S. S. Dalai Lama: Il risveglio è inseparabile dalla compassione

Sua Santità il Dalai Lama: "Coloro che affermano che ogni desiderio è negativo si ingannano."

Sua Santità il Dalai Lama: "Coloro che affermano che ogni desiderio è negativo si ingannano."

Sua Santità il Dalai Lama: “Questa determinazione” prosegue mentre il solito monaco sorridente ci porta il tè “è la combinazione di due desideri: quello di aiutare gli altri, e quello di raggiungere la buddhità.”

Jean-Claude Carriere: “Il secondo può sembrare egoistico.”

Sua Santità il Dalai Lama: “In un certo senso, sì. Per questo poniamo così in alto il comportamento del bodhisattva, che rinuncia allo stato di beatitudine.”

Jean-Claude Carriere: “Forse perché non è possibile aspirare a entrambi?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Non nel medesimo tempo. Se un essere di somme virtù decide di mettersi al servizio degli altri, rinuncia alla buddhità. Ha bisogno di tutte le sue forze, di tutte le sue conoscenze. Come potrebbe una madre senza mani trarre il figlio dal fiume? Se raggiungeremo un giorno lo stato di buddhità, potremo anche essere d’aiuto pienamente, ma in un altro modo, dedicandoci più particolarmente a co-loro con i quali siamo stati in stretto contatto. A partire da questo primo stadio sboccia la volontà di aiutare tutti gli esseri, senza eccezione.”

Jean-Claude Carriere: “Siamo dunque portatori di questo desiderio?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, tutti, anche quando resta segreto. Noi chiamiamo questo desiderio Maitri, che si traduce sovente con “amore”. Ma anche in questo caso, non ha nulla di sentimentale. È una disposizione concreta ad aiutare gli altri. “Che tutti gli esseri siano felici” ha detto Sakyamuni. Qualcosa ci spinge a contribuire a questa felicità universale. Dobbiamo scoprire e mettere in atto questo Maitri.”

Jean-Claude Carriere: “È prerogativa della buddhità?”

Sua Santità il Dalai Lama: “È la natura stessa della buddhità. Due desideri si congiungono: aiutare tutti gli esseri viventi e, in questo fine fermamente stabilito, raggiungere lo stato di buddha. Giungiamo così allo “spirito del risveglio” che noi chiamiamo Bodhicitta”

Jean-Claude Carriere: “Il risveglio è dunque inseparabile dalla compassione?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Assolutamente inseparabile. Ogni attività che giovi agli altri è un atto che rafforza lo spirito.”

Jean-Claude Carriere: “E la possibilità di questo risveglio si trova in ciascuno di noi?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Come la compassione. Senza eccezioni.”

Un’altra definizione di questo spirito del risveglio dice: “Raggiungere il risveglio a vantaggio degli altri”. Siamo senza dubbio qui nel centro più segreto del buddhismo, che fonde inseparabilmente realizzazione dell’essere e compassione universale. Un grande sforzo di riflessione porta a questo punto preciso: legare strettamente due concetti che ci sembrano eterogenei. Perché da un lato, in altre tradizioni, incontriamo mille esempi di santi perfetti, cioè seduti presso Dio, in paradiso, dopo un oblio totale di questo mondo, e spesso persino grazie a questo oblio, che permette ai fortunati di concentrarsi su Dio solo, sulla “vera vita”, il “vero regno”, che non sono di questa terra. Dall’altro lato possiamo conoscere individui caritatevoli, pienamente dediti agli altri (ad esempio oggi nelle organizzazioni umanitarie o ecologiche), ma che, assorbiti nella loro lotta quotidiana, hanno trascurato la propria realizzazione personale.

Dall’origine, dalle prime predicazioni del principe Siddharta, che aveva conosciuto personalmente i due estremi, fu chiaro che raccomandava di rifiutare nel contempo la vita mondana, sia essa costituita di piaceri o semplicemente di azioni, e altrettanto categoricamente la via della rinuncia e dell’ascetismo, “penosa e ignobile” e che non può portare a nulla. Il famoso Sermone di Benares parla anche della via del giusto mezzo, “che dona la visione, la conoscenza, che conduce alla pace, alla scienza, al risveglio e al nirvana”. E questo cammino è subito definito dagli otto sentieri che lo compongono, e che bisogna seguire in modo categorico: visione giusta, pensiero (o decisione) giusto, parola giusta, azione giusta, vita (nel senso di mezzi di sussistenza) giusta, sforzo giusto, attenzione giusta, concentrazione giusta”.

Nella frase successiva, il Buddha passa alle quattro verità fondamentali, di cui la prima è la verità della sofferenza (le altre tre, lo ricordiamo, sono la causa della sofferenza, la cessazione della sofferenza e il cammino che porta a questa cessazione). Il legame tra perfezionamento personale e realtà della sof-ferenza (che bisogna consolare, perché il mezzo per farlo esiste) è così stabilito in modo solenne. Non

sarà mai più rimesso in questione. Al contrario: tutti i grandi continuatori di Sakyamuni si sforzeranno, e ancora si sforzano, di consolidarlo. Diventare migliori significa aiutare gli altri.

Che cosa è la buddhità?

Una prima risposta è semplice: è impossibile dirlo a parole. Le parole sono imperfette e ingannatrici. Le tradizioni indiana e cinese hanno sempre mostrato la più attenta vigilanza nei confronti delle definizioni. Le migliori sono quelle che non cadono nella rete delle parole.

Per cogliere la buddhità, tutt’al più si può parlare di “qualcosa” che si manifesta, di eterno e universale, e di cui “non sussiste alcuna traccia”. Ma è chiaro che questo qualcosa consiste nel “liberare il proprio spirito e quello degli altri””. Il buddhismo zen ha particolarmente insistito sul fatto che questa illuminazione, questo risveglio, sono fenomeni così naturali e così semplici che non ci è dato alcun indizio del nostro essere diventati buddha. Tuttavia siamo in contatto con la verità suprema – alla quale ci avviciniamo a poco a poco nel corso del nostro dialogo -, quella della vacuità.

La natura del Buddha è in ciascuno di noi, risiede in ogni essere vivente e persino, lo si è già detto, in ogni atomo. Le impurità che accumuliamo nelle nostre diverse esistenze possono oscurarla, ma non possono distruggerla Così scriveva Nagarjuna: “Come un ornamento in metallo macchiato d’impurità dev’essere purificato dal fuoco, e quando è posto nel fuoco bruciano le impurità, ma non lui. Così per lo spirito la cui natura è chiara luce, ma che è macchiato dalle impurità del desiderio, le impurità sono bruciate dal fuoco della saggezza ma la sua natura, la chiara luce, resta”.

Lo spirito, la più grande forza dell’universo, può così sfuggire a tutte le contaminazioni, può diventare migliore (o peggiore), può arrivare fino alla buddhità, riconoscendo e coltivando questa natura del Buddha che risiede, inalterabile, in lui stesso.

Questa natura del Buddha è dunque un potenziale comune, che dipende solo da noi – e per la verità anche dalle circostanze – realizzare. Non è ancora la buddhità, che è la fine di ogni illusione, la cessazione di ogni sofferenza, la conoscenza di tutti i particolari del mondo, l’annuncio dell’entrata ormai possibile nel nirvana. E il punto in cui tutto diventa chiaro e tranquillo.

Shantideva descrive così lo spirito del risveglio:

È il nettare sublime per distruggere la morte sovrana, l’inesauribile tesoro per eliminare la miseria del mondo.

Lo spirito raggiunge allora lo spirito stesso del Buddha, questa sostanza detta spirito sottile, senza inizio né fine, indipendente dal corpo e dal cervello e senza dubbio la causa vera della coscienza. Questo spirito sottile, che si manifesta infine libero da ogni legame, ha totalmente eliminato gli ostacoli che lo contrapponevano alla visione “della natura ultima di ogni esistenza”.

Poeti e pensatori, da venticinque secoli, hanno parlato a lungo di ciò che non può essere scritto. Ma solo l’esperienza conta. Come domandava Shantideva: “Può un malato essere guarito dalla semplice lettura di un testo medico?”. Quel che si può affermare, è che il cammino è lungo, che le modificazioni che si operano in noi richiedono tempo, pazienza, e che il risveglio non è sempre chiaramente percettibile. Tutto sommato, scuole diverse hanno proposto vie diverse, che si arrestano tutte all’indicibile, a questo territorio di luce oscura e di silenzio. Ogni dualità scompare, il mondo e noi cessiamo di essere due, e ciascuno sa che il linguaggio, parlato dall’uno e ascoltato (o letto) dall’altro, poggia per necessità, come ogni tipo di comunicazione, sulla separazione, almeno convenzionale, fra colui che parla e colui che ascolta.

Come dice un bel poema cinese medievale, attribuito a Seng Can (si dice che il risveglio lo guarì nello stesso tempo dalla lebbra), e che s’intitola Epigrafe sulla fiducia nello spirito:

Autentico spirito: non due non due: autentico spirito ogni discorso cessa. Più nessun viavai, ora.

Torniamo ai nostri desideri.

Sua Santità il Dalai Lama: “Coloro che affermano che ogni desiderio è negativo si ingannano. Danno sovente eccessiva importanza a concetti come l’oblio di sé, il distacco, e questo li porta ad eccessi, a non pensare mai a loro stessi, a esempio.”

Jean-Claude Carriere: “La stima di sé, sovente troppo alta, può essere anche troppo bassa?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Sì. Rischia di raggiungere l’odio di sé, che è un fenomeno sorprendente.”

Jean-Claude Carriere: “Ma più diffuso di quanto si possa credere. Che cosa pensa della psicanalisi?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Benché l’inconscio, nel buddhismo, sia noto da molto tempo, la psicanalisi non fa parte delle nostre consuetudini. È forse un fenomeno culturale, adatto all’Occidente: in ogni caso, molto interessante. Ma il buddhismo ama fondarsi su esperienze dirette. La psicanalisi non fa per me. Non l’ho mai praticata, esito dunque a parlarne.”

Jean-Claude Carriere: “Se il buddhismo si è appassionato alla struttura e al funzionamento dello spirito, lo stesso deciso interesse anima oggi l’Occidente.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Ma da un altro punto di vista.”

Jean-Claude Carriere: “Ha incontrato specialisti della mente?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, più volte.”

Jean-Claude Carriere: “Poiché la scienza si è resa conto che ogni ricerca è ormai inseparabile dallo spirito che osserva e analizza, occorre anzitutto conoscere questo spirito. Per conoscerlo, bisogna studiare il cervello, ove riconosciamo la sede di ogni pensiero.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Lo so bene. Nessuno può negare che cervello e spirito siano legati l’uno all’altro. È evidente. Ma il buddhismo non dice che ogni pensiero e ogni coscienza siano forzatamente legati alle molecole del cervello. Noi distinguiamo più livelli di coscienza. Il livello più elevato sfugge al supporto materiale. Per questo fatto, tale coscienza è indistruttibile.”

Jean-Claude Carriere: “Secondo lei, il pensiero, o diciamo lo spirito, la coscienza, esiste al di là di un supporto corporeo?”

Sua Santità il Dalai Lama: “A un certo livello, sì. Senza alcun dubbio. È indipendente dalle particelle fisiche.”

La discussione è vecchia. Si è acuita negli ultimi dieci anni e non si è ancora giunti a un generale consenso. Benché un gran numero di neurobiologi sembri concordare sull’idea di un cervello unico produttore di coscienza e pensiero, la tradizione spiritualista, che separa lo spirito (o l’anima) dalla materia corporea, è ben lungi dall’essere scomparsa, anche tra gli scienziati. Gli psicanalisti si oppongono, naturalmente, ma anche taluni psichiatri e sociologi.

Racconto al Dalai Lama diversi incontri col premio Nobel Gerald Edelman, immunologo affascinato dallo studio del cervello umano, che egli chiama “l’oggetto più complesso dell’universo”. Gli parlo anche del lavoro che abbiamo effettuato per tre anni con più attori, sotto la direzione di Peter Brook, per rappresentare lo spettacolo dal titolo L’Homme qui. Muovendo dalle opere del neurologo inglese Oliver Sachs, abbiamo frequentato per lungo tempo, a New York, a Delhi e soprattutto a Parigi, all’ospedale della Salpetrière, i reparti di neurologia. I medici ci hanno messo in presenza di malati con differenti lesioni cerebrali, affetti da disturbi della mente, afasia, amnesia, agnosia, e anche da comportamenti inclassificabili, a lungo considerati come strani o singolari, collegati oggi con precise lesioni.

In questa occasione, abbiamo potuto vedere che il cervello e gli organi di senso possono giungere a un completo disaccordo, e che un individuo, che nulla permetterebbe di trattare da “matto”, ode voci immaginarie che gli cantano distintamente canzoni dimenticate dalla più tenera infanzia. Molti pazienti non riconoscono un braccio o una gamba, e tentano di strapparli o di gettarli via. Uno immagina, con convinzione assoluta, di vivere in un sogno, che l’ospedale in cui si trova e i medici che lo curano siano i prodotti di questo sogno – da cui spera di destarsi salendo sul tetto e gettandosi nel vuoto. Un altro, al quale si presenta una rosa, descrive perfettamente lo stelo, le foglie, i petali, ma è incapace di pronunciare la parola “rosa”. Un altro non può dire “no”, se non lo si minaccia di picchiarlo. Un altro accende e spegne senza posa una candela solo perché trova dei fiammiferi a portata di mano. Un altro non vede che la parte destra dell’immagine che ha davanti agli occhi (entrambi perfettamente funzionanti): non mangia che la metà destra della sua fetta di prosciutto, non si rade che la metà destra del viso. Eccetera. L’elenco è senza fine.

Tutti questi comportamenti aberranti provengono da lesioni visibili e possono forse spiegare tutto ciò che la storia oscura dei popoli considera illuminazioni e possessioni. È come dire che tutti i nostri comportamenti si spiegano con la semplice attività del nostro cervello?

Jean-Claude Carriere: “In realtà il cervello resta ancora il grande sconosciuto. Sappiamo per il momento veramente poche cose sul funzionamento dei nostri cento miliardi di cellule cerebrali. Edelman suppone la possibilità di una evoluzione, di una sorta di selezione naturale dei neuroni. Altri parlano di una vita in società, identificano questo o quel tipo di neuroni, vi scorgono attrazioni, influenze esterne, combinazioni e repulsioni, scorgono capi, reti e, perché no, delle sette.”

Gli parlo anche di ciò che la fisica delle particelle afferma oggi, e che parrebbe andare contro le credenze tradizionali. Se i neurobiologi, da un lato, ci dicono che lo spirito muore, o ad ogni modo sembra indebolirsi e morire quando cessano con la morte le operazioni del cervello (non si è mai potuto trovare la sostanza dello spirito o del pensiero), d’altro lato i fisici ci assicurano che la nostra materia, in ciò che ha di più elementare (cioè le particelle), non muore mai, non può morire. Le nostre particelle si ricompongono in altri corpi, vegetali, animali, e altri esseri che a loro volta potranno conoscere ciò che chiamiamo morte.

Il numero di queste particelle è così elevato – ci dicono, e ci dimostrano, gli scienziati – che a ogni respiro inspiriamo alcune particelle di Socrate, dei suoi vestiti, delle cipolle che mangiava, e non soltanto di Socrate e di Giulio Cesare, ma di tutti i milioni e milioni di sconosciuti che hanno camminato su questa terra, composti della stessa materia elementare che passa instancabilmente dall’uno all’altro. Così, ogni volta che respira, il Dalai Lama inala particelle che hanno provvisoriamente formato il Buddha Sakyamuni in persona. E anche io ne inspiro qualcuna, e le altre persone che sono nella stanza e tutti gli abitanti della terra.

La nostra materia elementare è immortale, mentre il nostro spirito e la nostra coscienza sembrano proprio morire quando si arresta il cervello.

Sua Santità il Dalai Lama: “Così la scienza contemporanea sembrerebbe invertire le antiche certezze, che stabilivano la materia deperibile e l’anima immortale?” Jean-Claude Carriere: “A dire il vero, con prudenza. Se alcuni scienziati si esprimono in modo radicale, altri preferiscono parlare della propria incertezza e persino della propria ignoranza. Alla domanda: che cosa diventa lo spirito dopo la morte?, rispondono generalmente: non lo sappiamo.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Che è un atteggiamento scientifico.”

Jean-Claude Carriere: “Dicono esattamente: perdiamo le tracce dello spirito, non lo vediamo più, non possiamo più dire che sopravviva al cervello.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Ma un giorno, forse, sapranno?”

Jean-Claude Carriere: “Lo sperano. Ad ogni modo, perseverano nella ricerca. Dicono di essere solo all’inizio.”

Sua Santità il Dalai Lama: “I buddhisti saranno sempre pronti ad ascoltarli.”

Jean-Claude Carriere: “E a cambiare parere?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Perché no?”

Jean-Claude Carriere: “È detto sovente, nelle scritture buddhiste, che la mano non può afferrare la mano, che l’occhio non può vedere l’occhio. Può forse lo spirito studiare se stesso?”.

Sua Santità il Dalai Lama: “È una domanda difficile.”

Riflette a lungo prima di rispondere.

“Forse che lo spirito può solamente vedere lo spirito? Dobbiamo rispondere sì e no. No, perché lo spirito non può essere contemporaneamente soggetto e oggetto. Ne abbiamo già parlato. Credo che su questo punto, in Oriente e in Occidente, si sia più o meno d’accordo. Lo spirito interviene, che lo voglia o no, che lo sappia o no, in tutto ciò che osserva. A maggior ragione se si tratta di esso stesso. Ma lo spirito non può vedersi interamente. È assolutamente impossibile”.

Jean-Claude Carriere: “Anche se uno spirito osserva un altro spirito?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Anche in questo caso. Lei allude al metodo occidentale, fatto di osservazione sistematica e di esperienza. Beninteso, giunge a dei risultati, così come la psichiatria, la psicanalisi. Tutti questi approcci sono validi ma parziali.”

Jean-Claude Carriere: “Sono come eserciti che ponessero l’assedio alla medesima roccaforte, con differenti macchine.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Ma è sempre lo spirito che osserva lo spirito. E che vuole osservarlo nella sua totalità. Noi, invece, pensiamo che sia meglio partire dall’interno della roccaforte. E procedere gradualmente da zone differenti.”

Jean-Claude Carriere: “Da differenti livelli?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Proprio. E questa tecnica è in parte possibile. Per esempio, oggi il mio spirito può ricordarsi del mio spirito di ieri, dei suoi pensieri, dei suoi interrogativi, delle sue convinzioni. In altre parole, in una certa misura, posso vedere, posso leggere lo stato nel quale il mio spirito si trovava ieri. È un inizio che può condurmi molto lontano.”

Jean-Claude Carriere: “Cioè?”

Sua Santità il Dalai Lama: “Il buddhismo, nel corso della sua storia, è giunto a distinguere diverse centinaia di migliaia, credo, di operazioni dello spirito.”

Non è molto sicuro di questa stima e chiede a Lhakdor di confermarla, ed egli lo fa.

Jean-Claude Carriere: “Nessuno può pretendere di conoscere tutte queste operazioni. Non basterebbe una vita! “.

Sua Santità il Dalai Lama: “Molte vite non basterebbero. Ma anche qui sono possibili più livelli di lavoro.”

Gli ripeto che questa impresa immensa, propria del buddhismo, mi pare unica nella storia del pensiero. Qualche cosa, mi sembra, ci manca: la tranquilla osservazione dello spirito in quanto tale. Non troviamo quasi nulla di simile, per esempio, nella storia del cristianesimo, ove mai lo spirito umano si pone come oggetto di studio. Tutt’al più posso citare al Dalai Lama san Tommaso d’Aquino, che a lungo studiò l’intelletto agente, distinguendo nell’intelligenza due funzioni, una attiva e l’altra passiva, e gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola in cui lo spirito si assoggetta a una disciplina su se stesso, secondo un metodo preciso, per raggiungere una superiore devozione.

Sua Santità il Dalai Lama: “Le ragioni sono molte. Anzitutto l’importanza che voi date alla fede ed al Dio creatore. Quando la fede ci coglie, quando ci è dato un “credo”, non c’è più ragione di esaminare lo spirito.”

Jean-Claude Carriere: “In compenso, quando è il solo padrone a bordo, quando tutto dipende dalla sua unica esperienza, diventa indispensabile conoscerlo.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Assolutamente indispensabile. Nell’ipotesi (che non è la nostra) di un dio creatore, giudice permanente dei nostri atti, il ruolo dello spirito necessariamente perde d’importanza. Dobbiamo cacciare ogni specie di dubbio e di interrogativo. La fede ci viene direttamente da Dio e la fede ci conduce diret-tamente alla compassione, o se preferisce, a un atteggiamento morale. Inutile allora cercare di approfondire questo sentimento di compassione, inutile perdersi in complicazioni inutili.”

Jean-Claude Carriere: “E anche pericolose per la fede.”

Sua Santità il Dalai Lama: “Naturalmente. Ogni riflessione è pericolosa per la fede.”

Jean-Claude Carriere: “E ogni fede è pericolosa per lo spirito, che si vede condannato alla pigrizia.”

I neurologi parlano sovente dell’aspetto riduttivo del nostro cervello, sempre pronto a lasciarsi sedurre da una soluzione facile e il più delle volte erronea – il che non gli impedisce di aggrapparvisi. La tradizione buddhista ci dice esattamente la stessa cosa, con altre parole. E il Dalai Lama deve ammettere che questa tradizione, in numerose occasioni, non sfugge alla dittatura automatica di un catechismo, di un formalismo ripetitivo ove lo spirito, anche qui, talvolta si assopisce, accontentandosi di poco.

Sua Santità il Dalai Lama: “Tuttavia il Buddha ci ha dato l’esempio migliore. Noi lo riteniamo oggi un essere superiore, giunto al più alto grado possibile della coscienza e dell’esistenza. Ma all’inizio, prima del suo risveglio e dei quarantacinque anni di predicazione, era un uomo come tutti gli altri. Grazie al suo sforzo, alla sua rigorosa applicazione, è diventato il Buddha.”

Ricordiamo per un momento gli anni di ricerca e di solitudine del principe Siddharta. Dopo la sua partenza notturna dalla città di Kapilavastu – notte magica, in cui tutto il palazzo dormiva e, narra la leggenda, gli dèi tenevano alti gli zoccoli del suo cavallo Kanthaka, per evitare il minimo rumore – decise dapprima di condurre una vita errabonda. Aveva ventinove anni. Tagliò i lunghi capelli, scambiò la veste con un povero cacciatore, allontanò l’auriga Chandaka. Poi, mendicando il proprio riso, si mise alla ricerca di un maestro.

Seguì dapprima l’insegnamento dello stimato Aruda Kalama, poi di Rudraka Ramaputra.

Giunse a eguagliare facilmente questi due maestri, ma senza raggiungere ciò che cercava. Colpito dalle pratiche di rinuncia degli asceti che incontrava, decise di prendere questa via.

La seguì rigorosamente per sei anni, in una regione deserta, giungendo a una debolezza estrema. In punto di morte, non era giunto alla liberazione. Ritornò nel mondo, riprese a mangiare in modo leggero una volta al giorno, e ricevette infine l’illuminazione. Ma non la ricevette una volta per tutte. Ogni giorno la sua nuova scienza veniva discussa, rimessa in questione, principalmente da lui stesso. La leggenda mostra Mara, il potente demone, che torna senza sosta alla carica per distogliere Sakyamuni dalla sua opera. Abbiamo anche seguito la traccia delle divisioni fra i suoi discepoli, e anche la ribellione di uno di loro chiamato Devadatta, che voleva assassinare il Risvegliato per prendere il suo posto a capo della nascente comunità.

Sua Santità il Dalai Lama: “Durante questi quarantacinque anni egli non ha smesso di interrogarsi, di mettere in guardia i discepoli, di precisare la propria dottrina, di prevenire una divinizzazione che intuiva (e che gli induisti proclamarono in effetti, assimilando Sakyamuni alla nona incarnazione di Vishnu). Ciò significa che fino al momento della sua entrata nel nirvana il suo spirito, prodigiosamente sviluppato, non ha cessato di lavorare, di osservarsi, di elevarsi a una estrema finezza. Che dire allora del lavoro da compiere sul nostro spirito?”

Da: Il Dalai Lama, La Compassione e la Purezza. Conversazioni Con Jean-Claude Carriere. Traduzione di Laura Deleidi. Fratelli Fabbri Editori Anno: 1995 http://it.scribd.com/doc/157928207/Dalai-Lama-Purezza