Sua Santità il Dalai Lama: Una Chiave per la Madhyamaka

Sua Santità il Dalai Lama: Il proposito di questa meditazione è quello di rimuovere gli ostacoli; inoltre esso deve essere accompagnato da una grande accumulazione di meriti.

Sua Santità il Dalai Lama: Una Chiave per la Madhyamaka.

NAMO PRAJNAPARAMITA: La Saggezza Che È Andata Oltre

Omaggio al Jina (il Vittorioso) simile a illusione
al quale sono attribuiti solo nome e mente,
sebbene egli sia provvisto di una compassione che non si aggrappa,
che beneficia tutti gli esseri senzienti,
e della gloria della saggezza e dell’azione!
Qui, per poter sviluppare la saggezza in coloro che hanno menti fresche,

spiegherò in brevi termini
l’essenza della Sua amrita (nettare) così ben esposta,
il modo in cui sono unite la vacuità e l’originazione interdipendente.

Ognuno di noi vuole ottenere la felicità ed evitare la sofferenza. Ottenere la felicità e liberarci dalla sofferenza dipendono dalla condotta di corpo, parola e mente. L’intera condotta di corpo e parola dipende dalla mente. Di conseguenza c’è bisogno di portare un cambiamento nelle nostre menti. Il modo di trasformare la mente è quello di prevenire il sorgere di stati mentali erronei e di sviluppare e accrescere gli stati mentali virtuosi.

Bisogna spiegare quali qualità della mente sono considerate buone e quali cattive. Quando certi stati mentali sorgono, ci si sente inquieti e la mente, che prima era calma, improvvisamente diviene agitata e depressa. Il nostro respiro potrebbe accorciarsi e potremmo persino fare esperienza di una malattia e così via. Gradualmente questo stato si manifesta in una condotta dannosa del corpo ed anche la parola, direttamente o indirettamente, comincia a disturbare la pace degli altri. Tutti questi stati mentali sono considerati dannosi. Dall’altro lato quegli [stati mentali] che portano il frutto della pace e della felicità agli altri e a noi stessi – adesso o nel lungo periodo – sono considerati virtuosi. Per prevenire l’insorgere di stati mentali negativi si usano metodi come la chirurgia cerebrale o l’assunzione di vari tipi di medicine che però ci danno sonnolenza e appannamento mentale o addirittura ci eliminano completamente il pensiero come in un sonno profondo e così via – tutte queste terapie potrebbero anche portarci un certo sollievo temporaneo, ma alla fine questi metodi fanno più danno che bene.

Di conseguenza il modo per cambiare in meglio è quello di riconoscere, attraverso l’esperienza, la natura degli stati mentali negativi considerando la loro dannosità. Dobbiamo poi riconoscere gli stati mentali virtuosi e, riflettendo continuamente sulla loro qualità benefiche e vedendo che hanno un fondamento positivo, la nostra mente cresce abituandosi ad essi ed anche il potere della ‘conoscenza’ si sviluppa. A causa di questo potere, poiché essi hanno una buona base e poiché sono stati mentali queste nobili qualità cresceranno nel potere che hanno, mentre il potere delle qualità negative decrescerà naturalmente. Infine, sorgeranno nella nostra mente dei segni di confidenza delle qualità virtuose. Nel corso della storia del mondo ci sono stati molti grandi maestri in paesi diversi che hanno insegnato dei metodi per cambiare la mente attraverso metodi differenti, in accordo alle capacità individuali dei loro seguaci. Tra di essi anche il buddhismo insegna molti metodi per domare la mente. Darò qui un poco di spiegazioni sulla visione di shunyata.

Sia nel veicolo maggiore che nel veicolo minore del buddhismo, che dentro gli insegnamenti dei Sutra e dei Tantra del Grande Veicolo si insegna la visione della mancanza di ego (nairatmya). Buddisti e non buddhisti si distinguono a livello pratico dal fatto che essi abbiano preso o no rifugio nei Tre Gioielli e, a livello filosofico, dal fatto che accettino o no i Quattro Sigilli della Esatta Visione indicati dalle parole del Buddha. Questi Quattro Sigilli sono: tutti i fenomeni composti sono impermanenti, ogni esistenza ‘con una caduta’ è sofferenza, tutti i fenomeni sono vuoti e privi di una natura a se, e il Nirvana è la pace. Questo è ciò che ha insegnato il Buddha. La vacuità e la non esistenza a sé stante di tutti fenomeni sono accettati da tutti i buddisti. Per quanto riguarda il significato di mancanza di ego, tutte e quattro le scuole del buddhismo (Vaibhasika, Sautrantrika, Vijnanavadin e Madhyamaka) hanno in comune il fatto che accettano la mancanza di ego di una persona come il fatto che essa è priva di una identità-ego sostanzialmente esistente, che si auto-sostiene. Inoltre, secondo la scuola Vijnanavadin la mancanza di ego dei fenomeni è la sostanza non-duale della mente ed il suo oggetto. La visione della scuola Madhyamaka è che la mancanza di ego dei fenomeni è la vacuità della vera esistenza.

Le scuole differiscono parecchio l’un l’altra su questo punto, sia negli aspetti grossolani che in quelli sottili. Una buona comprensione delle scuole inferiori aiuta nella comprensione delle scuole superiori. Nella Madhyamaka ci sono due sottodivisioni (Prayangika-madhyamaka e Svatantrika-madhyamaka); qui viene spiegata la visione Prasangika.

Potremmo ben chiedere se le diverse visioni filosofiche furono esposte dal Bhagawan (il Soggiogatore) e in tal caso in quali Sutra esse si trovino e se le distinzioni tra le divisioni tra superiori e inferiori di queste filosofie e le differenze di profondità nella spiegazione dipendano dalle parole del Buddha. Di fatto, le differenti visioni delle quattro scuole principali furono insegnate dal Bhagawan stesso in accordo con i diversi livelli di comprensione dei suoi discepoli. In certi Sutra speciali egli insegnò a certi discepoli il concetto dell’esistenza di un se (atman) e questo perché se avesse insegnato loro il concetto di un non-se questo stesso concetto li avrebbe fatti cadere in un pensiero estremista negativo o addirittura avrebbe fatto loro perdere completamente la fede nel Dharma. In altri momenti, se egli avesse insegnato o l’esistenza o la non-esistenza di un se, questo avrebbe danneggiato alcuni che avrebbero potuto cadere in uno dei due estremi; e così, con equanimità, egli lasciò tali punti senza risposta, così come possiamo vedere nelle “14 domande senza risposta”. Quindi, come abbiamo detto in precedenza, il Bhagavan insegnò quali fossero le varie visioni sulla mancanza di un ego.

Le scuole Vaibhasika e Sautrantrika si basano principalmente sui Sutra come il Sutra delle Quattro Nobili Verità che appartiene al Primo Giro della Ruota del Dharma del Signore [Buddha]. La scuola Madhyamaka è basata principalmente sui Sutra come il Sutra della nobile perfezione della saggezza in 100,000 versi, che appartiene al Secondo Giro della Ruota del Dharma. La scuola Vijanavadin si basa sul Nobile Sutra che interpreta l’intenzione del Buddha, ed altri Sutra che appartengono alla Ruota del Dharma. I “tre giri” di questa ruota sono divisi in modo diverso in accordo con il luogo, il tempo e il soggetto e i diversi tipi di discepoli.

Come facciamo a giudicare sulla base della parola del Buddha quali filosofie siano più avanzate e profonde quando ognuno dei Sutra insegna che la dottrina che esso [sutra] proclama è quella suprema? Se crediamo ad un Sutra come possiamo guardare gli altri Sutra che contraddicono questo primo? Se dobbiamo provare che un Sutra è vero e che un altro è falso basandoci su di un’altra parola del Buddha il processo diviene infinito. Di conseguenza, la differenziazione delle scuole in più avanzate e meno avanzate dev’essere basata sul ragionamento. I Sutra Mahayana, inoltre, ci dicono che dobbiamo dividere gli insegnamenti del Buddha tra quelli che hanno bisogno di essere interpretati e quelli che possono essere presi alla lettera. Buddha disse:

O bhikshu e uomini saggi,
così come uno fa il saggio dell’oro grattando, tagliando e mescolando, allo stesso modo esaminate bene le mie parole.
E poi accettatele, ma non perché mi rispettate.

Il significato di queste parole è stato chiaramente spiegato dal signore Maitreya nel Sutra ornamento al Grande Veicolo sulla base di quattro relazioni di dipendenza:

1- relazione con il maestro: il significato dipende non solo dalla persona del maestro ma da quello che egli insegna;

2- relazione con l’insegnamento: il significato non dipende semplicemente dalla dolcezza delle parole e così via, ma dal loro significato;

3-relazione con il significato: il significato non dipende solo dai mezzi interpretativi che devono essere compresi in diversi modi, dato che essi possono essere contraddetti poiché vennero insegnati con un intento specifico o in circostanze specifiche, quanto dal significato ultimo.

4-relazione con il significato ultimo: il significato non dipende da una consapevolezza che ha una visione dualistica, quanto invece da una conoscenza diretta non-concettuale focalizzata su “Quello profondo” (shunyata).

Se ci si abitua a una conoscenza concettuale di “Quello profondo” potremo finalmente acquisire una chiara percezione dell’oggetto della meditazione. In quel momento la conoscenza concettuale muta nella conoscenza diretta non-concettuale. La crescita della conoscenza concettuale dipende da un ragionamento perfetto e così quest’intero processo in ultima istanza dipende dall’analisi. Tutte le analisi infine dipendono da una esperienza valida di noi stessi; una conoscenza cioè che sia basata sulla nostra reale percezione. Questa è la visione dei grandi Pandit della logica (pramana) come Dignaga e Dharmakirti.

Potremmo chiederci: quale utilità hanno per noi la logica e la comprensione di tutte queste filosofie al fine del perfezionamento della mente? Non sono forse la nobiltà e la bontà della mente tutto ciò che serve a una praticante di Dharma, mentre la conoscenza appartiene [cioè serve. NdT] solo agli eruditi? Ci sono metodi diversi che cambiano la mente su piani diversi. In alcuni di essi si può praticare con una mente fissa in modo univoco usando fede e devozione da soli, e tralasciando quindi ragione e giudizio. Utilizzando però queste qualità la pratica non svilupperà grande energia. Proprio per poter rendere infinite le buone qualità della mente, non è abbastanza per le nostre menti acquisire semplicemente confidenza con l’oggetto della pratica, dato che inoltre la nostra pratica deve avere un fondamento solido. Né è sufficiente in generale per la pratica possedere unicamente tale solida base; e questo perché il praticante individuale, dopo avere visto chiaramente quale sia la base da usare per i propri fini, deve acquisire una certezza intuitiva di essa. La conoscenza quindi è indispensabile per un vero praticante, sebbene, nel caso si debba scegliere tra l’apprendimento e la nobiltà della mente, quest’ultima sia più importante perché da per sé sola porta certi benefici.

Inseguire un avvenimento senza prima aver domato la mente, invece di portare pace e felicità può causare stati mentali che disturbano la pace degli altri e possono sviluppare gelosia nei confronti di chi ci è superiore, senso di competizione verso chi è pari a noi, orgoglio e abuso nei confronti di chi ci è inferiore e così via. Questo è un po’ come trasformare una medicina in un veleno. Di conseguenza dobbiamo possedere una nobiltà [mentale] indenne dall’apprendimento ed un apprendimento indenne dalla nobiltà [mentale]. È essenziale che possediamo tutte e tre [le qualità]: l’apprendere, la nobiltà è la bontà.

Per potere realizzare la vacuità del se (atman-sunyata) dobbiamo prima comprendere il significato di vacuità (sunyata). Come ebbe a dire Shantideva in Guida al modo di vita di un Bodhisattva (Bodhhisattva-charyavatara):

Senza venire a contatto con il fenomeno della ricerca
può essere percepita la non-fenomenicità della ricerca stessa

Non possiamo realizzare la vacuità senza sapere di cosa essa è vacua. Quando abbiamo in mente qualcosa di tangibile e vediamo [poi] la sua assenza ecco che chiamiamo questa assenza “vacuità”, allo stesso modo in cui diciamo che un arcobaleno è vacuo (di tangibilità). Siamo anche soliti chiamare “vacuità” l’assenza di forma, così come diciamo che lo spazio è vuoto. Tuttavia la vacuità non è nulla di queste cose; piuttosto, è proprio assumendo l’esistenza auto-inerente come un oggetto da rifiutare che possiamo realizzare la sua vacuità. Per fare un esempio: non si tratta del tipo di vacuità che viene mostrata da una foresta che ieri esisteva ma oggi è stata bruciata, così che oggi possiamo vedere che la superficie è vuota [priva] di una foresta. Al contrario, stiamo parlando della vacuità di qualcosa che stiamo rifiutando, la quale non è mai realmente esistita da un tempo senza inizio. Il modo in cui la vacuità è vuota non è quello in cui è vuota la superficie d’appoggio di un tavolo priva di un vaso di fiori. Si tratta invece di una “vuotezza” che dipende dal fatto che la base della negazione stessa non è della stessa natura di ciò che deve essere negato. Per questa ragione, se pensiamo che la vacuità sia semplicemente una vaga nullità, senza aver compreso chiaramente il modo di esistenza dell’oggetto che deve essere rifiutato oppure il modo di esistenza del sé (atman) non abbiamo compreso correttamente il significato di shunyata.

Potremmo chiederci: se qualcosa non esiste, perché mai dovremmo prenderci la briga di vedere che il modo in cui questo qualcosa appare esiste, per poter vedere che esso realmente non esiste? Persino nelle faccende di ogni giorno possiamo essere ingannati dal fatto di credere vero qualcosa che non lo è. Anche qui siamo ingannati dal fatto di credere che tutti i fenomeni abbiano un’esistenza auto-inerente quando di fatto non ne hanno alcuna.

Il modo in cui la mente si aggrappa all’idea di un “io” varia [da caso a caso]. Quando percepiamo un desiderio, dell’odio, dell’orgoglio e così via, si tratta di una percezione diversa da quella che abbiamo quando tali emozioni non ci sono e la mente se ne sta in pace. Allo stesso modo la nostra attitudine nei confronti di qualcosa che troviamo al mercato prima di comprarla è diversa dalla nostra attitudine verso questa stessa cosa dopo che l’abbiamo comprata: la mente s’attacca a questa cosa con l’idea che essa è “mia”, anche se l’oggetto di entrambe le attitudini è uno solo e la sua apparenza – come qualcosa che esiste davvero – è la stessa per entrambe. La differenza sta nel fatto di aggrapparsi all’oggetto in quanto vero o non vero. Quando per la prima volta vediamo un gruppo di 10 persone, anche se obiettivamente esse ci appaiono (come qualcosa esistente di per sé), non abbiamo necessariamente un forte attaccamento verso di loro. Quando ci formiamo l’idea, giusta o sbagliata, che una di queste 10 persone sia buona o cattiva, proiettiamo le nostre esagerazioni oltre la realtà della situazione e sorge quindi dentro di noi l’apprezzamento o il rigetto nei confronti di questa persona. In quel momento noi ci attacchiamo fortemente all’oggetto del nostro apprezzamento o rigetto in quanto lo riteniamo vero. Tutti gli Stati erronei della mente sono guidati o accompagnati da questo tipo di attaccamento (ignoranza). Se non c’è questo tipo di attaccamento, allora l’apprezzamento o il rigetto e così via non possono sorgere. Di conseguenza, realizzare ed essere convinti che l’oggetto da rigettare è assente, che esso non è mai esistito da un tempo senza inizio, e che tutti i fenomeni sono vuoti di tali qualità, significa estinguere i concetti erronei che sorgono da un tempo senza inizio come le onde dell’oceano.

Come spiega Nagarjuna nel diciottesimo capitolo di Saggezza, il testo fondamentale sulla Via di Mezzo (Prajnanama-mulamadhyamaka-karika):

Quando nei confronti di tutte le cose, sia interne che esterne, i concetti di “io” e “mio” sono svaniti,
tutti gli attaccamenti saranno portati a cessazione
e, con questa cessazione, verrà a finire la nascita.

Con l’eliminazione del karma e delle corruzione si sarà liberati (nirvana): karma e corruzione sorgono da concezioni errate
che a loro volta sorgono dalle manifestazioni,
ed esse sono eliminate da shunyata.

Dato che una esistenza auto-inerente non è mai esistita da uno tempo senza inizio, non c’è alcuna cosa che esista in modo indipendente. Tuttavia c’è l’inter-dipendenza che, sebbene sia vuota di esistenza inerente, porta sia beneficio che danno, come sappiamo per esperienza. Di conseguenza tutti i fenomeni che appaiono ed esistono sono nella sfera di questa natura che non esiste in un modo inerente. Tutti i fenomeni possiedono unicamente questa natura e non sono separati da essa. Tutto ciò che appare, poiché possiede una natura interdipendente, si manifesta in forme varie. Tutte le cose conoscibili hanno due nature: un modo superficiale di apparire ed un modo vero di esistere, chiamate rispettivamente “verità convenzionale” (samvrtisatya) e “verità ultima” (paramarthasatya). Di conseguenza l’acharya Nagarjuna nel testo sopra citato afferma:

Il dharma insegnato da tutti i Buddha è ben basato in due verità:
la verità convenzionale mondana
e la verità assoluta ultima

e il glorioso Chandrakirti afferma nel suo Entrando nel sentiero di mezzo (Madhyamaka-avatara):

vedendo la verità e la falsità di ogni fenomeno
si trova che tutti i fenomeni posseggono due nature
e viene insegnato che vedere la vera natura è la talità mentre vedere la falsa visione è la verità convenzionale

Spiegherò brevemente la verità ultima più tardi; come prima cosa, ora, la verità relativa. La verità convenzionale (o relativa) è divisa in due parti: la perfetta verità convenzionale e la falsa verità convenzionale, in accordo con la maniera mondana di vedere le cose. Chandrakirti dice:

La falsa visione è anch’essa divisa in due parti, cioè in un senso chiaro e uno fallace.

La percezione posseduta da una persona che ha un senso difettoso è chiamata falsa, quando la paragoniamo a quella di qualcun altro che ha un senso ben funzionante. Quello a cui le persone mondane si aggrappano
attraverso sei percezioni sensoriali non difettose

esse lo percepiscono come reale e lo guardano come vero; il resto lo guardano come falso.

Comprendere i due livelli della verità in questo modo è molto importante perché dobbiamo relazionarci costantemente con queste apparenze che ci portano [alternativamente], benefici o danni. Dobbiamo capire chiaramente le nature superficiali e profonde dei fenomeni con cui abbiamo a che fare. Per esempio, potremo avere a che fare con un vicino piuttosto furbo, e se ci relazioniamo con lui solo sulla base del suo comportamento esterno potremmo avere dei problemi. Questo non succede soltanto perché ci relazioniamo con lui, ma anche perché non sappiamo come relazionarci visto che non abbiamo capito la sua natura più intima. Di conseguenza, se riusciamo ad avere una comprensione chiara sia della sua natura più intima che del suo modo di apparire esterno, potremo avere la capacità, grazie a questa [comprensione], di stabilire una relazione con lui che non ci porterà dei problemi.

Se le apparenze e il vero modo di esistere dei fenomeni sono una cosa sola, vale dire che essi non hanno una natura più profonda, distinta dall’apparenza superficiale, allora possiamo ritenere e credere che questo modo di apparire sia la loro vera realtà. Tuttavia non è così. Sebbene il modo di apparire di tutti fenomeni sembri essere “vero”, essenzialmente non è né veramente esistente o inerentemente esistente né non-esistente. La visione che comprende tutto questo è conosciuta come la visione della Via di Mezzo (Madhyamaka).

Ora bisogna spiegare il modo in cui il se o l’esistenza inerente non esiste.
Quando percepiamo [qualcosa] con i nostri sensi e quando percepiamo qualcosa con la nostra mente, o quando abbiamo una qualche esperienza, ciò che viene percepito e sperimentato sembra avere la natura di un’esistenza inerente e indipendente, e sembra anche che tutto ciò possa esistere unicamente dal proprio lato. A causa di questo, e fatta eccezione per la saggezza che percepisce direttamente la vacuità, tutte le percezioni sono errate. Ora se ci viene chiesto se l’esistenza derivante da una percezione errata sia sufficiente per l’esistenza, non sarebbe possibile che non esista nulla che sia non-esistente (che qualcosa possa esistere)? A questa domanda possiamo rispondere che la nostra percezione, essendo errata perché l’oggetto di essa appare veramente esistente e perché la nostra percezione essendo valida non è ingannata nel principio dell’oggetto, non è contraddittoria. Ad esempio, quando la coscienza sensoriale dell’occhio capta una forma, la forma stessa sembra essere veramente esistente. Di conseguenza [rispetto a quanto detto prima] questa percezione è errata. Tuttavia essa (la coscienza sensoriale della vista) che percepisce la forma è valida sia rispetto all’apparenza della forma unicamente come forma, sia rispetto all’apparenza di una forma che ha una vera e esistenza. Questo avviene perché la coscienza,
avendo la caratteristica di essere “chiara e che conosce”, per il fatto che è rivolta verso un oggetto, si manifesta come dotata dell’apparenza di quest’oggetto. Inoltre è stato insegnato che tutte le coscienze sensoriali che hanno prospettive dualistiche sono percezioni dirette valide rispetto alle apparenze che percepiscono, e sono inoltre corrette rispetto ai fatti nelle proprie apparenze. Tuttavia, tutto ciò che esiste dipendendo da una percezione errata non è una prova d’esistenza. Ad esempio, alla coscienza visiva di qualcuno che ha una vista difettosa potrebbe apparire che ci sono dei capelli che gli cadono continuamente di fronte agli occhi; ecco quindi come sorge una percezione dotata di tale apparenza. Parliamo quindi di una percezione diretta e valida rispetto a suo modo di apparire. Tuttavia, dato che la base di questa apparenza (cioè i capelli che cadono) non esiste affatto, diciamo che la percezione è ingannata rispetto al principio del suo oggetto e una percezione corretta e opposta potrà contraddirla. Per questa ragione questa stessa percezione viene guardata come una percezione erronea e di conseguenza, naturalmente, un’esistenza dedotta da una tale percezione non può dirsi prova di esistenza. In breve non c’è neanche un fenomeno che non sia proiettato dalle nostre menti, ma tutto ciò che viene proiettato dal nostre menti non ha necessariamente esistenza.

Quando c’è l’apparenza di una vera esistenza, se questa cosa esiste realmente nello stesso modo in cui appare allora, investigando attentamente questa esistenza, la sua natura dovrebbe divenire più chiara a mano che la nostra investigazione diviene più profonda. Ad esempio: persino nelle esperienze più comuni se qualcosa è vero, più facciamo prove e accertamenti su di esso più chiara e stabile diventa la “verità”. Dall’altro lato, se qualcosa è non-vero allora, attraverso prove e accertamenti diventa incerto, e infine scompare completamente. Come ebbe a dire Nagarjuna nel suo La preziosa ghirlanda (Ratnamala):

Le forme che vediamo da lontano
diventano più chiare quando ci avviciniamo,
così se un miraggio è un fiume reale
perché scompare quando gli andiamo più vicino?
Più lontani siamo dal mondo
più reale esso ci sembra;
allo stesso modo, più vicini gli siamo
[più] esso scompare, divenendo privo di segni come un miraggio.

Per esempio: quando diciamo o pensiamo che l’umanità abbia bisogno di felicità, ci viene subito in mente un’immagine di qualcosa. Per potere assicurare a queste persone della felicità forniamo cibo, vestiti, un tetto, assistenza medica, servizi pubblici e così via, che sono le strutture per potere fornire un conforto fisico, e poi forniamo dell’educazione, una buona disciplina e così via per potere favorire anche un comfort mentale. Assicuriamo quindi la felicità della gente attraverso il corpo e la mente.

Tuttavia se noi cerchiamo una persona vera e propria troviamo che essa non è né il suo corpo né la sua mente e che non c’è una terza persona che esista separata sia dal corpo che dalla mente.
Quando incontriamo un amico (che chiameremo Tashi) che non vediamo da un pezzo gli diciamo che lo vediamo bene in salute o al contrario che lo vediamo male semplicemente guardando il suo corpo e facendo caso ai cambiamenti; ma tutto questo viene fatto senza una ricerca o un’investigazione. La coscienza che percepisce tutto questo senza investigare non ha una percezione errata e anche la sua descrizione non è una bugia. Tuttavia se noi cerchiamo questo Tashi a cui appartiene questo corpo non possiamo trovarlo, e così non possiamo dire che egli sia più in salute o meno in salute. Inoltre, la mente di Tashi con le proprie qualità buone o cattive attraverso le quali noi lo giudichiamo non è Tashi. In breve non possiamo indicare come Tashi nè la pura e semplice combinazione di corpo e mente nè la continuità dell’uno e dell’altro, ed anche se volessimo sezionare il suo corpo della mente fino all’ultimo atomo non potremo trovare il nostro amico. Tashi è quindi un’imputazione che dipende dalla combinazione di corpo e mente. Come disse Nagarjuna nel suo Ratnamala:

dato la persona non è terra, né acqua nel fuoco, né aria, né spazio,
né coscienza, né tutto questo,
dove altro si trova la persona?

Ora, il corpo di Tashi ha molte qualità che noi non possiamo realmente vedere come ad esempio quelle della pelle, del sangue, delle ossa e così via – e però semplicemente guardando la pelle per come ci appare diciamo che abbiamo visto davvero il corpo di Tashi. Questo non vuol dire che noi non vediamo il corpo. Per vedere il corpo non dobbiamo vedere tutto il corpo, poiché sarà sufficiente [vedere] una piccola parte di esso, sebbene secondo alcune circostanze sia necessario vederne [almeno] una certa quantità. Inoltre se guardiamo le singole parti individuali di questo corpo come le gambe, le mani e così via, scopriamo che queste singole parti non sono l’intero corpo. Anche queste parti possono essere suddivise in dita delle mani e dei piedi e anche queste dita possono essere ulteriormente suddivise delle loro articolazioni, superiori e inferiori, e queste a loro volta nelle loro parti più piccole, e queste a loro volta in atomi e gli atomi in sfaccettature, ma ancora il corpo non si trova. Se gli atomi più piccoli non avessero sfaccettature allora non importa quanti noi ne mettiamo assieme – non prenderebbero alcuna forma.

La mente di Tashi, dalla quale decidiamo se egli è felice o no, è senza forma, intangibile, incapace di afferrare un’apparenza o un oggetto ed è in uno stato di conoscenza. Questa è la mente che non è stata investigata, poiché se investighiamo finiamo per non trovarla. Per esempio, se dividiamo la mente di Tashi quando è in uno stato di felicità in momenti singoli possiamo trovare che non c’è un insieme collettivo di momenti precedenti e successivi, e che nel tempo proprio di ogni singolo momento quello precedente è già passato, e non si trova più nella natura del conoscere. Il momento futuro non è ancora arrivato, il momento presente non può essere altro che essere o nato o ancora non nato. Così, se la mente viene ricercata in questo modo, non possiamo trovare una mente presente. Quindi, quando cerchiamo questa mente “felice” non possiamo trovarla per nulla. In breve “felice” o “infelice” riferiti a una mente altro non sono che nomi imputati su una pura e semplice riunione di momenti precedenti e successivi e persino il momento più breve di tempo può essere diviso in parti diverse come l’inizio e la fine, in accordo alla sua lunghezza. Se i momenti non avessero parti (se non fossero divisibili) allora non ci potrebbe mai essere una continuità di tali momenti.

Allo stesso modo, un oggetto esterno come un tavolo appare alla nostra mente come qualcosa che esiste indipendentemente da tutto il resto e anche grazie alle sue proprie caratteristiche. Tuttavia, proviamo ad investigare sulle parti una per una e poi complessivamente. In generale, se prendiamo il tavolo come una base e poi giudichiamo le qualità del tavolo a partire da questa base – parliamo di qualità come il colore, la superficie, i materiali e così via – possiamo poi decidere quanto valga il tavolo stesso e le sue qualità buone o cattive. Noi diciamo “questo tavolo è buono, ma il colore non è granchè” e così via – questo significa che c’è una base, cioè il tavolo, sulla base del quale giudichiamo la qualità del suo colore, a cui appartengono le altre qualità. Tuttavia quando noi facciamo una ricerca troviamo che la base non è costituita né dalle qualità né dalle parti individuali. Dopo aver accettato questo, noi non possiamo neanche trovare la base. Quindi, se la base non è qui le qualità non possono essere qui, dato che l’esistenza dalla base dipende dalle qualità e l’esistenza delle qualità dipende dalla base.

Altro esempio: prendiamo un rosario con 108 grani:

1- il rosario come “detentore di parti” ha 108 parti e sebbene il rosario e le sue parti siano cose diverse, se portiamo via le singole parti anche il rosario sparisce.

2- il rosario come un tutto è un’unità, ma le parti sono molte, così che il rosario non può esistere – come unità – senza le parti.

3- Se si portano via le parti, non rimane alcun rosario. Di conseguenza il rosario non può esistere separatamente dalle parti.

4- dato che il rosario non è separato dalle sue parti, egli non dipende inerentemente dalle proprie parti e queste parti non dipendono inerentemente dal rosario.

5-al livello dell’esistenza vera, il rosario non ha il possesso delle parti;

6- la forma del rosario è una delle sue qualità, e in quanto tale essa non può anche [simultaneamente] essere il rosario;

7- l’insieme dei grani e del filo non è il rosario poiché esso è la base di imputazione per il termine “rosario”.

Di conseguenza, se noi facciamo una ricerca in questo modo, in ognuna delle sette conclusioni a cui siamo giunti non abbiamo trovato il rosario.
Allo stesso modo, se investighiamo sui grani individuali così come per il rosario, cioè: tirando via le parti, essendo una sola cosa con le parti, essendo separato dalle parti e così via noi non troviamo il singolo grano. Nella stessa maniera le foreste, gli eserciti, le terre, le nazioni e così via sono tutte raccolte di molte parti, ma se si fa una ricerca partendo dalla parte singola ognuna di esse non può essere trovata.

Allo stesso modo è chiaro che buono e cattivo, lungo e corto, grande e piccolo, nemico e amico, padre e figlio e così via sono tutte imputazioni [su un oggetto] che dipendono l’una dall’altra. La terra, l’acqua, il fuoco, e l’aria sono imputate [denominate] in tale modo in dipendenza dalla loro qualità di abbracciare tutte le direzioni. Buddha e gli esseri senzienti, il Nirvana e il Samsara sono denominati tutti in dipendenza dalle loro qualità e dalla loro base d’imputazione.

Sebbene sia fatto notorio che gli effetti nascono dalle cause, proviamo ad investigare il significato di nascita. Se un effetto fosse nato senza una causa ne conseguirebbe che tale effetto potrebbe essere nato in presenza di una qualunque circostanza e in qualunque momento; in alternativa, tale effetto potrebbe non essere nato affatto. Se fosse nato da se stesso, allora egli avrebbe già dovuto essere esistente (per poter creare se stesso) ed inoltre essere nato nuovamente non sarebbe necessario e non avrebbe significato. Diciamo anche che se qualcosa che è nato potesse dar nascita a se stesso nuovamente, esso sarebbe eterno. Se un effetto nasce da una causa esistente in modo inerente che fosse diversa da sé, allora qualunque cosa potrebbe essere nata da qualunque altra e questo potrebbe contraddire il fatto che l’effetto è relazionato alla causa. Certamente non si potrebbe dire che [effetto e causa] sono nati assieme e che cioè si tratta di un sé e di qualcosa di un’altra natura.

Così che, dopo aver accertato tutto questo, arriviamo alla conclusione che non si può stabilire una nascita. Come afferma Nagarjuna in Saggezza, il testo fondamentale sulla Via di Mezzo (Prajnanama-mulamadhyamaka-karika):

non dal se e non da qualcos’altro
non da entrambi, non da una non-causa. Per tutto ciò che esiste
non c’è alcuna nascita

Sebbene sia ben risaputo che le cause danno nascita a un effetto proviamo ugualmente a investigare su questo fatto. Se l’effetto esistesse in modo inerente, allora la causa non potrebbe essere in grado di dar nascita all’effetto poiché quest’ultimo sarebbe già esistente e in generale la causa dà origine a qualcosa che ancora non è nato nel momento in cui esiste la causa. Ancora: se questo stato di “non-nascita” è inerentemente vero, allora esso non è diverso dalla non-esistenza, e così come potrebbe la causa dar origine ad esso? Come Nagarjuna spiega nel suo Sette Shunyata (Shuniata saptati karika):

Poiché esso esiste, l’esistenza non è soggetta alla nascita.

Poiché non esiste, la non esistenza non è soggetta alla nascita

In breve, mentre qualcosa dipende da una causa, da circostanze o a qualcos’altro per la sua esistenza, una esistenza indipendente è possibile perché indipendenza e dipendenza dagli altri sono contraddittorie. Come si spiega nel Sutra:

tutto ciò che è nato da circostanze non è nato (inerentemente) (perché) non ha la natura della nascita,
tutto ciò che dipende da circostanze si dice sia vacuo;
colui che conosce questa vacuità è ben disciplinato

come nuovamente spiega Nagarjuna nello stesso testo appena citato:

non v’è fenomeno che esista
che non sia interdipendente
allo stesso modo in cui non c’è fenomeno che non sia vacuo

anche Aryadeva spiega nel Cathusataka-sastra-karika:

tutto ciò che sorge in base a dipendenza non può mai essere indipendentemente
e poiché tutte le cose sono non-indipendenti il sé non ha esistenza

Se tutti i fenomeni non fossero vuoti di una base fondamentale o di una natura inerente, allora non sarebbe possibile avere dei cambiamenti determinati dalle circostanze. Se ci fosse qualche cosa che esistesse in dipendenza della sua base fondamentale allora, qualunque fosse il suo stato, essa non cambierebbe mai [divergendo da questa base]. Ad esempio: se un bellissimo albero da frutto fosse inerentemente vero a partire dalla sua natura più intima, esso non potrebbe mai cambiare e diventare vecchio, appassito, senza foglie e sterile. Se il modo in cui tutto ciò che ci appare è il suo vero modo di esistere, allora come è possibile che non possiamo ingannarci? Persino negli affari quotidiani si sa bene che talvolta esiste una contraddizione tra le apparenze esterne e lo stato reale delle cose. Noi siamo sotto l’influenza dell’ignoranza da un tempo senza inizio e tutto ciò che ci appare alla mente sembra vero, ma se fosse vero questo significherebbe che questa apparenza è la verità fondamentale della propria natura e quindi, se tale [verità] fosse investigata, essa ci diverrebbe più chiara. Tuttavia, al contrario, quando si investiga su questo tipo di verità non la si trova ed essa scompare completamente. Dov’è quindi l’errore? Chandrakirti spiega in Madhyamakavtara:

se esistesse l’esistenza inerente,
negandola, i fenomeni sarebbero distrutti
e shunyata (vacuità) sarebbe la causa delle distruzione. Laddove chiaramente non è così, non c’è vera esistenza.

A causa di questo, quando si investiga sui fenomeni non può essere trovata un’esistenza diversa
dalle cose che hanno la natura della talità.
Quindi non c’è bisogno di fare investigazione

sulla verità convenzionale del mondo.
Un’analisi che, a livello della talità,
non potesse trovare una nascita da un se o da qualcos’altro sarebbe la stessa analisi che non può trovare questo risultato anche in mondo convenzionale.
Così, questa è la nascita che tu asserisci.

Quindi, se ogni fenomeno avesse un’esistenza inerente ne conseguirebbe che:

1- la realizzazione di Arya (realizzazione di sunya) causerebbe la completa distruzione di tutti fenomeni.

2- la verità convenzionale sosterrebbe e sopravviverebbe a un’investigazione analitica 3- una nascita assoluta non potrebbe essere rifiutata
come viene detto nel Sutra Pancavimasatisahasrika-prajnaparamita:

O Sariputra, qui quando un Bodhisattva, il Mahasattva, pratica la Prajnaparamita egli non vede un Bodhisattva come qualcosa di reale. Perché è così? O Sariputra, è così perché un Bodhisattva è vuoto di un Bodhisattva che esiste in modo inerente e il nome stesso del Bodhisattva è vuoto del nome di Bodhisattva, perché questa è la sua natura. È così: la vacuità non vuota la forma e la vacuità non è separata dalla forma. La pura forma è vacuità e la vacuità è forma.

E nel capitolo di Kashyapa da Arya-maharatna-kuta-dhamaparyaasatasahasrika- grantha si dice:

la vacuità non rende vuoti tutti fenomeni perché i fenomeni in se sono vacuità

Quindi in molti Sutra il Buddha ha insegnato che ogni fenomeno è vuoto di una natura esistente in modo inerente e che, se non fosse così, allora tutto ciò che il Signore Budda ha insegnato nei Sutra sarebbe sbagliato. Di conseguenza tutti i fenomeni sono vuoti di un’essenza o di una radice fondamentale.

Potrebbe ora sorgere il pensiero che afferma che un uomo vero e uno sognato, una forma e un’immagine di una forma, sono intrinsecamente la stessa cosa rispetto al fatto che essi non possono essere trovati se li si ricerca, e anche che non c’è differenza tra di essi così come tra verità e non-verità. In questo caso (potremmo pensare) a che cosa serve la ricerca di una visione esatta quando sia il ricercatore che la visione sono affini nella non-esistenza? Siamo qui giunti a un punto molto sottile, dove c’è il pericolo di cadere in un estremo negativo se le nostre menti non sono adeguatamente preparate.

Per poterci salvaguardare da questo pericolo sono sorte numerose scuole. La prima è quella che adotta il saggio metodo Svatantrika-madhyamaka del Pandit Bhavaviveka e dei suoi seguaci. Sebbene essi rigettino, e a ragione, che non esistono fenomeni che hanno un loro speciale modo di esistere senza dipendere dall’apparenza di una percezione non ingannevole, accettano invece che questi stessi fenomeni posseggano una natura inerente di esistenza dovuta a certe loro caratteristiche. In altre parole, che esiste qualcosa che rimpiazza il [semplice] nome [imputato al fenomeno o alla cosa]. Se persino questo potrebbe essere un po’ troppo per noi da capire, allora c’è la scuola Vijnanavadin del grande pandit Vasubandhu, che rigetta tutte le esistenze esteriori e accetta solo la coscienza come qualcosa che esiste davvero. Poi, per coloro che non possono comprendere la mancanza di un sé di tutti i fenomeni ci sono le scuole Vaibhasika e Sautrantrika le quali, invece di accettare la vacuità di tutti i fenomeni accettano una mancanza di un sé della persona, mancanza che per essi indica la non- esistenza di una base sostanziale che si auto-supporta con la personalità. E per coloro che non possono neanche accettare questa mancanza di un sé della persona c’è un atman (anima) eterna e indipendente come avviene in altre religioni.

Se pensiamo che tutti fenomeni non esistano poiché essi non possono essere trovati facendo un’analisi, questo ovviamente contraddice i fatti e la conoscenza comune. Tutti i fenomeni, sia quelli animati che quelli non animati incluso noi stessi esistono davvero perché è da essi che noi possiamo fare l’esperienza del danno, del beneficio, della felicità, della sofferenza e così via. Potremo quindi chiedere “se tutti i fenomeni animati e inanimati incluso noi stessi esistano davvero perché non possiamo trovarli quando li cerchiamo?”. È Budda stesso che spiega nella Panca-vinsaiissaharpika- Prajna-paramita:

Bodhisattva è solo un nome. Prajnaparamita è solo un nome. Rupa (forma), vedana (sensazione), Samjna (cognizione), Samskara (formazioni mentali) e Vijnana (coscienza) sono solo nomi. Nello stesso modo la forma è come un’illusione. Anche la sensazione, la condizione, le formazioni mentali e la coscienza sono come illusioni. “Illusione” è anche esso solo un nome. Esso non esiste nell’oggetto né esiste al lato (del soggetto).

E più avanti:

perché è così? Un nome è una creazione imputata su un fenomeno individuale. Un nome etichetta la forma immediata o l’apparenza di ogni fenomeno e così tutti questi nomi sono (semplicemente usati) per etichettare. Quando i Bodhisattva e i Mahasattva sono nella profonda pratica della Prajnaparamita essi non vedono il nome come reale e a causa di questo non si aggrappano ad esso. O Sariputra, i Bodhisattva e i Mahasattva quando sono nella profonda pratica della Prajnaparamita comprendono completamente che Bodhisattva è solo un nome, che Prajnaparamita è solo un nome, che forma è solo uno nome e che sensazione, condizione, formazioni mentali e coscienza sono anch’essi solo nomi. O Sariputra,

Sebbene noi diciamo “io”, “io”, “io” un Io non può essere visto.

Così in molti Sutra e Shastra si insegna che tutti i fenomeni sono solo nomi e che se cerchiamo quindi ciò che il nome rappresenta non troviamo nulla di esistente come parte dell’oggetto; il che è un’indicazione del fatto che i fenomeni non esistono oggettivamente ma sono proiezioni soggettive di vari nomi, e che questo da solo è sufficiente per la loro esistenza.

Più precisamente, i fenomeni esistono poiché sono comunemente conosciuti da credenze mondane. Tuttavia, questa credenza mondana da sola è insufficiente per l’esistenza dei fenomeni. Inoltre, un’altra valida percezione convenzionale non è in grado di contraddirla altrimenti, per esempio, potrebbe esistere il figlio di una donna sterile. Anche un’analisi suprema non potrebbe essere capace di contraddirla, altrimenti un’esistenza inerente potrebbe esistere dato che l’esistenza inerente non può essere distrutta dalla percezione convenzionale. Una entità che esiste dal lato dell’oggetto, senza dipendere dalle proiezioni soggettive di vari nomi, è proprio ciò che bisogna rifiutare o da svuotare quando facciamo menzione della vacuità. Nell’analisi questo è chiamato oggetto auto-esistente o oggetto che bisogna rifiutare. Esso non è mai esistito e questo stato mentale che si afferra e si aggrappa alla sua esistenza è chiamato ignoranza (avidya). In verità ci sono molti tipi di ignoranza ma questa particolare ignoranza è la radice dell’esistenza ciclica (samsara) ed è completamente opposta alla saggezza della mancanza di un sé. Come spiega Nagarjuna in Settanta Shunyata (Shunyatasaptati-karika):

nei confronti di tutti i fenomeni nati da cause e circostanze questo stato mentale, che li ritiene essere reali,
è stato insegnato dal Maestro essere ignoranza.
E da questo stato sono derivati i 12 anelli

Di conseguenza l’esistenza di un non-sè, [o] un’esistenza non-vera o shunyata è semplicemente questa non-esistenza del sé o dell’oggetto che bisogna rifiutare – convinzione che viene impugnata dallo stato mentale conosciuto come ignoranza. Questo è il profondo modo di esistere o lo Stato ultimo di ogni fenomeno, e così esso viene chiamato la Verità Ultima. La mente che realizza questo realizza shunyata.

Se shunyata è la Verità Ultima questo significa forse che essa esiste a causa della sua stessa natura? Poiché shunyata è il modo ultimo di esistere di tutti i fenomeni, se non ci sono fenomeni allora anche shunyata non esiste. In dipendenza dei fenomeni c’è la talità dei fenomeni (dharmata) e in dipendenza della talità dei fenomeni ci sono i fenomeni stessi.

Quando facciamo una ricerca, non possiamo trovare l’esistenza dei fenomeni o la validità dei fenomeni; essi esistono unicamente sulla base di una conoscenza ordinaria, senza alcuna investigazione sulla loro esistenza. Non c’è una vera esistenza.

Come si spiega nel tredicesimo capitolo della Prajna-nama-mulamadhya-maha- karika ad opera di Nagarjuna:

se qui esistesse appena un pochino di non-vuoto, allora esisterebbe qui anche un pochino di vuoto; come può esistere questa vacuità?
I Vittoriosi hanno insegnato

shunyata per potere eliminare tutte le visioni erronee, ed è stato insegnato che mantenere una visione di shunyata (come realmente esistente)
si rivelerà completamente futile.

Ed anche in Lokatitastava:

poiché tu (Buddha) hai abbandonato tutti i concetti tu insegni il mettere della vacuità
ma afferrarsi a questo
è ritenuto da te come offensivo

Di conseguenza, se ricerchiamo il modo in cui esiste, ad esempio, un albero, non troveremo l’albero ma troveremo il suo vero modo di esistere o in altre parole la vacuità. Successivamente se noi cerchiamo il modo in cui esiste questa vacuità non troveremo shunyata bensì la vacuità di shunyata. Questa è la vacuità della vacuità. L’albero nel nostro esempio è la verità convenzionale e il suo vero modo di esistere è la verità ultima. Se poi inoltre prendiamo la verità ultima, o un oggetto, e determiniamo quale sia il suo reale modo di esistere, allora esso diventa una base fenomenica, in accordo con proprio modo di esistere. Così talvolta la verità ultima è conosciuta anche come la verità convenzionale di se stesso.

Sebbene non vi sia differenza tra i vari tipi di shunyata, essa viene divisa, in accordo ai vari tipi di base, in 20, 18, 16 e quattro. Tuttavia tutte queste divisioni sono incluse nella mancanza di sé della persona e nella mancanza di sé dei fenomeni.

Dobbiamo adesso spiegare come shunyata appare alla nostra comprensione.
Se qualcuno fa esperienza di uno vuoto o di un nulla, e questo sia che avvenga con la comprensione di shunyata che senza la comprensione di essa, si tratta sempre di un estremo negativo relativo al vuoto, e non è una realizzazione chiara. Se qualcuno poi ha una chiara comprensione intellettuale del significato di vacuità e ritiene che questa sia shunyata – anche questa non è una vera realizzazione. Così come viene spiegato nel Aryaprajnaparamita-sancaya-gatha:

sebbene il Bodhisattva comprenda che gli aggregati sono vuoti
egli tiene ancora con sé i segni e non ha così fede nello stato senza nascita

In primo luogo shunyata viene realizzata negando l’oggetto da rifiutare. Si tratta

quindi di una negazione, e una negazione è di due tipi:
1- la negazione che invece afferma indirettamente l’esistenza di qualcos’altro
2- la negazione che non lascia nulla al suo posto. Questa è conosciuta come negazione diretta

Shunyata è l’ultima di queste due. La realizzazione di shunyata è quindi semplicemente la negazione completa (cioè diretta) dell’oggetto che bisogna rifiutare. La vacuità ci apparirà solo come la non-esistenza della presente, vivida maniera, in cui tutte le cose appaiono. Poiché l’esistenza non-inerente della non-realtà dell’oggetto della mente stessa che si aggrappa è shunyata, questa stessa mente realizza shunyata. Così come spiega Shantideva nel suo Bodhisattvacaryavatara:

quando consideriamo che cos’è che non esiste,
il fenomeno dell’investigazione non viene visto;
come può allora questo non-fenomeno, che è senza base, stare nella mente?
Quando nella mente non ci sono
sia la sostanzialità che la non-sostanzialità
allora, con nessun’altra forma presente nella mente,
tutti i concetti saranno completamente dissolti

Se shunyata fosse una negazione indiretta o un’affermazione, tutte le realizzazioni di shunyata sarebbero ancora [basate] su concetti e segni, e continuerebbe a manifestarsi l’attaccamento ad una vera esistenza. Questo tipo di saggezza non sarebbe quindi un rimedio contro l’attaccamento nè sarebbe possibile abbandonare gli ostacoli. Ancora Shantideva dallo stesso testo:

Quando il ricercatore
investiga tramite l’analisi,
se anche questa analisi ha bisogno di essere investigata allora l’investigazione diverrebbe infinita.
Ma quando è l’oggetto ad essere investigato l’investigazione non ha base,
e poiché non c’è base
non sorgeranno visioni di vera esistenza
ed anche questo è chiamato Nirvana.

Quando facciamo una contemplazione su tutti gli oggetti, sia su noi stessi che sugli altri, troviamo che sono privi di essenza, e quando ci abituiamo a questo fatto allora questi oggetti – anche se non hanno una esistenza inerente – ci appariranno irreali, come un sogno o una illusione. Potremmo chiederci : quali sono i risultati e i benefici di questa indagine?

Dice Nagarjuna in Prajna-nama-mulamadhya-maha-karika:

ciò che dipende [lett. è] da un sorgere dipendente
è detto essere Vacuità,
cioè, [il suo nome] gli è imputato a partire da una dipendenza, e questo stesso [fenomeno] e la Via di Mezzo

In questo modo, comprendendo la vacuità come il significato dell’origine interdipendente e l’origine interdipendente come il significato della vacuità, non avremo più dubbi sul fatto che esse si complimentano l’un l’altra. Comprendendo questo, diverremo abili nella pratica della rinuncia e dell’accettazione sulla base [del fatto] che tutto esiste solo in dipendenza della proiezione di un nome da parte di una conoscenza convenzionale valida e corretta. Di conseguenza tutti gli stati mentali e erronei come l’attaccamento, l’odio e così via – che sorgono aggrappandosi a un’esistenza che non dipende da un nome – perderanno la loro forza e spariranno gradualmente del tutto.

Per spiegarci in breve:
se acquisiamo una chiara esperienza della giusta visione di shunyata, allora tramite la riflessione interiore arriveremo a sapere come tutto sembra essere reale per la mente; il modo in cui noi ci aggrappiamo a questo “reale” come a qualcosa verso cui abbiamo una forte inclinazione; come sorge questo attaccamento; e come, quando sorge l’attaccamento l’odio o un’altra illusione, questo [“reale”] serve come base e causa di tali illusioni. Dovremo anche convincerci del tutto che questa mente che si aggrappa è in errore sia rispetto al fatto che si sbaglia sul proprio oggetto sia rispetto al fatto che questo attaccamento non ha un fondamento valido. Potremo vedere abbastanza chiaramente che l’opposto di questa mente, cioè quella mente che realizza l’esistenza di un non-sè, comprende invece correttamente e che essa possiede una buona base, cioè una percezione valida. Come spiega il glorioso Pandit Dharmakirti in Pramanavartika:

la mente che comprende e quella che inventa
vorranno, per loro natura, sempre distruggere [nell’] una e nell’altra
ciò che è degenerato e ciò che è sano
e per natura sempre in opposizione.
E così coloro che sviluppano familiarità
e gradualmente si trasformano
nella natura di ciò [che è sano]
si liberano completamente dagli errori (samsara) [lett. dalle cadute. NdT]

Di conseguenza, dato che questi due stati mentali posseggono modi completamente opposti di attaccarsi, uno dei due tenterà sempre di distruggere l’altro e se il primo diventa più forte l’altro naturalmente diverrà più debole. Come dice Nagarjuna in Dharmadhatustotra:

così come gli abiti vajra che sono purificati dal fuoco: quando essi sono macchiati da molte impurità
li si butta nel fuoco,

e sono le impurità ad essere bruciate, e non gli abiti.
Allo stesso modo, quando la mente naturalmente diviene radiante ma è macchiata da impurità come il desiderio,
ed è toccata dal fuoco della saggezza
sono le impurità a bruciare, e non la radianza.

Così come è insegnato da Buddha Maitreya:

poiché il corpo di Buddha emana,
poiché la talità è indifferenziata,
e poiché tutti gli esseri senzienti
sono forniti del potenziale di [diventare] Buddha, essi sono sempre assieme alla natura di Buddha.

Sia la natura ultima che la natura convenzionale chiara e che conosce [proprie] della mente sono senza macchia. Senza impurità una mente può essere sviluppata in stati sia positivi che negativi ma gli stati mentali negativi, non importa quanto ci siamo abituati ad essi, sono limitati. Tuttavia gli stati mentali positivi che hanno una fondazione valida si svilupperanno all’infinito se noi ci abituiamo ad essi. Per questa ragione potremo acquisire la sicurezza che le impurità che coprono la mente possono essere sradicate. Arriveremo anche a capire che quando queste impurità sono state completamente eliminate così che non possono sorgere mai più, allora in quel momento la vera natura della mente è Nirvana, e [capiremo] che questo Nirvana può essere raggiunto. Allo stesso modo in cui queste illusioni possono essere distrutte, anche le loro impronte possono essere distrutte. Quando le illusioni e le loro impronte sono tutte distrutte allora la pura natura della mente viene chiamata Nirvana Non- Dimorante, o anche Dharmakaya (Corpo di Verità). Arriveremo così a capire che in generale il Nirvana e la piena Illuminazione esistono. Nagarjuna dice in Prajna- nama-mulamadhya-maha-karika:

Colui che insegnò il sorgere dipendente come incessante, non nato,
non interrotto, non permanente
che non viene, che non va

che non ha una natura separata, che non ha una [propria] natura, in pace, senza manifestazione,
a lui, il realizzato Buddha
il supremo maestro io mi prostro

Buddha insegnò, partendo dalla propria riflessione interiore, che tutti fenomeni, poiché [hanno la natura] del sorgere dipendente [cioè sono interdipendenti per natura], sono privi di una esistenza inerente e mancano degli otto limiti come la nascita, la morte e così via (vedi sopra). Quando vediamo questo Buddha come l’essere perfetto che ha mostrato perfettamente la bontà ultima della libertà permanente, cioè il Nirvana e la Buddità e i loro metodi, allora comprenderemo come  il Bhagwan non ha mai errato nel mostrarci, con metodo, la libertà temporanea (che appartiene ai reami sfortunati e così via). Dice Dharmakirti in Parmanavartika:

poiché essa (la parola del Buddha) non è ingannevole nel mostrarci il significato principale (shunyata),

possiamo quindi arrivare a comprendere tutti gli altri significati. Come dice Aryadeva in Catuhsataka-sastra-karika:

nel valido insegnamento del Buddha,
se sorge il dubbio
allora basati su shunyata
e poni la tua fiducia esclusivamente su di essa

Ponendo la nostra fiducia nella comprensione degli insegnamenti del Vittorioso e dei commentari, che ci mostrano il modo per ottenere la felicità temporanea e permanente, svilupperemo dal profondo del nostro cuore devozione e rispetto, che saranno basati sulla corretta comprensione del Bhagwan Buddha e dei suoi seguaci, i grandi maestri dell’India. Saremo così capaci di sviluppare un incrollabile rispetto e devozione per il nostro maestro spirituale, che è colui che sul momento ci mostra quale sia l’errore nel modo più semplice, e nella Sangha, gli amici spirituali che nello stesso nostro momento si trovano sullo stesso sentiero su cui un tempo camminò il Signore Budda. Come dice Chandrakirti:

il Buddha, il Dharma e la Perfetta Comunità
sono i salvatori di coloro che aspirano alla libertà

Dovremo essere ancora più convinti del fatto che i Tre Gioielli sono l’unico rifugio per coloro che vogliono ottenere il Nirvana e che quindi il prendere rifugio nel Triplice Gioiello è il mezzo per liberarsi dalla sofferenza. In tal modo il desiderio di ottenere sia il Nirvana per se stessi sia la Buddità con il proposito di liberare tutti gli esseri senzienti da qualunque tipo di sofferenza (bodhicitta), in breve tempo crescerà più forte. Quando possediamo la base sia dei precetti del Monaco o del laico assieme alla motivazione della rinuncia (Niharsarana) e alla corretta visione di shunyata, che è molto intensa e profonda, siamo ancora nel Sentiero dell’Accumulazione (sambhavamarga). Successivamente, dopo esserci familiarizzati con questo tipo di visione attraverso molto studio e contemplazione, la visione stessa cambierà in quella che sorge dalla meditazione. Questa è l’unione di visione profonda (vipassana) e calma mentale (samatha), che è una comprensione mista di tipo concettuale di shunyata. Quando si ottiene questo risultato noi siamo sul Sentiero della Preparazione (prayogamarga). Gradualmente quando abbiamo una percezione diretta di shunyata, raggiungiamo il Sentiero della Visione (darsamamarga) che è il vero sentiero del prezioso dharma. Tenendo con noi questa chiara realizzazione come rimedio, tutti gli ostacoli grossolani come la vera causa della sofferenza, come un attaccamento

formato in modo intellettuale a un concetto di vera esistenza e così via, come la vera sofferenza quale la rinascita in reami sfortunati e così via, saranno gradualmente eliminati alla radice. Da qui in avanti acquisendo maggiore familiarità con questa realizzazione raggiungeremo il Sentiero della Meditazione (bhavanamarga) e saremo in grado di determinare la vera cessazione delle illusioni inerenti, a cominciare dalle forme più grossolane e dai loro bisogni sino alle forme più piccole delle più sottili. Ora il Nirvana è stato ottenuto; il viaggio è a suo termine e noi abbiamo raggiunto il Sentiero della Libertà (Vimuktimarga), lo stadio più basso di Arhat.

Con lo sviluppo della saggezza dell’apprendimento, contemplazione e meditazione focalizzate sul significato di shunyata, accompagnate dai mezzi abili delle perfezioni (Paramita) come la generosità (dana), la moralità (sila) e così via che sorgono dalla motivazione di Bodhicitta, e divenendo ancora più profondi [nella nostra saggezza] – attraverso tutti questi fattori, otterremo una percezione diretta di shunyata. In questo modo realizzeremo la Perfetta Saggezza del livello del Bodhisattva e verrà accumulato il primo merito infinito. Successivamente, quando avremo gradualmente causato la vera cessazione delle illusioni formate intellettualmente – come aggrapparsi all’idea di una vera esistenza, già spiegata precedentemente – potremo attraversare i sette livelli impuri del Bodhisattva e completare il secondo merito infinito. Infine, durante l’attraversamento degli ultimi tre livelli puri, sradicheremo gradualmente l’istinto di aggrapparsi ad un’esistenza che si suppone vera (l’ostacolo finale alla conoscenza onnisciente) assieme ai suoi effetti sottili. Verrà così accumulato il terzo merito infinito e potremo ottenere il Dharmakaya, la vera cessazione di ogni ostacolo. Allo stesso tempo otterremo il Corpo Strumentale (Sambogakaya) e poi il Corpo di Manifestazione (Nirmanakaya) e raggiungeremo così la la Buddhità pienamente realizzata in saggezza, compassione e potere.

Colui che possiede una base fatta di una buona provvista di meriti e che possiede un buon grado di saggezza, allenando la sua mente attraverso la rinuncia, la Bodhicitta e la corretta visione di shunyata e dedicandosi anche a uno dei tre livelli inferiori del Vajrayana [costui], realizzando velocemente lo yoga dell’unione di Visione Interiore e Calma Mentale (Samatha-Vipassayana) otterrà la Buddhità assai prima. Questo avverrà a causa del fatto che questi livelli contengono i metodi migliori in assoluto per ottenere il Corpo della Forma del Buddha. Nel sentiero dell’ Anuttara Tantra dividiamo le arie e la mente in grossolane, sottili e molto sottili e successivamente, sviluppando la mente più sottile nella natura del sentiero stesso ed abituandoci a tale trasformazione, la realizzazione di shunyata diviene assai poderosa. Questo metodo, quindi, possiede la qualità speciale di sradicare gli ostacoli molto rapidamente.

Ora, bisogna spiegare brevemente il metodo di meditare sulla corretta visione di shunyata. Il proposito di questa meditazione è quello di rimuovere gli ostacoli; inoltre esso deve essere accompagnato da una grande accumulazione di meriti. Un modo eccellente per accumulare meriti è la pratica della preparazione in sette rami, che include le prostrazioni, le offerte e così via e che è di grande beneficio oltre a essere condensata. Questa pratica può essere effettuata cominciando da una riflessione generale sopra la Triplice Gemma o una visualizzazione più specifica secondo i desideri di ognuno. Avendo quindi richiesto che possa sorgere in noi la corretta visione di shunyata, cominciamo la meditazione vera e propria sulla mancanza di un se della personalità.

Quando siamo in meditazione cominciamo a vedere e comprendere chiaramente in che modo lo “Io” appare alla mente quando abbiamo sensazioni di gioia e di tristezza, e il modo in cui ci attacchiamo a questo “Io”. Ricerchiamo quindi il modo di esistere di questo sè come spiegato più sopra. Quando la nostra esperienza e la nostra comprensione divengono più profonde arriviamo realizzare che il modo in cui l’”Io” ci è apparso come qualcosa di indipendente non ha alcuna esistenza. Ora, collocando la nostra mente – concentrata in modo univoco – su questa vacuità di esistenza inerente, che è semplicemente la negazione dell’oggetto da essere rifiutato, pratichiamo la concentrazione senza analisi per un certo periodo di tempo. In qualunque momento cominciamo a perdere le tracce di questo oggetto a cui si sta aggrappando la mente, dobbiamo di nuovo praticare la contemplazione ricercando il modo in cui esiste il sé. Radicando queste due (contemplazione e concentrazione) dobbiamo cercare di determinare un cambiamento nella mente. In questo modo quando abbiamo un poco di comprensione della vacuità del sé, analizziamo gli aggregati (skandha) sulla base dei quali viene imputato il termine “io”. Investiamo sulla forma, sulla sensazione, sulla cognizione, sulle formazioni mentali e in generale facciamo un’investigazione eccezionalmente profonda sull’aggregato della coscienza. In generale, realizzare il modo convenzionale di esistenza della coscienza è molto difficile ma anche molto importante. Se possiamo arrivare a conoscere la sua natura “chiara e che conosce” allora, attraverso l’analisi, possiamo gradualmente arrivare a riconoscere la natura ultima della coscienza. Tutto questo è di incomparabile beneficio.

All’inizio meditate per circa mezz’ora; fate quindi una pausa e cercate di sviluppare una limpida certezza del fatto che tutti i vari fenomeni che appaiono alla mente, sia quelli piacevoli che quelli spiacevoli dai quali derivino le nostre esperienze di infelicità e sofferenza, non esistono dal proprio lato ma sono interdipendenti e illusori. Questa meditazione dovrebbe esser fatta all’alba, alla mattina, alla sera ed alla notte, cioè in quattro periodi del giorno ovvero, se si ha del tempo, in tre periodi di mattina e in tre periodi di notte – in tutto sei periodi. O infine, in quattro periodi di mattina e in quattro di notte, cioè in otto periodi. Se la persona ha un tempo insufficiente, il minimo di pratica è una volta all’alba e una volta alla sera. Se pratichiamo in questo modo la nostra esperienza e la nostra comprensione faranno progressi e quindi in tutte le nostre azioni come camminare, sedere, giacere e via discorrendo la comprensione della visione esatta arriverà a noi senza sforzo. Tuttavia, senza aver ottenuto la Calma Mentale non c’è modo di ottenere la Visione Interiore (Vipassana) della comprensione di shunyata. E’ quindi necessario sforzarsi per ottenere shunyata – ed il metodo per farlo può essere appreso altrove.

Quindi, se qualcuno desidera avere un’esperienza interiore e non soltanto un’esperienza intellettuale sulla visione corretta di shunyata deve studiare e contemplare, in accordo alle proprie capacità, i Sutra (gli insegnamenti del Signore Buddha)e i relativi commentari fatti da grandi maestri indiani e tibetani nei quali “quella profonda” (cioè shunyata) viene spiegata sulla base di esperienze personali. L’esperienza che [il praticante] deriva dallo studio e dalla contemplazione deve essere accompagnata dalle istruzioni di un maestro esperto.

Per l’accumulazione dei meriti ottenuti da questo lavoro. Possono tutti gli esseri viventi, me stesso e gli altri esseri viventi che desiderano la felicità,
ottenere l’occhio che vede l’infinita talità

e passare nella terra della grande liberazione (Mahabodhi).

Questo lavoro è solo scritto in modo più semplice possibile per rendere la traduzione in altri linguaggi altrettanto facile. Esso è a beneficio di coloro che posseggono menti fresche, provenienti sia da est che da ovest e che cercano in generale il Buddha Dharma e che in special modo vorrebbero conoscere la visione profonda e sottile della mancanza di un sé ma che non hanno il tempo di studiare i grandi insegnamenti della Madhyamaka o l’abilità di studiare le scritture in lingua tibetana originale.

Composto dal monaco buddista Tenzin Gyatso (Sua Santità il quattordicesimo Dalai Lama).

Possa essere questo un contributo verso l’armoniosa crescita della bontà e della virtù.

Tradotto dal tibetano da Gonsar Tulku con l’assistenza di Gavin Kilty, ritradotto dall’inglese da Ciampa Namdrol, 04/2012. http://www.lamajampagyatso.org/wp-content/uploads/2016/05/DalaiMadhyamaka.pdf