L’Incontro di Due Oceani: Dialogo su Sufismo e Buddhismo tra Sua Santità il XIV Dalai Lama e studiosi Sufi.
Centro Roshan per gli studi Persiani, Università di Maryland
College Park, Maryland, USA, Maggio 2013. Leggermente revisionato da Alexander Berzin. Traduzione in italiano a cura di Benedetta Lanza.
Wallace Loh (Presidente dell’Università di Maryland): Buon pomeriggio, sono Wallace Loh, presidente dell’Università di Maryland. Vorrei dare a voi tutti, ospiti onorati, signore e signori, il mio benvenuto in questo giorno estremamente straordinario. Come le religioni sulla terra, l’oceano è sorgente di vita che sostiene lo spirito; quando è rivoltato dai venti e le maree, l’oceano assomiglia alle passioni religiose. Oggi presentiamo un benevolo incontro tra due oceani, il Buddhismo ed il Sufismo. Questa è una rara e promettente opportunità e siamo profondamente grati a tutti i nostri ospiti. Oggi Sua Santità il XIV Dalai Lama ha causato profonda commozione nel nostro campus. Egli ci sta facendo dono della sua presenza, della sua radiante semplicità, gentilezza e buon umore e noi gli siamo massimamente grati.
Questo pomeriggio condividiamo con Sua Santità i doni degli studiosi di un’altra tradizione. I nostri rappresentanti dell’Istituto Roshan per gli studi Persiani dell’ Università di Maryland sono estremamente esperti e stimati. Portano con sé secoli di tradizione, erudizione e fede. Vorrei ringraziare Dean Bonny Thornton Dill del Collegio di Arti e Studi Umanistici per averci offerto questa opportunità così speciale. Dean Dill è riconosciuta a livello internazionale per le sue conoscenze su razze, generi, lavoro, famiglia e povertà. Dean Dill è profondamente impegnata nell’insegnamento della persona nel suo complesso. Per favore, date il benvenuto a Dean Bonny Thornton Dill.
Bonny Thornton Dill (Dean del College di Arti e Studi Umanistici) Buon pomeriggio. Vorrei aggiungere il mio saluto a quello del presidente Loh, e ringraziarvi per essere intervenuti a questa presentazione così speciale. Siamo umilmente onorati e profondamente grati di poter ospitare Sua Santità il XIV Dalai Lama del Tibet in questo programma pomeridiano, “L’Incontro di Due Oceani: Dialogo su Sufismo e Buddhismo.”
Il motto del College di Arti e Studi Umanistici è “siate universaggi,” un’etichetta che si adatta alla perfezione a ciò che tra poco ascolteremo. “Essere universaggi” vuol dire abbracciare il mondo come spazio transnazionale, sforzarsi per capire i movimenti ed i flussi delle persone e delle idee ed accogliere la differenza e la diversità a casa propria e all’estero. Riuscire ad usare la saggezza in questo processo è la sfida più grande perché la saggezza richiede che la conoscenza che abbiamo accumulato per crescere, venga usata non solo intellettualmente ma anche emozionalmente e spiritualmente e, come Sua Santità ha sottolineato oggi nel suo discorso, bisogna comprendere che tra tutte queste diversità esiste una sola, comune umanità, e quando otteniamo quella saggezza, essa va usata come forza per il bene nel mondo.
Sua Santità, quale uomo di grande conoscenza ed esperienza, impegnato a promuovere la pace, la comprensione e l’armonia, lei impersona il nostro ideale di ciò che vuol dire “essere universaggi.” Perciò, lei è per noi molto speciale e ci aspettiamo di imparare molto dal dialogo di oggi. Oltre a Sua Santità, questo pomeriggio tra gli intervenuti ci sono anche Elahé Omidyar Mir Djalali, fondatrice e presidentessa dell’Istituto Roshan per il patrimonio culturale, Fatemeh Keshavarz, presidentessa e direttrice dell’Istituto Roshan per gli studi persiani, il musicista Hossein Omoumi, esperto del ney o “flauto ad imboccatura semplice,” la vocalista Jessika Kenney che gli siede accanto, Ahmet T Karamastaffa, professore di storia all’Università di Maryland e responsabile dello sviluppo accademico presso l’Istituto Roshan per gli studi persiani e Carl W Ernst, professore emerito Kenan presso l’Università del Nord Carolina a Chapel Hill e co-direttore del Centro del Carolina per gli studi del Medio Oriente e delle Civiltà Musulmane.
Prima di iniziare il programma odierno vorrei anche riconoscere, e sono felicissima di farlo, i molti contributi del venerabile Lama Tenzin Dhonden. Lama Tenzin è il personale emissario per la pace di Sua Santità; i suoi saggi consigli e la sua competenza logistica hanno guidato il nostro staff in ogni aspetto dell’organizzazione di questa giornata. Senza di lui non ce l’avremmo fatta; molte volte le persone fanno questa affermazione senza crederci veramente, ma io qui lo dico davvero sul serio.
E’ ora un grande onore per me presentare la Dottoressa Elahé Omidyar Mir Djalali che è stata determinante affinché si realizzasse questo dialogo unico tra Sufismo e Buddhismo. Fondatrice e presidentessa dell’Istituto Roshan per il patrimonio culturale, la Dottoressa Mir Djalali è da una vita risoluta sostenitrice della conservazione e promozione della cultura persiana. Sotto la sua direzione l’Istituto Roshan per il patrimonio culturale è diventato un’istituzione primaria per la preservazione, la trasmissione e l’insegnamento della cultura e studi persiani in tutto il mondo, sostenendo iniziative in USA, Europa ed Asia. Nel 2007 l’istituto ha deciso di supportare con una donazione il Programma di Studi Persiani in questa Università, potenziando il programma accademico attraverso l’istituzione della cattedra dell’Istituto Roshan per gli Studi Persiani, con borse di studio per laureati, per studenti universitari ed un fondo per i programmi persiani. Come riconoscimento per questa generosità, il Centro per gli studi Persiani all’interno della Scuola di Lingue, Letteratura e Cultura, è ora conosciuto come Istituto Roshan per gli Studi Persiani presso l’Università di Maryland.
Negli ultimi due anni ho avuto il privilegio di lavorare a stretto contatto con la Dottoressa Mir Djalali ed ho avuto modo di conoscerla quale persona di grande integrità. Essa è brillante e garbata, modesta e determinata, parole che non uso con leggerezza, e sono onorata di poterla considerare mia amica. Quale estensione del suo lavoro e del suo retroterra multiculturale, la Dottoressa Mir Djalali promuove diligentemente sforzi per migliorare la comunicazione interculturale. Nata in Iran, ha studiato in Francia e Stati Uniti, ricevendo la laurea alla Sorbonne e all’Università di Georgetown ed un dottorato con lode in linguistica alla Sorbonne. E’ un’autrice esperta ed ha pubblicato lavori in francese, inglese e persiano, lingue che parla correntemente. Oltre ai propri scritti essa trova anche tempo ed energia per tradurre volontariamente testi sufi in francese e inglese. E’ in questo contesto che è divenuta grande ammiratrice di Sua Santità il XIV Dalai Lama e del suo impegno nei valori umani comuni. E’ con grande piacere che vi presento la Dottoressa Elahé Omidyar Mir Djalali.
Dottoressa Elahé Omidyar Mir Djalali: Ringrazio con umiltà Dean Thornton Dill per le sue considerazioni. Sua Santità, presidente Wallace Loh ed onorevoli ascoltatori, in rappresentanza dell’Istituto Roshan per il patrimonio culturale e della sua missione “illuminazione attraverso l’educazione,” ho il grande privilegio di contribuire a questo grande evento “Incontro di due oceani, dialogo su Sufismo e Buddhismo.” E’ un grandissimo onore trovarsi in presenza di Sua Santità il XIV Dalai Lama del Tibet che ispirerà e guiderà il nostro dialogo. Sua Santità è un modello di pace, ha insegnato alle persone in tutto il mondo a risolvere i problemi umani tramite un atteggiamento umano trasformante, la compassione come fondamento della pace del mondo, e la comprensione degli elementi comuni negli obiettivi e nell’etica di tutte le principali religioni. Nel riconoscere che il mondo è diventato più piccolo e che tutte le persone sono ormai quasi una sola comunità, Sua Santità è instancabile nei suoi sforzi per incoraggiare un sempre maggior senso di responsabilità universale per affrontare le comuni minacce dei nostri tempi, così come la sicurezza e l’ambiente. Nel corso di tutta la sua vita ha promosso valori di altruismo, amore e compassione ed in particolare la sua campagna non violenta per porre fine alla dominazione cinese nella sua patria, hanno fatto sì che nel 1989 gli venisse assegnato il Premio Nobel per la Pace. Personalmente, quando per la prima volta ho incontrato Sua Santità a Dharamsala, India, sono stata ispirata non solo dal suo messaggio di pace e di unità globale, ma anche dalla sua presenza calda e serena. In seguito ho letto le sue parole ispiratrici ed i suoi scritti ed ho seguito le sue conferenze ed insegnamenti per vari giorni a Tolosa, Francia e poi in molte altre occasioni. Gli insegnamenti di Sua Santità mi hanno più e più volte riportato alla mente i valori centrali, gli alti principi morali e le pratiche degli insegnamenti sufi della mia gioventù. Non pretendo di essere un’esperta di Sufismo, piuttosto sono una ricercatrice, una studiosa di questa scuola, che ha dedicato anni alla traduzione anonima di testi sufi in francese e inglese, per poterli condividere con gli altri.
Come ci insegnano i maestri sufi, “aleyka be qalbeka,” “sei tutto ciò che è il tuo cuore.” Il sufismo è la voce che risveglia la conoscenza spirituale interiore, abbracciando i precetti etici di tutte le principali religioni. La parola “sufismo” è un termine occidentale che non riesce a rendere in pieno il significato della parola persiana “erfan” che deriva da “arafa” il cui significato è “conoscenza,” “cognizione” e “illuminazione.” Questo messaggio di conoscenza interiore e di forza altruistica in ognuno di noi, è ciò che per me ha così grande risonanza negli insegnamenti di Sua Santità. Con questo spirito di valori comuni, è con immensa gratitudine che desidero ringraziare Sua Santità per avere accettato di partecipare a questo dialogo su Sufismo e Buddhismo. Devo inoltre ringraziare l’Università di Maryland, il presidente Loh e la sua direzione, e tutti coloro che hanno lavorato così duramente affinché questo evento potesse svolgersi.
Sono inoltre particolarmente lieta di presentare la Dottoressa Fatemeh Keshavarz; fino allo scorso anno è stata direttrice dell’Istituto Roshan per gli Studi Persiani all’Università di Maryland ed è stata titolare della Cattedra di Lingua e Letteratura Persiana presso l’Istituto Roshan; prima di ciò ha insegnato per oltre vent’anni alla Washington University di St.Louis dove ha occupato la cattedra presso il Dipartimento di Lingue e Letteratura Asiatica e del Vicino Oriente dal 2004 al 2011. E’ nata e cresciuta a Shiraz, Iran, ed ha studiato alla Università di Shiraz ed alla Università di Londra. E’ autrice di tanti premiati libri, di numerosi articoli e di poesia ispiratrice. La Dottoressa Keshavarz presenterà alcuni pensieri sul significato della poesia e musica come espressioni di spiritualità nelle pratiche sufi. Prenderà parte ad un dono di benvenuto spirituale per Sua Santità, che combinerà l’ insegnamento sufi con il respiro umano, il battito del cuore e la canna, il più semplice ed antico strumento del mondo. Possa questa importante occasione costituire un’apertura verso l’unione di tutte le fedi e religioni basate su quei valori umani condivisi che connettono noi tutti, a prescindere da etnia, sesso e stato sociale. Grazie. Dottoressa Keshavarz.
Dottoressa Fatemeh Keshavarz: Grazie alla Dottoressa Mir Djalali per la sua cortese introduzione. Sua Santità, è un grandissimo onore per me poter partecipare a questo dialogo su Sufismo e Buddhismo in sua presenza. Abbiamo chiamato il dialogo “l’incontro di due oceani” perché crediamo che il Buddhismo ed il Sufismo siano due vasti oceani con dei tesori in comune. Se ci immergiamo in profondità siamo certi di trovare identiche perle in questo oceano. Sua Santità, molto tempo prima di aver studiato in modo accademico la poesia sufi, quando ero bambina, la mia famiglia mi fece appassionare alla poesia, che per me era allo stesso tempo gioco, istruzione, meditazione e preghiera. Con questo, faccio riferimento a ciò che lei ha detto questa mattina quando ha parlato dell’importanza dell’istruzione; gran parte della mia istruzione sulla poesia sufi è venuta dalla mia famiglia ed anche il mio amico e collega qui presente Ustad Hossein Omoumi che è sia professionista che studioso di musica, ha ricevuto il dono della musica sufi dalla sua famiglia, prima ancora di venire istruito. Ustad Omoumi ha dedicato la sua vita ad esplorare i misteri dello strumento ney o flauto persiano di canna, sul quale diremo qualcosa, e sostiene la filosofia per la quale dev’esserci una profonda relazione educativa con l’allievo, non è solo questione di allenamento tecnico, bisogna sviluppare quella relazione.
Abbiamo con noi anche la Sig.ra Jessica Kenney, vocalista, compositrice e studiosa anch’essa di molte tradizioni spirituali incluso il suono del Gamelan giavanese; nove anni fa Jessica dopo aver assistito ad un’esibizione di Ustad Omoumi si è innamorata della musica sufi persiana e gli ha chiesto di diventare sua allieva. E’ questo ciò a cui si è dedicata negli ultimi nove anni. Essa dice che questi nove anni hanno cambiato per lei il significato dei suoni e che ora i suoni sono ciò che esprime i pensieri più profondi nelle sue sensazioni e non sono più semplicemente suoni. Proprio ciò che i sufi hanno sostenuto per centinaia di anni dicendo che la combinazione di parole e melodie possono trasformarsi in molte, molte cose, una porta verso la preghiera; come aprire in noi un momento di preghiera risvegliando i pensieri interiori o ciò che la Dottoressa Mir Djalali ha chiamato “la voce interiore” che si addormenta ma che viene risvegliata proprio dalla musica. E che serve anche a nutrire ciò che lei stesso ha chiamato “le qualità del cuore.”
Proprio come il respiro umano ed il battito del cuore, è un linguaggio universale. Non c’è bisogno di tradurla; i sufi la vedono come una lingua con la quale possono parlare al mondo intero. Per i persiani fa parte della vita, la applicano nella calligrafia come potrà vedere da un dono che le offriremo; la citano, la cantano, la insegnano, è davvero una parte della loro vita quotidiana. Ed immagini che sorgono da questa poesia, diventano parte della loro vita, ed un’immagine molto importante è quella del ney, il flauto di canna. [Intermezzo musicale di flauto].
Il grande poeta sufi del tredicesimo secolo, Jalal ad-Din Rumi ha descritto il flauto di canna come un essere umano, un amante, un cercatore che è stato separato dalla terra natia, nello stesso modo in cui la canna è separata dal canneto per essere trasformata in flauto. E proprio come lei ha detto parlando della mitologia buddhista per la quale saremmo esseri di luce che sono stati separati, che si trovano ora nel reame del desiderio e che si sono dimenticati delle origini divine o origini di luce, anche Rumi ci dice che dimentichiamo la nostra appartenenza, siamo così distratti da dimenticarci di appartenere ad un’origine più elevata ed il modo in cui possiamo riportarla alla memoria è ascoltare, ascoltare la voce interiore, e così egli inizia la sua più importante opera sufi con la parola “ascolta.” [Intermezzo musicale di flauto, unito alle parole di una poesia sufi persiana].
Così egli dice: “ascolta il racconto del profondo dolore della canna, perché questa racconta la storia di ogni separazione. Da quando mi hanno strappato via dal canneto dove sono cresciuta, le persone hanno diffuso il loro dolore attraverso la mia musica.”
[Ancora musica e poesia.]
Così egli dice: “Possa questa separazione fare a pezzi il mio cuore così potrò trasformare in parole il dolore della nostalgia, perché chiunque mai si trovasse lontano da casa, dalle sue origini, certamente vorrebbe riunirsi ai suoi congiunti.”
Per i sufi, il motore di questa ricerca, la ricerca dell’origine, è l’amore; “la forza, il fuoco che dà calore alla mia voce.” Rumi dice: “Questo è amore.” E amore per i sufi non è un concetto teorico. Sì, ne possono parlare a lungo in teoria ma è l’esperienza che conta. Essi credono che dobbiamo concederci di assaggiare l’amore. Il concetto di assaggiare è molto importante perché è solo in quel modo che possiamo riconoscere le qualità trasformatrici dell’amore, e per questo Rumi dice: “l’amore rivela se stesso nel modo in cui piange il cuore;” quindi mostra se stesso piuttosto di descrivere se stesso o piuttosto di venire descritto da noi. Questo desiderio dà a colui che cerca la forza di andare avanti, ma anche il desiderio stesso non può essere spiegato o descritto perché non ha una forma.
Rumi dice “Ho parlato e parlato ancora per descrivere e demistificare l’amore, ma quando sono giunto all’amore, ho capito di aver compiuto una ben misera impresa perché non può essere descritto; ma quando infine lo si assaggia, l’amore s’imprime nel cuore.” Così, il compito della poesia e musica sufi è mostrare quel gusto, il gusto di ciò che non ha forma, o quella bellezza senza forma, a colui che cerca.
[Ancora musica di flauto e canto di poesia.]
Sua Santità, vorrei presentarle il Professore Ahmet Karamastaffa, eminente studioso di Sufismo e Professore di storia all’Università di Maryland. Parlerà brevemente dei principali concetti del Sufismo.
Professore Ahmet Karamastaffa: Grazie Dottoressa Keshavarz. Sua Santità, stimati colleghi e ospiti, è un raro privilegio poter presentare alcuni dei concetti chiave del Sufismo a Sua Santità, perché li possa esaminare, e sono onorato di farlo. Buddhismo e Sufismo sono davvero due vasti oceani e dato che non mi sarà possibile nel tempo che mi è stato assegnato toccare tutti i principali aspetti del Sufismo, dirigerò la vostra attenzione verso alcune caratteristiche del pensiero e della pratica sufi, che ritengo possano costituire punti interessanti per il Buddhismo. Permettetemi di iniziare parlando dell’attenzione che i sufi danno al sé. Non è un’esagerazione dire che il cuore di tutti gli sforzi dei sufi è il tentativo di controllare e riformare l’individuo. Secondo i sufi, ciascun essere umano è dotato di un nucleo spirituale ma questo è normalmente nascosto dalle insignificanti preoccupazioni quotidiane della vita umana e resta latente, addormentato. Così l’individuo tende ad essere egocentrico ed egoista nella vita sociale quotidiana, ma il cuore spirituale può essere risvegliato da segni divini presenti dentro ed intorno a noi e, come si è visto, il Sufismo crede che la poesia e le musica abbiano a questo riguardo un ruolo molto importante. Ed una volta risvegliato, il cuore spirituale può crescere e gradualmente sostituire il sé piccolo e insignificante che lo aveva precedentemente coperto. Questo processo che consiste nel controllare ed eventualmente sostituire il piccolo sé con il cuore spirituale, è spesso visto come un percorso lungo ed arduo, durante il quale il cuore dev’essere nutrito con cura e pazienza.
In questo percorso il sufi cerca di smantellare il sé sociale quotidiano, di spogliarlo strato dopo strato per riscoprire il cuore, e poi si impegna a coltivare l’organo spirituale, il cuore, per diventare una sola cosa con esso. Questo viaggio, dall’egoismo all’altruismo, dal piccolo sé ad una nuova, più alta personalità spirituale, è un fondamento del pensiero e della pratica di tutti i sufi. E’ interessante come durante questo percorso, mentre il sufi progredisce da uno stadio all’altro, lui o lei inizia ad avvicinarsi a tutti gli esseri con un senso di profonda umiltà esistenziale e risoluto altruismo. Nel cancellare ogni traccia di egocentrismo grazie all’aver coltivato il cuore spirituale, il sufi ha trasformato il sé in uno specchio che riflette fedelmente l’interezza dell’essere: tutto è uno, tutte le cose sono interconnesse, siamo tutti uniti in questa ricerca che chiamiamo “vita.” Con questa realizzazione, il sufi si trasforma in un servitore disinteressato che lavora incessantemente per migliorare gli altri. Lui o lei aspira a riscattare le persone dagli abissi dell’egoismo e ad indirizzarle verso le altezze della connessione. Il sufi diviene il nodo che connette; più precisamente lui o lei diviene lo specchio che riflette la profonda interconnessione di tutta l’esistenza. Il superamento dell’egocentrismo ha svelato i segreti nascosti nel cuore spirituale, che sono amore, compassione e altruismo; ed il sufi distribuisce le ricchezze di questi tesori con fiducia, liberamente a chiunque e a tutti.
Quale vincolo altruistico che connette tutti gli esseri, il sufi vive nel pieno della vita sociale. Non vi è fuga dalla società verso una vita isolata, nessun ritiro in comunità di clausura. Anche quando per un sufi è richiesto un periodo di isolamento per ripulire il cuore spirituale, lui o lei raramente abbandona del tutto la regolare vita sociale. Questo impegno verso la società e la vita della comunità è una caratteristica distintiva del Sufismo. E’ per questo che i sufi si organizzano in comunità intorno a rinomati maestri sufi, ma comunque rifiutano di separarsi, quali gruppi distinti, dalla società. Vivono come persone normali all’interno di grandi comunità urbane o rurali. Le loro organizzazioni a volte diventano letteralmente centri comunitari che forniscono tutti i tipi di servizi alla società attorno a loro in forma di cibo, rifugio, assistenza spirituale e materiale, guida religiosa, terapia, socializzazione, istruzione ed intrattenimento che nutre genuinamente.
Questo radicamento dei sufi nella società, questo istinto per la comunità, questo volto socialmente impegnato, segna il completamento del percorso del sufi. Il sufi ha conquistato e domato il sé piccolo e meschino, l’ha sostituito con un senso della persona più alto e spirituale ed ha usato
le sorgenti di amore e compassione che sgorgano da quell’essere spirituale per servire altruisticamente tutti gli esseri.
Sono certo che molto di questo percorso sufi avrà risonanza nei maggiori aspetti del Buddhismo che sono espressi in modo così eloquente e pieno di forza nel lavoro di una vita di Sua Santità, e sono desideroso di ascoltare i suoi commenti con grande attesa. Prima però vorrei presentare il prossimo oratore, il mio insigne collega ed amico Carl Ernst. La nostra Dean vi ha già anticipato che viene dall’Università del North Carolina, è uno specialista di studi islamici con un particolare interesse verso l’Asia occidentale e meridionale. Le sue pubblicazioni sono incentrate particolarmente su tre argomenti: aree generali e critiche degli studi islamici, Sufismo e cultura indo-musulmana. E’ un privilegio avere qui Carl. A te la parola.
Carl Ernst: Grazie mille Ahmet, è veramente un privilegio speciale ed un onore essere chiamato a presentare a Sua Santità il Dalai Lama alcune osservazioni sugli incontri passati e futuri tra induisti, buddhisti e sufi e sono grato per questa opportunità. Senz’altro ci saranno alcuni che metteranno in dubbio la possibilità di un’autentica partecipazione tra queste tradizioni spirituali, particolarmente a causa delle rigide credenze spesso associate all’ambiente islamico nel quale è sorto il sufismo. Le persone possono sentirsi effettivamente scosse dai conflitti tra induisti e musulmani, che hanno guastato la storia dell’India moderna, del Pakistan e del Bangladesh. E possono essere turbate dalle linee di faglia che esistono tra buddhisti e musulmani in Tailandia, Sri Lanka e Birmania. E, al di là della memoria delle differenze religiose, c’è una specifica particolarità; cioè che all’interno delle tradizioni storiche di Induismo, Buddhismo e Sufismo vi sono profondi e particolari vincoli di fedeltà e devozione a specifiche discendenze di insegnanti e centri locali di potere spirituale che insieme definiscono la prospettiva spirituale di milioni di ricercatori.
Anche se i primi studiosi europei sostenevano l’ipotesi che il Sufismo in qualche modo derivasse dall’Induismo o dal Buddhismo, è difficile negare che molto della pratica del Sufismo sia profondamente connessa con il profeta Maometto come l’origine della relazione maestro-discepolo, e la rivelazione del Corano che i sufi leggono e rileggono come libro del cuore. Ciononostante, vi sono anche stati casi in cui non-musulmani sono stati fortemente attratti dagli insegnamenti del Sufismo che affronta le aspirazioni universali ed i desideri dello spirito umano. Così, Ramon Llull, un pensatore cristiano del tredicesimo secolo, imparò l’arabo e compose dei testi sull’amore nello stile sufi. Allo stesso modo Abraham Maimonides, nipote del famoso filosofo ebreo, scrisse molto sul tariqah, il sentiero interiore del sufismo, che egli vedeva molto in armonia con il giudaismo.
Inoltre su scala più vasta, per secoli, generazioni di studiosi induisti che parlavano il persiano, furono impiegati come segretari nell’impero Mughal ed istruiti nello studio della poesia classica persiana. Dal momento che la letteratura persiana è colma di insegnamenti sul Sufismo, non sorprende il fatto che molti di questi studiosi induisti furono profondamente colpiti dalle intuizioni mistiche di Rumi e Hafez e altri. I racconti di questi eccezionali incontri tra induisti e sufi, incluse le molte traduzioni di scritti sanscriti in persiano, sono stati offuscati dai conflitti politici che hanno dominato la storia moderna; ma gli studiosi, sono felice di dirlo, stanno sempre più tornando a studiare quegli affascinanti episodi come importanti illustrazioni del modo in cui complesse partecipazioni culturali e spirituali si svolsero effettivamente.
Nel caso del Buddhismo, si può dire che l’incontro con il Sufismo è un’opportunità che sta aspettando di essere colta. Vi sono stati dei momenti in passato quando il dialogo tra Sufismo e Buddhismo potrebbe avere avuto luogo, ma esso rimase incompiuto, pur essendo una possibilità intrigante. L’insegnante sufi Ala ud-Daula Simnani, dall’Asia centrale, fu obbligato dal sovrano mongolo Arghun ad intraprendere dibattiti con i monaci buddhisti, una cosa alla quale egli resistette emotivamente; ma è sorprendente osservare come le tecniche di meditazione che egli sviluppò, che includevano la visualizzazione di rappresentazioni di profeti del passato come figure di luce all’interno del corpo, riecheggino importanti pratiche spirituali del Buddhismo Mahayana.
Gli insegnamenti islamici ufficiali hanno a lungo rifiutato l’idolatria, che era conosciuta in Persia come culto del bhut, una parola che deriva da Buddha; ma commenti esoterici nei testi sufi esaltano il culto dell’idolo che consiste nell’adorare “il vero amato,” che sia esso Dio o il maestro sufi. E’ difficile in breve tempo riassumere le aspirazioni che possono mettere in relazione le visioni spirituali degli induisti, buddhisti e sufi, ma si potrebbe ipotizzare che questa relazione debba includere, come ha già sottolineato la Dottoressa Mir Djalali e come lei stesso, Sua Santità, ha suggerito, una profonda conoscenza dello spirito interiore insieme ad un’empatia ed al riconoscimento dell’umanità degli altri. Questo è un periodo storico in cui possiamo tentare di visualizzare le forme che tali incontri spirituali possono oggi assumere. Sono ansioso di ascoltare le riflessioni di Sua Santità su questo importante processo. Grazie.
Sua Santità il Dalai Lama: Conosco un leader spirituale sufi. Non so per certo da dove egli provenga, comunque vive a Parigi e l’ho incontrato alcune volte in occasione di incontri interreligiosi. E’ un anziano barbuto, molto cortese. Una cosa strana è che aveva un giovane figlio che voleva studiare, ed egli lo mandò per alcuni mesi in India a studiare Buddhismo. E’ abbastanza insolito, ma quell’anziano maestro sembrava molto desideroso di apprendere più cose sul Buddhismo. Questo è stato il mio contatto personale con i sufi.
Dopo ciò che abbiamo ascoltato, le persone potrebbero dire che ci sono molte somiglianze tra alcune pratiche sufi e buddhiste, ma io non ho molta conoscenza o esperienza riguardo al Sufismo. Quando è stato detto che il termine “sufi” in persiano significa “saggezza” o “cognizione,” questo mostra come venga data importanza alla saggezza ed all’analisi. Qui c’è una somiglianza con un aspetto del Buddhismo, particolarmente per quanto riguarda la tradizione sanscrita, là dove, tramite l’analisi e l’investigazione, le cose divengono sempre più chiare. Quindi questa importanza che viene data alla saggezza e non soltanto alla fede, è una somiglianza. Inoltre, nelle vostre presentazioni, sembrano esserci vari tipi di livelli differenti. Ad un livello più profondo vi è una natura pura ed altruistica, ad un livello più grossolano vi sono le emozioni distruttive.
Questo mostra la necessità di investigazione e quindi il processo per eliminare queste emozioni negative. Se le emozioni negative facessero parte della nostra natura, non sarebbe possibile separarcene. Sarebbe estremamente difficile. Quindi voi distinguete tra livello profondo e grossolano e, tramite una profonda comprensione di questo più profondo “Io,” il livello più grossolano delle emozioni distruttive può essere ridotto o eliminato. Anche questo è simile al pensiero buddhista. Avete anche fatto riferimento all’uso dell’immaginazione e della visualizzazione, che usiamo nel Buddhismo.
Quando ho sentito parlare di questo progetto, ero molto desideroso di saperne di più. La mia conoscenza del Sufismo è zero ed oggi ho acquisito qualche nuova idea. Ma naturalmente la mia conoscenza è sempre limitata, quindi sono incerto su come procedere nel discorso. Di base, credo che tutte le principali tradizioni religiose usino metodi differenti. La maggior parte delle religioni teistiche richiedono fede totale e totale sottomissione a Dio. Dalla necessità di accrescere questo elemento di fede, proviene il concetto di Dio creatore, per il quale siamo solo un elemento della creazione di Dio. Questo tipo di credo intenso, automaticamente riduce l’atteggiamento egoistico. Nel Buddhismo, al fine di contrastare un atteggiamento egocentrico, si sostiene che non esiste un sé indipendente. Ci sono strategie differenti ma tutte più o meno hanno lo stesso risultato di ridurre l’atteggiamento egoistico, che è la base per la rabbia, gelosia, sospetto e tutte le altre emozioni negative. Dal momento che le sensazioni che nascono da un egoismo estremo sono una fonte di problemi, tutte le principali religioni insegnano l’amore, la compassione, la tolleranza, il perdono e così via. Tutte le religioni che credono fondamentalmente in Dio, lo descrivono come amore infinito, ed attraverso una ferma convinzione nella grandezza di questo amore, si aiuta a generare l’entusiasmo nel praticare amore e compassione.
Ora questo incontro sembra porre particolare enfasi sulla saggezza. C’era il capo di un piccolo gruppo a Itaca, una persona davvero meravigliosa, che credeva che tutte le differenti tradizioni, in particolare le differenti tradizioni indiane, dovessero essere uguali. Egli pensava che tutti gli aspetti importanti dovessero essere uguali e con questa convinzione cercava di rendere chiara l’uniformità di tutte queste filosofie, ma mi disse che trovava molte difficoltà in questa impresa. Siccome eravamo molto amici, una volta si lamentò con me del suo tentativo di conciliare tutte le differenze e contraddizioni tra le differenti filosofie; io gli dissi che quello che stava facendo era un lavoro probabilmente eccessivo, non necessario.
Tutti i grandi maestri buddhisti sollevarono molte domande e argomentazioni verso le altre antiche tradizioni indiane. Un maestro, Dharmakirti, era veramente intenzionato ad imparare le diverse filosofie contro le quali argomentava, ma era difficile perché i concetti più profondi erano trasmessi oralmente dal guru ad uno o due discepoli fidati e mai messi per iscritto o esposti in pubblico.
Anche se per breve tempo, egli divenne servo di un maestro indù, ma era sempre molto difficile accedere a questi insegnamenti segreti. Allora egli chiese alla moglie del guru, la quale disse al marito che il loro servo era molto devoto e voleva imparare di più, ma non servì. Allora la moglie ideò un trucco che consisteva nel nascondere Dharmakirti sotto il letto mentre la moglie faceva domande al guru e Dharmakirti ascoltava. Quindi questi grandi esperti di logica prima studiarono a fondo, poi sollevarono domande nei dibattiti religiosi. Anche all’interno del Buddhismo, essi provocarono molte domande e discussioni così che ora abbiamo quattro principali scuole di pensiero, che possono a loro volta essere ulteriormente suddivise. Attraverso il dibattito, sorgono differenti punti di vista, proprio così. Perciò dissi al mio amico che è difficile perché tutti questi grandi maestri buddhisti con la loro piena conoscenza delle differenti tradizioni, accettarono che vi fossero delle differenze.
Se si osservano le scritture classiche indiane, molti dei maestri veramente esperti nell’intraprendere il dibattito con altre tradizioni, avevano accettato la norma per la quale non è possibile semplicemente mettere su un fantoccio al posto dell’avversario per poi abbatterlo. Essi studiavano molto approfonditamente ciò contro cui dibattevano in modo da renderlo, con fondatezza, un punto di vista da criticare. Il fatto che questi maestri spendessero così tanto tempo ed energia per affinare la comprensione dei punti di vista dei loro oppositori, suggerisce che essi prendevano molto seriamente le differenze e le distinzioni. Quindi esistono delle differenze, e non è necessario ridurre tutto alla stessa cosa.
Prima ho detto che all’interno del Buddhismo vi sono differenti visioni filosofiche, molte delle quali furono insegnate dal Buddha stesso – differenti visioni ma dello stesso insegnante, il Buddha. Spiego alle persone che queste filosofie contraddittorie provengono dal Buddha non perché egli non fosse sicuro e quindi un giorno insegnava una cosa e un altro giorno insegnava qualcos’altro, certamente non era così. E non si può neanche dire che il Buddha fosse confuso o che insegnasse differenti visioni filosofiche per creare confusione tra i suoi discepoli, certamente no! La ragione è che ciò era necessario. Tra i discepoli del Buddha vi erano molte diverse propensioni e quindi erano necessari diverse strategie. In campo spirituale, differenti strategie vuol dire differenti visioni filosofiche, tutte necessarie e tutte che aspirano ad un meraviglioso obiettivo: che tutta l’umanità sia fatta da esseri umani sensibili e compassionevoli. Quindi questa è la mia strategia e il modo in cui penso, invece di cercare di rendere tutto uno o tutto uguale.
Quindi come è stato detto dagli specialisti di Sufismo, ci sono similarità tra l’approccio sufi e quello buddhista. Però nel Buddhismo, come nel Giainismo e l’antica tradizione filosofica indiana conosciuta come filosofia Samkya, in queste tre, non è presente il concetto di creatore esterno: noi stessi siamo i creatori. Le cose accadono in seguito alle nostre azioni e motivazione. Ma dobbiamo fare una distinzione. Nella tradizione buddhista, poiché la causalità ed il fare appello a principi causali è di così grande importanza per spiegare l’origine di tutto, viene fatta una distinzione tra origine causale degli esseri senzienti e non senzienti, gli oggetti inanimati. Anche se entrambi esistono in seguito alle proprie cause, nella legge della causalità il dolore ed il piacere sono sperimentate solo dagli esseri che hanno capacità cognitiva.
Naturalmente tutte le tradizioni hanno una pratica comune nel canto e nella musica. Sappiamo dalla nostra esperienza che anche se le parole possono essere uguali o simili, il modo in cui le pronunciamo o lo mettiamo in musica può avere effetti differenti su colui che ascolta. Quindi questa è un’altra somiglianza ma a volte le persone diventano troppo attaccate agli strumenti ed alla musica e dimenticano il vero significato. Molti monasteri tibetani amano i rituali, perché sono un’opportunità per usare gli strumenti, ma poi non pongono sufficiente attenzione allo studio. Per situazioni del genere cito un certo maestro tibetano che una volta disse: “le persone si aggrappano ai rami ma si dimenticano di occuparsi delle radici.”
Dottoressa Fatemeh Keshavarz: Sua Santità, lei ha fatto riferimento, in un modo che ritengo molto saggio, al fatto che ci sono grandissime somiglianze ma anche differenze e che è interessante osservarle. Nel caso della musica per esempio, questa è vista come un modo per raggiungere le radici, non come oggetto di disimpegno. In altre parole, è uno strumento che apre il cuore in modo da poter meditare. Probabilmente la meditazione è simile a ciò e quindi non un divertimento o un passatempo ma una forma di preghiera. Ma vorrei anche chiederle: come studiosa della tradizione sufi sono sempre cresciuta pensando che Dio fosse parte di noi, che in realtà non esiste un confine. Non è un creatore separato da me, è una sorgente di luce dentro di me e se verrà curata e nutrita allora non ci sarà confine tra me e Dio. E credo anche non sia un’esagerazione dire che molti sufi affermerebbero che viviamo in questa forma umana ma che abbiamo la capacità di aprire la porta e che allora quella goccia cadrebbe nell’oceano; non sarebbe più una goccia, sarebbe l’oceano. Allora penso che…
Sua Santità il Dalai Lama: Mi sembra che lei abbia fatto riferimento ad un differente livello di “sé,” un livello più profondo che la letteratura buddhista chiama a volte “natura di Buddha,” che è il nostro potenziale per diventare Buddha, o che potremmo chiamare “Dio.” Recentemente, durante dei seminari in India con i miei amici cristiani, una persona ha presentato una differente interpretazione: che Dio è dentro di noi, e la nostra pratica lo risveglia. Questo era nuovo per me e sembra che il Sufismo abbia la stessa idea, che il pregare e credere in Dio sia un modo di risvegliarlo, il che è molto simile alla pratica buddhista.
Professor Ahmet Karamastaffa: Anch’io cercavo proprio di arrivare a questo punto, che fondamentalmente è un tentativo di togliere gli strati da ciò che in fondo nascondiamo a noi stessi, ciò che chiamiamo “il sé profondo” ed il sé profondo sostanzialmente è la scoperta che “tutto è uno;” siamo tutti interconnessi ed e per questo che l’amore, la compassione e l’altruismo fluiscono. Ma ci dobbiamo lavorare e la preghiera, il canto, la musica, sì, è proprio come togliere gli strati.
L’interprete di Sua Santità il Dalai Lama:La metafora del togliere gli strati è molto simile, nei testi buddhisti si trova esattamente la stessa metafora.
Professor Ahmet Karamastaffa: …ed anche nel Sufismo, in effetti [una voce femminile esclama: “è come sbucciare una cipolla”] a volte sono citati numeri che possono aiutare a capire come sia difficile, “ci sono settantamila veli” settantamila veli che coprono e tu li devi togliere tutti, uno ad uno, fin quando finalmente si scopre la verità profonda e nascosta.
L’interprete di Sua Santità il Dalai Lama: Nei testi classici buddisti si parla di 84,000 forme di afflizioni.
Professore Ahmet Karamastaffa: voi ne avete di più [risate].
Sua Santità il Dalai Lama: Quindi perfino il numero è una somiglianza. A dire il vero, anche se i testi parlano di 84,000 forme di afflizioni, quando si va nello specifico le presentazioni sono molto più generali, con classificazioni in 21,000 appartenenti ad una categoria e 21,000 appartenenti ad un’altra categoria [risate].
Professore Ahmet Karamastaffa: E’ esattamente la stessa cosa anche nel percorso sufi, che è quindi classificato in stadi e stazioni più ampie ed ognuno di queste ha un certo numero di ostacoli lungo la strada, e si lavora su di essi sperando di arrivare infine al cuore spirituale. Ed una volta che lo si ottiene, allora il sé, l’essere egocentrico, non c’è più, non rimane nulla di lui: e quella è la goccia, quello è il momento in cui la goccia raggiunge l’oceano e diventa una cosa sola con esso, penso che quella sia l’idea, e quella è la…
Sua Santità il Dalai Lama: Parlando ancora di parallelismi, nei testi buddhisti si trova la metafora non tanto di “goccia” ma di differenti torrenti che convergono nell’unicità dell’oceano.
Professore Ahmet Karamastaffa: Si, si, decisamente.
Dottoressa Fatemeh Keshavarz: Sua Santità, nei suoi libri lei cita la poesia e brevi frammenti; mi chiedevo se lei usa la poesia come ispirazione e meditazione: questo fa parte della vostra tradizione?
Sua Santità il Dalai Lama: generalmente, fin dalla nostra infanzia, dobbiamo memorizzare i testi ed i versi scritti dagli antichi maestri indiani. Al giorno d’oggi quando medito, recito alcuni dei versi e poi rifletto sul loro significato. Questo è di grande aiuto. Tra i praticanti buddisti, alcuni meditatori usano la musica per salmodiare i versi che li ispirano maggiormente, ma non è una grande parte della mia strategia.
C’è la storia di un praticante che viveva da eremita, con qualche altro eremita intorno a lui. Ogni eremita stava per conto suo ed un eremita si mise a cantare alcune preghiere o versi ma poi il suono gradualmente si affievolì fino a cessare. Un altro eremita pensò che si era addormentato quindi andò piano piano a controllare e vide che l’eremita era immerso in meditazione. Questo mostra che questo particolare meditatore usava il salmodiare ed il canto in melodia come mezzo per raggiungere un certo stato mentale. Quando lo otteneva, il suono diminuiva e quando era in uno stato di concentrazione univoca, si smorzava, come fosse qualcosa “al di là della voce.” Quando c’è una melodia, la coscienza uditiva sta ancora funzionando, e quando si raggiunge il vero stato meditativo, gli organi dei cinque sensi non sono più attivi.
Professor Ahmet Karamastaffa: Sua Santità, la stessa cosa è presente anche nella pratica sufi, ciò che noi chiamiamo lo “zikr,” che è un mantra, una frase che viene in sostanza ripetuta sia con la musica o a volte con la sola recitazione. Molti sufi credono che cantandola o pronunciandola ad alta voce, essa assuma una forma sensoriale, ma che deve essere interiorizzata così più la si pronuncia più essa diventa parte della a tua mente e cuore così che anche quando ci si interrompe e sembra che si stia in silenzio, lo “zikr,” il ricordo, il canto continua dentro di te. E’ questo il modo in cui l’idea viene espressa, e a volte è nel tuo sangue, è nel tuo spirito, non è più sensoriale, non è più un qualcosa che può essere ascoltato o visto, ma la persona è divenuta il canto, questa è l’idea.
Sua Santità il Dalai Lama: nella tradizione indo tibetana ci sono molte diverse forme di recitazione, alcune eseguite a voce molto alta, alcune sussurrate ed alcune con sola ripetizione mentale, senza suono.
Carl Ernst: vorrei aggiungere che c’è una tradizione tra alcuni sufi che hanno studiato yoga, ed ho trovato la ripetizione di alcuni dei mantra in sanscrito molto simili a nomi arabi dello zikr, ed anche la recitazione di quelle sillabe che in qualche modo ci connettono con l’essere interiore, aprendoci a nuovi livelli di consapevolezza.
Dottoressa Elahé Omidyar Mir Djalali: Sua Santità so che il tempo è breve, ma quando prima ha parlato del monaco, della meditazione e della ripetizione e del calmarsi, mi sono ricordata di un verso di Rumi che dice: “Le parole possono essere contate ma il silenzio è incommensurabile,” quindi alla fine si raggiunge quel livello.
Sua Santità il Dalai Lama: recentemente ho incontrato un praticante induista. Egli parlava e capiva l’inglese ma il suo discepolo mi ha detto che negli ultimi ventidue anni questo praticante era rimasto in completo silenzio. Ventidue anni! Difficile. Noi abbiamo delle pratiche per le quali manteniamo il completo silenzio per un periodo. Anche io le faccio ma anche per una settimana, è difficile rimanere in silenzio. Ci vuole consapevolezza, altrimenti le parole tendono sempre a scappare fuori!
Dottoressa Elahé Omidyar Mir Djalali: Sua Santità, è ora mio compito terminare questo incontro. Mi dicono che è venuto il momento, anche se siamo ancora estremamente desiderosi di ascoltare molto e molto altro su questo studio comparativo, ma non vogliamo stancarla. Dato che ha fatto un viaggio lunghissimo dall’India, sedici ore di viaggio, non vogliamo affaticarla ulteriormente, ed è giunto il momento di concludere questo evento, se lei me lo consente.
Sua Santità il Dalai Lama: questo tipo di discussione è meravigliosa. Possiamo seriamente discutere delle somiglianze e quando troviamo una differenza, è utile per cercare di capire quale sia il vero scopo di queste differenti strategie. Troveremo, come ho detto prima, lo stesso obiettivo. Abbiamo davvero bisogno di altri incontri come questo, prima tra gli studiosi, a livello accademico, per discutere delle somiglianze e delle differenze e vedere quale sia il loro scopo. Poi devono esserci incontri tra seri praticanti, anche se naturalmente non c’è bisogno che venga quel maestro che da ventidue anni è in completo silenzio [risate]!
Ai tibetani ed anche ai cinesi piace costruire grandi statue, statue del Buddha o di altre importanti figure. L’anno scorso un gruppo di tibetani ha costruito un’enorme statua e mi ha invitato a consacrarla. Ci andai, partecipai e feci una lezione sul Buddhismo. Io sono buddhista e ho rispetto per quella enorme statua, ma allo stesso tempo anche se questa massiccia statua durasse per migliaia di anni, in queste migliaia di anni, non potrà mai parlare [risate e applausi]! Quindi quegli esseri umani che praticano il silenzio, non c’è ragione che partecipino, a meno che non abbiano l’abilità di fare miracoli. Comunque i praticanti sinceri e seri che praticano da molti anni, dovrebbero incontrarsi e scambiarsi le loro diverse esperienze. Credo che ciò sia molto importante per dimostrare che hanno lo stesso potenziale e lo stesso tipo di risultato.
Dottoressa Elahé Omidyar Mir Djalali: Sua Santità, questo già avviene in privato, ma non in pubblico, per la stessa ragione che lei ha precedentemente citato, e cioè che ci sono molti livelli di comprensione ed interpretazione di ciò che viene detto e quindi, per il timore di venire equivocati dalla maggioranza, questi seri praticanti rimangono in silenzio e condividono pensieri e idee solo tra di loro. Rumi e Shams Tabrizi sono buoni esempi, assieme a molti altri: molti dei veri praticanti non si aprono al pubblico. Danno insegnamenti al pubblico parlando linguaggi contraddittori, proprio come lei ha detto del Buddha e che alcuni dei suoi insegnamenti erano contraddittori. I maestri sufi fanno lo stesso perché, in ogni grande assemblea, tutti comprenderanno quello che possono, quello che vogliono o che sono in grado di ascoltare dagli insegnamenti. Quindi per evitare confusione su concetti complessi e difficili da capire, essi parlano solo tra di loro perché hanno raggiunto un punto in cui le incomprensioni possono accadere in misura minore.
Sua Santità Dalai Lama: Va bene anche così, non è necessario che avvenga in pubblico, basta una selezione di dieci o venti praticanti che possono scambiarsi le loro più profonde e vere esperienze. Sarà di immenso aiuto per capire il valore di tradizioni differenti, il che è molto importante. E’ venuto il tempo in cui dobbiamo fare uno sforzo per promuovere l’armonia religiosa per poter sviluppare una genuina armonia. Dobbiamo fare ogni sforzo per sviluppare rispetto e comprensione reciproca, non con le parole degli studiosi o le belle presentazioni, ma con la vera esperienza spirituale.
Ho provato a mettermi in contatto con alcuni praticanti indù recentemente. Due mesi fa c’era il Kumbh Mela, un immenso raduno di quasi settanta milioni di pellegrini che si svolge ogni dodici anni ed al quale ho partecipato nelle ultime tre occasioni. L’ultima volta, volevo partecipare ma il tempo non ha permesso al mio aereo di decollare da Dharamsala. Quindi Dio non voleva [risate]! Ho inviato un messaggio dicendo che avrei voluto incontrare quei praticanti che si mostrano completamente nudi. Mi è stato detto che alcuni di questi rimangono anni e decenni sulle montagne innevate senza alcun tipo di vestito, quindi devono avere una certa esperienza. Abbiamo una certa pratica speciale che consiste nel trattenere e generare calore; senza di essa non potresti sopravvivere nella neve. Volevo veramente incontrare queste persone ma il tempo non lo ha permesso!
Quindi, ho davvero apprezzato i vostri sforzi per organizzare tutto questo, e mi auguro vi saranno altri incontri, non per pubblicità ma semplicemente per cercare di ottenere una più profonda comprensione delle differenti tradizioni, i loro autentici insegnamenti ed i risultati e così via.
Dottoressa Elahé Omidyar Mir Djalali: Oggi si è svolto uno storico evento, speriamo che sia il primo di molti basati sul consiglio di Sua Santità. Sperando che questo sia solo l’inizio di un sincero dialogo tra tutte le religioni, siamo grati per la partecipazione di Sua Santità e ringraziamo l’Università di Maryland e tutti i partecipanti. Ringrazio anche l’assemblea per essere qui per beneficiare dei consigli di Sua Santità e per apprezzare questo significativo incontro.
L’Istituto Roshan ha preparato un regalo per Sua Santità come ricordo per questo primo incontro tra Buddhismo e Sufismo. È in persiano, scritto a mano: un poema (in calligrafia), che dice…, posso leggerlo? [Legge in Persiano]. La traduzione è: “Al di là delle parole, delle allusioni e delle ragioni, il cuore conosce centomila modi per parlare.” È tutta una questione di cuore.
Fonte http://studybuddhism.com/web/it/archives/study/islam/general/meeting_of_two_oceans.html