S. S. Dalai Lama: Consapevolezza ed istruzione

 Sua Santità il Dalai Lama: “I veri cambiamenti sono lenti e impercettibili. ”.

Sua Santità il Dalai Lama: “I veri cambiamenti sono lenti e impercettibili. ”.

Consapevolezza ed educazione

Sua Santità il Dalai Lama: Ora stiamo attraversando un periodo critico, molto critico. Tutto il nostro sistema educativo è in crisi. Gli è impossibile adeguarsi. A dire il vero, questa crisi si estende all’attività industriale, alla politica. Tutto sembra sfuggire al nostro pensiero, e di conseguenza al nostro controllo.”

Jean-Claude Carriere: “Come reagire?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Come sempre, in due modi. Possiamo lasciarci andare allo scoraggiamento, e molto presto all’egoismo. Possiamo dire a noi stessi: tutto è perduto, i tempi diventano duri, il mondo non sa più dove va, è in effetti il Kali-Yuga che prevale. Allora ritiriamoci nel nostro cantuccio, godiamoci i pochi beni che possiamo avere accumulato, dimentichiamo il resto, e si vedrà.”

Jean-Claude Carriere: “Conosco persone che vivono così.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Oh, anch’io!” dice ridendo.

Jean-Claude Carriere: “E l’altro atteggiamento?”

Sua Santità il Dalai Lama: “È una presa di coscienza molto semplice e un impegno preciso. Coscienza della nostra condizione, dei mille pericoli che ci assediano. Impegno chiaro a uscirne. Un atteggiamento che mi sembra oggi più necessario che mai. Gli uomini devono svegliarsi.”

Jean-Claude Carriere: “Che cosa aspettano?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Nulla avverrà all’improvviso” mi risponde. “I veri cambiamenti sono lenti e impercettibili. Per esempio, mi pare che la nuova attrazione per il buddhismo, provata dall’Occidente da qualche anno a questa parte, dipenda da due concetti particolari, che non hanno nulla di spettacolare, ma sono profondamente sentiti. Il primo è l’ahimsa, la non violenza, che prende posto a poco a poco come una forza. Il secondo è questa nozione di interdipendenza, presente già anticamente nel pensiero buddhista.”

Jean-Claude Carriere: “E che si ricollega alle nostre preoccupazioni ecologiche?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Direttamente. Il concetto di una esistenza indipendente degli esseri viventi e delle cose è sempre stato rifiutato dalla quasi totalità delle scuole buddhiste fin dall’origine, dalle parole stesse del fondatore. Nulla esiste separatamente. Tutto, al contrario, è unito a tutto. Tutto è collegato, nell’immensa rete di Indra, il re degli dèi nella mitologia indù. Questa interdipendenza di tutte le cose – compreso il nostro sguardo sulle cose – è la prima sorpresa che ci attende sul cammino buddhista. Essa si oppone direttamente a tutto ciò che noi crediamo di sapere, a una visione analitica del mondo, divisa in oggetti separati: la mia mano, la penna che essa regge, la carta sulla quale scrivo, il tavolo ove posa la carta, la casa nella quale si trova il tavolo. Nessuno di questi oggetti, ci ripete instancabilmente il buddismo, ha esistenza separata, può essere considerato in sé.

L’interdipendenza, che porta in sanscrito il nome di pratitya-samuttada, è stata insegnata dal Buddha stesso, più precisamente nell’Avatamsaka-Sutra. Impossibile, ci dice questo sutra, trovare un oggetto che non abbia rapporto con tutti gli altri.

Un maestro contemporaneo dello Zen, Thich Nhat Hahn, in una raccolta di testi recenti, prende ad esempio un foglio di carta. Per non parlare della penna e dell’inchiostro, tutto ha un rapporto con questo foglio di carta. Esso è costituito da elementi non-carta. Se noi rinviamo tutti questi elementi alla loro fonte, la fibra al legno, il legno alla foresta, la foresta al boscaiolo, il boscaiolo a suo padre e a sua madre, e così via, constatiamo che, in realtà, il foglio di carta è vuoto. Non ha un sé separato. È costituito da tutti gli elementi non-sé, non-carta. Se li si esclude, il foglio è vuoto di un sé – si potrebbe dire di un essere – indipendente.

Thich Nhat Hahn aggiunge: “Vuoto, in questo senso, significa che la carta è piena di tutte le cose, di tutto il cosmo”.

Ciò che vale per un foglio di carta vale, naturalmente, per un individuo. Noi siamo costituiti di elementi non-individuo. Il maestro zen dice allora che quando uno fra noi medita, non si separa in alcun modo dal resto del mondo. La sofferenza che porta nel suo cuore è la società stessa. Quando medita, lo fa per tutti gli esseri. Lo fa anche per tutte le cose incapaci di meditare. Siamo qui, in questa eco d’una parola antica, al centro stesso dell’ecologia di oggi.

Educazione e contaminazione

Quando il principe Siddharta, all’età di ventinove anni, già sposato e padre di famiglia, lasciò lo splendido palazzo in cui viveva dalla nascita, circondato da fiori, profumi, uomini e donne accuratamente scelti dal padre per la loro giovinezza e bellezza, e s’incamminò per le strade della città chiamata Kapilavastu, incontrò da principio un vecchio curvo per l’età, poi un uomo divorato dalla peste nera, poi un cadavere portato al rogo.

Questi tre incontri – una scena decisiva nella storia del mondo -, l’improvvisa scoperta della vecchiaia, della malattia e della morte, calamità comuni a tutti, portarono poco tempo dopo alla partenza del principe. Impressionato da un religioso che mendicava il proprio nutrimento, Siddharta Gautama abbandonò segretamente il palazzo, la famiglia e i doveri regali che l’attendevano. Decise di consacrare tutte le forze della sua vita alla ricerca di una luce nuova, fino ad allora sconosciuta, che permettesse agli uomini di liberarsi dalla sofferenza.

La sofferenza è la rivelazione del buddhismo. Sofferenza fisica, certo, ma anche sofferenza morale, senso di impotenza, di frustrazione, di inutilità in questo mondo. Soffrire, per il Buddha, “è nascere, invecchiare, ammalarsi, essere uniti a ciò che non si ama, essere separati da ciò che si ama, non poter realizzare i propri desideri”.

Per cercare un rimedio a questa sofferenza essenziale che si chiama in sanscrito duhkha, Siddharta percorse una parte dell’India, interrogò uomini reputati saggi, trascorse sei anni su una montagna, giungendo a un ascetismo estremo. Tutto questo invano.

Fu in se stesso che trovò la risposta, seduto sull’erba, ai piedi di un fico. Questo mondo che invecchia e che muore, e poi rinasce per invecchiare e morire ancora, è misero. Fu la prima verità. Cercando la causa di questa miseria – il buddhismo, fin da principio, si afferma come una ricerca dei fatti, e delle cause all’origine di questi fatti -, trovò la nascita, e il desiderio di nascita: “All’origine di questo dolore universale è la sete di esistere, la sete di piaceri che provano i cinque sensi esterni e il senso interno, la stessa sete di morire”.

La sofferenza proviene dunque dal desiderio. Fu la seconda verità. Questo desiderio è come un fuoco, che infiamma colui che desidera. Tutto è fuoco, dice ancora il Buddha, l’occhio è fuoco, ciò che esso vede è fuoco, ciò che l’orecchio ode è fuoco, tutto ciò che colpisce i sensi è fuoco. L’illusione ci divora come una fiamma perenne. E questo fuoco della vita, acceso dalla cupidigia, dalla collera e dall’ignoranza, dev’essere spento.

Più tardi, Siddharta Gautama, divenuto il Buddha, cioè il Risvegliato, completò queste due verità con due altri insegnamenti. È possibile, disse, spegnere questo fuoco e giungere così alla cessazione di ogni sofferenza. Infine, quarta rivelazione, esiste una via precisa per giungere a questa cessazione. E indicò questa via.

L’insieme costituisce “le quattro nobili verità”, che

sono il punto di partenza, il fondamento stesso di tutta la ricerca buddhista.

Questo risveglio incomparabile, questa rivelazione tratta dall’interno di se stesso (e non ricevuta grazie a un intervento divino o angelico) da un uomo la cui intelligenza e tenacia ci appaiono oggi prodigiosi (anche se i racconti della sua vita sono tutti disseminati di leggende, nessuno sembra mettere in dubbio la sua esistenza storica e l’autenticità della sua lunga predicazione), suppone che tutti gli altri uomini ai quali il Buddha, durante quarantacinque anni, svela il suo insegnamento, vivano nell’ignoranza e di conseguenza nella sofferenza. Anche se ci crediamo felici, anche se cantiamo a squarciagola che la vita è bella, anche se crediamo di sapere qualcosa del mondo, anche se abbiamo imparato dall’uno o l’altro maestro, anche se insegniamo agli altri, finché il risveglio interiore, frutto di una esperienza strettamente personale, non ci sarà accordato, vivremo nell’ignoranza. Questa è la nostra natura e la nostra prigione. Si deve fare di tutto per distruggerla.

Se il Risveglio, per definizione, non può essere insegnato, la via che può condurvi deve esserci mostrata. Per questo, lungo tutta la storia del buddhismo, l’insegnamento occupa un posto decisivo, centrale. Oggi, a Dharamsala, i tibetani sono fieri delle loro scuole, a buon diritto, e le fanno visitare. Il Dalai Lama ha accuratamente presieduto alla creazione di una università tibetana. Da un lato, i monaci forniscono agli allievi, giunti da ogni parte, un insegnamento buddhista. Dall’altro, il Dalai Lama stesso si aggiorna sulla ricerca scientifica contemporanea, è anche avido di informazioni. Egli dice di imparare ogni giorno.

Qui potrebbe apparirci una lieve contraddizione: la natura umana è buona, tuttavia è sottomessa all’ignoranza e misera, senza avere fatto nulla per meritarlo. Per un buddhista, non è una semplice contraddizione. È l’espressione stessa della nostra condizione. Sta a noi uscirne.

Da: Il Dalai Lama, La Compassione e la Purezza. Conversazioni Con Jean-Claude Carriere. Traduzione di Laura Deleidi. Fratelli Fabbri Editori Anno: 1995 http://it.scribd.com/doc/157928207/Dalai-Lama-Purezza