Insegnamenti di S.S. il Dalai Lama a Milano il 7.12.07 mattino.

Sua Santità il XIV DALAI LAMA venerdì 7 e sabato 8 dicembre 2007 ha conferito a Milano i suoi preziosi insegnamenti sul testo: “Commentario alla mente dell’illuminazione” del venerabile Pandit Nagarjuna.

Secondo il Buddismo, la causa principale del nostro malessere e della nostra sofferenza è l’innata attitudine egoistica di prenderci cura solo di noi stessi e di ignorare completamente gli altri. Da questo fondamentale egoismo sorgono le nostre sofferenze personali, ma anche i problemi sociali, come l’odio, la guerra, l’intolleranza. È possibile superare questo egoismo di base, trasformando la propria mente tramite riflessioni, ragionamenti e meditazioni, che sono stati esposti da Buddha stesso e dai Maestri che gli sono succeduti. Generando un’autentica attitudine altruistica di agire solo per il bene degli altri, si ottiene la vera pace interiore.
Sua Santità il Dalai Lama, esempio vivente della pratica dell’altruismo, tolleranza e non violenza, ha spiegato, sulla base della sua stessa esperienza, come l’antichissimo insegnamento di Buddha possa essere un’autentica risposta al malessere contemporaneo.

Appunti, traduzione dall’inglese ed editing del Dott. Luciano Villa, dell’Ing. Alessandro Tenzin Villa e di Graziella Romania nell’ambito del Progetto “Free Dalai Lama’s Teachings” per il beneficio di tutti gli esseri senzienti.

primo giorno d’insegnamenti: venerdì 7 dicembre 2007 – mattino

Sua Santità il XIV Dalai Lama

IL DIRITTO DI NON SOFFRIRE E DI UNA VITA FELICE

Sono felice ancora una volta d’essere qui a Milano. Abbiamo di fronte delle giornate d’insegnamenti molto importanti sul Buddismo, che si concluderanno con l’iniziazione al Buddha della compassione Avalokitesvara. – LEGGI TUTTO …

Vi chiedo cortesemente l’autorizzazione a portare il mio speciale copricapo datomi da un amico americano che non appartiene né alla scuola dei berretti rossi, né a quella dei berretti gialli, né a nessun altra. È molto pratico, perciò lo metto sempre nel mio bagaglio.

(Sorrisi e risate generali d’approvazione.)

SHEPA

Tutti quanti abbiamo il senso dell’io, del sé. In tibetano abbiamo il termine “shepa” che sta ad indicare i “fenomeni connessi”.  Connessi a che?

Ma, connessi all’io!

Ogni esperienza di dolore o di gioia rappresenta un fatto, un episodio della nostra vita. Tutti quanti abbiamo provato questa sensazione, ma anche gli animali la sperimentano.

Stiamo parlando del diritto di non soffrire e di raggiungere una vita felice. Di questo argomento continueremo a parlare nei prossimi giorni, proprio perché rappresenta il tema di questi insegnamenti.

Ebbene: ognuno di noi s’è fatto una nozione dell’io e, poiché abbiamo una mente, la sperimentiamo. Vale a dire proviamo sensazioni di gioia, di dolore, o neutre. Su questo, penso che tutti quanti ci troviamo d’accordo. Non c’è bisogno d’addentrarci in ulteriori analisi. Anche gli animali le provano.

IL DIRITTO D’ELIMINARE IL DOLORE

Da questa semplice constatazione scaturisce il diritto ad eliminare il dolore. Noi tutti proviamo delle esperienze che viviamo a due livelli: sensoriale e mentale. L’esperienza a livello fisico ci porta a vivere delle situazioni piacevoli o fastidiose, gradevoli o sgradevoli. Possiamo, quindi, senz’altro provare apprezzamento per delle situazioni che contribuiscono a promuovere il nostro benessere fisico. Intendo riferirmi alla disponibilità d’abiti attraenti, di cibi succulenti e di dimore confortevoli.

In quanto esseri umani siamo dotati di capacità molto elevate, pure sofisticate, notevolmente superiori a quelle degli animali. Perciò, siamo portati a dare molta importanza alle esperienze a livello mentale, quali la soddisfazione ed il dolore.

Dall’integrazione di questi due livelli d’esperienza, a livello sensoriale e mentale, scaturiscono le sensazioni di sofferenza e di piacere.

Così, ci sarà senz’altro capitato, in certe circostanze, di dover sopportare delle sofferenze fisiche, senza dubbio molto difficili dal punto di vista sensoriale, ma che risultano decisamente sopportabili, anzi apprezzabili, dal punto di vista mentale. In questo modo, verremo ben poco colpiti dagli influssi nefasti del malessere fisico, in quanto la nostra mente resterebbe distratta da un’altra situazione appagante, che procura serenità e benessere interiore.

Comunque, le esperienze a livello sensoriale vengono avvertite da tutti gli esseri viventi. Ma non solo. Le esperienze di piacere e di dolore sono comuni anche per alcuni animali.

Tuttavia, gli esseri umani, in quanto contraddistinti da un gran ricordo del passato e d’un altrettanto sofisticata capacità di pianificare il futuro, possono provare le più intense ed elevate esperienze di piacere, come le più profonde sensazioni di dolore. Inoltre, possono nutrire delle aspettative per il futuro: si tratta d’attese a volte fondate ed altre volte infondate

DUE SITUAZIONI CONTRAPPOSTE

Non basta: la sensazione di piacere, oppure di dolore, la sperimentiamo a due livelli: da un lato a livello fisico e, dall’altro, a livello mentale.

Vediamo le due situazioni contrapposte.

Pur essendo coinvolti in un malessere fisico, ci sarà talvolta capitato di non sentirci tanto disturbati interiormente, proprio perché eravamo soddisfatti della situazione generale che c’infondeva serenità interiore.

Viceversa, ci sarà anche successo di non avvertire alcun problema di tipo fisico, ma di non sentirci affatto a posto dentro di noi, anzi, di sentirci angosciati e persi dentro. Nonostante  che, a livello fisico, i nostri sensi ci gratificassero con sensazioni piacevoli provenienti da cibi appetitosi, da suoni armoniosi, da profumi estasianti, da compagnie piacevoli e da visioni meravigliose, dentro ci sentivamo smarriti ed infelici.

Vi sono delle persone, inclusi dei miei amici davvero molto ricchi, che possono dirsi pienamente soddisfatti dal punto di vista materiale, cui non manca proprio nulla, anzi, sono circondati da tanti amici, godono d’ingenti ricchezze: tuttavia sono molto infelici.

L’ansia, la rabbia, l’orgoglio, l’invidia, la gelosia, ci disturbano a livello mentale. Perciò i beni materiali, se fini a sé stessi, sono fonte d’invidia, d’odio, di stress, di forte attaccamento. In conseguenza di ciò, agiscono negativamente sulla nostra mente, arrecandoci sofferenza. Le condizioni materiali che ci permettono un certo equilibrio fisico rivestono comunque la loro importanza. Ma non ci possono garantire di diventare una persona calma e tranquilla.

I beni materiali sono ovviamente molto utili, tuttavia si rivelano molto limitanti e limitati. Non possono in quanto tali portare al raggiungimento d’una mente pacifica e calma. Perciò, cerchiamo di capire cos’è che allora conferisce pace alla mente, quali sono i meccanismi che garantiscono serenità.

OFFRIRE CONFORTO MENTALE TRAMITE LA FEDE

Questo è il ruolo preminente delle religioni. La religione è sorta inizialmente per questo motivo: come strumento per offrire conforto, per raggiungere una certa soddisfazione interiore, un appoggio morale. Dev’esserci inoltre un modo laico per offrire una felicità interiore. E, di questo me ne occuperò più avanti, nel corso della conferenza pubblica.

Fondamentalmente, potremmo distinguere due tipi di concezioni religiose, intese come ruolo della fede in senso ampio. Vediamone il primo.

FEDI ANIMISTE

In tempi molto antichi la fede aveva la funzione di alimentare speranze in situazioni disperate, per affrontare situazioni al di là del controllo degli umani. Ad esempio, la notte metteva paura per le insidie dei felini, mentre la luce portava sicurezza, perciò, in un certo senso, la si considerava santa. Per lo stesso motivo, si venerava il sole, in quanto dona luce e calore. Il sole veniva perciò identificato con una divinità, fonte di benessere ultraterreno.

Per la medesima ragione si venerava il fuoco, anch’esso detentore di proprietà positive: la luce che fende le tenebre della notte ed il calore che ci permette di sopravvivere ai rigori nivali. Inoltre, il fuoco fa star lontano gli animali, per tutte queste ragioni lo si considerava positivamente. Inoltre non dimentichiamo che il fuoco veniva riconosciuto provenire dai fulmini, considerati alla stregua d’una forza misteriosa. Allora il fuoco diveniva un mistero, lo si adorava nei templi con sacerdoti addetti al suo culto. Il fuoco assurgeva quindi ad elemento sovrannaturale, di conseguenza gli veniva riconosciuta una matrice divina. Questa è un po’ la religione basata meramente sulla fede. Non risultava sorretta da alcuna concezione filosofica. Siamo alle fedi animiste, prive di fondamenti filosofici.

FEDI BASATA SU TEORIE FILOSOFICHE

Circa 6.000 anni fa in India ed in Cina si formarono delle religioni basate su ideologie più complesse, per giungere a circa 3-4.000 anni fa, quando nella Valle dell’Indo iniziò a svilupparsi una fede basata su concezioni filosofiche. Eccoci giunti ad un’altra categoria di concezione religiosa: quella della fede fondata su teorie filosofiche.

Abbiamo quindi abbozzato due tipologie di fedi religiose: l’una di tipo animistico elementare, senza alcuna base filosofica, l’altra integrata con sistemi filosofici avanzati. Tra queste ultime sono sorte delle importanti domande filosofiche. Un amico ebreo mi domandò: “Cos’è l’io, da dove proviene e verso dove procede? Insomma: dov’è l’io? Da dove scaturisce? Qual è lo scopo del valore della vita?”.

COS’È L’IO?

Le religioni integrate a sistemi filosofici intendono appunto rispondere a queste domande: sia che si tratti di religioni teistiche, sia che siano formulate in un credo non teistico.

In tempi assai remoti, in India si cercava di rispondere alla domanda di base: “cos’è l’io?”. A questo proposito pensiamo a quando in gioventù percepiamo noi stessi in forma eccessiva, decisamente enfatica, cogliamo la prestanza del nostro corpo, la imponenza d’energia, l’acutezza mentale, mentre, all’inverso, notiamo, in vecchiaia quanto tutto ciò sia svanito. Quanto più ci addentriamo negli anni, percepiamo, infatti, quanto il nostro corpo e la nostra mente siano cambiati da quando eravamo giovani.

L’ATMAN, L’ANIMA

Pensiamo allora alla nozione dell’io. Ad esempio, quando dico: “quando io ero giovane”, presuppongo la presenza d’un osservatore, un supervisore al nostro corpo – mente. Da qui scaturisce la nozione di un sé permanente.

Da qui deriva l’atman, l’anima, la concezione per cui, sebbene il corpo sia soggetto al cambiamento ed al deterioramento, quando tuttavia esso non svolge più funzione alcuna di supporto, l’anima, ovvero l’io, permane.

L’io, ha quindi inizio?

Se c’è, deve pur ritrovarsi!

Come ne percepiamo l’esistenza?

LA SCUOLA FILOSOFICA SAMKYA

Circa 3.000 anni fa, da parte della scuola filosofica Samkya si cercò di rispondere alla domanda: cos’è l’io, il sé?

Esiste un possessore del corpo e della mente?

E, se esiste, è da questi indipendente?

Inoltre, se il possessore è permanente, come può aver generato un corpo ed un’anima caratterizzati dal cambiamento?

La risposta era: il corpo cambia e deperisce, ma l’anima rimane, non muore col corpo. Dove va?

Per la scuola filosofica Samkya, alla morte, l’anima atman torna al cospetto di dio. Si abbraccia all’entità divina d’un  dio creatore, come indicato da antiche tradizioni indiane.

PER EBREI, CRISTIANI E MUSSULMANI: DA DOVE PROVIENE L’ANIMA?

È difficile rispondere a questo quesito. Indubbiamente dev’esserci un inizio. Deve potersi trovare una risposta a questa domanda.

Per la tradizione ebraica, non conosco quella egizia (sembra che accettassero il principio della rinascita, della teoria della metempsicosi, della reincarnazione), la verità ultima è identificabile nel dio creatore: la fonte di tutto. Egli è onnipotente e dotato d’infinita compassione. Il che accomuna gli ebrei ai cristiani ed ai mussulmani. È un dio dai poteri illimitati, infinito: la realtà ultima, appunto. Allah è sinonimo, per i mussulmani, di realtà infinita, come pure d’infinita compassione. Il che costituisce l’attributo di una realtà ultima alla divinità.

IL PURUSHA

Tuttavia, per tornare al discorso precedente, quello della filosofia indiana Samkya, datata oltre 3.000 anni fa, successe che al suo interno si delinearono due correnti di pensiero: l’una che credeva in un dio permanente e creatore, l’altra, all’opposto, di matrice atea, negava quest’esistenza, ed identificava la sostanza fondamentale nel purusha (il sé, l’individuo, la coscienza) o principio fondamentale archè, come realtà ultima, principio che dà origine a ciò che esiste.

BUDDISMO E JAINISMO

Circa 2.500 anni fa si fecero strada due nuove concezioni, il Buddismo ed il Jainismo, entrambe formulate da filosofi, Buddha Sakyamuni e Mahavira. Per entrambe, alla base della realtà, non esiste un dio creatore ma un rapporto di causa – effetto.

Entrambe sono religioni non teistiche.

NEL BUDDISMO PENSIAMO, IN BASE AD UNA TEORIZZAZIONE NON TEISTICA, CHE LE COSE, I FENOMENI DERIVINO DALLE LORO CAUSE E CONDIZIONI.

Perciò, la vera natura delle cause e degli effetti è riconoscibile nel cambiamento, nella transitorietà dei fenomeni. La realtà non possiede caratteristiche statiche ma sempre in cambiamento: tutto è un continuo scorrere, nulla è fermo. La base del sé – io è il corpo, ovvero una base in cambiamento. Il che lo possiamo constatare in prima persona.

PERCIÒ, L’IO DEVE ESSERE DELLA STESSA NATURA DEL CAMBIAMENTO.

Se l’io è designato sulla base del corpo e della mente, naturalmente si trova coinvolto nel processo di cambiamento che contraddistingue il binomio corpo – mente.  Perciò, un io permanente, autosufficiente, non può esistere. Per questo stesso motivo, fondato sul perenne cambiamento del binomio corpo – mente, il Buddismo non può accettare la presenza d’un anima atman permanente, indipendente. Anzi, sulla base della constatazione che tutto è interdipendente, anche il sé è allora impermanente.

PER IL BUDDISMO IL SÉ – IO CONDIVIDE LA NATURA DELLA TRANSITORIETÀ.

La concezione del sorgere dipendente rappresenta infatti l’aspetto peculiare del Buddismo, così come la mancanza d’un dio creatore, cui corrisponde il sorgere della realtà in un rapporto di causa effetto.

Al contrario, per le altre due concezioni, Samkya e Jain, l’atman è permanente.

DUE ASPETTI: LA FILOSOFIA E LA PRATICA

Esistono molte religioni integrate da basi filosofiche. Queste religioni sono accomunate dalla contemporanea presenza di due aspetti: l’uno filosofico, l’altro inerente la pratica. Mentre sul primo emergono delle diversità, tutte si riconoscono nel secondo, ovvero rispetto alla pratica, dove si notano grandi affinità nella ricerca della pienezza, nello sviluppo dei valori interiori umani. Semmai, la differenza si nota nel metodo con cui generare la compassione, l’amore, il perdono.

UN DIVERSO APPROCCIO ALLA STESSA META

La differenziazione di queste filosofie non sta a significare altro che l’esistenza d’un diverso approccio alla stessa meta. Possiamo così osservare che nel tempo si sono succedute diverse filosofie caratterizzate da peculiari approcci filosofici, in base a religioni che propongono pratiche differenti, secondo differenti concezioni filosofiche che propongono metodi differenti, ma per lo stesso scopo, consistente nello sviluppo dei medesimi valori di tolleranza e di perdono, di compassione e di senso d’appagamento.

Queste diverse religioni, pur caratterizzate da differenti approcci filosofici, convergono unanimemente al medesimo scopo.

In momenti differenti, il Buddha espresse concetti diversi, apparentemente in contraddizione. Ovviamente, non lo fece per generare confusione, ma si espresse in modi diversi per venire incontro alle diverse attitudini dei suoi ascoltatori.

È una caratteristica degli insegnamenti del Buddha quella di ritrovare affermazioni apparentemente molto diverse.

L’IO ED I CINQUE AGGREGATI

Allorché prendiamo in considerazione l’individuo, dovendo rispondere alla domanda: “Da  cosa è sostanzialmente composto?”, dopo aver debitamente indagato, giungiamo alla conclusione che, alla base, è formato da cinque aggregati o skanda, che possiamo considerare alla stregua d’un carico sorretto dall’io.

SE L’IO FOSSE INDIPENDENTE, SAREBBE DIVERSO DALLA NATURA DEGLI AGGREGATI?

Sua Santità il Dalai Lama spiega la mancanza d’un io indipendente, permanente, negando pure la visione dell’atman induista, separata dai cinque aggregati componenti l’individuo.

TUTTAVIA, UN CERTO TIPO DI IO ESISTE PURE.

Un certo modo di io esiste.

Quale?

Si tratta di quello che accumula le azioni e ne raccoglie pure i risultati.

In certi momenti, il Buddha identifica ciò che effettivamente esiste, o meno.

E, per quanto concerne l’io, lo circoscrive come esistente nella sola mente, in altre parole l’io esiste nella natura dell’esistenza mentale

Nella terza categoria dei sutra, nei sutra della saggezza suprema, il Buddha asserisce la negazione del concetto dell’io. Anzi, argomenta la mancanza a qualsiasi livello dell’esistenza d’un sé, d’un io indipendente. In altre parole, un io ed un sé indipendente non può esistere.

TRE DIVERSI APPROCCI ALLA REALTÀ

Per l’appunto, il Buddha espresse tre diversi approcci rispetto alla realtà, mediante tre tipi d’esposizioni trasmessi attraverso tre differenti tipologie di sutra.

Dovremmo forse considerare queste esposizioni contraddittorie, pur pervenendo dalla medesima origine?

Perché mai il Buddha offrì tre diverse versioni della stessa realtà?

Il Buddha non era affatto confuso e non intendeva assolutamente confondere gli ascoltatori, ma, comportandosi in questo modo, voleva rispettare le diverse predisposizioni della persone. Formulò perciò spiegazioni diverse per esporre in modo diverso i medesimi concetti secondo le propensioni, i livelli di percezione intellettuale e le attitudini di coloro che lo ascoltavano.

Allo stesso modo in cui attualmente osserviamo delle predisposizioni estremamente diversificate tra gli oltre sei miliardi di esseri umani che popolano il nostro pianeta, anche allora, e parliamo di ben 2.500 anni fa, esistevano inclinazioni e predisposizioni molto diverse tra gli individui, che in quel tempo erano in un numero molto inferiore a quello attuale. Anche a quell’epoca, pur in minor numero d’oggigiorno, tra i milioni d’esseri presenti si distinguevano differenti modi di pensare, di vedere la vita. Anche all’interno d’ogni famiglia si possono osservare delle diversità, pure tra gemelli. Certamente, anche in quel tempo, dal punto di vista emozionale, tra le persone emergevano risposte emotive molto eterogenee. Infatti, l’umanità si riconosce per una vastissima diversità di risposte mentali, così come esistono molti climi diversi e stili di vita completamente distinti tra loro. Il che influisce sulle attitudini emotive, quindi sul modo di vivere, di conseguenza sul pensiero. Così, in India, laddove la temperatura è più elevata, corrisponde un modo di vita conseguente.

Anche in quei tempi antichi, quando la vita era più semplice, si manifestavano approcci diversi rispetto alla realtà. Il che dipendeva dalle diversità attitudinali degli esseri umani, armonizzate comunque in un approccio unificante, consistente nella capacità di riconoscere un modo di porsi sostanzialmente univoco, finalizzato ad arricchire la predisposizione alla gentilezza già presente in tutti gli esseri e a sviluppare una maggiore comprensione dei fenomeni. Il che non può non tradursi in una più ampia chiarezza di vedute.

Da queste considerazioni siamo in grado di comprendere il perché solo alcuni sono in grado di produrre delle utilissime scoperte.

Le argomentazioni espresse nelle “Quattrocento Stanze alla Madiamyka” di Aryadeva vengono  infatti rapportate a determinate attitudini mentali.

L’IMPORTANZA DI PENSARE CHE QUESTA VITA È CREATA DA DIO

Il fatto di concepire l’io come esistente ed associato all’idea d’un creatore lo ritengo estremamente utile per una certa tipologia di persone caratterizzate da certe attitudini.

Perciò, il Buddha, ad alcuni ha svelato che i fenomeni esterni esistono ed hanno una loro sostanzialità.

In un certo senso si tratta d’un approccio simile, per alcuni, alla concezione d’un dio, un’entità superiore che crea la vita e governa le cose.

Per un certo tipo di elaborazione mentale si tratta d’una concezione molto corroborante.

In un frangente chiesi ad un amico cristiano come mai nella vostra tradizione non si crede alle vite precedenti.  Al che, mi rispose: “Perché questa stessa vita è creata da dio”.

Per questo motivo ritengo che sia molto positivo, ai fini della pratica dell’amore e della compassione, seguire il flusso verso dio.

Il che crea un legame, un vincolo molto forte con la divinità, alla stessa stregua per cui abbiamo maturato una gran vicinanza, un forte senso d’intimità coi nostri genitori, con nostra madre. Nello stesso modo si genera una forte connessione col dio creatore.

Per questo motivo ci sentiamo spinti a seguire le norme, i dettami d’un approccio teistico. Sapere d’essere prodotti da un’entità superiore favorisce l’attitudine a seguire certe regole, determinati precetti comportamentali.

SUA SANTITÀ IL DALAI LAMA RISPONDE AD UNA DOMANDA SULLE CONVERSIONI RELIGIOSE.

Le persone dalle tradizioni diverse da quella del Buddha si sentono più a loro agio seguendo la tradizione in cui sono cresciute, vale a dire la loro religione tradizionale. È meglio rimanere nella propria tradizione religiosa che scegliere di cambiare repentinamente strada. Perché, mutare fede, crea, talvolta, confusione. Perciò, a chi proviene da altre tradizioni religiose, suggerisco di rimanere radicato alla propria fede, alla propria tradizione religiosa.

Vi faccio un paio d’esempi. Una mia amica polacca, appartenete alla Società Teosofica, nella seconda parte della propria vita si fece buddista. Ma, al momento della morte, ebbe un momento di smarrimento perché sentiva intensamente sorgere in lei il concetto di dio creatore. L’altro caso è rappresentato da una signora tibetana, rimasta vedova con due figli in tenera età, che, aiutata da un’associazione cristiana, mi confidò: “Per questa vita mi faccio cristiana, ma la prossima vita tornerò ad essere buddista”.

Qualora ci si dovesse convertire ad altre teorie religiose, si potrebbero cedere facilmente in confusione. Quando vado a dare insegnamenti in Europa mi guardo bene dal fare proselitismo.

NON CERCO DI CONVINCERE NESSUNO. PERCHÉ NON PENSO CHE SIA UN ATTEGGIAMENTO POSITIVO QUELLO DI CAMBIARE FEDE RELIGIOSA.

NON SI DOVREBBERO CREARE CONFLITTI IN NOME DELLA RELIGIONE, ANZI, BASANDOSI SUI PRESUPPOSTI UNIFICANTI DI BASE, SI DOVREBBE PROMUOVERE PIUTTOSTO L’ARMONIA TRA LE RELIGIONI.

Questo comportamento dovrebbe rappresentare l’approccio ecumenico tra le varie fedi. I valori umani fondamentali, la loro promozione, il loro sviluppo: questo costituisce l’obiettivo delle varie tradizioni religiose.

A questo scopo si possono utilizzare anche metodi peculiari della tradizione buddista, ma solo per sviluppare quelle qualità, come l’amore e la compassione, comuni alla propria religione di provenienza, quella in cui siamo cresciuti.

Entrando più nel merito, il concetto del nulla assoluto, il suniata, inteso come assenza d’esistenza indipendente, è tipicamente buddista.

Tuttavia, nei miei insegnamenti tengo a precisare che è indicato unicamente per i buddhisti e non per dei cristiani, o per praticanti d’altre fedi. Ai monaci cristiani che mi chiedono del suniata sono solito rispondere: “Questo non è affare vostro!”

Tutte le maggiori religioni si caratterizzano per metodi loro peculiari, tra loro diversi, che comunque convergono su medesime finalità e sono improntate ad un vero rispetto. In altre parole, tutte le più importanti concezioni religiose sono caratterizzate dalla stessa pratica finalizzata dal medesimo proposito, nonché da un terreno adatto per un vero e genuino rispetto. Al che v’esorto a rimanere nella vostra fede.

Se quanto vi dico lo trovate utile per il vostro sviluppo interiore, sviluppatelo e realizzatelo, altrimenti, accantonatelo.

Quando il Buddha espresse le Quattro nobili verità, enunciò il concetto fondamentale della sua concezione filosofica: la legge di causalità del sorgere dipendente. Lo fece dopo aver raggiunto l’illuminazione.

Quando il Buddha girò la prima ruota del Dharma enunciò appunto la relazione di causa – effetto mediante la sua prima esposizione formale: l’insegnamento delle Quattro Nobili Verità. Le quali rappresentano un percorso ragionato che parte dall’identificazione dell’origine e della possibilità di cessazione della sofferenza dukka, mediante il sentiero dell’ottuplice virtù, collocabile all’interno della legge di causa ed effetto. Questo sentiero prevede la comprensione e l’emersione dalle realtà contaminate ed afflitte attraverso un cammino di purificazione.

Quando il Buddha impresse il secondo giro alla ruota del dharma insegnò la perfezione della saggezza, ovvero la conoscenza basata sulla mancanza intrinseca di vera esistenza dei fenomeni.

Infine, quando per la terza volta girò la ruota del Dharma, diede un’ulteriore descrizione della realtà suddividendo i fenomeni in tre tipi, spiegando il modo in cui i fenomeni effettivamente esistono, con una discriminazione estremamente raffinata in termini d’approccio di mente suprema di chiara luce: il tantra.

Colophon

Questa prima bozza d’appunti, a cura di Luciano Villa, Alessandro Tenzin Villa e Graziella Romania, sui preziosi insegnamenti che Sua Santità il XIV Dalai Lama conferì il 7 dicembre 2007 a Milano, è da ritenersi provvisoria, quindi lacunosa, con possibili errori nonché imperfezioni, anche rilevanti, e non rappresenta affatto una trascrizione letterale delle parole di Sua Santità il Dalai Lama, che espresse direttamente in inglese o tradotte dal tibetano in inglese o in italiano rispettivamente dal Ven. Ghesce Dorji Damdul e da Andrea Cappellari, ma semplicemente un limitato spunto di riflessione.

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