S. S. Dalai Lama: La flessibilità nella tradizione buddhista

Sua Santità il Dalai Lama: "La flessibilità proviene anzitutto dall\'esperienza. È vero, la nostra esperienza è antica e molto ricca. Ci ha permesso di valutare i pericoli dell\'isolamento, l\'inutilità dell\'autorità dogmatica, la vanità dell\'integralismo. Le ripeto, noi accertiamo dapprima i fatti, poi cerchiamo di analizzare le cause che hanno prodotto questi fatti, e le condizioni nelle quali essi si sono verificati. Senza perdere di vista un solo istante l\'interdipendenza e la transitorietà. Infine, se necessario, cambiamo atteggiamento."

Sua Santità il Dalai Lama: "La flessibilità proviene anzitutto dall'esperienza. È vero, la nostra esperienza è antica e molto ricca. Ci ha permesso di valutare i pericoli dell'isolamento, l'inutilità dell'autorità dogmatica, la vanità dell'integralismo. Le ripeto, noi accertiamo dapprima i fatti, poi cerchiamo di analizzare le cause che hanno prodotto questi fatti, e le condizioni nelle quali essi si sono verificati. Senza perdere di vista un solo istante l'interdipendenza e la transitorietà. Infine, se necessario, cambiamo atteggiamento."

Jean-Claude Carriere: “Vi è certamente, nel buddhismo, un punto che dapprima ci sorprende, e che poi ci attira. Nelle religioni monoteistiche che costituiscono la nostra tradizione, siamo abituati a scritture rivelate, ora da Dio, ora da uno dei suoi angeli o dei suoi profeti. Tutte provengono dall’esterno. L’uomo che le proclamò, o che le scrisse, non era che l’ambasciatore di un ipotetico aldilà. Era, ed è ancora in molti casi, fuori discussione o inimmaginabile modificare, anche solo di poco, una parola considerata rigorosamente divina.

Nulla di tutto questo nel buddhismo. Fu dal profondo di se stesso, bisogna ripeterlo, che il Buddha trasse le sue quattro verità fondamentali e tutto l’insegnamento che ne seguì. Non cessò di ripetere che questo insegnamento doveva essere, in ogni momento, meticolosamente verificato dall’esperienza, addirittura da un’esperienza personale. Sebbene in certe correnti buddhiste, e anche nell’induismo (che volle riconoscere in Siddharta il nono avatara di Vishnu, dopo Krishna), il Buddha sia stato talvolta considerato come una divinità, resta oggi un uomo. A tale titolo è anch’egli dipendente da tutto quello che lo ha circondato?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Naturalmente. Non ha beneficiato, solo fra tutti, di una vita miracolosamente autonoma. Era anche lui composto di elementi non-Siddharta. E fu così, è così per il suo pensiero.”

Jean-Claude Carriere: “Per questo c’è flessibilità nella tradizione buddhista?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Questa flessibilità, come dice lei, proviene anzitutto dall’esperienza. È vero, la nostra esperienza è antica e molto ricca. Ci ha permesso, a più riprese, di valutare i pericoli dell’isolamento, l’inutilità dell’autorità dogmatica, la vanità dell’integralismo. Le ripeto, noi accertiamo dapprima i fatti, quelli in ogni caso indiscutibili, come la crescita della popolazione. Poi cerchiamo di analizzare le cause che hanno prodotto questi fatti, e le condizioni nelle quali essi si sono verificati. Senza perdere di vista un solo istante l’interdipendenza e la transitorietà. Infine, se necessario, cambiamo atteggiamento.”

Jean-Claude Carriere: Senza dubbio per queste ragioni, il Dalai Lama, immagine stessa della gentilezza, della tolleranza, dà comunque l’impressione di essere attento, avido di apprendere, di conoscere, pronto a cambiare da cima a fondo se necessario. Può consapevolmente parlare della fascia di ozono e dell’effetto serra. Immagina spesso, lui che proviene da altipiani molto elevati, un innalzamento del livello dei mari, e i disastri che ne seguirebbero. Ritorna costantemente all’attenzione indispensabile, attenzione a se stesso, agli altri, al mondo intero.

Sua Santità il Dalai Lama: “Riflettere partendo da un punto di vista antico può esserci di aiuto. Oltre all’esperienza, questo offre al contempo una dottrina e una distanza. Molto spesso ci perdiamo nell’attualità disordinata. A forza di guardare il nostro mondo troppo da vicino, non lo vediamo più . È bene, ogni giorno, ripartire da lontano”.

Jean-Claude Carriere: “Ma questo ricorso costante alla tradizione può anche chiuderci gli occhi?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Certo. Può paralizzarci. Dobbiamo anzitutto restare aperti e sensibili. Poi, se ne abbiamo i mezzi, dobbiamo mostrare agli altri ciò che bisogna fare. È appurato che le vecchie proibizioni religiose si rivelano talvolta un male. Ma come modificarle? Con quali armi?”

Le numerosissime rappresentazioni del Buddha, che si sono succedute in diversi paesi, attraverso i secoli, poggiano su un complicato simbolismo. La posizione del corpo, i suoi cinque diversi livelli, le particolari caratteristiche fisiche del personaggio, come le orecchie allungate, le spalle larghe, la protuberanza cranica, tutto ha un significato. Gli scultori e i pittori hanno prestato attenzione soprattutto alle posizioni delle mani, dette mudra, che sono otto. Tra queste otto posizioni, ve n’è una detta “di predicazione” (dharmaciakra mudra): le due mani, una col palmo girato verso l’esterno, l’altra verso l’interno, con gli indici e i pollici che si toccano, mostrano la ruota del Dharma, cioè dell’ordine del mondo. Si tratta di una ruota (ciakra) che non smette di girare. Inutile lottare contro la forza universale che la muove. Per forti che siano la nostra ostinazione a costruire, la nostra passione per la stabilità, il nostro “tenace desiderio di durare”, questo gesto sta a ricordare il movimento, signore delle cose. Contemporaneo di Eraclito, il Buddha ha perfettamente avvertito ed espresso questo principio. L’immobilità è illusione, e il nostro corpo ne è il primo esempio. Non cessa, a ogni frazione di secondo, di degradarsi. Le ultime parole del Risvegliato furono accompagnate da un gesto che mostrava il suo corpo rovinato, vittima di una feroce dissenteria: “Tutto ciò che è composito è destinato alla distruzione”.

I suoi successori hanno ricamato a volontà su questo tema, influenzando nel contempo vicine correnti di pensiero. In un inno shivaico del VI secolo, ad esempio, si trovano alcuni termini pienamente buddhisti:

Ciò che è immobile si disperde e ciò che si muove perdura.

Il Dalai Lama stesso si è sovente espresso sulla transitorietà, sui continui cambiamenti che subiscono i fenomeni. Ne trova anche la conferma nel movimento incessante delle “particelle subatomiche”. Anche le nostre coscienze non esistono che temporaneamente. Ciò che resta fermo, ciò che è sempre fisso, è quello che i buddhisti chiamano la sesta coscienza mentale, la più profonda, che non ha né inizio né fine, e che sfugge anche alle coordinate abituali dello spazio e del tempo. Ritorneremo ampiamente su questa “coscienza sottile” quando parleremo dello spirito.

Anche se questa coscienza sottile può provvisoriamente cambiare, anche se essa non riesce a sfuggire, secondo le scuole più radicali, all’illusione universale che ci culla, in un certo senso “la sua continuità perdura”. Ugualmente, nei molteplici rivolgimenti che subisce la nostra esistenza quotidiana, una sorta di continuità sussiste, quella della società umana Ma tale continuità è il supporto del cambiamento, che senza questa sarebbe per noi impercettibile.

Da: Il Dalai Lama, La Compassione e la Purezza. Conversazioni Con Jean-Claude Carriere. Traduzione di Laura Deleidi. Fratelli Fabbri Editori Anno: 1995 http://it.scribd.com/doc/157928207/Dalai-Lama-Purezza