S. S. Dalai Lama: Verso una scienza dello spirito
Destreggiarsi fra i concetti buddhisti e induisti non è cosa agevole, non soltanto a causa dei termini, difficili da tradurre, ma della nostra volontà di conferire loro un significato preciso in altre lingue, di trovare parallelismi negli altri sistemi di pensiero. Così il termine dharma, il termine bodhisattva, non sono traducibili nelle lingue occidentali. Le radici di queste parole non destano in noi alcuna eco. Il significato che diamo loro è secco, scarno e senza colore. Se li conserviamo nella lingua originale, in sanscrito o in pali, ci è necessaria molta pazienza prima di comprenderli e farli nostri. Anche un concetto apparentemente universale come quello della compassione assume nel buddhismo una valenza particolare. Lungi dall’apparire come un sentimento naturale, fatto di dolcezza e d’amabilità, sentimentale, abbastanza banale in fondo e talvolta un po’ kitsch (per molti lettori frettolosi, il buddhismo può riassumersi in una frase: “è meglio essere gentili che cattivi”), la compassione è oggetto di studi precisi. Per riprendere un’espressione di Sogyal Rinpoché, esiste “una logica della compassione”, le cui tappe, operazioni e risultati (sugli altri ma anche su noi stessi), possono essere studiati in modo quasi scientifico.
Quando abbiamo cominciato a parlare del concetto di bodhisattva, il mio interlocutore si è reso conto della crescente inadeguatezza del vocabolario. Ho cercato di rassicurarlo, spingendolo a non indietreggiare di fronte a ciò che può sembrare complicato, persino inaccessibile in un semplice libro. Ricordiamo i problemi molto simili che incontrano gli scienziati, quando vogliono rivolgersi al grande pubblico. Gli parlo di un libro che ho scritto insieme a due astrofisici, Jean Adouze e Michel Cassé, in cui si presentavano le stesse difficoltà. Come, ad esempio, rappresentare un atomo? E le particelle in questo atomo?
Descrivo un’immagine suggeritami da questi due studiosi. Prendiamo un’arancia, ingrandiamo questa arancia fino a giungere alle dimensioni della terra. Dopo, riempiamo questa gigantesca arancia di ciliegie: abbiamo circa il numero di atomi di cui è costituita un’arancia. Si tratta di una cifra considerevole, intorno a 10 elevato 20. Ora, se vogliamo giungere al livello dimensionale delle particelle, prendiamo una di queste ciliegie. Immaginiamo di darle le dimensioni della cupola della basilica di San Pietro, a Roma Poniamo in questa cupola un granello di riso. Abbiamo così la dimensione relativa del nucleo stabile dell’atomo, composto da protoni e da neutroni, intorno al quale (nel vuoto della cupola) ruotano gli elettroni. E in questo granello di riso risiede una delle forze essenziali dell’universo, la forza nucleare.
Sua Santità il Dalai Lama: “Non è che un trucco per cercare di abituare lo spirito a immaginare l’inimmaginabile, in questo caso l’infinitamente piccolo. E poi, questo ci mostra che la scienza più avanzata, così come il buddhismo, in ultima analisi trova il vuoto.”
Mi segue attentamente, e ride.
Jean-Claude Carriere: “Un’altra cosa lo prova. L’astrofisica ci insegna che noi siamo attraversati a ogni istante da una corrente continua, fatta di miliardi di particelle infinitamente piccole, chiamate neutrini.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Da dove vengono?”
Jean-Claude Carriere: “Dal sole e da altre stelle. Passano attraverso la nostra materia con la più totale indifferenza, come se non esistessimo. Attraversano anche le rocce più dure, la terra intera e altri corpi celesti, senza essere arrestate né frenate.”
Molto interessato, chiede al suo assistente di annotare l’esatta grafia della parola “neutrino” (che deriva da “neutro”). Gli dico che Michel Cassé a volte li chiama “angeli”.
Fantastichiamo un istante su questo punto d’incontro, su questo vuoto enigmatico che siamo ai nostri stessi occhi, anche sulla caducità che sembra travolgere ogni cosa, anche quest’onda di particelle invincibili che viaggiano senza fatica nell’universo. Penso ad alcune frasi di uno dei più bei testi del buddhismo giapponese, il Kègonkyo, sutra della dottrina Kegon: “Illuminato dalla sua stessa luce, il Buddha rischiara tutti gli universi. Il suo sguardo puro conosce tutto, e penetra ovunque. Si rivela nell’infinito, e l’infinito è lui…”.
Poco più avanti, nello stesso testo, è detto che egli “risiede al centro dell’atomo più minuscolo”. Qui, un’antica e duratura intuizione ci parla da vicino. Dapprima, contrariamente alle concezioni limitate dell’Occidente, e in particolare di Aristotele, che ha condizionato la nostra visione del cosmo almeno fino a Galileo, l’Oriente ha sempre concepito l’universo come illimitato, esteso ovunque. I mondi che esso contiene sono innumerevoli. Il buddhismo lo descrive come una lunga serie di anelli giganteschi infilati su un asse invisibile, il famoso monte Meru.
L’induismo chiama quest’asse il Dharma, e lo immagina sostenuto da Vishnu. Anche qui l’universo, lungi dall’essere limitato alla volta celeste, è di dimensioni grandiose, che i poeti si affaticano a descrivere. Indra, il re degli dèi, abita in una splendida capitale, Amaravati, sempre in movimento nello spazio.
In secondo luogo, dicono i più antichi testi buddhisti, la materia del mondo è costituita da particelle molto leggere, dagli anu, termine che si traduce generalmente con “atomo”. Queste particelle hanno una massa e sono indivisibili. Alcune scuole giungono a dire che questi atomi non si toccano e sono tenuti in relazione, formando degli insiemi, solo dalla forza dell’elemento ventoso. Il vento assicura così la coesione degli aggregati di particelle, nozione generalmente tradotta con “molecola”. Queste molecole, in perpetua instabilità (come tutti i corpi composti) contengono tutte le sostanze elementari, e tutte le qualità che ne derivano (il gusto, l’odore, la sembianza, la consistenza tangibile, il suono). Inoltre, all’interno di queste molecole, e gruppi di molecole, tutti gli elementi coesistono: nell’acqua c’è fuoco e terra, altrimenti quest’acqua non potrebbe né scaldarsi né gelare.
Infine (cito testualmente): “I corpi che essa (la molecola) forma sono così percettibili e la loro percezione ha luogo quando le molecole obiettive sono raggiunte da molecole simili che risiedono negli organi di senso, ad esempio sulla pupilla per la vista…”.
Questo mi ricorda una frase di Michel Cassé che parlava del sole, modellatore del nostro occhio: “L’atomo del sole parla all’atomo dell’occhio il linguaggio della luce”.
Jean-Claude Carriere: “Il buddhismo sarebbe allora una scienza? Una scienza dello spirito?”.
Sua Santità il Dalai Lama: “È proprio così!”.
Jean-Claude Carriere: “Mi parli dello spirito.”
Scoppia a ridere e, afferrando una manica del mio maglione, risponde.
Sua Santità il Dalai Lama: “Bisognerebbe per questo che lei cambiasse abito! Che lei indossasse una veste rossa!”.
Jean-Claude Carriere: “E che mi rasassi la testa?”
Sua Santità il Dalai Lama: “E che lei studiasse almeno per dodici anni, non facendo altro che questo!”
La scienza dello spirito, del funzionamento dello spirito è, nella storia del buddhismo, un’attività antica e decisamente raffinata. Poiché nulla può essere visto o compreso senza lo spirito – giacché, secondo alcune scuole, tutte le cose dell’universo possono essere manifestazioni dello spirito – questa scienza è necessaria. È al centro di ogni studio.
Dato che gli oggetti hanno solo un’esistenza relativa, o convenzionale, e che è impossibile considerarli in se stessi, come entità indipendenti e stabili, l’accesso a questi oggetti da parte dei nostri sensi è irto di difficoltà, soggetto a mille errori e minacciato dalla confusione. Uno dei fondatori del buddhismo Mahayana, Nagarjuna – che il Dalai Lama cita sovente come uno dei suoi maestri prediletti -, scriveva all’inizio del III secolo della nostra era:
Più lontano siamo dal mondo, più reale ci sembra, più ci avviciniamo, meno diviene visibile e, come un miraggio, diventa senza segno.
Si ritrovano al tempo stesso in questo testo l’imperiosa necessità di “vedere” e la confusione inevitabile che provoca ogni tentativo di “vedere da vicino”. Il Buddha già lo affermava: “La forma è come un’illusione magica e le sensazioni, le percezioni, i costrutti mentali e le coscienze sono anch’essi illusioni magiche”.
Jean-Claude Carriere: “Mi sembra che questa difficoltà a cogliere il reale sia proprio al centro dello studio buddhista dello spirito.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, senza dubbio. Ne deriva una moltitudine di precauzioni da prendere, di divisioni e di suddivisioni nelle nostre operazioni di approccio. Ad esempio, per quel che concerne le percezioni dirette (che non sono le sole), tutte le tradizioni buddhiste ne distinguono tre tipi: sensoriale, mentale e yogica. Quest’ultima non può essere raggiunta che per mezzo della meditazione.”
Jean-Claude Carriere: “Ma questi tre tipi di percezione si dividono in più categorie?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, in più livelli, che a loro volta devono essere messi in relazione con le sei coscienze, e i cinquantun fattori mentali, che sono solo occasionalmente presenti. Vede perché, se vuole sapere tutto, dovrebbe rasarsi la testa! ”
Per il semplice gioco delle combinazioni aritmetiche possibili, il numero delle operazioni percettive diventa ben presto impressionante. E ciascuna di queste operazioni si trova minuziosamente descritta e analizzata – e sovente criticata, messa in dubbio – da secoli di studio. Lo stesso accade per le altre operazioni dello spirito, come la cognizione, il pensiero concettuale, la memoria. La lista non sembra avere fine, cosicché nessun individuo, oggi, può abbracciare tutta questa scienza. Nessuno spirito può afferrare tutto lo spirito.
Questo fascino che lo spirito umano prova nei confronti di se stesso, si collega a un altro sentimento, più semplice a esprimersi, e ripetuto senza sosta: il corpo è condannato a deteriorarsi, e noi non possiamo farci niente. Gli autori buddhisti insistono continuamente sulla caduta dei capelli, sull’indebolimento della vista, sull’appesantimento delle membra. In compenso, se il corpo inevitabilmente declina, possiamo costantemente abbellire lo spirito, e questo fino all’ora estrema. È anche detto che al momento della morte, se siamo ben preparati, possiamo ricevere infine le rivelazioni fondamentali.
Altro passo, che rafforza la confusione: il nostro spirito è per natura indisciplinato. Nella Bhagavadgita, il più bel testo, senza dubbio, che ci ha lasciato l’induismo, l’eroe Arjuna, improvvisamente angosciato prima della battaglia, dice a Krishna, suo auriga e amico: “Lo spirito è volubile e instabile, è sfuggente, febbrile, turbolento e tenace. Soggiogarlo mi sembra più arduo che domare il vento… Come decidersi? Come scegliere?”.
Krishna stesso riconosce che lo spirito è “misterioso e incomprensibile”, senza dubbio “più grande dei sensi”. Apprendere il funzionamento segreto dello spirito, è avanzare nella “foresta fitta dell’illusione”, è cogliere in un solo momento tutto il cammino del mondo.
Il buddhismo ha descritto molte volte, sia direttamente, sia per mezzo di metafore, questo timore di uno spirito-turbine, di uno spirito-disordine. “Lo spirito si manifesta e si disperde in un perpetuo cambiamento” diceva Sakyamuni. “Come una scimmia che si diverte in una foresta afferra un ramo e poi lo lascia per aggrapparsi a un altro, e poi ad altri rami, così quel che voi chiamate spirito, pensiero, conoscenza, si crea e si dissolve senza posa.”
Per indisciplina, nella propria attività, lo spirito è irresistibilmente attratto dalle forme dell’illusione. Si inganna continuamente sulla realtà del mondo. L’immagine della scimmia inquieta ritorna sovente: il nostro spirito è anche una scimmia rinchiusa in una casa vuota, con qualche apertura. Queste aperture sono gli organi dei nostri sensi. La scimmia getta un colpo d’occhio da una finestra, scorge un angolo del mondo esterno, passa presto a un’altra fi-nestra, senza riflettere, senza uno sforzo critico o di sintesi. Da qui una percezione frammentaria, mutila, necessariamente falsa, che ci porta ad azioni rapide, brutali, sempre nefaste.
Quanto allo spirito, non offre alcuna caratteristica particolare. Fuori dall’influenza aberrante dei sensi, è indifferente come uno specchio, che riflette ciò che gli si presenta davanti. Un maestro indiano dell’XI secolo, Tilopa, lo definisce così: “Lo spirito luminoso non ha né colore, né forma. Non è né scuro’ né chiaro, né cattivo, né buono”. Inutile attribuirgli una qualità originaria e inseparabile. Si pone al di là di ogni possibilità di essere qualificato.
In definitiva, è forse il solo e vero creatore, grazie alla sua stessa funzione. Costituisce anche un passaggio obbligato. Impossibile giungere al dissolvimento dell’illusione senza trattare dello spirito. Come dice un altro grande maestro, Shantideva (che viveva nel VII secolo): “Se non si è anzitutto compreso il fenomeno costruito dallo spirito, la sua non-esistenza non può essere stabilita”. I fenomeni costruiti dallo spirito sono tanto più difficili da discernere, infine, quanto più questo spirito possiede una regione misteriosa che chiamiamo oggi l’inconscio. Questa sorprendente scoperta fu compiuta dal Buddha stesso, fin dall’inizio. Egli chiamò questo territorio impenetrabile amushaya Come, diceva, le funzioni fisiologiche – per esempio la digestione – si svolgono a nostra insaputa all’interno del corpo, così il nostro pensiero può seppellire in se stesso le preoccupazioni, gli attaccamenti peri-colosi – tanto più pericolosi quanto più noi li crediamo annientati, mentre essi non sono che dileguati e nascosti a noi stessi. Anche se offriamo, in superficie, un’apparenza di tranquillità, custodiamo in noi questo vulcano.
Sakyamuni dava in poche parole una definizione della amushaya alla quale non c’è nulla da aggiungere: “Abitudine sotterranea di dipendenza e di avversione”.
Dopo avermi vivamente sconsigliato di rasarmi la testa e di vestire l’abito del khiksu, il Dalai Lama mi dice.
Sua Santità il Dalai Lama: “Si rassicuri, possiamo parlare dello spirito. Mi accade abbastanza sovente di affrontare questo tema con scienziati, neurologi, psichiatri. Ho partecipato a cinque o sei convegni in questi ultimi anni”.
Jean-Claude Carriere: “Cosa succede?”
Sua Santità il Dalai Lama: “All’inizio, esitano un poco. Li sento reticenti. Temono evidentemente che io mi limiti a elencare affermazioni dogmatiche. Il secondo o terzo giorno, mentre le discussioni continuano, a poco a poco le reticenze diminuiscono, e talvolta scompaiono del tutto. Ben lontani dal considerare il buddhismo come una religione rigida, alcuni vogliono rendersi conto se, come lei dice, si tratti di una scienza. E se tale scienza, estremamente complessa, poggi come tutte le scienze sull’esperienza.”
Jean-Claude Carriere: “Quali sono gli scienziati che vi sembrano più interessati?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Gli psicologi, i neurologi, tutti coloro che studiano il cervello e anche i fisici e gli astrofisici, coloro che lavorano sulla materia dell’universo e sulle particelle elementari.”
Jean-Claude Carriere: “Lei si è accostato alla meccanica quantistica?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, per quanto ho potuto.”
Jean-Claude Carriere: “Lei sa che a livello dell’infinitamente piccolo lo spirito giunge a una zona di incertezza?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Me l’hanno detto. Ma non mi ha poi stupito troppo.”
Gli ricordo che questa incertezza, affermata da Heisenberg e da Niels Bohr, resiste alla ricerca da più di cinquant’anni. Nella fisica dell’infinitamente piccolo, è impossibile conoscere contemporaneamente la posizione di un elettrone e la sua velocità. Lo spirito deve scegliere. Questo limite imperativo imposto alla conoscenza, e che altre osservazioni confermano, sembra rimettere in causa in modo quasi decisivo il rapporto consueto tra spirito e realtà.
Contrariamente alla tradizione orientale, l’Occidente non ha mai messo in dubbio radicalmente l’esistenza del reale. Secondo la nostra tradizione classica, Dio ha posto delle leggi nella natura e compito nostro, come ha detto Cartesio, è scoprirle. Atteggiamento che l’Occidente mette in discussione dall’inizio del XX secolo, dalla scoperta della relatività e della meccanica quantistica. Non senza confusione e stupore. Senza giungere fino a dubitare radicalmente del reale e senza rinunciare a stabilire delle leggi, anche se in taluni campi esse si accompagnano a una frangia di incertezza, i ricercatori contemporanei introducono nel loro lavoro una nuova dimensione che è proprio il rapporto con lo spirito. L’osservatore, con la sua stessa presenza, con un suo pur minimo intervento, modifica l’oggetto osservato. Ogni ricerca, oggi, deve tenerne conto. La relazione diventa più importante dell’oggetto.
In questo territorio, benché segua altre vie, il pensiero orientale ci ha preceduto. Racconto al Dalai Lama che un giorno, quando lavoravamo insieme, chiamai Michel Cassé per dirgli: “Tutto ciò che esiste, mobile o immobile, proviene dall’unione del campo e di colui che conosce il campo”.
L’astrofisico mi rispose senza esitare: “Ma è una delle più belle definizioni della meccanica quantistica che io conosca!”.
Gli spiegai allora che gli avevo appena letto una frase di Krishna nella Bhagavadgita, frase sovente molto mal tradotta nel XIX secolo (con “unione della materia e dello spirito” per esempio, mentre le due parole sanscrite sono lo stesso termine, kshetra, che significa letteralmente campo, e ksetrajna, colui che conosce il campo), finché la comparsa della meccanica quantistica permise infine una traduzione corretta. Frase che non ci consente in alcun modo di affermare che Krishna, o gli autori del poema, conoscessero il principio di Heisenberg e i segreti della fisica delle particelle. Sarebbe puro sogno. Ma non si può trascurare il fatto che una intuizione antica, formulata molto spesso nella tradizione indiana e tibetana, sostiene l’inseparabilità del nostro spirito, dei nostri sensi e delle cose. Su questo punto il buddhismo è particolarmente categorico.
Il Dalai Lama ha visitato il CERN, ha partecipato a discussioni scientifiche ad Harvard, così come a Grenoble. Questi accostamenti non gli sono estranei. Li accetta senza sorprendersi molto, come se la nostra scienza ritrovasse un cammino antico – ciò che non si deve interpretare come un incontro di tecniche e di conoscenze. Il mondo orientale antico non possedeva segreti tecnici che noi avremmo perduto. Semplicemente, in questo campo essenziale che mette in gioco lo spirito e l’oggetto che lo spirito investiga (oggetto che può essere esso stesso), le tradizioni che noi evochiamo hanno rifiutato di separarli. Oggi, per il semplice scorrere del tempo che plasma anche le nostre idee, l’Oriente e l’Occidente giungono a comprendersi, talvolta anche a confondersi.
Rimane il fatto che il Dalai Lama, seguace convinto della ‘`via del giusto mezzo”, ci ripete che dobbiamo diffidare delle posizioni estreme. Egli si domanda se il pensiero occidentale, avido di certezze, oscillante tra il dualismo classico e la confusione contemporanea, non tenda a trascurare “la zona grigia”, questo territorio del giusto mezzo, dove lo spirito tiene conto dei fatti.
Sua Santità il Dalai Lama: “Credo profondamente che dobbiamo trovare tutti insieme, una spiritualità nuova”.
Jean-Claude Carriere: “Che non sarebbe “religiosa”?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Certamente no. Questo nuovo concetto dovrebbe formarsi a fianco delle religioni, in modo tale che tutti gli uomini di buona volontà possano aderirvi.”
Jean-Claude Carriere: “Anche senza religione o addirittura contro la religione?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì. Un concetto nuovo, una spiritualità laica. Dovremmo promuovere questo concetto con l’aiuto degli scienziati. Potrebbe condurci a fondare ciò che tutti cerchiamo, una morale secolare (sottolinea queste parole). Ci credo profondamente. E ciò per un migliore futuro del mondo.”
Quest’idea può apparire teorica e anche irrealizzabile (come far applicare questa morale?), ma egli ne dà subito un esempio personale.
Sua Santità il Dalai Lama: “Sperimento ogni giorno i benefici effetti della pace dello spirito. È ottima per il corpo. Lo può vedere, io sono un uomo molto impegnato, mi assumo molte responsabilità, faccio interventi, viaggi, dichiarazioni, tutto ciò costituisce un fardello molto oneroso, e ciononostante la mia pressione arteriosa è quella di un bambino”.
Jean-Claude Carriere: “Lei è fortunato.”
Sua Santità il Dalai Lama: “L’anno scorso,” dice mostrandomi il suo braccio destro nudo “a Washington, in un ospedale militare, mi hanno misurato la pressione. E il medico ha esclamato: “Ah, vorrei averla io!”
Sua Santità il Dalai Lama ride di cuore e prosegue:
“Quel che è bene per me è bene per gli altri. Non ho alcun dubbio a questo riguardo. Una sobria alimentazione, una lotta contro ogni desiderio eccessivo, una meditazione quotidiana, tutto ciò può condurre alla pace dello spirito, e questa pace dello spirito è una buona cosa per il corpo. Malgrado tutte le difficoltà della vita, che anche a me non sono state risparmiate, tutti possiamo sentire questo effetto”.
Jean-Claude Carriere: “E la strada è la compassione?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Esatto. La compassione. Questo sentimento logico che troviamo in noi se cerchiamo in profondità. E che deve esercitarsi nei confronti di ogni altra vita che non sia la nostra. Anche se talvolta ci sembra difficile. Così, in questo momento, mi sforzo di provare compassione per coloro che sono chiamati miei nemici, per i cinesi che hanno invaso il Tibet. Le azioni che hanno commesso, e che continuano a commettere, contribuiscono a formare in loro un cattivo karma, di cui riceveranno un giorno o l’altro il castigo.”
Si sa che il karma, concetto ereditato dall’induismo ma largamente sviluppato dal buddhismo, è una “legge degli atti”. Tutti gli atti che possiamo compiere, e tutti i pensieri che possiamo formulare (il buddhismo si appoggia metodicamente all’affermazione che non vi sono fatti senza causa, né una causa senza effetto), costituiscono una sorta di energia, di forza, i cui effetti si faranno sentire un giorno, in questa vita o in un’altra vita. Questa forza, per ogni coscienza, condiziona la qualità delle sue future reincarnazioni. Un cattivo karma, un karma negativo, ci allontana anche dalla realizzazione finale, dall’uscita sperata fuori dal ciclo delle rinascite, dal samsara.
Alcuni, come Jorge Luis Borges, che vedeva nel karma una “struttura inconcepibile”, si sono domandati da quale autorità, giacché nessun dio creatore vigila sull’osservanza di leggi da lui poste, proceda questa “legge degli atti”. In altre parole, chi ha stabilito il karma? Chi ne garantisce il funzionamento? Sotto quale forma si presenta questa forza, giacché non esiste nel buddhismo nessuna anima particolare che possa trasmigrare da un corpo all’altro?
Le risposte variano secondo le scuole. Il Dalai Lama mi darà la sua, un altro giorno.
Per ora, insiste sulla compassione, che ritorna come un Leitmotiv nei suoi discorsi. Questa insistenza è all’origine, senza dubbio, di una certa ingenuità che si attribuisce talvolta alle sue frasi, quando vengono pronunciate nella fretta di una intervista. Dire “dobbiamo provare compassione per gli altri” può in effetti passare per una banalità da catechismo, intrisa dei migliori sentimenti, facile a dirsi e semplicemente utopistica.
Questo significa però non capire che questa affermazione, l’esatto contrario di una massima superficiale e applicabile comunque, è in effetti il risultato di una minuziosissima ricerca. Questa compassione è in noi; in ultima analisi, è anche un sentimento che ci è proprio e la cui potenza è superiore a quella dei nostri istinti violenti. Ma numerose forze negative, che vediamo manifestarsi costantemente intorno a noi, e anche in noi stessi, oscurano questa energia profonda e la spengono ai nostri occhi. Così bisogna cercare senza sosta in noi la compassione, riconoscerla ed esercitarla.
Sua Santità il Dalai Lama: “Non sarebbe che con una intenzione egoistica. Perché la compassione che esercito in compenso mi fa del bene. È la migliore delle difese e io ne sono il primo beneficiario. Mi assicura la pace interiore, la salute del corpo, giorni felici, una lunga vita. Senza parlare delle vite future.”
Jean-Claude Carriere: “Occupiamoci intanto di questa.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Ha ragione. Comunque, le altre vite dipendono da questa. Ebbene, in questa vita che anima lei e me in questo momento, desideriamo vivere in mezzo a una comunità unita, godere di buona salute, di una famiglia armoniosa, in breve, avere una vita felice…”
Jean-Claude Carriere: “Una morte felice…”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì!”
Jean-Claude Carriere: “Il che è senza dubbio più difficile.”
Sua Santità il Dalai Lama: “È un’altra nascita felice!”
Anche ora ride con franchezza, sapendo bene che io non credo affatto in un’altra nascita, in un’altra vita. Gli rammento che in Occidente viviamo, almeno da più di due secoli, basandoci sull’idea che la nostra felicità sia possibile fin da questa vita. La frase di Saint-Just, “la felicità è un’idea nuova in Europa”, mostra chiaramente che la felicità ha costituito una rivoluzione. Si tratterebbe di cambiare vita, l’unica che conosciamo con certezza. Relegando la felicità, o il suo equivalente spirituale che si chiama “beatitudine”, in “un’altra vita”, completamente ipotetica e tuttavia dichiarata eterna, le nostre religioni ci hanno spinto a rassegnarci alla nostra sorte terrena, in questa triste valle di lacrime. Affermazioni che hanno permesso a tutta una serie di poteri tirannici di esercitarsi senza restrizioni, brutalmente, avidamente, appoggiandosi, in taluni casi con fede sincera, su questo o quel credo religioso.
Troviamo inevitabilmente nel samsara echi precisi di queste punizioni e ricompense lontane. L’idea della vita come sofferenza, anche se l’interpretiamo impropriamente, costituisce indubbiamente un ostacolo a una penetrazione più decisiva del buddhismo in Occidente. Facciamo fatica a credere in un’altra vita, quando vediamo questa schernita, calpestata, oggi come ieri, in nome di un dogma religioso. A questa promessa nebulosa di una ricompensa altrove (in un’altra vita, in un’altra coscienza), preferiamo un lavoro accanito per difendere e migliorare questa. Con i risultati che constatiamo attorno a noi e che abbiamo già ricordato. Abbastanza curiosamente, d’altronde, il Dalai Lama, che crede in altre vite, trova il mondo in cui viviamo meno minacciato, meno deplorevole di quanto appaia agli occhi degli stessi occidentali. È ancora una questione di sguardo?
Mi ascolta attentamente – è un discorso da lui conosciuto, immagino – e torna al proprio pensiero.
Da: Il Dalai Lama, La Compassione e la Purezza. Conversazioni Con Jean-Claude Carriere. Traduzione di Laura Deleidi. Fratelli Fabbri Editori Anno: 1995 http://it.scribd.com/doc/157928207/Dalai-Lama-Purezza