4 – Sua Santità il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso: Il Buddismo, la via della ragione.
Insegnamenti conferiti a Dharamsala, India, da Sua Santità il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso per il “CioTrul Du Cen”, il Giorno dei Miracoli, 5 marzo 2015. Quarta parte.
Dovremmo sforzarci di guardare agli aspetti positivi di tutte le religioni di questo mondo e ad averne rispetto. Penso che le religioni per le quali dovremmo avere ammirazione e rispetto abbiano tre diversi aspetti.
Il primo è quello del Dharma, nel senso di un sentiero spirituale che ‘protegge’; il secondo è la filosofia che fa da sostegno al primo ed infine il terzo aspetto è costituito dalle usanze e così via, ovvero dalla cultura o civiltà.
Per quanto riguarda il primo aspetto, tutte le religioni presenti su questo mondo insegnano attitudini come l’amore, la pazienza, la moderazione, la tolleranza. Ho amici cristiani, islamici, indù e constato che si sforzano sinceramente di fare del bene al prossimo, di vivere con moderazione sapendosi accontentare di poco; sono molto bravi. In generale, gli insegnamenti impartiti dalle diverse religioni in connessione con il primo aspetto sono uguali.
Quando si parla del secondo aspetto, ovvero la filosofia che determina questi insegnamenti allora ci sono molte differenze. La prima differenza sta nel fatto di asserire un Creatore o meno. Le religioni che non asseriscono un Dio Creatore sono sorte in India e sono il Samkhya non teista, il Jaina e il Buddhismo.
Queste tre religioni affermano che esistono solo risultati che dipendano da cause e non accettano l’esistenza di risultati creati da un Dio permanente e autoprodotto. Tra le religioni teiste, lo Zoroastrismo è forse una delle più antiche ed è sorto in quello che è l’odierno Iran. C’è poi il Samkhya teista sorto in India e poi il Giudaismo, il Cristianesimo, e la religione Islamica. Queste religioni, dal punto di vista filosofico, a parte piccole differenze, sono tutte simili, in quanto sostengono un Dio Creatore. Benché ci sia questa fondamentale differenza filosofica con le religioni non teiste, ne condividono l’obiettivo di incrementare l’amore.
Per esempio, la credenza in un Dio Creatore la cui natura è amore, saggezza e potenza assolute e che ci ha creati, influenza automaticamente il sorgere di attitudini positive come il pensare che tutte le creature di Dio posseggono il seme di questo amore assoluto e che, per seguire questo Dio, dobbiamo sviluppare le sue qualità come l’amore e così via.
Per coloro che seguono una religione non-teista, l’insegnamento più esplicito a questo riguardo è forse quello di Buddha: “Tu sei il protettore di te stesso”, ovvero il nostro benessere è nelle nostre mani, dipende solo da noi stessi. (Ecco la strofa completa che si trova in un sutra: “Tu sei il protettore di te stesso, tu sei anche il tuo nemico. Del bene e del male che hai fatto, tu sei il tuo stesso testimone.” ) Poiché tutti desideriamo il nostro benessere, viene insegnato che ci si deve comportare bene; che se si fanno soffrire gli altri, come risultato si soffrirà e, se invece si beneficiano gli altri, se ne ricaverà beneficio per noi stessi; viene spiegato in tal modo il concetto di cause e risultati.
Anche quest’ultimo approccio porta del bene a coloro che lo seguono e così entrambe le classi di religioni si sforzano, sulla base di diverse filosofie, di operare una trasformazione positiva nei discepoli; l’obiettivo comune è quello di produrre persone di buon cuore, brave persone.
Analogamente, ci sono diversi tipi di medicine, alcune sono dolci ed altre amare, però entrambe funzionano per indurre guarigione e salute. Anche le diverse filosofie religiose s’intonano ai diversi caratteri ed inclinazioni delle persone, cosa assolutamente necessaria.
Buddha Shakyamuni stesso, in certi sutra insegna come se esistesse un sè diverso dagli aggregati; presenta perciò in diversi sutra diversi livelli di comprensione della realtà. Credo sia nel “Le quattrocento strofe” che si afferma che per certe persone la visione dell’esistenza del sè è la migliore, ovvero si dice che la visione ‘del composto transitorio’ (Generalmente essa è considerata come una visione errata, in particolare una delle cinque visioni distorte che tutte insieme costituiscono la visione errata, una delle sei afflizioni radice o principali.), la visione o la credenza che ha come oggetto l’insieme dei cinque aggregati psicofisici, che sono un fenomeno caduco, e che li considera come ‘io’ e ‘mio’, è di beneficio per il conseguimento della buddhità.
Questo dimostra che sono necessari diversi approcci per entrare in sintonia con i diversi caratteri e predisposizioni presenti tra gli esseri. Seguendo questa logica, tutte le diverse religioni di questo mondo conseguono il comune obiettivo di rendere i propri seguaci persone migliori, attraverso metodi diversi che si basano presupposti filosofici diversi.
Il secondo livello, come dicevo, è associato al fatto di far parte dei sei miliardi di persone che si considerano praticanti, nel nostro caso buddisti. In relazione a questo livello, il nostro impegno dovrebbe essere quello di adoperarci per l’armonia tra le diverse fedi religiose. Noi tutti qui presenti, ognuno secondo le proprie capacità, dovremmo sforzarci in questa direzione. In particolare, noi seguaci del Buddhismo, dovremmo comprendere chiaramente quali sono le caratteristiche di questo sentiero spirituale.
In primo luogo, si tratta di una religione non teista, una delle tre che ho menzionato prima. Non solo il Buddhismo non crede in un dio creatore ma non crede neanche, a differenza dei Samkhya non teisti e dei Jaina, nell’esistenza di un sè od io separato, distinto dai cinque aggregati psicofisici. Il Buddhismo nega l’esistenza di un sè permanente, unitario e indipendente come sostenuto dalle filosofie delle sopra citate fedi religiose. Il Buddhismo è l’unica religione che nega l’esistenza del sé così inteso e presenta invece la teoria della ‘mancanza del sé”.
Durante il suo primo insegnamento, Buddha Shakyamuni proclamò le ‘Quattro nobili verità”, questo costituisce la struttura filosofica portante del Buddhismo. Le ‘Quattro nobili verità'” sono la Verità della sofferenza (vere sofferenze), la Verità dell’origine (vere origini o vere cause), la Verità della cessazione (vere cessazioni) e la Verità del sentiero (veri sentieri). (Vedi anche J.Hopkins nel suo “Meditation on Emptiness”: “Come le due verità, anche le quattro nobili verità non sono concetti astratti di verità, ma sono oggetti. La prima verità è vere sofferenze, gli aggregati psico-fisici prodotti da azioni contaminate ed afflizioni. La seconda verità è vere origini: le afflizioni e le azioni motivate da esse. La terza verità è vere cessazioni: l’esaurimento delle vere sofferenze e delle vere origini. La quarta verità è veri sentieri: i metodi per ottenere vere cessazioni.”) Tutti noi dovremmo comprenderne il senso. Buddha proclamò inoltre quattro attributi per ognuna delle quattro verità per un totale di ‘sedici attributi’.
I quattro attributi che caratterizzano le vere sofferenze sono: impermanenza, sofferenza, vacuità e mancanza di un sé. I quattro attributi che caratterizzano le vere origini sono: causa, origine, forte produzione e condizione. I quattro attributi che caratterizzano le vere cessazioni sono: cessazione, pacificazione, eccellenza ed emergenza definitiva. I quattro attributi che caratterizzano i veri sentieri sono: sentiero, conoscitore, conseguimento e salvezza definitiva.
Questo insegnamento costituisce la struttura portante di qualsiasi pratica buddhista si voglia intraprendere. Prima di discutere dei quattro attributi della prima nobile verità è meglio iniziare con il domandarci cosa si intenda con la sofferenza che Buddha proclamò dobbiamo conoscere o identificare.
Se si trattasse della sofferenza della sofferenza (Il primo tipo di sofferenza, ovvero ciò che tutti noi chiamiamo dolore.), anche gli animali sanno cosa significhi e non ci sarebbe bisogno che venisse un Buddha per dirci di cosa si tratti.
Quando Buddha parlava di sofferenza intendeva la sofferenza onnipervasiva composita, ovvero qualsiasi rinascita o corpo dovuto a karma e afflizioni. (Il terzo tipo di sofferenza; il secondo tipo invece è la sofferenza del cambiamento, ovvero i piaceri contaminati che tutti noi chiamiamo felicità.) Per comprendere di cosa si tratta, è utile prendere in considerazione il suo primo attributo e cioè l’impermanenza; il fatto che questo nostro corpo subisce cambiamenti e alla fine cessa; ciò dimostra che dipende da cause. I Vaibhashika (o scuola filosofica della Grande esposizione, del veicolo Hinayana) parlano di “quattro caratteristiche definitrici” come la produzione e così via. Si tratta di essere prodotti, dimorare, cessare e disintegrarsi. C’è menzione qui di un dimorare o permanere dei fenomeni, e questo si riferisce all’impermanenza grossolana.
Le scuole filosofiche, a partire da quella Sautrantika in su (Cittamatra e Madhyamaka), affermano invece che la disintegrazione non dipende dall’incontro con un fattore esterno che causa disintegrazione, ma che tutti i fenomeni sin dalla loro produzione sono prodotti come qualcosa che si disintegra; sostengono che la produzione e l’inizio del processo di disintegrazione, o distruzione, sono simultanei. A prima vista questa sembra un’affermazione contraddittoria, ma, riflettendoci, ci si rende conto che è ragionevole.
La tesi Vaibhashika del cessare tra le “quattro caratterisitiche definitrici”, non è sostenibile nel senso che, se il fenomeno in questione non fosse naturalmente prodotto con l’intrinsica qualità di cambiare, non potrebbe ‘cessare’. Se il fenomeno considerato non avesse la natura di cambiare, l’incontro con circostanze avverse non potrebbe causare la sua cessazione; se cioè, esso fosse permanente, non potrebbe essere affetto da cause esterne. L’essere soggetti alla cessazione da parte di cause esterne è possibile solo in quanto si ha, di per se stessi, la natura di cambiare.
Quando si parla di impermanenza (come primo attributo delle vere sofferenze) si intende l’impermanenza sottile, la qualità di disintegrarsi istante dopo istante ed essa non dipende dall’incontro con una causa esterna artefice di disintegrazione, ma dal fatto che la causa della sua produzione è essa stessa impermanente e, di conseguenza, produce fenomeni aventi la natura di disintegrarsi ad ogni istante. Si comprende così che i fenomeni sono dipendenti da cause.
La causa dei nostri aggregati psico-fisici contaminati è rintracciabile nell’ignoranza; perciò possiamo dire che siamo dipendenti dall’ignoranza, ovvero siamo dominati, controllati dall’ignoranza e, perciò, siamo ‘sofferenza’. (Il secondo attributo delle vere sofferenze di cui il nostro corpo, i nostri aggregati psico-fisici contaminati, sono l’illustrazione.) Abbiamo parlato di ignoranza. In generale per ignoranza si può intendere sia il semplice non conoscere, che il conoscere distorto, ovvero il comprendere erroneamente. In particolare, in questo contesto quello che comprendiamo erroneamente è la natura del sé od io, di colui che produce felicità e sofferenza e le sperimenta. Il sé o l’io ci appare come un capo che governa sui cinque aggregati, ci appare un io veramente esistente e di conseguenza ci esprimiamo con espressioni quali “il mio corpo”, “la mia mente”, “i miei famigliari”, “il mio nemico”. Abbiamo una sensazione forte e netta che ci sia davvero un ‘io’ all’interno di noi stessi, qualcosa che noi consideriamo molto prezioso.
Sulla base di questa forte sensazione, quando poi andiamo a considerare ‘gli altri’, automaticamente li sentiamo lontani e diversi. Per coloro che ci procurano un qualche tipo di beneficio, generiamo attaccamento considerandoli nostri amici e, per coloro che ci procurano qualche danno, generiamo avversione, sospetto, apprensione, invidia e così via, etichettandoli come nostri nemici.
Se avessimo una mente equanime nei confronti di tutti, non ci sarebbe modo di generare orgoglio, invidia e, di conseguenza, apprensione. Se fossimo in grado di generare un’attitudine che desidera beneficiare tutti indistintamente, anche coloro che ci danneggiano e che abbiamo etichettato come nemici, penseremmo che il loro danno è un evento transitorio e, anche se ci opponessimo ad esso nell’immediato con i mezzi necessari, riusciremmo a generare la considerazione che anche costoro, come tutti gli infiniti esseri, desiderano la felicità e rifuggono la sofferenza; quindi, non li sentiremmo come lontani e diversi, e non genereremmo apprensione nei loro confronti. C’e una grande differenza nel modo di sentire in dipendenza dal modo di pensare e, perciò, addestrarsi secondo queste riflessioni fa una grande differenza dal punto di vista psicologico.
Tradotto dal tibetano a Dharmasala, India, durante il mese di marzo 2015 da Mariateresa Bianca. Si ringrazia Sherab Dhargye per le delucidazioni dal tibetano e la monaca italiana Ani Tenzin Ojung per aver riletto il testo e dato suggerimenti. Editing del Dr. Luciano Villa nell’ambito del Progetto “Free Dharma Teachings” per il beneficio di tutti gli esseri senzienti. Ci scusiamo per i possibili errori ed omissioni.