettare le difficoltà quando esse insorgono. Questo atteggiamento ci proteggerà, non necessariamente dalla realtà fisica della sofferenza, ma dall’inutile e ulteriore fardello psicologico costituito dal non volerla accettare, se inevitabile.

Uno dei sistemi più efficaci per affrontare la sofferenza si trova in (Guida allo stile di vita del Bodhisattva). Se il problema è tale da avere una via d’uscita, una soluzione, non c’è motivo di angustiarsi; se invece non esiste via d’uscita o soluzione, allo stesso modo non c’è ragione di provare un’inutile angoscia.

Inoltre, i versetti delle Beatitudini sembrano mettere in rilievo il principio di causalità. Certo nell’ambito della Bibbia non si impiegherebbe il termine tecnico sanscrito (karma), e tuttavia questo brano sembra suggerire il principio generale della causalità da cui deriva la dottrina del Karma. I versetti sottintendono che se si agisce in un certo modo, non si otterrà quell’effetto.

Perciò questo insegnamento è chiaramente improntato al principio di causalità.

Anche se magari le principali tradizioni spirituali del mondo non parlano tutte di causalità nel senso di numerosi cicli di esistenza, esse sembrano però suggerire costantemente un messaggio fondamentale comune, basato sul principio di causalità. E cioè: se ti comporti bene, otterrai risultati positivi, se ti comporti male otterrai risultati negativi. Questo messaggio etico fondamentale sembra essere connaturato a tutte le principali tradizioni spirituali.

Per inciso, è anche molto interessante osservare certe straordinarie somiglianze stilistiche fra le Scritture cristiane e quelle buddhiste. Nel preambolo alle Beatitudini, il Vangelo afferma che quando Gesù vide le folle salì sulla montagna, si mise a sedere e così via. Molti sutra, le Sacre scritture dei buddhisti, incominciano in modo assai simile. I sutra buddhisti affermano che in un dato momento Buddha stata visitando un certo posto, era circondato da moltissimi discepoli, sedette e iniziò così a predicare. Insomma, esiste un’interessante analogia nel modo in cui si sviluppano questi brani.

Uno dei concetti più difficili presi in considerazione qui, soprattutto per i buddhisti, è il concetto di Dio, l’essere divino. Naturalmente si può interpretare questo concetto nel senso di qualcosa di inesprimibile, qualcosa che va oltre il linguaggio e la concettualità. Ma si deve ammettere che, a livello teorico, le concezioni di Dio e di Creazione costituiscono un punto di divisione fra buddhismo e cristiani. Tuttavia, ritengo che alcuni aspetti del ragionamento grazie al quale si arriva a queste concezioni siano comuni a buddhisti e cristiani.

Per esempio, se si esamina la natura di tutti gli eventi naturali, il buon senso ci dice che ogni evento deve necessariamente avere una causa. Devono sussistere certe condizioni e certe cause che danno luogo a un evento. Ciò vale non solo per la propria vita e l’esistenza individuale, ma anche per tutto l’universo cosmico. Per il nostro buon senso è inaccettabile l’idea che una cosa non abbia cause, sia per quanto riguarda l’universo sia per la nostra esistenza individuale. Da questo consegue la domanda: se questa è la realtà, se l’esistenza individuale deve avere una causa, se persino l’universo cosmico in base allo stesso criterio deve avere una causa, da dove proviene tale causa? Ne consegue che (quella) causa deve avere anch’essa una causa; e in tal modo si dovrà risalire di causa in causa all’infinito.

Per superare il problema di questa infinita ricerca delle origini, è utile presupporre l’esistenza di un principio, un Creatore, e accettare alcune verità riguardo alla sua natura: è un principio indipendente, autogeno, onnipotente, e non richiede alcuna altra causa. Accettare tale inizio è un modo per risolvere il problema della infinita ricerca di cause.

Se si presuppone l’esistenza di un Creatore, e poi si esamina il processo evolutivo incominciato con il Big Bang e tutto il mistero dell’universo, è pienamente accettabile attribuire al Creatore l’onnipotenza. Inoltre, se si esamina la natura dell’universo, si vedrà che non funziona in modo totalmente caotico o causale. Nel suo funzionamento sembra esserci un ordine implicito, un principio causale implicito. Di nuovo, grazie a esso, si può attribuire al Creatore una specie di onniscienza, come se tutto il processo, tutto il procedimento fosse stato pianificato. Da questo punto di vista, in un certo senso tutte le creature sono una manifestazione della forza divina. Si potrebbe affermare che il Creatore è l'(assoluto), e che la creazione è il (relativo), l’effimero. In questo senso, il Creatore è la verità assoluta e suprema. Ma non so che cosa direbbero in proposito i teologi cristiani!

Personalmente, quando penso all’idea della Creazione e alla fede in un Creatore divino, mi pare che l’effetto principale di questa fede sia di dare a ogni singolo praticante un senso di motivazione, un senso di sollecitazione all’impegno di diventare un buon essere umano, una persona con una disciplina etica. Una tale concezione, una tale fede, dà anche la sensazione che la nostra esistenza abbia uno scopo. E’ molto utile per sviluppare principi morali.

Questa è la mia interpretazione della teologia cristiana!

Discussione sulla lettura del Vangelo

PADRE LAURENCE: Santità, vorrei ringraziarla nel modo più sincero per la sua lezione di questa mattina. Parlo a nome mio, e penso a nome di tutti noi, quando dico che per me come cristiano è molto commovente sentirla leggere le parole di Gesù in modo così puro e con una percezione così profonda del loro significato. Poiché siamo giunti al momento del primo dibattito, vorrei presentarle tutti quelli che prenderanno al parola. I partecipanti al dibattito sono Robert Kiely, un oblato della nostra Comunità e professore di letteratura all’Università di Harvard; e Isabelle Glover, anche lei oblata benedettina della nostra Comunità e insegnante di sanscrito. Il dibattito ha lo scopo di consentirci di ascoltare in modo più approfondito il Verbo da cui siamo già stati così toccati questa mattina. L’idea della tavola rotonda non è di cercare differenze, ma semplicemente di contemplare, con la mente più aperta e generosa possibile, le somiglianze e le ricche diversità fra le nostre religioni.

Chiederò a Bob Kiely di pronunciare qualche parola introduttiva, e poi apriremo la discussione.

ROBERT KIELY: Santità, vorrei ribadire le parole di gratitudine di Padre Laurence per il commento e la lettura delle Scritture cristiane che lei ha fatto questa mattina. Sapendo qualcosa della sua biografia e della storia del suo popolo nel XX secolo, mi sono commosso molto quando lei ha letto le Beatitudini, e soprattutto i versi “Beati gli afflitti, perché saranno consolati” e “Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

I cristiani credono che se una persona di buon cuore legge le Scritture, le fa rivivere per tutti noi. A me, e penso a molti dei presenti, ascoltarla mentre leggeva queste parole ha fatto proprio questo effetto.

Una cosa di cui desideravo parlare, e su cui volevo porle una domanda, riguarda l’idea ebraica e cristiana di Dio, l’Assoluto, che entra nella relatività della storia, del tempo e dello spazio. Quando i cristiani sentono le parole che lei ha letto oggi, o qualche altro insegnamento di Gesù, il contesto in cui collocano tali insegnamenti è costituito almeno da tre storie. Una è la storia della vita di Gesù. Nessun cristiano può udire il suo insegnamento senza rammentare che Gesù nacque povero, che era ebreo in un paese occupato, che predicò in pubblico per brevissimo tempo, che fu perseguitato, che fu crocifisso come un criminale comune e che risorse dalla morte. Secondo me, quando i cristiani sentono le parole che lei ha letto, è questo il contesto di base.

In secondo luogo, quando ascoltiamo i Vangeli, siamo consapevoli di avere ereditato la storia del popolo ebraico: le loro vicende fanno parte anche della nostra Scrittura. È una storia segnata dalla schiavitù in Egitto, dalla cattività, dalla liberazione sotto la guida di Mosè, colui che ha portato la Legge, e infine dalla dispersione nel mondo. Il terzo contesto è sempre la storia della nostra vita individuale. Così, quando pensiamo alle parole di Gesù, esse ci giungono attraverso vicende che si svolgono nel tempo e nella storia personale e nazionale; e nella storia teologica, nella vita dello stesso Gesù. Vorrei chiederle di esprimere qualche riflessione sul suo modo di vedere, come monaco buddhista, l’aspetto temporale del cristianesimo, e su eventuali parallelismi o analogie con il buddhismo.

DALAI LAMA: Quando paragoniamo due tradizioni spirituali antiche come il buddhismo e il cristianesimo, osserviamo straordinarie analogie nella storia dei maestri fondatori: nel caso del cristianesimo Gesù Cristo, e nel caso del buddhismo il Buddha. Vedo un parallelismo molto importante: la vita dei maestri, dei padri fondatori, è una dimostrazione sostanziale dei loro insegnamenti. Prendendo per esempio la vita del Buddha, l’essenza del suo insegnamento è rappresentata dalle Quattro Nobili Verità: la verità della sofferenza, la verità dell’origini della sofferenza. la verità della cessazione della sofferenza, e la verità del sentiero che conduce a tale cessazione. La vita del maestro fondatore, il Buddha appunto, offre esempi molto chiari ed espliciti delle Quattro Nobili Verità. Ritengo che lo stesso valga per la vita di Cristo. Se si esamina la vita di Gesù, si troveranno esempi di tutti gli insegnamenti e le pratiche fondamentali del cristianesimo. Secondo me un’altra analogia della vita di Gesù Cristo e del Buddha consiste nel fatto che si può migliorare spiritualmente e giungere alla liberazione solo attraverso le difficoltà, la

dedizione e restando saldi nei propri principi. Questo sembra un messaggio fondamentale e comune a entrambe.

ISABELLE GLOVER: Santità, lei ha parlato di “rinascita”. In base a molti indizi, forse nella Chiesa cristiana delle origini era ammesso credere nella rinascita, anche se oggi tale principio non è più oggetto di fede nel pensiero cristiano. (1) Potrebbe dirci qualcosa di più a riguardo? Quanto è importante l’insegnamento sulla rinascita e sul Karma?

DALAI LAMA: Riguardo alla questione che lei ha sollevato, ho sentito dire anch’io che secondo l’insegnamento della Chiesa delle origini si potrebbero interpretare alcuni brani delle Scritture nel senso che il principio della rinascita non è necessariamente incompatibile con la fede cristiana. Per questo motivo mi sono preso la libertà di discutere su questo argomento con vari sacerdoti e autorità religiose cristiane; naturalmente non ho avuto la possibilità di parlarne direttamente con Sua Santità il papa. Ma comunque ho interrogato a riguardo molti diversi praticanti e sacerdoti cristiani. Tutti mi hanno detto, in modo assolutamente unanime, che il principio della rinascita non è ammesso nella dottrina cristiana, anche se non ho ricevuto alcuna spiegazione specifica sul perché il principio della rinascita non dovrebbe rientrare nel contesto più vasto della fede e della pratica cristiana. Tuttavia, circa due anni fa in Australia, al mio ultimo incontro con Padre Bede Griffiths (l’ho visto in diverse occasioni e lo conosco personalmente), gli ho posto la stessa domanda. Ricordo vivamente l’incontro; portava la sua veste giallo zafferano da (sadhu), e fu un incontro molto commovente. Disse che dal punto di vista cristiano la credenza nella rinascita avrebbe minato la forza della fede e della pratica. Credere che questa vita, la nostra esistenza individuale, è stata creata dal Creatore stesso, ed è come un dono che proviene direttamente da Lui, instaura subito un legame molto particolare fra ogni singola creatura e il Creatore. C’è una connessione personale diretta, che dà una sensazione di vicinanza e di intimità con il Creatore. La fede nella rinascita distruggerebbe questo rapporto particolare con il Creatore. Ho trovato tale spiegazione estremamente convincente.

PADRE LAURENCE: Santità, vedo un’attinenza fra la questione posta da Robert Kiely e quella appena avanzata da Isabelle, riguardo al rapporto fra tempo ed eternità, fra l’assoluto e il relativo. Uno dei nomi dati dai cristiani a Dio è Verità. E tutti gli esseri umani sanno per esperienza che la verità si scopre per gradi. La verità tende a venire a galla: nella vita di una persona emerge per gradi, sia che questo accada in una sola vita o in molte vite. Lo vediamo anche nell’evoluzione storica della religione. I precetti del Buddha o i precetti di Gesù hanno un nucleo assoluto, ma la loro verità emerge attraverso la storia, attraverso la riflessione. Altrimenti non avrebbe scopo tenere un seminario come questo. C’è sempre un’ulteriore verità da scoprire. Vorrebbe commentare quest’idea della verità come qualcosa che esiste in tutta la sua pienezza nel presente, ma che contemporaneamente si scopre passo per passo, gradualmente?

DALAI LAMA: Anche la dottrina buddhista si pone il problema di come la verità assoluta si manifesti per gradi e abbia una sue evoluzione storica, me nello stesso tempo sia assoluta e definitiva. Nel (Prajnaparamitasutra), un testo appartenente alla raccolta di Scritture buddhiste note come i (Sutra della perfezione della saggezza), c’è un brano particolare che tratta proprio questo concetto. Il brano afferma che non ha importanza quanti Buddha del passato e del futuro siano venuti o vengano al mondo, e neppure se in questo momento ci sia al mondo un Buddha oppure no, perché‚ la verità della realtà assoluta delle cose e degli avvenimenti rimarrà sempre la stessa. Questa verità è onnipresente: esiste sempre. Ciò non vuol dire però che tutti gli esseri viventi ne saranno partecipi, otterranno cioè la liberazione, spontaneamente o senza alcuno sforzo, perché gli individui devono esperire tale verità in modo graduale. Perciò si può fare una distinzione tra l’esistenza vera e propria della verità da una parte, e dall’altra l’esperienza di tale verità. In questo senso si può comprendere il punto di contatto tra la storicità e la natura assoluta della verità.

Lei ha sollevato una questione interessante. Come può un principio assoluto come il divino Creatore manifestarsi in un personaggio storico come Cristo?

Qual è esattamente la natura di questo rapporto, e in base a quali meccanismi si potrebbe spiegare la relazione fra l’assoluto, che è atemporale, e un personaggio storico, che è vincolato al tempo? Nella cultura buddhista, questo problema potrebbe essere esaminato alla luce della dottrina detta dei (tre kaya), le tre personificazioni di un essere illuminato. All’interno di questa struttura, le manifestazioni fisiche, storiche degli esseri illuminati, in un certo senso sono considerate come manifestazioni spontanee dello stato atemporale, definitivo, del (dharmakaya), o Corpo di Verità di un Buddha.

ROBERT KIELY: Forse abbiamo un altro modo per spiegare la questione, soprattutto nella pratica e nella devozione quotidiana: ricordando i titoli o gli appellativi che i cristiani danno a Gesù e i buddhisti a Buddha. Un paradosso apparente del cristianesimo è che chiamiamo Gesù nostro fratello e redentore, oppure nostro fratello e salvatore. In termini personali, questo può significare che siamo invitati ad amare Gesù come un essere umano, come un fratello o un coniuge; allo stesso tempo, crediamo che sia il nostro salvatore, il nostro redentore, e perciò lo adoriamo anche come Dio. Questi appellativi ci ricordano che Gesù ci ha dato la capacità di amarlo in entrambi i modi, che ha portato la sua divinità nei nostri cuori. C’è una qualche rispondenza con sentimenti che i buddhisti nutrono nei confronti del Buddha e i nomi che gli danno?

DALAI LAMA: Essendoci una grandissima diversità anche fra le tradizioni buddhiste, non dovremmo avere l’impressione che esista una sola tradizione omogenea, un sentiero definitivo, per così dire. Personalmente, io preferisco fare riferimento al Buddha come a una figura e a una personalità storica: qualcuno che ha perfezionato la natura umana e si è evoluto, diventando un essere totalmente illuminato. Tuttavia, secondo certe scuole di pensiero del buddhismo, Buddha non è considerato solo un personaggio storico, ma partecipa anche di una dimensione atemporale, infinita. In questo contesto, benchè il Buddha sia un personaggio storico, la storicità del Buddha (Sakyamuni) sarebbe considerata un’ottima dimostrazione di un’azione compassionevole del Buddha, che si manifesta a partire dallo stato perfetto e atemporale del (dharmakaya), o Corpo di Verità. Il Buddha (Sakyamuni) in quanto personaggio storico è noto come (nirmanakaya), che significa Corpo di Emanazione; un’emanazione che si manifesta per adattarsi alle disposizioni mentali e alle esigenze di un certo periodo, un certo luogo e un certo contesto. Questa emanazione procede da un’emanazione precedente, il (sambhogakaya), o stato di perfetta pienezza di risorse, che sorge dall’estensione al di là del tempo del (dharmakaya).

Tuttavia se ci addentriamo ora in tutti questi particolari, avremo abbondanza di materiale per mal di testa e confusione!

Il modo più semplice di considerare il Buddha (Sakyamuni) come personaggio storico è il seguente: per i buddhisti, soprattutto per quelli che seguono un regime di vita monastico, Buddha è stato il fondatore della tradizione monastica buddhista. E’ colui che ha dato origine al lignaggio dei monaci buddhisti. All’interno di questo lignaggio, i monaci e le monache che hanno ricevuto la piena ordinazione devono osservare sempre totalmente i loro voti di ordinazione. Per diventare un (bhiksu), un monaco che ha ricevuto la completa ordinazione, o una (bhiksuni), una monaca che ha ricevuto la piena ordinazione, occorre essere creature umane. Per cui, se ci si riferisce al Buddha come monaco completamente ordinato, significa che lo si considera una persona umana e una figura storica.

ISABELLE GLOVER: Santità, vorrei chiederle di spiegare perché usa così spesso l’espressione “analizzare la natura di”. La maggior parte di noi non ha l’abitudine di “analizzare la natura” delle cose in modo così sistematico. Per esempio, come si fa ad “analizzare la natura” della mancanza di compassione?

DALAI LAMA: Per convenienza, un modo buddhista tipico di comprendere un particolare argomento è di classificare e suddividere il fenomeno in diverse classi e categorie. Per esempio, i fenomeni mentali possono essere suddivisi in varie classi: concettuali e non concettuali, distorti e non distorti e così via. Di conseguenza, nella letteratura buddhista si trovano intere liste di diverse modalità e aspetti della mente, basati sulle sue varie funzioni. Per fornire un altro esempio, quando si esamina la natura della compassione, per prima cosa si dovrebbe cercare di definirla, cercare di comprendere che cosa intendiamo esattamente per “compassione”. Poi possiamo porci domande specifiche per perfezionare la classificazione: quali sono le varie sottospecie della compassione in rapporto a tutte le esperienze possibili nella condizione umana, cioè la sua fenomenologia; quali cause e condizioni danno origine a tale stato emotivo; quali sono le reazioni emotive tipiche quando si prova compassione; quali sono gli effetti della compassione di qualcuno sulle altre persone; e così via.

Attraverso queste analisi si incomincia a cogliere il senso di come potrebbe essere, o com’è, la compassione. Studiando più a fondo la letteratura buddhista, si trovano discussioni sui vari tipi di compassione. Per esempio, ne esiste un tipo che non comporta soltanto un senso di empatia con l’oggetto della compassione, ma anche un senso di responsabilità, in quanto si vuole alleviare la sua sofferenza. E’ una compassione più intensa della semplice empatia. I livelli di compassione variano in funzione dei nostri concomitanti stati mentali. Per esempio, nell’ambito culturale buddhista, se si comprende a fondo e pienamente la natura transitoria dell’esistenza, la compassione sarà molto più intensa grazie a tale saggezza. Analogamente, se il senso di attaccamento al sé (2) diminuisce sensibilmente dentro di noi, anche in questo caso la nostra compassione sarà ovviamente più forte. Per fare tali distinzioni, ci vuole innanzitutto un certo discernimento, per percepire le varie sottigliezze. E poi, quando si esamina un fenomeno come la compassione, non andrebbe considerato una singola entità. Ha molteplici aspetti, proprio come uno stato mentale. Per esempio la compassione, essendo uno stato emotivo, partecipa della natura della coscienza. Non è un oggetto fisico: è uno stato affettivo. Insomma,ha la natura dell’esperienza, e perciò condivide la stessa natura di tutti gli stati emotivi. Per fare un altro esempio, esaminiamo l’identità di un singolo individuo. Quando si incomincia tale valutazione, si capisce immediatamente la complessità di un essere umano. L’identità di ciascuno deriva in parte dal retroterra culturale, che può essere europeo o americano. In base al sesso, una persona può essere identificata come un uomo o donna. L’identità è legata anche al paese d’origine o alla confessione religiosa. Perciò come vedete si operano molte distinzioni, anche all’interno dell’identità di una singola persona. È così che si esamina la natura di ogni dato fenomeno.

PADRE LAURENCE: Sembra che l’addestramento e la pratica buddhista richiedano una vasta analisi razionale, e Sua Santità ha detto che il grande dono della nascita umana è la mente. E tuttavia, si può essere compassionevoli senza essere intelligenti. Potrebbe aiutarmi a capire questo punto? È necessario essere molto intelligenti e avere una mente ben addestrata, istruita e precisa, per diventare illuminati?

DALAI LAMA: No, certo che no! Come in tutte le cose, l’estremismo è sempre un errore. Le Scritture buddhiste descrivono tre categorie di persone in rapporto all’atteggiamento individuale verso la pratica spirituale, indicando il tipo di persone più adatto a ottenere i massimi benefici da un’intesa pratica spirituale. Anche se non riesco a ricordare la citazione esatta, essa dice più o meno così: idealmente, gli individui più adatti alla pratica sono quelli che, oltre a essere intellettualmente dotati, hanno una fede e una devozione univoche, e che sono saggi. Queste persone sono le più recettive alla pratica spirituale. Gli individui del secondo gruppo sono quelli che forse non sono molto intelligenti, ma hanno una fede salda come la roccia. Gli sfortunati sono quelli della terza categoria. Possono essere persone molto intelligenti, ma sono sempre torturati dallo scetticismo e dai dubbi. Sono intelligenti, ma tendono all’esitazione e allo scetticismo, e non riescono mai a ottenere realmente la pace. Sono le persone annoverate tra le meno recettive.

Quando parliamo di livelli di intelligenza, parliamo di fenomeni relativi. Una persona può essere più intelligente se comparata a certuni, ma meno intelligente in rapporto ad altri. In generale, pare dimostrato che nella pratica spirituale se la fede, cioè la convinzione, è fondata sulla comprensione raggiunta attraverso un processo di ragionamento, essa è molto forte. Tale convinzione è salda perché voi stessi siete convinti dell’efficacia o della validità dell’idea in cui avete riposto la vostra fede. E di conseguenza tale convinzione riesce a motivare all’azione in modo molto efficace. Ecco perché, secondo il buddhismo, l’intelligenza è considerata molto importante nel sentiero spirituale di una persona. In tale tradizione si combina l’intelligenza con il cuore, la parte emotiva. Quando la fede e la compassione, che hanno una natura

maggiormente emotiva, sono sostenute da una profonda convinzione raggiunta per mezzo della riflessione e dell’analisi, allora diventano davvero molto salde. Al contrario, se fede o compassione non sono fondate su una logica così forte, e hanno invece una natura più affettiva, più istintiva, non sono molto solide e verranno minate e scosse quando ci si imbatterà in particolari situazioni e in particolari circostanze. Un detto tibetano afferma: “Una persona la cui fede non è fondata sulla ragione è come un corso d’acqua che può essere deviato in qualunque direzione”.

ROBERT KIELY: Sull’argomento dell’effetto emotivo e della ragione, Santità, vorrei chiederle di riflettere con noi sul ruolo del rituale nella religione. Per secoli il rituale è stato fonte di grave disaccordo fra i cristiani. Alcuni ritengono che i canti, l’incenso, le candele, le vesti sgargianti e certi riti prescritti siano parte essenziale del nostro culto. Altri li considerano un ostacolo al culto. Può parlarci del ruolo che il rituale ha nella sua tradizione?

DALAI LAMA: Riflettendo sul ruolo e sull’importanza del rituale nella pratica spirituale di una persona, è importante osservare come gli esseri umani siano influenzati dal loro ambiente. Per esempio, sembra accertato che certe formalità come i rituali ci aiutino a creare un’atmosfera più propizia allo stato mentale spirituale che desideriamo raggiungere, e in questo senso svolgono certo un ruolo importante. Se una persona vuole portare a compimento una determinata cosa, fare una promessa riguardo tale desiderio le permetterà di sviluppare una forte motivazione, che influirà in modo più determinante sul suo comportamento. Nello stesso modo, quando attraverso rituali e comportamenti prestabili si riesce a creare l’atmosfera spirituale che si sta cercando, tale processo influirà intensamente sulla nostra esperienza. Quando si è privi di una dimensione interiore, dell’esperienza spirituale cui si aspira, i rituali diventano mere formalità, che influiscono solo a un livello inferiore. In questo caso, chiaramente, perdono significato e diventano usanze inutili, solo una buona causa per passare il tempo. Il grande yoghin tibetano Milarepa ha sempre criticato le formalità e i rituali. I suoi poemi sono pieni di commenti sarcastici sugli svariati aspetti di rituali e formalità!

PADRE LAURENCE: Santità, vorrei porle una domanda che sorge dalla discussione sul rituale come espressione fisica della fede, come un modo in cui esprimiamo le nostre convinzioni attraverso il corpo e i sensi. In passato, il cristianesimo occidentale era molto dualistico. Si partiva dal presupposto che corpo e spirito fossero in conflitto, che l’uno dovesse essere controllato e dominato dall’altro. Oggi assistiamo fra i cristiani all’inizio di un recupero del senso cristiano originario di amicizia fra le due istanze. In questa esistenza non possiamo separare corpo, mente e spirito; perciò devono essere amici. Forse lei potrebbe aiutarci a capire il rapporto fra corpo e mente dal punto di vista buddhista. Posso sbagliarmi, ma talvolta mi pare che nel buddhismo la contrapposizione fra corpo e mente sia ancora più forte di quella presente nel cristianesimo.

DALAI LAMA: Ha ragione. In certi brani delle Scritture buddhiste alcune affermazioni del Buddha danno l’impressione di una visione dualistica di corpo e mente. In un sutra egli afferma che i cinque aggregati sono come un fardello, un peso, e che la persona deve sopportare tale carico. Così il Buddha in effetti manifesta un senso di dualismo fra la persona e i suoi aggregati psicofisici. Ma ciò non vuol dire che si tratti del punto di vista buddhista. L’interpretazione buddhista tradizionale è che l’affermazione sia in effetti diretta a chi sul piano filosofico è incline a credere in un (atman), un’anima originaria eterna e immutabile. Invece, il vero punto di vista del Buddha riguardo alla natura del rapporto fra mente e corpo è la dottrina (anatman), che nega l’identità concreta della persona. Secondo questo principio, a parte gli aggregati psicofisici o (skandhas) che costituiscono l’essere, non esiste alcuna anima originaria distinta, autonoma e che permane per sempre. È una dottrina universale, comune a tutte le scuole del buddhismo.

Sebbene questo sia un precetto universale, tuttavia anche fra i buddhisti ci sono numerose diverse interpretazioni filosofiche, per cui scopriamo che esistono divergenze di opinioni anche riguardo a che cosa sia esattamente la natura del sè o della persona. Alcune scuole buddhiste identificano la persona negli aggregati psicofisici, sia come la coscienza sia come la totalità degli aggregati e così via, mentre altre scuole di pensiero adottano una posizione più nominalista, ritenendo che la persona, ovvero il sé, sia solo una semplice designazione della mente.

PADRE LAURENCE: Questo può essere un buon argomento per fare una pausa e meditare. Se Sua Santità vuole accendere le candele, possiamo alzarci tutti, per poi incominciare la nostra meditazione.

http://www.rosacroceoggi.org/testi/incontro%20con%20gesu.%20dalai%20lama.pdf

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