S.S. il Dalai Lama: Interdipendenza

Sua Santità il Dalai Lama: “Quando ci si troverà di fronte ad una situazione in cui si genera compassione, invece di acquisire maggior distacco dall’oggetto di tale sentimento, il coinvolgimento sarà più profondo e pieno”.

Sua Santità il Dalai Lama: “Quando ci si troverà di fronte ad una situazione in cui si genera compassione, invece di acquisire maggior distacco dall’oggetto di tale sentimento, il coinvolgimento sarà più profondo e pieno”.

Sua Santità Tenzin Ghiatzo XIV Dalai Lama del Tibet: Interdipendenza

In una discussione intorno all’interdipendenza, l’interconnessione e la natura della realtà, la prima domanda è: cosa è il tempo?

Si può identificare il tempo come una qualche sorta di entità indipendente.
Ma, generalmente parlando, ci sono realtà materiali esterne e sentimenti o esperienze interne.
Se ci si volge alle cose esterne, generalmente c’è un passato, un presente e un futuro.
Se però ci si volge più strettamente al ‘presente’, intendendo l’anno, il mese, il giorno, l’ora, il minuto, il secondo in cui si vive, non si riesce a trovarlo. Solo un secondo prima, il presente è passato; un secondo dopo è futuro: non c’è quindi alcun presente. Ma se non c’è presente, è difficile parlare del passato e del futuro, poiché entrambi dipendono dal presente. Dunque, se ci si volge alle realtà materiali esterne, parrebbe che il passato sia solo nella memoria, e il futuro nell’immaginazione: nulla più che una visione.

Se ci si volge poi alle esperienze interne o agli stati di coscienza, il passato non c’è più e il futuro non è ancora giunto: c’è solo il presente. Dunque le cose diventano piuttosto complicate quando si seguono questi pensieri. Questa è la natura dell’interdipendenza, che in Sanscrito si dice pratityasamutpada. Si tratta di un’idea molto utile ed è uno dei miei soggetti preferiti.

Sua Santità il Dalai Lama

Ci sono due livelli di interdipendenza: un livello convenzionale e uno più profondo. Quando si parla del principio buddhista dell’interdipendenza, a cui spesso ci si riferisce come ‘originazione interdipendente’, si deve quindi avere in mente che ci sono differenti livelli di comprensione.
Il livello più superficiale è la natura interdipendente, o la relazione tra causa ed effetto. Il livello più profondo va molto più in là e, in effetti, include l’intero spettro della realtà.

Il principio dell’originazione interdipendente, in relazione alle cause e agli effetti, stabilisce che nulla può avvenire senza corrispondenti cause e condizioni: ogni cosa viene all’essere come risultato di un’aggregazione di cause e condizioni.

Se si considera la legge di natura, si vede che essa non è creata dal karma o da Buddha: è proprio natura.
Noi consideriamo che la Buddhità si sviluppi in accordo con le leggi di natura: quindi la nostra esperienza del dolore e della sofferenza, del piacere e della gioia, dipende interamente dalle loro cause e condizioni.
A causa di questa naturale relazione tra le cause e i loro effetti, la concezione buddhista stabilisce che, tanto più indesiderabile è una particolare esperienza, evento o fenomeno, tanto maggiore è lo sforzo che si deve compiere per prevenire l’aggregarsi delle sue cause e condizioni, in modo da prevenire l’accadere di quell’evento. E tanto più desiderabile è un particolare evento, risultato o esperienza, tanto maggiore attenzione si deve dedicare per essere certi che cause e condizioni siano accumulate, in modo da poter godere del risultato.

Sua Santità il Dalai Lama

Personalmente credo che la relazione tra una causa e un effetto sia anche una sorta di legge naturale. Non penso però che si possa produrre una spiegazione razionale su come gli effetti necessariamente seguono cause e condizioni conformi.
Per esempio, è certo che stati emozionali afflittivi come rabbia e odio conducano a indesiderabili conseguenze, e, secondo le scritture buddhiste, una conseguenza dell’odio e della rabbia è la bruttezza. Ma non si può render conto in modo completo e razionale di come la bruttezza sia una conseguenza di quella particolare emozione afflittiva.
C’è un modo per capirlo, perché quando si sperimenta con grande intensità la rabbia o l’odio, anche l’espressione del viso cambia, e il viso diventa molto brutto. Analogamente, ci sono stati emozionali, mentali e cognitivi, che comportano almeno momentanei cambiamenti positivi nell’espressione del viso. Tali stati portano presenza mentale, calma e serenità, e una simile condizione, emozionale o di pensiero, potrebbe condurre a un risultato più desiderabile.
In questo modo si può cogliere una forma di connessione, ma non certo una completa e razionale spiegazione.

Ora, se si comprende l’importanza di apprezzare la relazione tra causa ed effetto, si può apprezzare gli insegnamenti sulle Quattro Nobili Verità. Tutto quello che si insegna sulle Quattro Nobili Verità è basato infatti sul principio di causalità.
Qualora poi sia stato elaborato il principio causale che è implicato in questi insegnamenti, si giunge alla dottrina di Buddha dei Dodici Anelli dell’Originazione Dipendente. In quell’insegnamento egli stabilì che, poiché c’è una particolare causa, ne consegue il suo effetto; poiché la causa è stata creata, l’effetto si verifica; e poiché all’origine c’è l’ignoranza, essa conduce all’azione, o karma.

Si possono qui trovare tre asserzioni: innanzitutto, poiché la causa esiste, l’effetto ne consegue; inoltre, poiché la causa è stata creata, l’effetto è stato prodotto; infine, poiché all’origine c’è l’ignoranza, essa conduce all’azione.

Ebbene, la prima asserzione indica che, da un punto di vista affermativo, quando le cause si aggreghino, gli effetti seguiranno naturalmente.
Implicato in questa asserzione è anche che si deve alla mera aggregazione di cause e condizioni se gli effetti vengano all’essere, e che, a parte il processo causale, non c’è alcun potere esterno, o forza simile a un Creatore, che porti all’essere le cose.

La seconda asserzione nuovamente fa notare un’altra importante caratteristica dell’originazione dipendente, cioè che la causa che fa accadere gli effetti deve a sua volta avere una causa.
Se la causa è un’entità assoluta, eternamente esistente e permanente, allora una tale entità potrebbe non essere a sua volta effetto di qualcos’altro. Ma, in questo caso, essa non avrà la potenzialità di produrre un effetto.
Pertanto, prima di tutto ci deve essere una causa; in secondo luogo, la causa effettiva deve avere a sua volta una causa.

La terza asserzione fa notare ancora un’altra importante caratteristica del principio dell’originazione dipendente. È che l’effetto deve essere commisurato alla causa: ci deve essere una corrispondenza tra i due.
Non ogni cosa può produrre ogni cosa; ci deve essere una sorta di speciale relazione tra causa ed effetto. Buddha fornì un esempio: parlando dell’ignoranza che conduce all’azione.
Qui l’implicazione è: ‘Chi commette l’azione?’ È un essere senziente, ed è commettendo un atto dettato da uno stato mentale affetto da ignoranza che l’essere si trova su una via dove si accumulano le condizioni che determineranno la sua caduta.
Poiché non c’è alcun essere che desideri l’infelicità o la sofferenza, si deve all’ignoranza se l’individuo si impegna in un atto che ha la potenzialità di produrre conseguenze indesiderabili.

In questo modo si comprende che il complesso dei Dodici Anelli dell’Originazione Dipendente si divide in tre classi di fenomeni.
In primo luogo vi sono emozioni e pensieri afflittivi; in secondo luogo c’è l’azione karmica e le sue impronte; e in terzo luogo c’è il suo effetto: la sofferenza.

Il messaggio fondamentale è che la sofferenza nessuno di noi la desidera, ma è una conseguenza o un effetto dell’ignoranza. Buddha non asserì che la sofferenza è un effetto della coscienza, perché in quel caso il processo di liberazione, o di purificazione. necessariamente implicherebbe il porre fine a tutto il continuum della coscienza.
La morale che si deve trarre da questo insegnamento è che la sofferenza, che è radicata nelle emozioni e nei pensieri afflittivi e negativi, può essere rimossa.
Lo stato della mente afflitta da ignoranza può essere dissolto, poiché possiamo generare un’intuizione che percepisce la natura della realtà.
Si vede quindi che il principio dell’originazione dipendente mostra come tutti i dodici anelli della catena, che determinano l’accesso di un individuo nel ciclo dell’esistenza, siano interconnessi.

Ebbene, se volessimo applicare questa interconnessione alla nostra percezione della realtà nella sua interezza, potremmo generare da essa una grande capacità di intuizione.
Saremmo per esempio in grado di apprezzare la natura interdipendente dei nostri e degli altrui interessi: come anche gli interessi e il benessere degli esseri umani dipendano dal benessere degli animali che vivono sul medesimo pianeta.
Analogamente, se sviluppassimo una tale comprensione della natura della realtà, saremmo in grado di apprezzare l’interconnessione tra il benessere degli esseri umani e l’ambiente naturale.
Potremmo inoltre considerare il presente, il futuro e così via. Saremmo capaci di coltivare una prospettiva sulla realtà che sia veramente olistica, con implicazioni estremamente significative.

Dunque, in breve, è evidente che non ci sono cause indipendenti per la felicità dell’individuo. Essa dipende da molti altri fattori. La conclusione quindi è che, al fine di avere un futuro più felice per se stessi, bisogna tener conto di tutto ciò che è correlato. Questo è, a mio avviso, un modo di vedere davvero utile.

Finora ho parlato del principio dell’originazione dipendente dalla prospettiva del primo livello di comprensione.
Nelle scritture buddhiste l’importanza della comprensione di questo livello è chiara. In effetti, uno dei testi Mahayana noto come Compendio degli Atti, in cui Shantideva cita costantemente i sutra di Buddha, pone l’accento sull’esigenza di apprezzare innanzi tutto l’interconnessione di tutti gli eventi e fenomeni: il modo in cui, in virtù del processo delle cause e condizioni, fenomeni ed eventi vengono all’essere; e quanto sia cruciale rispettare tale realtà convenzionale, poiché è a quel livello che possiamo capire come certi tipi di esperienza conducano a certi tipi di conseguenza indesiderata; come alcune cause, alcuni tipi di aggregazione di cause e condizioni possano determinare conseguenze più auspicabili, e così via; come, in effetti, alcuni eventi possano influenzare direttamente il nostro benessere e le nostre esperienze.
Essendoci questo tipo di relazione, è assolutamente essenziale per i praticanti buddhisti sviluppare innanzitutto una profonda comprensione della prospettiva del primo livello.

Ma poi Buddha afferma che si deve andare oltre tale comprensione, e interrogare la natura ultima delle cose, che si rapportano l’una all’altra in questo modo interconnesso.
Ciò conduce agli insegnamenti di Buddha sulla Vacuità.

Negli insegnamenti dei Dodici Anelli dell’Originazione Dipendente, il Buddha sostiene che, sebbene gli esseri senzienti non desiderino soffrire ed essere insoddisfatti, è tramite l’ignoranza che accumulano le azioni karmiche che conducono poi a conseguenze indesiderabili.
Ora la domanda è: qual è esattamente la natura di tale ignoranza? Qual è il meccanismo che induce realmente un individuo ad agire contro ciò che fondamentalmente desidera?
Qui Buddha si riferisce al ruolo delle emozioni e dei pensieri afflittivi, come la rabbia, l’odio, l’attaccamento e così via, che accecano la comprensione dell’individuo intorno alla natura della realtà.

Se dovessimo esaminare lo stato mentale nel momento in cui un individuo prova un’emozione intensa come l’odio, la rabbia o l’attaccamento estremo, scopriremmo che, in quell’istante, la persona ha una nozione piuttosto falsa di sé: vi è una specie di assunzione non indagata in merito a un soggetto o persona che esisterebbe in modo indipendente e che viene percepito, non necessariamente in modo conscio, come una specie di padrone.
Senza essere totalmente indipendente dal corpo o dalla mente, né essere identificato con essi, c’è qualcosa che viene in qualche modo identificato come il nucleo dell’essere, il sé, e ci si aggrappa a quell’identità. Su questa base, si provano forti esperienze emotive, come l’attaccamento verso le persone amate o forte rabbia e odio verso chi sia percepito come un pericolo, e così via.
Negli scritti di Nagarjuna troviamo un lungo ragionamento per rifiutare la validità del nostro concetto di sé e negare l’esistenza del sé o della persona, in quanto falsamente percepita.
Egli sostiene che, se il sé o la persona coincidono con il corpo, allora, essendo il corpo momentaneo, transeunte e ogni giorno mutevole, il sé o la persona dovrebbero seguire la stessa legge. Ad esempio la continuità corporea di un essere umano può cessare e, se il sé è identico al corpo, allora anche il continuum del sé cesserà in quel momento.
D’altro lato, se il sé è totalmente indipendente dal corpo, che senso ha affermare, quando una persona è malata fisicamente, che è malata?
Pertanto, a parte le interrelazioni tra diversi fattori che formano il nostro essere, non esiste un sé indipendente.

Analogamente, se estendiamo la stessa analisi alla realtà esterna, scopriamo ad esempio che ogni oggetto materiale ha parti orientate, e alcune parti sono rivolte in direzioni diverse. Sappiamo che, fintanto che esso costituisce un’entità, è composto di parti, e che esiste un rapporto necessario tra il tutto e le sue parti; quindi scopriamo che, esclusa l’interrelazione tra le diverse parti e l’idea di totalità, non esiste alcuna entità indipendente al di fuori di quella corrispondenza.
La stessa analisi può essere applicata alla consapevolezza o ai fenomeni mentali. La sola differenza sta nel fatto che le caratteristiche della consapevolezza e dei fenomeni mentali non sono materiali o fisiche: tuttavia possiamo analizzare ciò in termini di diversi istanti o momenti che formano un continuum.

Il fatto che non si possa trovare l’essenza dietro l’etichetta, o il referente dietro il termine, significa forse che nulla esiste?
Ci si potrebbe chiedere: è forse nell’assenza di fenomeni il significato della dottrina della Vacuità?
Nagarjuna anticipa le critiche provenienti dalla prospettiva dei realisti, secondo cui, se i fenomeni non esistono così come noi li percepiamo, se non possono essere trovati quando ricerchiamo la loro essenza, allora non esistono.

Dunque, la persona o il sé non esisterebbero.
Ma se la persona non esiste, allora non c’è alcuna azione o karma, perché la stessa idea di karma presuppone qualcuno che commetta l’atto; e se non c’è il karma, allora non può esserci sofferenza, perché non c’è esperienza e quindi non c’è causa.
In questo caso non c’è alcuna possibilità di liberazione dalla sofferenza, perché non c’è nulla da cui essere liberati. Inoltre non c’è alcun sentiero che potrebbe condurre alla liberazione. E in tal caso non può esserci una comunità spirituale, o sangha, che si incammini sul sentiero verso la liberazione. E non c’è la possibilità di un essere totalmente perfetto, o Buddha.

I realisti sostengono quindi che, se è vera la tesi di Nagarjuna, che l’essenza delle cose non può essere trovata, allora non esiste nulla e bisognerà negare l’esistenza di samsara, del Nirvana e di ogni cosa.

Nagarjuna afferma che tali critiche, tali conseguenze tratte dalla sua tesi, indicano la mancanza di comprensione del significato sottile della dottrina della Vacuità, poiché quest’ultima non afferma né implica la non-esistenza di ogni cosa.
Inoltre la dottrina della Vacuità non coincide semplicemente con la tesi che le cose non possano essere trovate quando se ne ricerca l’essenza.
Il significato della Vacuità è la natura interdipendente della realtà.

Nagarjuna prosegue spiegando cosa intende quando afferma che il vero significato della Vacuità emerge da una comprensione del principio dell’originazione dipendente.
Egli sostiene che, dal momento che i fenomeni sono originazioni dipendenti, poiché si producono a seguito dei rapporti interdipendenti tra cause e condizioni, essi sono vuoti. Sono vuoti di condizione intrinseca e indipendente.
Una valorizzazione di tale visione è la comprensione dell’autentica Via di Mezzo. In altre parole, quando comprendiamo l’originazione dipendente, vediamo che non solo l’esistenza dei fenomeni, ma anche la loro identità dipendono da altri fattori.

Quindi l’originazione dipendente può dissolvere gli estremi dell’assolutismo e del nichilismo, perché l’idea di dipendenza indica una forma di esistenza che manca della condizione di indipendenza e assolutezza, e quindi libera l’individuo dall’estremo dell’assolutismo; inoltre l’originazione libera l’individuo dalla caduta nell’estremo del nichilismo, poiché mira alla comprensione dell’esistenza, al fatto che le cose effettivamente esistono.

Ho detto prima che l’impossibilità di trovare fenomeni o entità quando ne ricerchiamo l’essenza non è in realtà il significato completo della Vacuità, ma tuttavia indica che i fenomeni mancano di realtà intrinseca, mancano di esistenza indipendente ed inerente. Col che si intende che la loro esistenza e identità derivano dalla mera interazione di vari fattori.
Buddhapalita, uno dei discepoli di Nagarjuna, sostiene che, poiché i fenomeni si producono a seguito dell’interazione di vari fattori, la loro stessa esistenza ed identità deriva da altri fattori. Altrimenti, se avessero un’esistenza indipendente, se possedessero intrinseca realtà, non avrebbero bisogno di essere dipendenti da altri fattori. Questo stesso fatto è un’indicazione della loro mancanza di condizione indipendente o assoluta.

Pertanto, la comprensione totale della Vacuità si può ottenere soltanto quando si apprezza la sottigliezza di questo principio dell’originazione dipendente, se si giunge alla conclusione che la natura ultima risiede nel fatto che i fenomeni, qualora se ne voglia ricercare l’essenza, non possono essere trovati.
Nagarjuna afferma che, se il principio o la dottrina della Vacuità non è valida, se i fenomeni non sono privi di esistenza indipendente ed inerente e di intrinseca realtà, allora essi saranno assoluti; quindi non vi sarà spazio per l’azione del principio dell’originazione dipendente e neppure per l’azione del principio di interdipendenza. In tal caso non sarebbe possibile per i principi causali agire, e quindi la percezione olistica della realtà diverrebbe anch’essa un concetto falso.
Se così fosse, l’intera idea delle Quattro Nobili Verità non sarebbe valida, poiché non agirebbe alcun principio causale. Allora si negherebbero tutti gli insegnamenti del Buddha.

In effetti, ciò che Nagarjuna fa è ribaltare tutte le critiche contro la sua tesi, affermando che, stando alla posizione dei realisti, tutti gli insegnamenti del Buddha dovrebbero essere negati.
Riassume le sue critiche sostenendo che, qualsiasi sistema di credenza o pratica che neghi la dottrina della Vacuità non può spiegare alcunché in modo coerente, mentre qualsiasi sistema di credenza o pensiero che accetti questo principio dell’originazione interdipendente, questa dottrina della Vacuità, può arrivare ad una spiegazione coerente della realtà.

Troviamo quindi un rapporto complementare molto interessante tra i due livelli di comprensione dell’originazione dipendente di cui ho parlato in precedenza.
La prospettiva del primo livello spiega molto della nostra esistenza quotidiana o del mondo dell’esperienza di ogni giorno, in cui cause e condizioni interagiscono e il principio casuale esercita la sua azione. Tale prospettiva di originazione dipendente, secondo il Buddhismo, prende il nome di corretta visione a livello mondano.

Più si apprezza questa prospettiva, più si sarà in grado di raggiungere un livello più profondo di comprensione dell’originazione dipendente, poiché la comprensione del meccanismo causale a tale livello è utilizzata per arrivare ad una comprensione della natura vuota di tutti i fenomeni.
In modo analogo, una volta che l’intuizione della natura vuota di tutti i fenomeni diventa profonda, la convinzione nell’efficacia di cause ed effetti sarà rafforzata e quindi vi sarà un maggior rispetto per la realtà convenzionale e il mondo relativo.
Esiste quindi un interessante rapporto complementare tra le due prospettive.

Con l’approfondirsi e il rafforzarsi dell’intuizione della natura ultima della realtà e della Vacuità, si svilupperà una percezione della realtà a partire dalla quale si percepiranno i fenomeni e gli eventi come un qualcosa di illusorio, di simile a un’illusione, e questo tipo di percezione della realtà permeerà tutte le interazioni con la realtà stessa.
Di conseguenza, quando ci si troverà di fronte ad una situazione in cui si genera compassione, invece di acquisire maggior distacco dall’oggetto di tale sentimento, il coinvolgimento sarà più profondo e pieno. Questo perché la compassione è alla fine basata su una modalità di pensiero valida, e si sarà ottenuta un’intuizione più profonda della natura della realtà.
Per contro, quando ci si troverà davanti a situazioni che normalmente darebbero origine ad emozioni e risposte afflittive e negative, ci sarà un certo grado di distacco e non si cadrà preda delle influenze di tali emozioni. Questo perché, sotto a quelle emozioni e a quei pensieri afflittivi, quali desiderio, odio, rabbia e così via, c’è un concetto sbagliato della realtà che implica l’attaccamento alle cose come assolute, indipendenti e unitarie. Quando si genera l’intuizione della Vacuità, l’attaccamento mentale a queste emozioni diminuisce.

All’inizio del mio discorso ho fornito un esempio del nostro concetto di tempo. Di solito presumiamo che ci sia un tipo di realtà o entità indipendente detta ‘tempo’: presente, passato o futuro. Ma se la esaminiamo a un livello più profondo, scopriamo che si tratta di una mera convenzione.
Al di fuori della correlazione tra queste tre dimensioni temporali (presente, futuro e passato), non vi è alcunché di simile a un momento presente che esista in modo indipendente, dal che siamo indotti a generare una sorta di visione dinamica della realtà.
In modo analogo, quando penso a me stesso, anche se inizialmente posso partire dal presupposto indiscusso che esista un sé indipendente, se guardo più attentamente, scopro che, a parte la correlazione dei diversi fattori che costituiscono il mio essere, non esiste alcunché di simile a un’entità assolutamente indipendente.
Dal momento che è questo semplice ‘sé’, io o persona convenzionale che si spinge verso il raggiungimento della liberazione o può trasformasi in Buddha, anche Buddha non è assoluto.

Tratto da ‘The Heart of the Buddha’s Path’, Thorsons, an Imprint of HarperCollins Publications, 1997.

http://www.interdependence.eu/index.php?q=%5D-80

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