Sua Santità il Dalai Lama: “Il problema che ha sollevato è di grande importanza. Bisogna riprenderlo. Molti ritengono che queste due attività ne costituiscano una sola. I capi religiosi, qua e là, proclamano a gran voce che occupano questo campo spirituale, che è loro prerogativa. E per questo, a sentire loro, se qualcuno rifiuta la religione, rifiuta nel medesimo tempo ogni esperienza spirituale”.
Jean-Claude Carriere: “Cosa del tutto impropria. Perché la vita spirituale dovrebbe essere necessariamente legata a qualche credenza sovrannaturale? Potremmo addirittura affermare il contrario: che la fede sia l’abbandono dello spirito.”
Sua Santità il Dalai Lama: “In effetti, si potrebbe affermarlo. Ma non cerco di distogliere nessuno dalla propria fede, se la pratica con tolleranza. Guardi tuttavia dove può condurre la confusione fra religioso e spirituale: immaginiamo un uomo che parli del concetto di benevolenza o di perdono, o ancora di compassione, un atteggiamento che, lo sa, è uno dei fondamenti del buddhismo. Un altro uomo, che non abbia alcun interesse religioso, ascolta il primo e dice, alzando le spalle: tutto ciò riguarda la religione, non mi interessa.”
Jean-Claude Carriere: “Ha torto, evidentemente.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Ha assolutamente torto! È caduto in una trappola grossolana di vocabolario. Le parole “compassione”, o “carità”, l’hanno accecato. Ma si tratta di qualità umane, puramente umane. Non abbiamo avuto bisogno di una rivelazione divina per acquisirle o scoprirle. Beninteso, in teoria, tutte le religioni raccomandano la compassione, e anche la tolleranza, la generosità, il gusto della conoscenza, tutte le buone qualità umane.”
Jean-Claude Carriere: “Ma le religioni non possono impadronirsene.”
Sua Santità il Dalai Lama: “In nessun caso. È un atteggiamento ingiustificato. Guardi gli animali: si può dire che manifestino fra loro un certo aiuto reciproco, una certa tolleranza, ed anche che mostrino compassione. Ma è chiaro che, in questo campo, i sentimenti umani sembrano più profondi e più tenaci. Gli uomini possono anche, quando raggiungono un punto di più alta virtù, mostrare disinteresse, cosa che fra gli animali mi sembra molto più rara, se non totalmente assente. Su questa base specificamente umana, abbiamo a poco a poco costruito alcuni concetti, che variano da una cultura all’altra, come il Dio creatore, il paradiso, l’inferno…”
Jean-Claude Carriere: “La vita eterna…”
Sua Santità il Dalai Lama: “… il nirvana, la moksa, cioè la liberazione dai nostri impedimenti, ed altro ancora. Questi concetti possono essere proclamati universali, validi per tutti gli esseri umani, senza distinzione di razza, di tradizione, di carattere.”
Jean-Claude Carriere: “Proclamati, e sovente imposti con la forza.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, purtroppo. Ma si può dire anche, ed è il caso del buddhismo, che sono tenuti a rispettare rigorosamente questi precetti solo i veri praticanti. Si può proporli agli altri, ma non imporli. Anche se noi li riteniamo universali, rispettiamo negli altri tutte le caratteristiche che impediscono loro di accettarli. Ciascuno deve essere libero di accettare o di rifiutare una certa credenza o un certo concetto.”
Jean-Claude Carriere: “L’uomo resta padrone del proprio assenso?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Ovviamente.”
Jean-Claude Carriere: “L’Occidente si è interrogato a lungo su questa pretesa libertà. Non siamo condizionati dall’ambiente in cui siamo nati, dalle opinioni che ci circondano, dalla nostra infanzia, da tutti gli elementi più o meno chiari che Ci compongono?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Certo. Per questo il compito è difficile. Ma posso dire che a un certo livello di riflessione, l’uomo ha sempre la possibilità di scelta. Può acquistare questa libertà, staccarsi da tutto quello che lo blocca. E deve farlo. Ho detto un giorno che, a quel che mi sembra, Dio si è addormentato da qualche parte. Scherzavo, come può immaginare, perché noi non crediamo in un dio creatore. Ma è vero che, se Dio si è addormentato, noi dobbiamo svegliarci.”
Jean-Claude Carriere: “Non si possono riversare tutte le nostre sventure su Dio.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Né sul destino, né sul karma, la nostra legge di concatenazione delle cause, dei fatti e degli effetti. Tutto questo denota un atteggiamento piuttosto vile. Se è vero – come credo – che la diversità degli atteggiamenti religiosi è un fedele riflesso della diversità umana, non è in un credo che dobbiamo ricercare la nostra unità.”
Jean-Claude Carriere: “È nell’azione?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Nell’azione responsabile e ponderata. Su un argomento come quello dell’ambiente, di cui abbiamo parlato a lungo, mi sembra, per semplice buon sen-so, che tutti dovremmo essere d’accordo, come a dei bambini preme la vita della mamma.”
Jean-Claude Carriere: “Si può anche vivere senza religione?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Ma naturalmente. Faccia il conto: siamo più di cinque miliardi sul pianeta. Tre miliardi non hanno alcuna forma di religione. Sui due miliardi che si dicono religiosi, un miliardo solo di fedeli, che si proclamano di questa o quella religione, mi sembra sincero. Un miliardo su cinque, il che significa una minoranza. È evidentemente per gli altri quattro miliardi che dobbiamo oggi lavorare!”
Jean-Claude Carriere: “Lavorare come?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Tutto parte da noi. Da ciascuno di noi. Le qualità indispensabili sono la pace dello spirito e la compassione. Senza di queste, è inutile anche tentare. Queste qualità sono indispensabili, sono anche inevitabili. L’ho detto: le incontriamo sicuramente in noi, se ci prendiamo la pena di cercarle. Possiamo respingere ogni forma di religione, ma non possiamo rigettare fuori di noi la compassione e la pace dello spirito.”
Jean-Claude Carriere: “Tuttavia, alcuni individui sembrano riuscirci facilmente.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Naturalmente, e per più ragioni, di cui una è l’ignoranza. Non parlo mai della totalità degli esseri umani, so bene che presentano differenze che giungono talvolta fino a squilibri estremi. Parlo di uomini e donne di buona volontà che desiderano fare qualcosa della propria vita.”
Jean-Claude Carriere: “Aggrapparsi a un dio inconoscibile, irraggiungibile, non significa scaricarsi di questa responsabilità di cui lei parla?”
Sua Santità il Dalai Lama: “In alcuni casi, forse. Ma non necessariamente. L’idea di Dio può anche condurre a meravigliosi atti di compassione.”
Jean-Claude Carriere: “E a divieti, emarginazioni, assassinii.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Rischi di ogni fede.”
Jean-Claude Carriere: “Quest’obbligo interiore di far partecipare gli altri, forzatamente, a ciò che si considera verità universale, e che non è mai che relativa…”
Sua Santità il Dalai Lama: “Come ogni verità!”
Nel suo modo tollerante, e tuttavia convinto, ritorna ogni volta, con una digressione impercettibile, a una constatazione buddhista, come se nel labirinto in cui procediamo parlando, delle lampade fisse fossero state poste a intervalli. Ora passiamo davanti alla lampada della relatività. Questa ci rischiara per un momento.
Si può ricordare brevemente che l’affermazione di una certa relatività del mondo contribuisca alla scomparsa di Dio. In un contesto religioso, l’esistenza garantita dell’universo, indifferente al nostro sguardo, dominatore e impenetrabile, ci porta a domandarci perché e da chi questa massa sia stata creata. Dio è evidentemente la prima risposta.
Gli ripeto la mia ammirazione per la frase di Sakyamuni: “Non aspettatevi nulla se non da voi stessi”. Vi ritrovo un modo di sentire che mi aveva colpito, una quindicina di anni fa, lavorando a un’opera dal titolo La Conference des oiseaux, ispirata a un poema persiano di Farid-od-din Attar e messa in scena da Peter Brook. Stanchi della propria esistenza mediocre e inutile, gli uccelli si lanciano alla ricerca del loro re mitico, di nome Simorgh. La maggior parte di loro, spossata, delusa, o sedotta dalle sorprese del viaggio e dagli idoli che incontra, si ferma per strada. Un piccolo gruppo di uccelli ostinati, guidati dall’upupa, attraversano il deserto e le sette valli dell’incanto e del terrore. Esausti, con le ali bruciate, giungono infine alla presenza dell’uccello re. Cento tende si scostano, una viva luce brilla, ma essi non vedono che uno specchio. Una voce dice loro che questo specchio è la sola verità. Questo Simorgh che hanno cercato, è loro stessi. Non bisogna attendere altro. La voce aggiunge una frase magnifica, l’eco della quale risuonerà a lungo nella poesia persiana: “Avete compiuto un lungo viaggio per giungere al viandante”.
Penso talvolta che il principe Siddharta, nel corso dei sei anni di ricerca febbrile e di privazioni estreme, abbia fatto lo stesso viaggio e ricevuto la stessa rivelazione, da parte di una voce proveniente dal suo intimo. Rivelazione molto pesante da accettare, rivolta solo a un limitato numero di individui, difficile a comprendersi, ad ammettersi (il Buddha non ha cessato di ripeterlo), ma impossibile da rinnegare o snaturare, a meno di non tradire se stessi.
Sua Santità il Dalai Lama: “C’è forse un dio,” dice sorridendo “ma non bisogna aspettarsi nulla da lui.”
Jean-Claude Carriere: “In altre parole, che Dio esista o non esista, non esiste comunque?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì,” e il suo sorriso si trasforma in un largo riso “ma è forse lui ad averci riunito qui!”
Jean-Claude Carriere: “Sì, chi lo può sapere?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Ah, l’ha detto lei!”
Mi prende le mani e ride ancora più forte, come per dirmi: gliel’ho fatta!
È consuetudine scrivere che il buddhismo è nato e si è sviluppato in India, due secoli dopo la morte del Buddha, e soprattutto durante il regno dell’imperatore Asoka (273-232 a.C.), in reazione al brahmanesimo, la religione tradizionale. Ma noi sappiamo poco sul brahmanesimo nel V secolo prima della nostra era. La storia parallela di queste due tradizioni, che terminò più tardi, a partire dal VII secolo della nostra era, con l’indebolimento progressivo e la quasi scomparsa del buddhismo in India, e la sua espansione in tutta l’Asia, questa storia è fatta di con-trapposizioni ma anche di influenze, di scambi reciproci.
Senza addentrarsi in un’analisi comparata, che richiederebbe diversi e ponderosi volumi, è bene sottolineare qualche differenza. Il brahmanesimo, chiamato anche induismo, ammette una moltitudine di dèi e di racconti mitologici. A seconda delle tradizioni, la creazione del mondo vi è narrata in più versioni. Senza possedere l’onnipotenza del dio delle religioni monoteistiche, gli dèi indiani – sottomessi ai grandi cicli del tempo, agli yuga – possono intervenire nelle faccende umane, e sono talvolta considerati mortali. Oggi, le trentaseimila divinità del pantheon indiano, senza contare il mondo dei culti popolari, sono sovente utilizzate come una sorta di immenso vocabolario, che ci aiuta a parlare del mistero del mondo.
La vita umana deve fare i conti con quattro concetti o attività fondamentali, chiamate in sanscrito Dharma, Artha, Kama, Moksa
Il Dharma è la grande legge dell’universo, l’ordine al quale dobbiamo piegarci. La peculiarità della tradizione induista è quella di affermare che questa legge universale si trova anche in ciascuno di noi,
che tutti noi possediamo un dharma individuale, che dobbiamo seguire con perspicacia e rigore. In altre parole, è necessario sapere chi siamo (l’idea di una permanenza dell’io è qui presente) e restare fedeli a quel che siamo. Se i nostri dharma particolari vengono rispettati, il Dharma universale sarà pre-servato. L’induismo introduce così una sorta di solidarietà fra l’essere umano e il cosmo. Interrogato sui motivi che l’hanno spinto a comporre il Mahabharata, il grande poema del mondo, Vyasa, l’autore leggendario, risponde: “Per incidere il Dharma nel cuore degli uomini”.
Il buddhismo ha conservato questo concetto caratteristico dell’India. Il Dharma buddhista costituisce l’insieme dei fenomeni, sottoposti alla legge. Ma il termine ha assunto, più precisamente, il significato di “dottrina, insegnamento del Buddha, doveri prescritti”. Anche se l’aspetto cosmologico si è un po’ attenuato, a favore di una osservanza umana, il Dharma resta la guida di ogni vita, la conoscenza indispensabile.
Il secondo concetto è quello dell’Artha, termine che significa generalmente i beni, le cose buone della terra. Contrariamente alle dottrine che insistono sulla rinuncia, l’induismo ha piuttosto tendenza ad affermare che i beni di questo mondo ci sono stati dati per essere goduti, che la rinuncia non significa nulla se non sappiamo a cosa rinunciamo. Così, l’induismo consiglia di non lasciare la società per diventare un sadhu, un asceta errante che pratica la rinuncia, prima di aver conosciuto i figli dei propri figli. Nel buddhismo, succede che dei bambini vengano designati fin dalla più tenera età e votati alla vita monastica (che possono, comunque, abbandonare senza difficoltà).
Il terzo concetto fondamentale è quello di Kama, l’amore, motore dei mondi, e più in particolare l’amore sessuale. Il dio Kama è una sorta di Cupido,
sovente rappresentato con un arco, ali e nell’atto di lanciare frecce fiorite. È l’azione di Kama che determina il più delle volte il ciclo delle nostre rinascite, il samsara. È colui “che avvelena”, “che agita lo spirito”, “il conquistatore invincibile”. Nell’induismo, questa forza può estendersi al movimento dell’universo. Il buddhismo resta, in generale, più cauto – salvo nella tradizione tantrica.
Il quarto concetto, infine, è quello di moksa, la liberazione, lo scioglimento finale del ciclo delle rinascite, situato nel più alto grado della coscienza. Nell’induismo, questa liberazione conduce alla fusione col Brahman, l’essere universale. Nel buddhismo, dove viene usato il medesimo termine, essa prefigura il nirvana. Al più alto livello concepibile della coscienza, là dove lo spirito diventa sottile, essa può raggiungere il risveglio, lo stato di buddha, che si può tradurre, anche se in modo un po’ infelice, con “buddhità”. Fra gli esseri perfetti, che aspirano vivamente a questo risveglio e che hanno ogni possibilità di giungervi, la tradizione buddhista detta del Grande Veicolo (Mahayana) – quella che ci interessa qui, giacché il buddhismo tibetano vi si richiama – pone i bodhisattva. Questi esseri, specie di intermediari fra noi e la buddhità, e che potrebbero ambire alla beatitudine eterna del nirvana, preferiscono rinunciarvi per poter venire ancora in nostro aiuto. Fino a quando durerà la sofferenza umana, potremo contare su di loro. Essi operano anche per pura compassione nei nostri confronti.
Sua Santità il Dalai Lama: “Bodhisattva, lo conosce?”
Jean-Claude Carriere: “Non personalmente.”
Ride sonoramente, poi verifica in breve le mie conoscenze (non si tratta di un esame, vuole semplicemente sapere a quale livello debba parlare quando dovrà trattare del buddhismo).
Prima della sua incarnazione nella persona del principe Siddharta, il Buddha, nel corso delle sue precedenti esistenze, fu il Bodhisattva per eccellenza. Altri, in gran numero, gli sono succeduti. Il più venerato fra loro, l’essenza stessa della compassione (al punto che gli altri bodhisattva vengono talvolta considerati come suoi discendenti, sue manifestazioni) si chiama Avalokitesvara. È “colui che dà da bere agli assetati”, il “signore splendente che guarda in basso”, “la voce e la luce del mondo”, “colui che porta il loto”, il più popolare degli intercessori. Le sue raffigurazioni sono molteplici. Può assumere una grande varietà di aspetti. In questo momento, a Dharamsala, nessuno dubita che abbia assunto le sembianze di quest’uomo che sta al mio fianco, che mi parla, mi guarda e mi stringe talvolta le mani.
Fra le diverse immagini che si possono vedere nella stanza ove avvengono le nostre conversazioni, alcune sono antiche, salvate dal Tibet al momento dell’esilio nel 1959, altre sono state fatte qui. Presenze dorate, rassicuranti, circondate da piccoli mazzi di fiori artificiali. Fra queste, assai stranamente, non figura alcuna immagine di Avalokitesvara. È vero che è qui, vivente.
“Se mettiamo da parte” mi dice “l’idea inverificabile di un dio creatore e sommo giudice, giungiamo alla nozione di ciò che si potrebbe chiamare “una religione umana” (talvolta dice anche “umanista”), cioè nata dalla riflessione umana per rispondere a un bisogno umano. In questo senso, il concetto di bodhisatthva è forse più scientifico di tutte le costruzioni teologiche.”
La scienza, nel senso più contemporaneo del termine (che indica spesso più una ricerca che un sapere), s’insinua sempre più nel nostro dialogo. Nulla di più normale, giacché il buddhismo parla costantemente di esperienza, di verifica. Per quanto riguarda i bodhisatthva, questa esperienza resta estranea alle tradizioni
non buddhiste, e in particolare per gli occidentali. Qui, è il frutto di accuratissimi studi. Considerata come dato di un fatto, è inscindibile dalla vita quotidiana.
Sua Santità il Dalai Lama: “La nozione vissuta del bodhisattva è senza dubbio uno degli elementi che, oggi, attrae sempre più spiriti curiosi verso il buddhismo. Credo sinceramente che il buddhismo sia più profondo, più sofisticato rispetto ad altre religioni o scuole di pensiero”.
Aggiunge subito, diffidando sempre di ogni tipo di propaganda: “Ciò non significa che il buddhismo sia superiore, e neanche migliore. Né, soprattutto, che sia valido per tutti. Per alcuni credenti, il dio creatore è un concetto più potente, forse anche più accessibile, più adatto a certi popoli, a certe culture”.
Jean-Claude Carriere: “Perché?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Per la forza stessa dell’abitudine, della tradizione. È assurdo pensare che d’un sol colpo tutta una tradizione crolli, che tutti gli uomini, come per miracolo, nutrano le stesse speranze, si appoggino alla stessa fede, allo stesso pensiero. Quando incontriamo un credo molto diverso, e persino opposto, ma profondamente e autenticamente consolidato, dobbiamo rispettarlo.”
Mostra il vassoio posato sul tavolo e dice: “È come per il cibo. Non si può dire che questo o quel cibo sia adatto a tutti. Dipende dal clima, dalle abitudini alimentari, dall’altitudine, anche dalla nostra età, forse”.
Jean-Claude Carriere: “Dalle nostre malattie.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, da una grande varietà di circostanze.”
Parlando dell’alimentazione vegetariana, che continua a essere ideale per i buddhisti, racconta che in India, all’inizio dell’esilio, ha cercato anche lui di diventare vegetariano, il che lo fece ammalare. Dovette adattarvisi molto gradualmente.
Sua Santità il Dalai Lama: “Lo stesso per il concetto di bodhisattva. Credo sinceramente che sia più razionale, più adatto al mondo d’oggi che molte altre concezioni religiose. Numerosi sono i visitatori che me ne parlano, che si sentono molto vicini a questa forza della compassione, che noi troviamo al livello più costante della nostra incostante natura, e che il bodhisattva, in un qualche modo, impersona. Fra questi visitatori, incontro abbastanza sovente scienziati. Ma questo interesse non ci dà alcun diritto di giudicare gli altri in base al nostro particolarismo. Non deteniamo la verità universale, non abbiamo da offrire che i frutti di una lunghissima riflessione: la nostra.”
Jean-Claude Carriere: “Anche il concetto di bodhisattva sarebbe dunque relativo?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Certamente. Non abbiamo alcun diritto di applicarlo in generale, di farne un dogma universale. Quando fornisco un insegnamento, prendo sempre molte precauzioni, dico: “Siate molto attenti, non prendete alla leggera una decisione cruciale. È una frattura molto seria cambiare religione, modo di vivere, di pensare. Riflettete molto bene”.”
Questo atteggiamento – abbastanza eccezionale – si rifà ancora una volta a un episodio tratto dalla vita di Sakyamuni. Al tempo della sua predicazione, nel nord dell’India, insegnava anche il fondatore del giainismo, Mahavira, persona degna di rispetto, senz’altro più vecchia di Siddharta. Accadde che Mahavira, avendo sentito parlare degli insegnamenti del nuovo venuto, diversi dai suoi, inviò uno dei suoi discepoli, un ricco laico di nome Upali, ad incontrare Sakyamuni e sfidarlo a un pubblico dibattito sul concetto di Karma.
Nel corso di questa controversia, Upali fu convinto rapidamente dagli argomenti di Sakyamuni. Nello stesso tempo, gli parve che l’insegnamento ricevuto da anni per bocca di Mahavira fosse erroneo. Così chiese al Buddha di accoglierlo come discepolo laico. Sakyamuni gli rispose che questa decisione era troppo affrettata. Gli consigliò di riflettere a fondo. Quando Upali tornò alla carica, il Buddha rifiutò di tenerlo con sé e lo rinviò al suo vecchio maestro, chiedendogli di rispettarlo, di sostenerlo.
Il buddhismo non cessa di ripetere che la verità non ha etichette. L’esempio viene da lontano, dal Risvegliato stesso, che rifiutava ogni forma affrettata di adesione, ed anche dall’imperatore Asoka, primo sovrano dell’India a convertirsi al buddhismo, senza per questo smettere di manifestare la propria tolleranza nei confronti delle altre fedi.
Quando, dopo Costantino, gli imperatori romani si convertirono al cristianesimo, il loro atteggiamento nei confronti dei pagani e degli ebrei fu completamente diverso. Presero a loro volta la via della persecuzione.
Le asserzioni buddhiste di oggi non stanno a significare che la storia del buddhismo fu esente da ogni forma di violenza. La Cina, in particolare, conobbe nel Medioevo duri scontri. Malgrado la riconosciuta tolleranza dei sovrani Tang, alcuni fra loro, come l’imperatrice Wu (681-705), non esitarono a utilizzare il buddhismo per brutali scopi politici.
L’umanità è fatta così, direbbe il Dalai Lama. Di qui, malgrado la tolleranza ufficiale, una severa vigilanza, e principalmente nei confronti di noi stessi.
Da dove viene l’intolleranza? Dall’interno o dal di fuori?
Da un attaccamento ferocemente sincero a una convinzione, o da un gusto della pompa, del potere, dell’adulazione che si leva da grandi folle prosternate?
Come sbarazzarci da queste tentazioni, come – riprendendo le parole surrealiste – crearci “uno Spirito privo di abitudini”, come “non essere più vincolati alla terra”?
Da: Il Dalai Lama, La Compassione e la Purezza. Conversazioni Con Jean-Claude Carriere. Traduzione di Laura Deleidi. Fratelli Fabbri Editori Anno: 1995 http://it.scribd.com/doc/157928207/Dalai-Lama-Purezza