S. S. Dalai Lama: Nè io, nè dio

Sua Santità il Dalai Lama: "Tutto deve partire da quella che si chiama la base."

Sua Santità il Dalai Lama: "Tutto deve partire da quella che si chiama la base."

NÉ IO NÉ DIO

Sua Santità il Dalai Lama: “Negli aeroporti e nelle stazioni, quando la polizia vuole individuare carichi clandestini di eroina, si giova di cani addestrati. E spesso questo funziona, perché i cani hanno narici molto più fini di quelle dei poliziotti. Ma ciò non significa che i poliziotti debbano considerare i cani come professori. Mi domando veramente se il cambiamento abbia accelerato il suo corso. Quale cambiamento? Il cambiamento di che cosa? Della tecnica, sì. Tutti i nostri strumenti si sono perfezionati, alcuni sono nuovi, esigono una nuova abilità. Gli abiti cambiano in funzione della moda, per lo meno i vostri, i mezzi di trasporto si perfezionano, la nostra percezione del mondo, le nostre convinzioni cambiano, perché viviamo tutti nella transitorietà. Esteriormente, in effetti, le cose cambiano, si modificano in continuazione. Ma noi, però, non siamo cambiati”.

Basato su una esperienza personale, al di là di ogni rivelazione divina, il buddhismo, secondo le parole stesse del suo fondatore, nega ogni esistenza indipendente dell’io. Paradosso unico nella storia del pensiero: quello che tutte le tradizioni chiamano “anima”, in sanscrito atman, questa entità permanente che sopravviverebbe a noi per conoscere un’altra vita, o diverse altre vite, questa realtà distinta dal corpo, resistente alla morte, al sonno, alla perdita di coscienza, il buddhismo la cerca senza trovarla.

Anche i concetti contemporanei di un “io”, di un “ego”, che non presuppongono la sopravvivenza dell’anima dopo la morte ma che stabiliscono un sé tangibile, un essere-io definito e durevole, sono energicamente confutati. Quando diciamo “il mio corpo” o “il mio spirito”, supponiamo l’esistenza di un essere, di una persona che possederebbe questo corpo e questo spirito e che, di conseguenza, ne sarebbe caratterizzato. Lo stesso quando diciamo “i miei desideri”, “i miei rimpianti”, “il mio passato”, “il mio coraggio”. Ora, questo essere, questo sé, il buddhismo non lo trova da nessuna parte.

E addirittura lo condanna, perché vede in questo credo illusorio l’origine dell’egoismo, dell’attaccamento ai beni, della gelosia, dell’orgoglio, della malevolenza nei confronti degli altri, che vivono nel medesimo errore. Dai conflitti fra individui alle guerre di sterminio fra nazioni, ogni sventura che ci inquieta nasce in questa illusione assurda, in questa sensazione di un essere distinto, particolare, forte. Noi siamo, come il foglio di carta, in rapporto con tutte le cose. Possiamo scomporci in un certo numero di elementi: le nostre membra, le parti delle nostre membra, gli atomi che ci costituiscono, l’attività del nostro pensiero, ma nessuno di tali elementi può aspirare alla totalità di un io. Questo continua a sfuggirci.

Per lottare contro questa inconsistenza, che i poeti hanno talvolta magnificamente espresso, gli uomini – ci dice il buddhismo – hanno inventato due concetti, l’uno di protezione, l’altro di conservazione. Il concetto di protezione si chiama Dio, padre onnipresente e onnipotente, che ci rassicura nella nostra debolezza. Il concetto di conservazione si chiama anima, destinata a vivere in eterno, elemento di consolazione nel cammino della vita.

Altri “errori di fondo”, profondamente inscritti in noi da noi stessi, l’idea di Dio e l’idea dell’anima sono il segno stesso della nostra ignoranza. Queste idee sono false e vuote. Esse sono “proiezioni mentali sottili, abilmente avvolte da parole. Hanno una potenza quasi irresistibile, perché sono nate dalla nostra angoscia e dal nostro bisogno di vivere. L’uomo vi si aggrappa così fortemente da non voler nemmeno sentire una parola che vi si opponga. Pertanto, per giungere al risveglio, è indispensabile liberarcene.

Buddha Sakyamuni si è perfettamente reso conto dell’aspetto rivoluzionario, e assai difficilmente accettabile, di questa critica dei sentimenti e dei pregiudizi. Ha detto: “Gli uomini sommersi dalle passioni e circondati da una massa di oscurità non possono vedere questa verità che va contro corrente, che è sublime, profonda, sottile e difficile da comprendere”.

Andare “contro corrente” è il minimo che si possa dire, perché noi siamo intimamente persuasi di essere individui particolari e permanenti. La maggioranza delle nostre frasi cominciano con io. Tutto ci dice che siamo fatti delle nostre azioni passate, della nostra condizione presente, dei nostri progetti per il futuro, che le nostre modificazioni non sono che superficiali, che l’essenziale, in ciascuno di noi, sussiste. “Non sei cambiato” è una delle frasi che ascoltiamo più spesso intorno a noi.

È sufficiente entrare in una grande libreria e contare le opere esplicative e dimostrative dedicate ai problemi dell’io. Gli scaffali ne traboccano. Opere molteplici quanto deludenti, quando capita di immergervisi, perché nessuno dei casi descritti, stranamente, sembra applicarsi al nostro.

Comunque, non è vicina la fine di questo accumularsi di analisi. Tutta la struttura del diritto occidentale moderno è basata principalmente sull’individuo distinto dalla massa, tanto minacciato quanto prezioso: un individuo percepibile e definibile.

Il buddhismo afferma ostinatamente il contrario. Nessuna traccia di sostanza rimane, in noi, immutata. Viviamo al centro di una corrente ininterrotta di relazioni, che condizionano a ogni istante la nostra esistenza. Non abbiamo alcuna possibilità di parlare del nostro io, del nostro essere. I buddhisti non possono seguire Cartesio e il suo famoso “dunque”. Nulla ci autorizza a passare dal pensiero all’essere, due elementi in pari grado mutevoli. Invece di affermare “penso, dunque sono”, tutt’al più potremmo dirci, nel momento in cui parliamo: “penso, quindi penso”, oppure, come Nietzsche, “qualcosa pensa”.

Questa disgregazione dell’ego si accompagna, naturalmente, a una viva critica della memoria e del concetto di passato. Questo senso di continuità, che ogni vita dona, è una illusione supplementare, un compiacente gioco dello spirito. Tutto quello che concerne il nostro passato – che ricomponiamo e modifichiamo col pensiero in ogni istante – è un’astrazione, una costruzione mentale, come il futuro. Possiamo a malapena parlare del momento presente, e con prudenza. Poiché bisogna comunque ammettere che esistiamo (altrimenti la ricerca del risveglio diventa incomprensibile), il Buddha ammette che siamo costituiti da “cinque aggregati”. Senza entrare nei particolari, che sono complessi, elenchiamo questi cinque aggregati che ci compongono, e che sono il fondamento della nostra presenza nel mondo: il corpo (o carattere materiale), la sensazione, la percezione, la formazione mentale (o le costruzioni) e la co-scienza.

Ma il Buddha dice anche, parlando ai suoi primi cinque discepoli: “Il corpo non è il Sé, la sensazione non è il Sé, la percezione non è il Sé, le costruzioni non sono il Sé, nemmeno la coscienza è il Sé…”.

Nessuno degli aggregati che ci compongono (anche se certe scuole sostengono il contrario) può dunque pretendere di essere noi stessi. Ma se bisognasse scegliere? Se avessimo bisogno a tutti i costi di un supporto, di un punto d’appoggio? Allora, dice il Buddha, senza dubbio conviene scegliere il corpo, perché almeno sussiste per un momento, mentre “quel che voi chiamate spirito si produce e si disperde in un perpetuo cambiamento”. Diffidenza, dunque, nei confronti del nostro pensiero. Diffidenza totale nei confronti della nostra “anima”.

Tutti i successori del Risvegliato, a qualsiasi scuola buddhista si rifacessero, hanno insistito su questo punto: l’io è un’illusione, e la vera fonte della sofferenza. Anche il Dalai Lama ha parlato di questa illusione persistente come di un “demone interiore, il più radicato in noi”. E aggiunge: “… Il vero praticante dev’essere un soldato che combatte senza sosta i nemici interiori, il cui capo è questa convinzione dell’io che tutti gli altri attorniano e seguono.

Stabilito questo, ripenso alla sua ultima frase:

“Ma noi, però, non siamo cambiati”.

Se non siamo che caducità e illusione, qual è il flusso costante, inafferrabile, che non cambia in noi? Su quali elementi, fra quelli che ci compongono, possono poggiare i nostri sforzi? Che cosa possiamo modificare in noi?

Riprendiamo la conversazione da dove l’abbiamo lasciata. Oggi è un altro giorno. Da ieri il tempo è trascorso, miliardi di eventi sono successi, sulla superficie della terra e senza dubbio altrove, di cui noi portiamo segni invisibili.

Da ieri contiamo qualche milione di vite in più sul pianeta.

Sua Santità il Dalai Lama: “Se un cattolico sincero, preoccupato per la sovrappopolazione come lei e me, incontra un ostacolo nella tradizione, un notevole ostacolo autentico, che non può trascurare a cuor leggero, che cosa può fare?”.

Jean-Claude Carriere: “Intende dire: se crede veramente alla forza di verità delle Scritture?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Sì.”

Jean-Claude Carriere: “È un caso abbastanza raro.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Cioè?”

Jean-Claude Carriere: “Ho visto recentemente alla televisione francese un servizio su una famiglia sinceramente cattolica. Una delle figlie, pur professandosi credente, ammetteva apertamente di fare l’amore con un giovane al di fuori del matrimonio e di prendere la pillola per non avere figli. Esistono ovunque accomodamenti col cielo. Le Scritture cristiane, nella maggioranza dei casi, sembrano ormai sorpassate ai cristiani di oggi. Parlo dell’Europa, dove la crescita della popolazione è, in ogni modo, molto limitata. In Africa, o in America Latina, il problema è completamente diverso.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Ma comunque, all’interno del cattolicesimo, esiste una via d’uscita?”

Jean-Claude Carriere: “Senza dubbio, ma resta ben nascosta. Il cammino è ancora molto lungo. Quando il papa, rivolgendosi agli africani, proclama, come faceva con i messicani e con altri, che devono accettare tutti i figli che Dio manda loro (un modo di parlare che il buddhismo non ammette), lusinga forse la virilità dei maschi africani e, in un certo modo, mitiga la loro paura d’invecchiare. Molte famiglie sono convinte che un figlio in più – un maschio di preferenza, se Dio lo concede – costituirà un appoggio supplementare per la loro vecchiaia.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Lo so bene, in India e in Cina è la stessa cosa: si ha l’impressione che, se una famiglia è numerosa, resisterà meglio alla povertà.”

Jean-Claude Carriere: “Mentre l’esperienza europea prova evidentemente il contrario. Per lottare contro questa idea, un francese che lei conoscerà sicuramente, il comandante Cousteau ha proposto, per lottare contro l’insicurezza che minaccia tutti gli uomini del terzo mondo nella vecchiaia, di garantire a ogni capofamiglia una pensione sufficiente. Così, forse, rinuncerebbero ad accumulare figli, ipotetici sostegni della vecchiaia.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Immagino.”

Jean-Claude Carriere: “È una soluzione indiretta, scaltra, con effetti a lungo termine, molto difficile da mettere in atto.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Dove trovare il denaro? Come distribuirlo?”

Jean-Claude Carriere: “Molte altre idee vengono proposte qua e là. E molti volonterosi vi si prodigano. Cominciamo a inserire l’ecologia nelle fabbriche (timidamente), a utilizzare la benzina senza piombo, a esercitare un controllo sugli apparati di scarico dei veicoli, ad acquistare detergenti biodegradabili, carta riciclata, ortaggi e frutta coltivati senza prodotti chimici. Usciamo a fatica dalla dittatura spietata dell’industria, che i nostri genitori e nonni hanno subito con il sorriso sulle labbra per più di un secolo. Ma in realtà resta tutto da fare. E non si potrà costruire nulla di rassicurante se la popolazione non viene controllata. Questo è evidente, mi sembra.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Lo credo anch’io. Ma deve capire che i grandi capi religiosi sono per così dire incapaci di modificare le proprie idee.”

Jean-Claude Carriere: “È evidente.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Soprattutto se questo cambiamento deve essere brusco. Il papa, ad esempio, in tutti i testi che distribuisce ai fedeli cattolici, ripete incessantemente lo stesso discorso. Discorso che si basa su convinzioni molto antiche. Anche se lui, personalmente, fosse favorevole a qualche cambiamento (noi non ne sappiamo nulla), le istituzioni cui è a capo gli proibiscono di dirlo pubblicamente. Cerchi di comprendere: è impossibile.”

Jean-Claude Carriere: “Che cosa si può sperare?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Tutto deve partire da quella che si chiama la base. So perfettamente, per averne parlato con loro, che esistono nelle comunità religiose cattoliche, presso i monaci e anche presso le monache, individui che avvertono il pericolo, che condividono le nostre idee, che affermano la necessità di fare qualcosa, al più presto. È da loro, e anche dai fedeli, che deve partire l’idea di un cambiamento. In altre parole, essi dovrebbero creare un’atmosfera che renda possibile questo cambiamento. Le decisioni indispensabili diventerebbero così, per i loro capi, molto più facili.”

Da: Il Dalai Lama, La Compassione e la Purezza. Conversazioni Con Jean-Claude Carriere. Traduzione di Laura Deleidi. Fratelli Fabbri Editori Anno: 1995 http://it.scribd.com/doc/157928207/Dalai-Lama-Purezza