S. S. Dalai Lama: Siamo nel Kali-Yuga?

Sua Santità il Dalai Lama: “Il concetto di ahimsa, di non violenza,sta  guadagnando terreno. Al tempo del Mahatma Gandhi, uomo che venero, la non violenza passava più spesso per debolezza, per rifiuto di agire, quasi per vigliaccheria. Non è più così”.

Sua Santità il Dalai Lama: “Il concetto di ahimsa, di non violenza,sta guadagnando terreno. Al tempo del Mahatma Gandhi, uomo che venero, la non violenza passava più spesso per debolezza, per rifiuto di agire, quasi per vigliaccheria. Non è più così”.

Siamo nel Kali-Yuga?

Jean-Claude Carriere: Incomincio con la domanda che ci poniamo tutti (o quasi): “Siamo nel Kali-Yuga?”. Cioè: viviamo in un’epoca di distruzione? È persa ogni speranza? Il Kali-Yuga, secondo la tradizione induista, è in effetti questa epoca nera, che ebbe inizio più di tremila anni fa, all’indomani della morte di Krishna. È la grande oscurità, la fine di ogni virtù, la scomparsa del dharma, cioè del corretto ordine del mondo, il trionfo dell’ambizione, della falsità, del commercio. Inutile opporsi: tutto deve scomparire. È così. Un ciclo si compie nella siccità, nelle carestie, nelle battaglie, nella distruzione dei legami sociali. Come già è detto nel Mahabharata, ecco il tempo degli uomini senza forza, senza coraggio, spietati. La terra, morta e calda, diviene allora preda del fuoco. Tutto si compie in una lenta apocalisse. Dopo di che il sonno di Vishnu avvolge il ritrovato nulla e il dio sogna le bellezze di questo mondo, perché non vengano dimenticate. Più tardi, molto più tardi, Brahma il creatore scaturirà dal suo ombelico e a un tratto avrà vita un altro mondo. Tuttavia un’altra tradizione, credo buddhista, afferma esattamente il contrario. Noi viviamo – senza saperlo – un’epoca di virtù, di aiuto vicendevole, di migliore osservanza delle Scritture, un periodo definito fortunato. Fra queste due tradizioni, quale scegliere?”.

Sua Santità il Dalai Lama: “Senza esitazione, la seconda.”

Jean-Claude Carriere “Per quali motivi?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Ne vedo almeno tre. Anzitutto mi sembra che il concetto di guerra si sia recentemente modificato. Nel XX secolo, fino agli anni Sessanta-Settanta, pensavamo ancora che la decisione finale e indiscutibile dovesse venire da una guerra. Si tratta di una legge antichissima: il vincitore ha ragione. La vittoria è il segno che Dio, o gli dèi, sono dalla sua parte. Di conseguenza, il vincitore impone la propria legge al vinto, sovente per mezzo di un trattato, che non si rivelerà che un pretesto di rivincita. Di qui l’importanza degli armamenti, e soprattutto degli armamenti nucleari, elemento centrale del Kali-Yuga. Questa corsa alla bomba ha fatto pesare sulla terra una vera minaccia di annientamento.”

Jean-Claude Carriere: “Le sembra che questa minaccia vada scomparendo?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, ne sono convinto. La guerra fredda sembrerebbe cessata. Gli arsenali nucleari si riducono. Chi se ne potrebbe lamentare?”

Jean-Claude Carriere: “Si contano attualmente, proprio nel momento in cui parliamo, più di cinquanta guerre nel mondo. Ricordo quelle vicine a noi, in Afghanistan, nel Kashmir, gli scontri fra musulmani e induisti sul territorio indiano, e altre lotte di cui i giornali occidentali non parlano quasi mai, la guerriglia del Manipur, o quella che oppone i lavoratori immigrati nepalesi alle forze del re del Bhutan, il turbamento profondo che guerre, “epurazioni” e bombardamenti a tappeto, nella ex Jugoslavia, hanno portato all’Europa esitante. In buona fede, nessuno oserebbe sostenere che si sia meno crudeli di un tempo.

Sua Santità il Dalai Lama: “Lo so bene. Queste guerre locali sono veramente crudeli. Ed evidentemente nefaste. Ogni guerra, piccola o grande che sia, è negativa. Rivela ciò che di peggio abbiamo, e non porta che a nuovi conflitti. Ma sotto la minaccia nucleare, nessun luogo è sicuro sulla faccia della terra. Perlomeno, le piccole guerre sono limitate. Qui, oggi, a Dharamsala, mi pare che si stia tranquilli. È vero che molte di queste guerre sono sorte a causa dell’allontanamento della minaccia nucleare”.

Jean-Claude Carriere: “Ha altri motivi di ottimismo?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Sì. Ecco il secondo: credo, malgrado certe apparenze, che il concetto di ahimsa, di non violenza, guadagni terreno. Al tempo del Mahatma Gandhi, uomo che venero, la non violenza passava più spesso per debolezza, per rifiuto di agire, quasi per vigliaccheria. Non è più così. La scelta della non violenza è oggi un atto positivo, che evoca una vera forza. Guardi il Sudafrica, e anche ciò che hanno fatto Arafat e Rabin. Per molti decenni, palestinesi e israeliani non hanno visto, proclamato, usato che la forza. Le due parti sono giunte ora ai negoziati pacifici.”

Jean-Claude Carriere: “Non senza forti remore degli uni e degli altri. E si arriva fino all’assassinio. Fino al massacro tra la folla. Fino ai canti di sterminio che si insegnano ai bambini, di entrambe le parti: prendi il fucile e vai a uccidere l’altro.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Certo. Non occorre dirmi di quali orrori siamo capaci. Ma l’esempio dato dai palestinesi e dal governo ebraico è ugualmente un buon esempio, ben accolto nel resto del mondo. E ho un’altra sensazione. Credo che, grazie alla stampa, ai media, a tutto ciò che si chiama comunicazione, i gruppi religiosi si incontrino più spesso, si conoscano meglio d’un tempo.”

Jean-Claude Carriere: “Questo non vale per certi paesi musulmani, che hanno, al contrario, la tendenza a chiudersi in se stessi, come se volessero cacciare ogni influenza dello straniero, soprattutto se occidentale. In Algeria, gruppi di attivisti giungono a uccidere chi è straniero. Azione assurda e sanguinosa, in contrasto con lo spirito del tempo. E che fa nascere altri gruppi, radicalmente opposti, che uccidono coloro che sono sospettati di aver ucciso, e così via, senza sosta.”

Sua Santità il Dalai Lama: L’isolamento non è mai un bene per un paese. Ed è diventato impossibile. All’inizio del secolo, il Tibet aveva pochissimi contatti con altri popoli, con altre tradizioni, e la cosa fu molto dannosa. Il tempo lo lasciava indietro, e questo ci procurò un brusco risveglio. Quanto ai paesi musulmani, anche se taluni conservano e anzi rafforzano la loro chiusura, nell’insieme, se si guarda il mondo nel suo complesso, l’isolamento perde terreno. In una ventina di anni, ho visitato molti paesi. Mi dicono ovunque: ci conosciamo meglio.

Sotto la tollerante dinastia dei Tang, dal VII al X secolo, esisteva nel nord-ovest della Cina, a Dunhuang, nella regione di Turfan, un centro di ricerche dove le religioni dell’Asia centrale, il taoismo, il buddhismo, il nestorianesimo, il manicheismo (queste ultime due giunte dall’Iran) si incontravano, si scambiavano testi, si sforzavano di conoscersi meglio. La regola era di sottolineare i punti comuni e di sorvolare sulle differenze. Senza dubbio noi manchiamo di tali centri. E sarebbe ottima cosa crearne. Da parte mia, per quanto mi è possibile, incontro altri capi religiosi, passeggiamo insieme, visitiamo questo o quel luogo sacro, qualunque sia la tradizione alla quale si collega, e là meditiamo insieme, condividiamo un attimo di silenzio. Io ne ricavo un grande senso di benessere.

Continuo a credere che sul piano religioso siamo in progresso rispetto all’inizio di questo secolo.”

Jean-Claude Carriere: “Molti commentatori affermano il contrario. Si sente ovunque parlare, anche all’interno del cristianesimo e dell’induismo, dell’avanzata degli integralismi religiosi.”

Sua Santità il Dalai Lama: “È un’avanzata reale, e inquietante. Taluni vogliono scorgervi una reazione agli antichi terrori della fine del millennio.”

Jean-Claude Carriere: “O qualche segreta compensazione al crollo delle ideologie. Alcuni si domandano per quale motivo le speranze ecumeniche degli anni Cinquanta sembrino avere ceduto il posto a una parcellizzazione crescente delle fedi. Ovunque le sette proliferano, le differenze si inaspriscono. L’anno scorso, un visionario americano ha preferito morire nel fuoco con i suoi adepti, piuttosto che consegnarsi alla polizia. “

“Mi trovavo nel dicembre 1993 a Bombay per assistere a una serie di conferenze tenute da specialisti francesi. Si parlava della storia dello zoroastrismo, un tempo religione dell’Iran, rappresentata oggi da circa ottantamila persone, abitanti per la maggior parte nel Maharashtra, in India”.

Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, i Parsi. Li conosco.”

Jean-Claude Carriere: “Una delle conferenze verteva sulle influenze subite dallo zoroastrismo al tempo del suo esilio verso la Cina, dopo l’invasione dell’Iran da parte degli Arabi nel VII secolo. Una di queste influenze fu esercitata dal manicheismo, altra religione già bandita. Le due tradizioni, per adattarsi ai nuovi territori fortemente penetrati dal buddhismo, furono obbligati ad adottare un vocabolario e alcune nozioni buddhiste.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Accade sovente.”

Jean-Claude Carriere: “Si trattava di una analisi meramente linguistica, basata sulle iscrizioni di quel tempo. Al termine della conferenza, si vide alzarsi un uomo corpulento, con l’aspetto di uomo d’affari, che dichiarò ad alta voce, in un inglese eccellente, che lo zoroastrismo non aveva potuto modificarsi né subire alcuna influenza, che comunque Ahura Mazdah era il solo vero dio e Zoroastro il solo profeta. Affermazioni unite a qualche considerazione razziale e politica, come ad esempio: noi siamo i soli veri Ariani. Ero stupefatto. Avevo appena scoperto, oggi, un fondamentalismo zoroastriano. Non sapevo come rispondere a quest’uomo.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Che percentuale di parsi rappresentava?”.

Jean-Claude Carriere: “Da quello che mi hanno detto, circa l’otto per cento.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Ebbene, la risposta è novantadue per cento!”

Sua Santità il Dalai Lama ride per la prima volta: un riso diretto, spontaneo, che tornerà sovente. Si direbbe un’altra persona che lo abiti segretamente e che si manifesti all’improvviso.

Sua Santità il Dalai Lama: “L’umanità è così. È sempre stata così. Non prendiamo in considerazione quest’uomo irritato. Lasciamolo in pace. E se la maggioranza dei parsi rifiuta di seguirlo, diciamo semplicemente: tanto meglio”.

NOTE – Queste conversazioni si sono svolte nel febbraio 1994 a McLeod Ganj, vicino a Dharamsala, nel nord dell’India, e più precisamente nel monastero di Thekchen Choeling, dove risiede il Dalai Lama. Essendovi arrivato il 10 febbraio, ho potuto assistere alle feste dell’anno nuovo tibetano, che inizia l’11 febbraio verso le cinque del mattino. Sono rimasto due settimane a McLeod Ganj.

L’idea del libro, così come l’organizzazione del viaggio, è di Laurent Laffont. Avevo incontrato il Dalai Lama in due riprese, brevemente, nel corso dei suoi due ultimi viaggi in Francia. Mi misi da principio in contatto con i responsabili dell’Ufficio del Tibet a Parigi, e grazie a loro tutto si svolse facilmente. Quando ripenso a questo viaggio, a parte il lavoro di preparazione che mi fu evidentemente necessario, e che durò mesi, conservo il ricordo di giornate molto piacevoli. In particolare l’atmosfera del monastero mi parve al tempo stesso seria e sorridente, senza affanno né tensione.

Prima del viaggio, su richiesta del Dalai Lama, gli scrissi diverse lettere in cui precisavo i temi che desideravo affrontare, tutti concernenti, come si può immaginare, il possibile ruolo del buddhismo nel mondo d’oggi e l’attrazione sempre più forte che esercita. Volevamo parlare del buddhismo nei suoi rapporti con la vita di ogni giorno, con la politica, con le altre religioni o tradizioni, ponendo particolare attenzione alla violenza, all’ambiente e all’educazione. Mi accorsi ben presto – e d’altra parte la dottrina afferma che nulla può essere separato da tutto il resto – che ogni nostra parola era compresa in una trama di relazioni che si estendeva all’infinito. Impossibile isolare questo o quel soggetto dall’insieme dell’atteggiamento buddhista. A dire il vero dovevo parlare di tutto, evitando di entrare nei complessi dettagli della dottrina, della mitologia, del rituale.

Poiché non disponevamo di molto tempo (d’altra parte basterebbe una vita?), proposi al Dalai Lama fin dal nostro primo incontro, ben sapendo che egli è uno degli uomini al mondo più impegnati, di non interrogarlo su quei punti della dottrina o della pratica da lui già sviluppati in numerose opere, e di fare, all’occorrenza, qualche riferimento a quei libri. Accettò subito e questo ci consentì di procedere più speditamente.

A settembre, ci rivedemmo una volta a Parigi, per precisare alcuni punti.

Fu immediatamente chiaro che il problema principale sarebbe stato quello del livello di lettura. A chi ci saremmo rivolti? Poiché entrambi non volevamo interessare solo specialisti (ciò che io non sono assolutamente) ma rivolgerci con questo libro al grande pubblico, ritenni indispensabile fare delle pause nel nostro dialogo.

Bisogna dire che il mio interlocutore conosceva in modo ammirevole gli insegnamenti cui faceva riferimento, io non ne avevo che qualche vaga nozione e la maggioranza dei nostri lettori rischiava o di ignorarli, o di comprenderli in modo superficiale, cioè falso. Presi dunque la decisione, in accordo col Dalai Lama, di interrompere le nostre conversazioni ogni volta che io lo ritenessi necessario per precisare questo o quel punto; cosa che feci con l’aiuto delle opere che cito a fine volume, fermo restando che l’insie-me del libro è stato rivisto dal Dalai Lama e dai suoi collaboratori.

A tale proposito, sono particolarmente grato ai responsabili dell’Ufficio del Tibet di Parigi, Dawa Thondup e Wangpo Bashi. A McLeod Ganj, in più incontri con il Dalai Lama, ho potuto precisare alcuni punti con il suo assistente e interprete Lhakdor e con Kelsang Gyaltsen, entrambi molto gentili e competenti. Voglio ringraziare Nahal Tajadod, sinologo e specialista di storia delle religioni dell’Asia centrale, per la sua preziosa assistenza.

I nostri incontri si sono svolti nella sala delle udienze di Thekchen Choeling. Duravano ogni volta circa tre ore. Parlavamo in inglese, ma sovente il Dalai Lama passava bruscamente al tibetano, e domandava allora a Lhakdor di tradurmi quanto aveva detto. Registravo tutto ciò che dicevamo e alla sera trascrivevo la conversazione della giornata.

A Parigi, nei mesi seguenti il mio ritorno, ho scritto il libro. L’ordine generale delle nostre discussioni è rispettato, anche se a volte ho ritenuto preferibile unire alcuni temi e articolare meglio domande e risposte. Trattandosi tuttavia di una conversazione, non ci si stupirà di vedervi ripetute talune frasi. Se mi è parso necessario conservare queste ripetizioni, è stato per non privare il libro di un certo disordine vivo, che disegna un cammino sinuoso, dapprima semplice, e che va a poco a poco ampliandosi in tutte le direzioni.

Né lui né io desideravamo pubblicare un nuovo catechismo. Volevamo, al contrario, cercare di stabilire un vero dialogo, costantemente aperto e imprevisto, addentrandoci in territori solitamente poco frequentati. Ho cercato di evitare sia il rispetto paralizzante sia l’inutile irriverenza. Se mi capita di prendere la parola molto frequentemente e a lungo, ciò avviene perché il mio interlocutore lo sollecitava. Egli mi interrogava e – fatto ben più raro – mi ascoltava.

Questo libro va preso quindi per ciò che è: una sorta di passeggiata a due, ordinata e disordinata a un tempo, molto attenta, con il migliore compagno possibile e non per uno studio o un saggio. Lo ripeto, molti punti della dottrina sono appena sfiorati, l’estrema complessità speculativa del Mahayana vi è soltanto accennata. L’essenziale mi è parso, a proposito di problemi umani che ci toccano oggi come ieri, e talvolta più acutamente di ieri, ascoltare una voce che parla con semplicità, appoggiandosi a ogni istante su più di venti secoli di riflessione e di esperienza.

Da: Il Dalai Lama, La Compassione e la Purezza. Conversazioni Con Jean-Claude Carriere. Traduzione di Laura Deleidi. Fratelli Fabbri Editori Anno: 1995 http://it.scribd.com/doc/157928207/Dalai-Lama-Purezza