8-Insegnamenti di S. S. il Dalai Lama ad Amburgo sui 400 Versi di Aryadeva

Sua Santità il Dalai Lama: La caratteristica del Mahayana risiede nell'esperienza delle sei perfezioni unita alla pratica dello yoga della divinità, la cui principale caratteristica risiede nel generare il livello sottile della mente, coltivando lo stato cognitivo latente che realizza la vacuità.

Sua Santità il Dalai Lama: La caratteristica del Mahayana risiede nell'esperienza delle sei perfezioni unita alla pratica dello yoga della divinità, la cui principale caratteristica risiede nel generare il livello sottile della mente, coltivando lo stato cognitivo latente che realizza la vacuità.

8 – Insegnamenti di Sua Santità il Dalai Lama ad Amburgo dal 23 al 27 luglio 2007 sui Quattrocento Versi di Aryadeva. Buddhismo: una Filosofia ed una Pratica.

Appunti, traduzione dall’inglese ed editing del Dott. Luciano Villa, dell’Ing. Alessandro Tenzin Villa e di Graziella Romania nell’ambito del Progetto “Free Dalai Lama’s Teachings” per il beneficio di tutti gli esseri senzienti.

Sua Santità il Dalai Lama

Nagarjuna sviluppa i ragionamenti piuttosto di spiegare i sutra. Il suo insegnamento è focalizzato sulla verità ultima. Nella Preziosa Ghirlanda Nagarjuna pone molta enfasi allo sviluppo della mente dell’illuminazione. Aryadeva compose le Quattrocento Stanze come supplemento alla Ratnamala o Preziosa Ghirlanda di Nagarjuna https://www.sangye.it/altro/?p=2788 .

Dall’India, il Dharma Mahayana si diffuse dapprima in Cina, per raggiungere la Corea ed il Vietnam. Il VII secolo vide lo splendore della grande Università monastica di Nalanda che sorse nel 427 per venir distrutta nel 1197 dC.

Śāntarakshita (725-788 dC) fu un rinomato Maestro buddista indiano del VIII secolo dC, fu un gran Pandit e abate dell’Università di Nalanda. Śāntarakshita fondò la scuola filosofica conosciuta come la Yogacaria-Svatantrika-Madhyamaka che unisce alla tradizione di Nagarjuna Madhyamaka, Yogacara la tradizione di Asanga con la logica e il pensiero epistemologico di Dharmakirti. Śāntarakshita, detentore del Vinaya nel suo Ornamento alla Via di mezzo o Madhyamākalamkāra espose chiaramente e con elevata enfasi queste concezioni.

Kamalashila, discepolo di Shantarakshita, scrisse il commentario https://www.sangye.it/altro/?p=1698 in due volumi al testo del suo maestro. Anche il Guru Padmashambava, https://www.sangye.it/altro/?cat=23 pure proveniente da Nalanda, raggiunse il Tibet. Con Kamalashila e Shantarakshita, Padmashambava componeva la triade dei tre Pandita. Parimenti Nagarjuna https://www.sangye.it/altro/?cat=9 ed Asanga provenivano da Nalanda. Attorno al III – IV secolo dC, il Buddhismo fece la sua comparsa in Cina, e da lì si diffuse in Corea e Vietnam.

In Shri Lanka, Birmania e Cambogia, si pratica sopratutto il Buddhismo di tradizione Pali.

E’ un errore distinguere la dottrina in Piccolo Veicolo o Hinayana e Grande Veicolo o Mahayana, perché non esiste alcuna gerarchia fra i due, come invece vorrebbe far sottintendere le definizioni. L’Hinayana esprime tra le altre qualità, quella d’enfatizzare la pretica delle sei perfezioni o Paramitayana (la Generosità, intesa come il portare beneficio agli altri, la Moralità,  per la quale non bisogna recare danno agli altri, la Pazienza, la Perseveranza, la concentrazione, la Saggezza, la base  di tutte le sei Virtù).

Il Vajrayana o sentiero del tantra, equivale a sviluppare la mente innata molto sottile di chiara luce o cognizione molto speciale di calmo dimorare e mente superiore. Non esiste tuttavia possibilità alcuna d’ottenere risultati elevati senza un continuo addestramento. Il Buddhismo di tradizione Pali rappresenta il fondamento dell’intera dottrina buddhista. Ripeto che la distinzione tra Hinayana e Mahayana può facilmente portare ad una concezione distorta, perché già nel canone Pali vengono enfatizzate le pratiche Pratikamosha.

La caratteristica del Mahayana risiede nell’esperienza delle sei perfezioni unita alla pratica dello yoga della divinità, la cui principale caratteristica risiede nel generare il livello sottile della mente, coltivando lo stato cognitivo latente che realizza la vacuità. Comunque, gli insegnamenti vanno abbracciati e seguiti in un percorso graduale.

Da Serkong Rinpoche https://www.sangye.it/altro/?p=4135 ho ricevuto la trasmissione orale del lignaggio esperienziale, mentre da Kundu Tenzin Lama Gyaltzen ho ricevuto la trasmissione del lignaggio del commentario delle 400 stanze di Aryadeva.

La base per ottenere il benessere definitivo consiste nell’acquisizione delle rinascite fortunate, il che è un principio comune al piccolo ed al grande veicolo.

Eliminiamo le 4 convinzioni errate, a partire dal considerare puro ciò che è invece impuro!

Ad esempio, la mente orgogliosa che si considera superiore è un risultato dell’insieme transitorio: percependo l’io che è transitorio come permanente. Per evitare di cadere in questo errore e per ottenere le circostanze favorevoli, occorre aver chiaro la distinzione tra transitorietà grossolana e sottile.

Così la mente deve essere in grado di fare le adeguate distinzioni tra ciò che è puro ed impuro, tra ciò che provoca la sofferenza e ciò che invece genera la felicità, tra ciò che è privo d’un sé o e ciò che non lo è.

Egoista non è la mente che percepisce il sé sottile, ma quella che lo avverte in modo grossolano. La mente non egoista, quella altruista, è quella che vede i fenomeni in quanto transitori, e non permanenti. Quest’ultima è corretta dalla meditazione sulla transitorietà sottile. Come tutti gli esseri appartenenti al reame del desiderio, della forma, chiunque vi è generato, nasce dalla morte e vi precipita. Noi stessi siamo della natura della morte, dell’impermanenza, della transitorietà e quindi soggetti alla sofferenza.

Noi tutti, in quanto esseri ordinari, viviamo in un sonno profondo e nell’ignoranza. I nostri processi mentali sono portati ad operare distinzioni, a suddividere, a separare, non ad unire.

Nella nostra mente distinguiamo tra la vita e la morte. Ma entrambe hanno la stessa entità. I vivi sono soggetti alla morte, perciò dovranno morire. D’altro canto la morte non giunge sempre all’improvviso, ma ci conquista adagio adagio, istante per istante. Siamo stati generati, siamo nati ed in quanto tali siamo soggetti alla morte. Inoltre, la nostra natura è quella d’essere trascinati in questo percorso: come se fossimo segnati dalla natura di dover morire, non di vivere.

Ho 72 anni, ed è come se fossero trascorsi in un attimo. Vediamo questo tragitto, questo percorso di vita, per quello che è: per la sua brevità. Comunque sia, la nostra vita è breve. Siamo invece portati a pensare di poter vivere a lungo, anzi, molto a lungo e che la morte sopraggiungerà tra molto tempo. Perciò non abbiamo il timore di morire. Siamo invece tutti sotto il controllo della morte! E lo sono tutti gli esseri dei tre reami samsarici (del desiderio, della forma e della non forma) ed a tre livelli: terreni, sotterranei, celestiali. Il che ci dovrebbe mettere in guardia. Invece, spesso, gli esseri conducono la propria vita senza far riferimento a dei maestri validi. Dormiamo invece profondamente apparentemente come veri arat o conquistatori del nemico che hanno abbandonato tutti i mara, anche quelli della morte.

6 NOTA –

ARHAT. Nel buddhismo, chi abbia raggiunto il nirvana, che ha raggiunto il pieno risveglio spirituale, diventando degno di essere venerato dal sangha, un illuminato che non dovrà rinascere. Un arhat ha quindi percorso lo stesso cammino di un Buddha raggiungendo il nibbāṇa (pāli, nirvāṇa sans.), ma non attraverso una dottrina e una disciplina sviluppati autonomamente, bensì grazie all’insegnamento di un Buddha, vivente o passato.

Il buddhismo Theravada considera questo stato come la finalità ultima, benché in pratica solo un monaco o una monaca siano in condizione di diventare un arhat. La tradizione buddhista antica suddivideva gli adepti in quattro categorie: chi sarebbe rinato sette volte; chi avrebbe raggiunto il nirvana alla rinascita successiva; chi non sarebbe ritornato, ma avrebbe raggiunto il nirvana ai livelli più alti dell’esistenza; l’arhat, una persona pienamente emancipata in questa vita. Il buddhismo Mahayana riconosce l’arhat, specialmente i 16 (o 18, o 500) arhat (cinese, lohan; giapponese, rakan) che si suppone abbiano avuto cura del Buddha e siano stati lasciati nel mondo fino alla venuta del Buddha successivo. Nelle altre scuole di buddhismo, e in particolare nel buddhismo Mahāyāna, gli arhat sono dei Buddha a tutti gli effetti, detti śrāvakabuddha, ma comunque inferiori a coloro che, pur potendo ormai conseguire tale stato, prendono il voto di continuare a rinascere innumerevoli volte come bodhisattva fintanto che resteranno al mondo esseri senzienti non illuminati, e sono detti Bodhisattvabuddha o Samyaksambuddha. Nel buddhismo Mahayana, però, il bodhisattva, che ha poteri semidivini e può consegnare ad altri i propri meriti, è considerato superiore all’arhat. http://it.wikipedia.org/wiki/Arhat; http://it.encarta.msn.com/encyclopedia_981522463/arhat.html

MĀRA – Nel buddismo, Māra è il demone che tentò Gautama Buddha tentando di sedurlo con la visione di bellissime donne le quali, in varie leggende, sono spesso ritenute essere le sue figlie. Nella cosmologia buddista, Mara personifica l’incapacità, la “morte” della vita spirituale. Egli (ella) è un tentatore, che distrae gli uomini dalla pratica della vita spirituale, rendendo la vita mondana seducente o facendo sembrare il negativo come positivo. I primi buddisti, tuttavia, piuttosto che vedere Mara come un Signore del Male demoniaco, virtualmente onnipotente, si riferiscono a esso come ad un fattore disturbante.

Nel buddismo tradizionale vengono dati quattro sensi alla parola “mara”:

Klesa-mara, o Mara come la materializzazione di tutte le emozioni incapacitanti.

Mrtyu-mara, o Mara come morte, nel senso dell’infinito cerchio di nascita e morte.

Skandha-mara, o Mara come metafora per l’interezza dell’esistenza condizionata.

Devaputra-mara, o Mara come figlio di un deva (dio), che significa, Mara come un essere obbiettivamente esistente piuttosto che una metafora.

Il recente buddismo ha riconosciuto un’interpretazione sia letteraria che psicologica di Mara. Mara è descritto sia come entità che ha un’esistenza letteraria, proprio come le varie divinità del pantheon Vedico sono mostrate come esistenti attorno al Buddha e anche descritto come forza psicologica primaria – una metafora per vari processi di dubbio e tentazione che ostruiscono la pratica religiosa.

“Buddha che resiste a Mara” è una posa comune nelle sculture del Buddha. Il Buddha è mostrato con la propria mano sinistra sul suo grembo, con il palmo in su e la sua mano destra sul ginocchio destro. Le dita della sua mano destra toccano la terra, per chiamarla a testimone della sfida a Mara e del raggiungimento dell’illuminazione. Questa postura è anche chiamata come il mudra ‘che tocca la terra’. Si veda, per esempio, Samyutta Nikaya 4.25, intitolato “Le figlie di Māra” (Bodhi, 2000, pp. 217-20), come nel Suttanipata 835 (Saddhatissa, 1998, p. 98). In ognuno di questi testi, le figlie di Mara (Māradhītā) sono la personificazione di Brama (taṇhā), Avversione (arati) e Passione (rāga). http://it.wikipedia.org/wiki/Mara