Sua Santità il Dalai Lama “Il fondamento di ogni Realizzazione” e “I Tre Aspetti del Sentiero” di Lama Tzong Khapa

Sua Santità il Dalai Lama: “Se siamo dei principianti inizialmente bisognerà “riconoscere” immediatamente il difetto mentale non appena esso sorge nella nostra mente e poi “applicare” subito l’antidoto appropriato.”

Insegnamenti di Sua Santità il Dalai Lama “Il fondamento di ogni Realizzazione” e “I Tre Aspetti del Sentiero” di Lama Tzong Khapa Milano, Palalido, 21-24/10/1999

Il fondamento di ogni Realizzazione” https://www.sangye.it/altro/?p=492 e “I Tre Aspetti del Sentiero” https://www.sangye.it/altro/?p=489 di LAMA TZONG KHAPA https://www.sangye.it/altro/?cat=10

Milano, Palalido, 21-24/11/1999 (sintesi dell’insegnamento originale)

GIOVEDI’ 21 NOVEMBRE

Tutti gli Esseri Senzienti desiderano la felicità e non vogliono soffrire. Questa è una cosa che accomuna tutti, uomini e animali, ed è un desiderio che sorge senza alcuno sforzo. In questo senso dunque tutti gli Esseri Senzienti sono uguali. Tuttavia, gli esseri umani sono dotati di una particolare intelligenza per la quale possono prevedere il risultato delle loro azioni.

Gli oggetti materiali sono senz’altro importanti per mantenere in buona salute il nostro corpo ed avere una relativa felicità ordinaria, tuttavia essi non costituiscono la causa della nostra felicità ultima. Questa in realtà può scaturire solo dal nostro interno e dalla pace della nostra mente.

Questa felicità interiore si realizza per mezzo dell’unione di FEDE-DEVOZIONE e SAGGEZZA. La Fede-Devozione è un sentimento molto forte che può essere generato dalla Saggezza. È dunque molto importante il RAGIONAMENTO, e la RIFLESSIONE PROFONDA, in quanto il solo ascolto ed apprezzamento degli Insegnamenti non sono sufficienti.

Alcuni pensano che Cuore (Devozione) e Mente (Saggezza) siano due cose distinte, ma in realtà le due cose sono interdipendenti.

I TRE ASPETTI DEL SENTIERO

OMAGGIO AI VENERABILI MAESTRI:

Per imparare qualsiasi cosa dobbiamo necessariamente affidarci ad una persona che ha conoscenza di quella cosa e che la può spiegare. Anche nel regno animale ad esempio la mamma gatta deve insegnare ai propri cuccioli come arrampicarsi su per gli alberi.

Qualsiasi realizzazione otterremo sul sentiero spirituale la dobbiamo alla grande gentilezza dei nostri Maestri.

Non ci sono dei criteri ben precisi per definire chi è un vero Maestro, tuttavia in linea generale possiamo dire che un Maestro e colui che ha REALIZZATO IN MODO SPONTANEO i TRE ASPETTI DEL SENTIERO.

LAMA in tibetano non vuol dire assolutamente un Buddha Vivente, ma bensì il significato è quello di SUPREMO O SUPERIORE, nel senso di una persona che ha realizzato la Bodhicitta.

GURU in Sanscrito significa PESO, nel senso del grande peso che ha la loro gentilezza.

LAMAISMO inoltre è un termine improprio perché i LAMA non insegnano nulla che non sia già stato insegnato dal Buddha oppure dagli eruditi indiani che hanno commentato i suoi insegnamenti.

In questo testo il Buddha viene chiamato VITTORIOSO perché ha soggiogato tutti i demoni dei difetti mentali. Questi demoni si suddividono a loro volta nei difetti mentali che impediscono la LIBERAZIONE e difetti mentali che impediscono l’ottenimento dell’ ONNISCENZA.

Tutti noi possiamo ottenere la condizione di Buddha in quanto la natura ultima primordiale della mente è presente in noi in modo permanente, mentre i difetti mentali sono EVENTI OCCASIONALI. Essendo occasionali, tali difetti possono dunque essere eliminati per mezzo di ANTIDOTI. Nagarjuna paragona questo processo con l’esempio dell’oro che per essere purificato dalle sue impurità deve essere lavorato con il fuoco.

C’è inoltre da sottolineare la differenza tra come le cose ci appaiono e come invece esistono realmente. Ad esempio, l’odio e l’attaccamento nascono da una visione erronea rispetto al loro oggetto di riferimento ( l’esistenza intrinseca dell’Io e dei fenomeni ).

Nagarjuna dice che il Buddha prima di comprendere le quattro Nobili Verità, ha dovuto comprendere le due realtà ovvero la REALTA’ ULTIMA e la REALTA’ CONVENZIONALE. La comprensione della realtà ultima che si realizza per mezzo della Vacuità di tutti i fenomeni, si basa a sua volta sulla comprensione della Realtà Convenzionale come interdipendenza dei fenomeni.

La natura ultima della mente quindi è CHIARA ed ONNISCENTE, mentre come abbiamo detto i difetti mentali sono eventi occasionali in quanto dipendono da cause e condizioni. Ed è proprio perché la sofferenza ha una causa che il Buddha ha potuto formulare le quattro Nobili Verità. Quando dunque si prende rifugio nel Dharma si prende rifugio nella verità della CESSAZIONE della sofferenza e del SENTIERO che a questa porta. Possiamo dunque affermare che esiste un NIRVANA NATURALE che è la naturale cessazione dei difetti mentali.

Se analizziamo la Mente possiamo vedere che esistono vari livelli di Mente dal più grossolano al più sottile. La MENTE GROSSOLANA è quella direttamente collegata con gli organi sensoriali, mentre la MENTE SOTTILE è quella collegata con la nostra coscienza. Le coscienze del sonno e del sogno sono altri tipi ancora di menti sottili.

In ogni caso queste menti hanno la proprietà di RIFLETTERE l’oggetto e di poterlo PERCEPIRE.

Proprio per questa sua natura fondamentale possiamo dire che essa non ha ne inizio ne fine. Le afflizioni mentali invece, essendo eventi occasionali possono essere eliminate.

Proprio per questo fondato motivo il Buddha ha potuto enunciare la Verità della CESSAZIONE della sofferenza.

Quando dunque si parla di Buddhadharma, ci si riferisce specificamente alla verità della Cessazione dalla sofferenza ed al Sentiero che porta ad essa.

Dharma in Sanscrito significa TRATTENERE, nel senso che ci si trattiene dal produrre sofferenza.

I tipi di sofferenza sono essenzialmente tre:

LA SOFFERENZA DELLA SOFFERENZA: E’ la sofferenza più grossolana che tutti possono comprendere e si riferisce alla natura dolorosa del nostro corpo fisico.

LA SOFFERENZA DEL CAMBIAMENTO: E’ una sofferenza più sottile e si riferisce al fatto che l’individuo si attacca a cose che per natura cambiano di continuo.

LA SOFFERENZA DEGLI AGGREGATI CONTAMINATI : Si riferisce alla sofferenza causata dalla schiavitù dei nostri difetti mentali.

Il vero Dharma è dunque quello che opera sulla sofferenza degli aggregati contaminati, cercando di eliminarla. La mente che ha ottenuto questa ASPIRAZIONE ad eliminare i difetti mentali è una mente che ha realizzato la RINUNCIA.

In questo contesto dunque i praticanti devono seguire il sentiero con una forte determinazione a rinunciare alle cause della sofferenza.

In particolare Aryadeva dice che un buon praticante dovrebbe essere:

IMPARZIALE: nell’ascoltare con mente aperta ogni tipo di insegnamento, senza discriminare gli insegnamenti che piacciono da quelli che non piacciono.

INTELLIGENTE: in modo tale che possa discriminare il bene dal male

DILIGENTE: in modo tale che sappia mettere in pratica ciò che ha studiato.

La Rinuncia quindi costituisce la pratica preliminare al successivo sviluppo della Mente Altruistica di Bodhicitta.

Questa Bodhicitta ha due aspetti. Un aspetto ULTIMO, nel quale l’individuo desidera raggiungere la propria Illuminazione per mezzo della realizzazione della Vacuità dei fenomeni e del proprio Io. L’aspetto CONVENZIONALE invece è quel sentimento che desidera il beneficio di tutti gli esseri senzienti, motivato dalla GRANDE COMPASSIONE per essi.

Lo sviluppo della Compassione si basa per un verso su di un sentimento di affetto e simpatia nei confronti degli altri, per un altro verso invece si basa sulla constatazione che così come noi non vogliamo soffrire, allo stesso modo anche gli altri esseri senzienti non lo desiderano.

La Bodhicitta dunque RIASSUME IN SE tutto il sentiero buddhista sia nella FASE PRELIMINARE del sentiero comune dei Sutra, sia nella FASE DI COMPLETAMENTO del sentiero Tantrico, nel quale la CONCENTRAZIONE UNIVOCA ( Shamata o Shinè) su di un unico oggetto è unita alla SPECIALE VISIONE INTERIORE ( Vipassana o Laktong ).

Spiegazione della Rinuncia:

Sicuramente tutti noi vogliamo essere liberi dalla sofferenza, tuttavia se non generiamo una SINCERA ASPIRAZIONE alla liberazione, non riusciremo mai ad eliminare tale sofferenza.

Questa aspirazione si sviluppa solo comprendendo la natura sofferente di questa esistenza condizionata.

La rinuncia dunque si realizza comprendendo che l’attaccamento ai piaceri mondani si rivela alla fine solo causa di sofferenza, in quanto tutte le cose sono impermanenti.

Inoltre tale rinuncia si realizza anche meditando sulla MORTE e sulla fragilità di questa vita umana.

DAL: “ FONDAMENTO DI OGNI REALIZZAZIONE”

Il Maestro è il fondamento di ogni realizzazione perché incarna in Dharma.

Un vero Maestro deve aver domato la propria mente attraverso la pratica dei TRE ADDESTRAMENTI SUPERIORI ovvero, MORALITA’, MEDITAZIONE E SAGGEZZA.

Si dice anche che il Maestro deve avere una MENTE PACIFICATA, RIAPPACIFICATA ED ANCORA PACIFICATA proprio in relazione a questi tre addestramenti.

Il Maestro deve essere in possesso di queste tre qualità:

PUREZZA: Riferita alla condotta morale

ERUDIZIONE: Riferita alla sua conoscenza

BONTA’: Riferita al suo buon cuore e amorevole gentilezza

Il discepolo inoltre deve continuamente analizzare le qualità generali del suddetto Maestro e verificare se ciò che dice lo mette anche in pratica. Solo alla fine di tale verifica si può generare la DEVOZIONE. Aspetti di tale devozione sono OFFRIRE IL PROPRIO RISPETTO, OFFRIRE COSE MATERIALI, OFFRIRE LA PROPRIA PRATICA COSI’ COME LUI L’HA INSEGNATA. Quest’ultimo aspetto è decisamente il più importante.

VENERDI’ 22 NOVEMBRE

Riassumendo possiamo dire che l’insegnamento del Buddha può essere riassunto in due punti. La CONDOTTA NON VIOLENTA e la VISIONE DELL’INTERDIPENDENZA.

Il fattore che motiva la condotta è la comprensione del fatto che così come noi non vogliamo soffrire, allo stesso modo anche gli altri esseri senzienti non vogliono soffrire. Il fattore che motiva la Corretta Visione dell’Interdipendenza è il fatto che la nostra felicità dipende da quella degli altri.

Inoltre condotta non violenta non vuol dire solo astenersi dal fare del male, ma sforzarsi per quanto ci è possibile di fare del bene.

Ritornando testo, durante la Meditazione, per verificare le qualità del Maestro, si procede visualizzando il Maestro sulla cima del capo e poi si alterna la pratica della concentrazione con la pratica dell’analisi.

La DEVOZIONE al Guru, costituisce dunque un’ ESORTAZIONE alla pratica, mentre la VALORIZZAZIONE DELLA PREZIOSA ESISTENZA UMANA, costituisce il metodo col quale si deve procedere.

Quando si parla di preziosa esistenza umana non ci si riferisce a tutte le condizioni di esistenza, ma bensì a quella esistenza dotata di tutte le LIBERTA’ ED OTTENIMENTI che favoriscono la pratica del Dharma.

Inoltre dicendo che questa vita umana si ottiene una volta sola ci si riferisce specificamente alla Preziosa Vita Umana.

In riferimento alla consapevolezza della morte, in questo meditazione si prende in esame un ASPETTO GROSSOLANO dell’IMPERMANENZA. L’aspetto SOTTILE invece si riferisce all’impermanenza istantanea.

Dunque la consapevolezza della morte è molto importante, perché senza di essa butteremo via la nostra vita in attività senza senso. Alcuni, soprattutto qui in occidente non vogliono neanche sentire parlare della morte, perché questo suscita in loro paura. Ma la meditazione sulla morte invece non ha lo scopo di suscitare questo sentimento, bensì quello di sviluppare la forte determinazione a rendere significativa la propria vita.

Noi esseri umani sprechiamo la nostra vita in virtù di queste tre credenze:

1.  Consideriamo permanente ciò che in realtà è impermanente

2.  Consideriamo come puro il nostro corpo, quando in realtà esso è impuro a causa delle numerose sofferenze che lo pervadono.

3.  Consideriamo come esistente il sé intrinseco quando invece questo sé è vuoto di esistenza intrinseca.

Se durante la vita ci abitueremo a meditare sulla morte, e sul processo di assorbimento degli elementi che avverrà nel nostro corpo durante questo momento, poi quando la morte arriverà veramente, essa non ci troverà impreparati. Addirittura, alcuni Maestri quando arriva il momento della loro morte sono contenti perché possono finalmente sperimentare ciò che hanno meditato per una vita intera.

Si può quindi dire che al momento della morte il praticante di livello superiore sarà contento, il praticante di livello medio non avrà nessuna paura, mentre il praticante di livello inferiore, non avrà nessun rimpianto.

Consapevoli della morte, dovremo anche pensare che tutte le azioni compiute in vita hanno lasciato delle IMPRONTE sulla nostra coscienza, che nella vita successiva produrranno i loro effetti, simili in natura alle loro cause.

Possiamo ad esempio spiegare questa cosa con un esempio. Se alla sera, prima di andare a letto, abbiamo la preoccupazione di prendere un mezzo di trasporto il giorno dopo, l’indomani mattina è facile che ci sveglieremo spontaneamente all’ora alla quale avevamo deciso di svegliarci. Questo dunque sarà l’effetto della causa lasciata nella nostra coscienza la sera prima.

Le contemplazioni sulla Preziosità della vita umana e sul Karma costituiscono la MOTIVAZIONE del PRATICANTE INFERIORE, di colui cioè che desidera rinascere nella prossima vita in una condizione di esistenza favorevole. Il praticante di questo livello è uno che ha già preso Rifugio nei Tre Gioielli.

A proposito del Rifugio, bisogna dire che innanzitutto bisogna prendere Rifugio nel DHARMA, quindi in BUDDHA cioè colui che l’ha realizzato per primo, ed infine nella Comunità dei Praticanti cioè il SANGHA.

Abbiamo già detto che per DHARMA si intende la verità della CESSAZIONE e del SENTIERO, che nel Continuum di un Essere Illuminato si manifesta come COMPLETA FRUIZIONE DEGLI ASPETTI VIRTUOSI della sua mente. Questa esperienza è dunque la base per la spiegazione dei QUATTRO CORPI DEL BUDDHA che sono:

1) SVABAVAKAYA: Corpo del Completo Abbandono

2) DHARMAKAYA: Corpo di Verità che nasce dall’Accumulazione di Saggezza.

3) SAMBOGAKAYA: Corpo di Fruizione, che costituisce l’Accumulazione di Meriti che scaturisce a sua volta dall’accumulazione di Saggezza.

1. NIRMANAKAYA: Corpo di Emanazione, cioè come un Buddha si manifesta ai suoi discepoli.

I primi due corpi si dice siano necessari all’Essere Illuminato per essere di BENEFICIO A SE STESSO, gli altri due corpi invece servono al Buddha per essere di BENEFICIO AGLI ALTRI.

Quando nel testo, leggiamo che i PIACERI DEL SAMSARA NON SONO SODDISFACENTI ci si riferisce all’azione della IMPERMANENZA SOTTILE per la quale tutte le nostre esperienze piacevoli mutano di continuo ed infine spariscono del tutto.

Le esperienze ordinarie che noi percepiamo come piacevoli e che pensiamo siano la vera felicità, sono dunque solo delle ESPERIENZE ILLUSORIE, perché analizzandole bene scopriamo che esse ci appaiono piacevoli solo IN CONTRASTO ALLA SOFFERENZA. La sofferenza invece, facendo parte della natura contaminata dei nostri aggregati, è una ESPERIENZA REALE.

Possiamo dunque formulare quelli che vengono chiamati I QUATTRO SIGILLI DELLA DOTTRINA ovvero:

1. TUTTI GLI AGGREGATI SONO IMPERMANENTI

2. TUTTI GLI AGGREGATI CONTAMINATI, SONO CAUSA DI SOFFERENZA

3. TUTTI GLI AGGREGATI SONO PRIVI DI UN SE’

4. IL NIRVANA E’ PACE

SVILUPPO DI BODHICITTA:

Per sviluppare Bodhicitta ci sono due sistemi. Uno è il sistema delle SETTE CAUSE ED UN EFFETTO, l’altro è quello di SCAMBIARE SE STESSO CON GLI ALTRI.

Metodo delle SETTE CAUSE ED UN EFFETTO:

Per ottenere l’effetto della Bodhicitta cioè l’ASPIRAZIONE A RAGGIUNGERE L’ILLUMINAZIONE PER IL BENEFICIO DI TUTTI GLI ESSERI SENZIENTI, è chiaro che bisogna creare delle cause. Queste cause sono le seguenti:

1. EQUANIMITA’: Cioè quella tendenza a considerare tutti gli esseri nello stesso modo, senza discriminare tra amici, nemici e persone indifferenti.

2. Nelle nostre innumerevoli vite sicuramente ciascuno degli esseri senzienti sono stati NOSTRE MADRI

3. Riconoscere la GENTILEZZA DELLE NOSTRE MADRI passate, allo stesso modo come noi ora riconosciamo la gentilezza della madre di questa vita

4. Generare AMORE per queste madri

5. Riconoscere LA SOFFERENZA PATITA DA ESSE

6. Generare la COMPASSIONE PER ESSE

7. Generare il DESIDERIO DI LIBERARE QUESTE MADRI DALLA LORO SOFFERENZA.

IL secondo sistema si chiama SCAMBIARE SE STESSI CON GLI ALTRI e si riferisce alla consapevolezza del fatto che così come io stesso non desidero soffrire ed invece desidero la felicità, allo stesso modo tutti gli altri Esseri Senzienti desiderano essere liberi dalla sofferenza ed ottenere la felicità.

SABATO 23 NOVEMBRE:

Dopo aver generato la Mente di Bodhicitta, bisogna però addestrarsi nella TRIPLICE MORALITA’ ovvero:

1.  ASTENERSI DALLE AZIONI NEGATIVE cioè rispettare i dieci precetti

2.  PRATICARE AZIONI VIRTUOSE cioè l’unione della meditazione concentrativa e della meditazione analitica o visione profonda.

3.  AGIRE PER IL BENEFICIO DI TUTTI GLI ESSERI SENZIENTI

I dieci precetti si suddividono in tre per il Corpo, quattro per la Parola e tre per la Mente:

1.  NON UCCIDERE

2.  NON RUBARE

3.  NON AVERE CONDOTTA SESSUALE SCORRETTA

4.  NON MENTIRE

5.  NON INSULTARE

6.  NON CREARE DISCORDIA

7.  NON PARLARE A VANVERA O FARE PETTEGOLEZZO

8.  NON ESSERE AVIDO

9.  NON ESSERE MALEVOLENTE

10) NON AVERE VISIONI ERRATE (Cioè credere nel Karma, nella Rinascita e nella Liberazione)

Per quanto riguarda la MEDITAZIONE CONCENTRATIVA, bisogna innanzitutto PACIFICARE LE DISTRAZIONI verso OGGETTI ERRONEI cercando invece di spostare la mente sull’OGGETTO UNIVOCO prescelto. Durante questa meditazione bisogna evitare l’ECCITAZIONE oppure al contrario IL TORPORE, cercando di utilizzare gli ANTIDOTI opportuni. Nel caso insorgesse l’eccitazione bisogna meditare sulla IMPERMANENZA e sulla MORTE. Nel caso del torpore invece bisogna utilizzare altri metodi ( Sua Santità non li ha elencati, N.D.R. )

Per applicarsi nella concentrazione è necessario cambiare il proprio stile di vita, come ad esempio andare a letto presto la sera, oppure evitare di mangiare alla sera.

Una volta sviluppata la concentrazione univoca (SHINE’ in Tibetano o SHAMATA in Sanscrito), bisogna applicare tale concentrazione all’analisi della realtà ultima dei fenomeni e del proprio sé (LAKTONG in tibetano o VIPASSANA in Sanscrito).

Per comprendere a livello intellettuale la VACUITA’ non è indispensabile aver generato la CALMA DIMORANTE ( che nasce al nono stadio della concentrazione univoca). Al contrario tale calma dimorante è indispensabile per realizzare la vacuità a livello di VISIONE ESPERIENZIALE.

Nel caso del sentiero comune dei SUTRA e fino alla prima classe dello YOGA-TANTRA, la CHIAREZZA DELL’OGGETTO viene ottenuto per mezzo della MEDITAZIONE ANALITICA. Nei casi invece del SUPREMO YOGA TANTRA e per i sentieri del MAHAYOGA, ANUYOGA ed ATIYOGA, la Vacuità dell’oggetto viene INDOTTO dal POTERE DELLA CONCENTRAZIONE, come se il soggetto ( cioè lo Yogi) affinasse la propria percezione in modo penetrante all’interno dell’oggetto stesso.

Ritornando alla concentrazione univoca, bisogna dire che è molto difficile raggiungere la calma dimorante concentrandosi subito sulla Vacuità. E’ necessario dunque in fase iniziale concentrare la propria attenzione su oggetti come la natura della nostra mente oppure visualizzando davanti a noi la forma di un Buddha.

Più piccolo è l’oggetto prescelto e più potente sarà la concentrazione. Meglio ancora se l’oggetto visualizzato è luminoso.

Per quanto riguarda la concentrazione sulla mente, bisogna in primo luogo FERMARE LE CONCETTUALIZZAZIONI. A questo punto incominceremo a percepire le qualità di CHIAREZZA E PERCEZIONE della nostra mente. Su questi due aspetti poi svilupperemo la concentrazione.

A proposito della credenza nell’esistenza intrinseca, possiamo dire che in riferimento ad un oggetto piacevole dei sensi, intervengono due tipi di ignoranza. La prima ignoranza è quella contenuta nel nostro continuum mentale, per il quale percepiamo spontaneamente quell’oggetto come piacevole. Il secondo tipo di ignoranza invece è quella che si afferra a quell’oggetto piacevole come esistente di per se e per la quale noi generiamo attaccamento.

Il praticante che ha realizzato l’assenza di esistenza intrinseca, quando si troverà di fronte all’interdipendenza di un fenomeno, sarà indotto a vederne la sua vacuità.

Viceversa, quando si troverà ad analizzare la vacuità di un fenomeno, ne troverà la sua dipendenza da cause e condizioni.

In essenza, comprendere la vacuità dei fenomeni è COMPRENDERE LA LEGGE DI CAUSA ED EFFETTO.

(Tornando al testo “ Il fondamento di ogni realizzazione”)

Una volta che ci siamo addestrati bene nel sentiero comune dei Sutra, si può accedere al sentiero dei Tantra, nel quale Metodo e Saggezza sono UNITI IN UN SINGOLO ISTANTE DI COSCIENZA.

PRATICA EFFETTIVA DEL TANTRA:

Da uno stato meditativo iniziale nel quale ci siamo generati nella vacuità, passiamo ad immaginarci come una divinità. Sulla base di questa visualizzazione pura che incarna ogni virtù, si realizza la vacuità della visualizzazione stessa. Questo metodo incarna dunque l’unione di Metodo e Saggezza in una unica mente.

SUA SANTITA’ IL DALAI LAMA

“ Il Sentiero verso l’Illuminazione “ Lerab Ling, St. Felix de L’Heras, Francia 20-24/9/2000

(Il presente testo è una sintesi dell’insegnamento originale fatta per mezzo di appunti scritti. Gli spazi stanno ad indicare momenti diversi dello stesso insegnamento.)

Per ottenere una solida fiducia ed una ferma determinazione nella pratica del Dharma è indispensabile che si sia sviluppata la convinzione che la Via Spirituale da noi scelta sia la migliore (per noi).

Allo stesso tempo però bisogna cercare di conciliare questa convinzione con l’apertura ed il rispetto nei confronti delle altre religioni poiché tutte le Vie Spirituali, al di là di naturali differenze filosofiche, hanno come valore ultimo l’amore e la compassione.

Le diverse tradizioni spirituali sono necessarie poiché le persone sono diverse ed hanno differenti esigenze ed inclinazioni.

Per quanto riguarda il Buddhismo, se noi analizziamo bene la sua essenza possiamo notare che essa va al di là di ogni religione, poiché lo sviluppo delle qualità umane è qualcosa di “valido” per chiunque, indipendentemente dalla propria fede.

Bisogna anche cercare di non fare discriminazioni tra i vari veicoli Buddhisti, poiché tutti quanti sono stati insegnati dal Buddha a seconda delle capacità dei discepoli.

Possiamo riassumere le differenti pratiche secondo questa classificazione:

ESTERIORMENTE, ci si comporterà in modo disciplinato rispettando i cinque precetti e per i monaci le regole del Vinaya ( i precetti della tradizione Hinayana che riguardano la disciplina monastica, n.d.r.)

INTERIORMENTE, si coltiverà la motivazione altruistica per il beneficio di tutti gli esseri senzienti, aspirazione tipica della tradizione Mahayana.

SEGRETAMENTE, si praticheranno le tecniche tantriche della tradizione Vajrayana.

Quando nel Buddhismo si parla di “ trasformazione della mente” ci si riferisce al metodo di trovare l’antidoto appropriato che si contrappone al difetto mentale corrispondente. Ad esempio se abbiamo molta “animosità ”( traduzione letterale dal francese, n.d.r. ) dovremo cercare di contrastare questo difetto mentale con un atteggiamento di gentilezza.

Tuttavia, la gentilezza, la pazienza e gli altri antidoti, benché permettano di contrastare temporaneamente l’azione negativa, non sono ancora in grado di estirpare la causa principale di tali azioni. Infatti, poiché tutte le nostre azioni negative sono causate dalla visione distorta della realtà, si comprende che l’antidoto supremo a tutte le afflizioni mentali, sarà un tipo di saggezza che elimina l’ignoranza fondamentale presente in noi.

In questo contesto per “ Ignoranza “ si intende la non-conoscenza della realtà ultima dei fenomeni, i quali sono fondamentalmente vuoti ( o privi ) di esistenza intrinseca ed autonoma. Si tratta come di un “errore” che noi compiamo spontaneamente da tempo incalcolabile.

In realtà, tutti i fenomeni che percepiamo, noi stessi compresi, dipendono da cause e condizioni e non nascono da soli per proprio potere intrinseco.

Allo stesso modo, tutte le nostre esperienze di felicità e sofferenza, non nascono dal nulla, ma dipendono anch’esse da precise cause e condizioni.

Nel procedere sul Sentiero dovremo sempre attenerci a questi tre aspetti:

ANALIZZARE i pro ed i contro dei difetti mentali ed i vantaggi ottenuti a breve ed a lungo termine dalla eliminazione degli stessi.

ASPIRARE ( o desiderare ) di voler eliminare tali difetti mentali poiché si aspira ad una felicità superiore.

DILIGENZA nel seguire il Sentiero che conduce alla eliminazione di tali difetti mentali.

Inoltre la pratica può evolvere secondo la seguente progressione:

1. Ascolto e lettura degli insegnamenti in modo dettagliato e particolareggiato. Si acquisisce una conoscenza “intellettuale” degli insegnamenti, tuttavia ancora suscettibile di dubbio.

2. Si passa poi ad un’analisi intensa e profonda sulla base delle conoscenze acquisite. Si acquisisce una relativa sicurezza sulla effettiva validità degli insegnamenti.

3. Si passa quindi alla fase di “familiarizzazione” continua e costante degli insegnamenti per mezzo della meditazione. Questo è un tipo di meditazione che richiede dello sforzo poiché non è ancora divenuta spontanea.

4. Procedendo oltre, la meditazione diverrà spontanea e non richiederà più alcuno sforzo.

L’analisi deve basarsi su ragioni valide, ovvero sia quelle derivanti dalla osservazione delle due verità, la Verità Ultima e la Verità Convenzionale. Cosa sono queste due verità ? La verità convenzionale è semplicemente tutto ciò che noi percepiamo con i nostri sensi ordinari senza che venga fatta alcuna analisi. Questo tipo di verità, benché si riferisca a cose reali di questo mondo che hanno una loro funzione, è comunque un tipo di visione illusoria, poiché se noi andiamo ad analizzare la cosa presa in esame, in realtà non riusciamo a trovarla. Non riusciamo a trovare quell’entità sostanziale ed intrinseca così come ci appare ai nostri sensi.

Dunque questa “ Vacuità” ( o assenza ) di esistenza intrinseca dei fenomeni corrisponde alla Verità Ultima degli stessi.

Questa Vacuità non è qualcosa che ha inventato il Buddha, ma è la semplice natura ultima delle cose che è così da sempre.

Questo ragionamento ci fa comprendere che tutte le cose esistono in modo interdipendente le une con le altre, pertanto possiamo affermare che i fenomeni:

1. Non si producono da sé ( cioè da causa intrinseca )

2. Non si producono senza causa.

3. Non si producono da altro, cioè da una causa “ permanente” come un essere superiore ( Dio )

Tutte le cose materiali ad esempio vengono all’esistenza grazie ai cinque elementi naturali. A seconda di come tali elementi si combinano fra loro si avranno fenomeni differenti. Ciò è possibile perché ogni elemento ha la caratteristica che lo contraddistingue, ad esempio la terra ha la caratteristica di solidità, l’acqua quella di fluidità e così via.

Inoltre, la tendenza dell’uomo è quella di illudersi che le cose rimangano inalterabili ed immutevoli nel tempo. Prendiamo ad esempio il fiore che ho qui vicino. Fra qualche giorno esso sarà completamente appassito ed avrà tutto un altro aspetto. Però il suo cambiamento non avviene tutto d’un colpo ma esso subisce un cambiamento graduale, istante per istante, anche se noi non riusciamo a percepirlo.

Il cambiamento grossolano che noi vediamo a distanza di tempo è possibile solo a causa della “impermanenza sottile “ che è appunto il mutare istantaneo delle cose.

Pure le montagne ad esempio, che appaiono così solide e permanenti, in realtà anche loro mutano istante per istante. Infatti possiamo vedere il loro mutamento nell’arco di secoli, ma tale mutamento è avvenuto in modo continuo, attimo dopo attimo.

Anche il tempo cronologico se ci pensiamo bene è solo un’illusione. Il passato non esiste più perché è morto, il futuro deve ancora venire ed il presente è qualcosa che non si può afferrare perché costituisce un confine tra passato e futuro.

Non dobbiamo credere che la sofferenza o la felicità vengano da fuori, dall’esterno di noi stessi, poiché è sempre la nostra “forza interiore “ che predomina sulle circostanze esterne della vita. La dimostrazione di questo fatto è che di fronte ad una stessa situazione, le persone reagiscono in modo talvolta molto differente. Dunque è la nostra “ Coscienza” che fa l’esperienza di felicità o sofferenza.

Dovremo ora domandarci che cos’è la coscienza (o mente ). Se noi proviamo a cercare tale mente all’interno di noi stessi, in realtà non riusciamo a trovarla, poiché essa è priva di qualsiasi sostanza, colore e forma. Tuttavia, non possiamo affermare che essa non esista per niente.

Possiamo definire la coscienza come la facoltà di ” chiarezza e luminosità”, cioè quella capacità della mente di poter conoscere e riflettere tutto ciò che proviene dai nostri organi sensoriali. Che poi l’oggetto conosciuto sia appreso correttamente o meno questo è un altro discorso e non dipende dalla coscienza stessa.

Questa coscienza ha la capacità di creare qualsiasi immagine mentale come ad esempio il sogno.

Ci sono poi livelli di sottigliezza differenti di questa coscienza. Nel sonno profondo vi è un tipo di coscienza molto sottile così come nello stato di svenimento. Nello stato di veglia invece agisce una coscienza molto grossolana che è correlata con gli organi sensoriali. Infatti, per la percezione di un qualsiasi oggetto dei sensi, non è sufficiente avere l’oggetto e l’organo sensoriale, ma è indispensabile che sia presente anche una continuità di coscienza. Un cadavere ad esempio non ha la possibilità di percepire le cose, nonostante siano ancora presenti gli organi sensoriali e gli oggetti dei sensi e questo perché il continuum mentale non è più presente.

Se prendiamo ancora l’esempio del fiore, possiamo notare che esso mantiene una continuità di caratteristiche nella diversità della sua impermanenza.

Allo stesso modo, la coscienza presente in noi dipende da un istante di coscienza precedente ed è seguita da un altro istante di coscienza simile al precedente.

Ed è proprio secondo questo ragionamento che il Buddhismo crede nella continuità della coscienza dopo la morte.

Benché corpo e mente si trovino molto spesso in relazione, questo non esclude che la coscienza possa avere delle esperienze autonome. ( Sua Santità cita l’esempio di un Suo conoscente che ha fatto una reale esperienza di distacco momentaneo della coscienza dal corpo fisico. )

Se la coscienza avesse una natura fisica e materiale ( come molti sostengono ), allora dovremo avere le stesse identiche esperienze di nostra madre e di nostro padre, dal momento che appunto il nostro corpo fisico è nato dalle loro cellule.

Il nostro senso dell’Io è solo una mera etichetta che noi appiccichiamo sul flusso di coscienza e di corpo fisico.

Dal momento che il flusso di coscienza deve necessariamente avere un momento di coscienza precedente ed uno successivo, si deve riconoscere che non può esistere ne inizio ne fine al flusso di coscienza.

Altrimenti, se accettassimo l’idea di un momento di coscienza iniziale, allora cadremmo nella contraddizione di avere una causa indipendente ( la coscienza iniziale ) che produce un effetto ( la coscienza presente ) che ha una natura diversa dalla causa che l’ha prodotta.

A fronte di quanto detto, ci si pone ora la domanda se sia possibile eliminare l’esperienza di sofferenza dal nostro flusso di coscienza. Per rispondere a questa domanda dovremo prima comprendere se i difetti mentali, causa di tutta la nostra sofferenza, possono essere eliminati.

I difetti mentali possono essere certamente eliminati dal flusso della coscienza, poiché non fanno parte della natura ultima della coscienza stessa. Essi sono come dei ” veli oscuranti” che si sovrappongono alla coscienza ma non le appartengono intimamente e pertanto possono essere eliminati.

Ciò che risulta dall’eliminazione dei difetti mentali è un tipo di felicità differente dalla felictà prodotta dai piaceri sensoriali. E’ qualcosa di assimilabile ad un profondo stato di pace e serenità mentale.

I ” veli oscuranti” sono di due tipi:

1. Le “ostruzioni mentali oscuranti” che sono i difetti mentali principali.

2. Le “ostruzioni oscuranti dell’onniscienza”, cioè quella profonda ignoranza che non ci permette di sperimentare la fondamentale vacuità di esistenza intrinseca di tutti i fenomeni.

Trasmissione e commentario del testo Dzogchen:

” Trovare conforto nella meditazione sulla Grande Perfezione” di Lonchenpa

Quando l’autore parla di ” Intenzione ultima ” si riferisce alla sua volontà di dare l’Insegnamento sulla Saggezza Primordiale.

L’autore cercherà di trasmettere le ” Istruzioni Essenziali ” unendo i Sutra ed i Tantra.

Come è stato detto, bisognerà preventivamente eliminare i “veli ostruttivi afflittivi” ( cioè i difetti mentali n.d.r. ) ed in seguito i “veli che ostruiscono l’onniscienza”( cioè l’ignoranza che si afferra all’esistenza intrinseca, n.d.r. ).

Il luogo di Meditazione:

Per il principiante è molto importante scegliere un buon luogo di meditazione che dovrebbe avere le seguenti caratteristiche; essere un luogo isolato e tranquillo, con un clima ideale, l’aria pulita ed una alimentazione adeguata. (Il testo parla di grotte sulle montagne, tuttavia Sua Santità dice che logicamente in questa nostra società moderna questo non è possibile, per cui va bene anche casa nostra, purché il luogo sia relativamente silenzioso e pulito. )

In questo luogo, il praticante dovrà impegnarsi nella meditazione concentrativa su un unico oggetto.

In seguito, bisogna praticare l’unione della ” calma dimorante “, ottenuta per mezzo della meditazione concentrativa, con la ” Visione Profonda” della Vacuità di se stessi e dei fenomeni.

Per colui che invece possiede già la “Calma Dimorante” quegli stessi luoghi che per un principiante sono oggetto di disturbo e distrazione, oppure di paura come i cimiteri o i luoghi di cremazione, per il praticante avanzato diventano i luoghi migliori dove praticare.

Il Maestro Spirituale:

E’ di fondamentale importanza avere come guida un Maestro Spirituale qualificato che ci possa indicare la Via corretta.

Il discepolo deve scegliere con attenzione il proprio Maestro, cercando di analizzare se esso risponde ai seguenti requisiti ( Sua Santità usa anche la parola “spiare” il Maestro, nel senso di stare molto attenti a tutti i suoi comportamenti ):

1. Deve aver pacificato i propri difetti mentali.

2. Deve aver completato la pratica dei “Tre Addestramenti Superiori” (Moralità, Concentrazione e Saggezza, n.d.r.)

3. Deve essere altruista ed insegnare il Dharma unicamente per il bene dei propri discepoli.

4. Deve possedere erudizione e conoscenza degli Insegnamenti unite a grande Compassione e Saggezza.

Bisogna inoltre integrare la nostra pratica nella vita quotidiana secondo la seguente sequenza:

1. Comprensione delle Quattro Nobili Verità ( Veicolo degli Shravaka o degli ” Uditori” )

2. Sviluppo di Bodhicitta ( Veicolo dei Bodhisattva )

3. Ingresso nel Tantra ( Veicolo dei Vidhyadhara )

4. Pratica della Grande Perfezione ( Veicolo dgli Dzogchen )

Come abbiamo detto in principio, se siamo dei principianti inizialmente bisognerà “riconoscere” immediatamente il difetto mentale non appena esso sorge nella nostra mente e poi “applicare” subito l’antidoto appropriato.

Se invece siamo dei praticanti avanzati, non appena sorgono i difetti mentali, saremo in grado di trasformarli nella ” Saggezza Primordiale” poiché anch’essi possiedono la stessa “natura di luminosità” di tutti gli altri fenomeni.

Bisogna sviluppare una ” Vigilanza Introspettiva ” per accorgersi subito di quando insorgono i difetti mentali ed avere inoltre un ” Senso di Pudore” e “Decenza” nei riguardi del nostro comportamento esteriore.

Bisogna stare sempre in “agguato”, per cercare di non farsi condizionare dagli “otto dharma mondani” (Attaccamento ed avversione rispettivamente per; il piacere, il dispiacere, il guadagno e la perdita di cose materiali, la lode ed il biasimo, la fama e l’infamia, n.d.r.)

Dice il testo: “Tagliate alla radice la mente che si afferra all’”io” ed al “me”.

L’afferrarsi all’ego dipende dal fatto che vogliamo ottenere e difendere per noi stessi quelle cose che ci procurano piacere, ed evitare invece le cose che ci causano dispiacere.

Ciò a sua volta dipende dalla credenza erronea che gli oggetti del piacere e del dispiacere possiedano in sé, in modo intrinseco, le qualità di “bontà” o “cattiveria”. Questa “reificazione” fa sì dunque che noi attribuiamo una “sostanzialità” alle cose, quando invece le cose per loro natura ne sono assolutamente prive.

Ad esempio, quando siamo arrabbiati con qualcuno, tendiamo a vedere quella persona come “sostanzialmente” negativa e colma di difetti. Il giorno dopo invece, quando ormai la rabbia è passata, quella stessa persona ci sembrerà assai cambiata. In realtà però ciò che è cambiata è solo la nostra visione, poiché obbiettivamente parlando è assai improbabile che una persona possa cambiare nell’arco di poche ore.

Per tagliare alla radice l’ego, dovremmo sempre applicare la meditazione dei “Quattro Sigilli” al nostro Sé, ovvero comprendere che:

1. Tutti i fenomeni sono impermanenti.

2. Tutti i fenomeni composti sono causa di sofferenza.

3. Tutti i fenomeni sono vuoti di esistenza intrinseca.

4. Il Nirvana è pace.

Analizziamo come reagisce la mente nei confronti di un oggetto del desiderio (Sua Santità fa l’esempio di una persona che sta per comprare un oggetto in un negozio )

1. Vediamo l’oggetto ed abbiamo una forte impressione di piacere.

2. La mente si “incolla” a questo oggetto e desidera possederlo.

3. Il desiderio si fa decisamente forte e la persona decide di comperare l’oggetto.

4. Il senso dell’attaccamento diventa ancora più forte dopo aver acquistato l’oggetto.

Dunque abbiamo visto che il sentimento di attaccamento all’oggetto diventa ancora più forte quando vi è un senso di proprietà o di “mio”. Ad esempio se vediamo un vaso che ci piace esposto in una vetrina e questo si rompe prima che noi lo compriamo, potremo anche dire “ che peccato, era un bel vaso “, però la cosa non ci coinvolge più di tanto. Ma se la stessa cosa succede dopo averlo comperato, ne facciamo una tragedia, perché pensiamo che si è rotto il “mio” vaso.

Nei confronti delle avversità e di chi ci danneggia dovremo applicare l’antidoto della pazienza, tuttavia essa non significa dover accettare passivamente tutte le ingiustizie ma significa guardare semplicemente chi ci fa del male come una persona essa stessa vittima dei difetti mentali.

Noi invece commettiamo l’errore di identificare la persona con l’azione che sta compiendo.

Possiamo avere una vera pazienza per gli altri solo se prima abbiamo constatato su di noi quali svantaggi comporta il danneggiare gli altri.

Vediamo dunque come le diverse scuole filosofiche buddhiste cercano di contrastare l’ego:

1.  Scuola Vaibashika: Il Sé o l’Io viene visto come vuoto di esistenza intrinseca, mentre gli altri fenomeni esterni vengono visti come dotati di una propria sostanzialità.

2.  Scuola Cittamatra (O Mente sola ): Anche qui l’Io è privo di esistenza intrinseca, tuttavia si ritiene che gli altri fenomeni non abbiano nessuna realtà esterna, poiché sarebbero il prodotto della nostra coscienza.

3.  Scuola Madyamika-Prasangika (O Via di Mezzo): Benché tutti i fenomeni esterni ed interni abbiano sicuramente una qualche realtà, essi sono in ogni caso privi di qualsiasi esistenza intrinseca.

Da questa classificazione si potrebbe pensare che le diverse scuole buddhiste si trovino in contraddizione le une con le altre, ma questa però è una valutazione superficiale, poiché il Buddha ha insegnato ai diversi discepoli sulla base delle loro capacità intellettive e comunque sempre per il loro bene.

La pratica esposta nel testo:

Per la pratica dello Dzogchen innanzitutto devono essere praticati i diversi “Preliminari” che si suddividono in:

Preliminari ordinari:

Senso di stanchezza (o Rinuncia) per il Samsara (caratteristica generale di tutti i Veicoli).

Sviluppo della Mente dell’Illuminazione o Bodhicitta per il beneficio di tutti gli esseri senzienti (caratteristica del Mahayana).

Preliminari Supremi:

Stadio di Generazione: Immaginare il proprio corpo e quello degli altri come divinità.

Stadio di Completamento: Le benedizioni che sorgono nei Nadi (canali), nei Chakra, nei Bindu e nelle Gocce Essenziali del nostro corpo sottile.

SVILUPPO DI BODHICITTA:

Lo scopo ultimo di tutte le tradizioni Buddhiste è unico, ed è quello di liberarsi dalla sofferenza del Samsara. Tuttavia, se tale desiderio è “sostenuto” dalla motivazione di essere di beneficio a tutti gli esseri senzienti, allora tale scopo diventa molto più elevato.

Questa motivazione altruistica può essere generata solo se preventivamente abbiamo generato la Grande Compassione per tutti gli esseri senzienti, nostre madri. Cosa vuol dire esseri senzienti nostre madri ? Dal momento che noi esistiamo da tempo senza inizio, deduciamo che sicuramente tutti gli esseri viventi sono stati nostre madri almeno una volta. Se noi ora pensiamo alla grande gentilezza della nostra madre attuale nell’ averci allevati e protetti, ed alla sofferenza che deve aver patito nella sua esistenza, nel nostro cuore sorgerà un grande sentimento di gratitudine e compassione.

Lo stesso sentimento dunque dovremo allargarlo anche a tutti gli altri esseri senzienti, che parimenti sono stati nostre madri nelle vite precedenti. Non solo, dovremmo anche farci carico personalmente di voler aiutare tutte queste madri a liberarsi dalla loro sofferenza. Tuttavia, essendo consapevoli della nostra stessa impotenza ed incapacità persino di liberare noi stessi, genereremo il desiderio di voler raggiungere la Buddhità per poi essere di beneficio a noi stessi ed agli altri.

Bisogna aggiungere a questo proposito che il termine tibetano che sta per “Compassione” indica prima di tutto un sentimento rivolto nei confronti di noi stessi e poi nei confronti degli altri.

In riferimento allo sviluppo di Bodhicitta possiamo affermare che:

L’ Hinayana è il Veicolo della “preparazione” alla Bodhicitta.

Il Mahayana è il Veicolo dello “sviluppo” della Bodhicitta.

Il Vajrayana è il Veicolo del “perfezionamento” della Bodhicitta.

Per quanto riguarda gli ultimi due veicoli, Mahayana e Vajrayana, la Via da seguire è l’unione di metodo e saggezza. Attraverso l’accumulo di meriti, derivante dalla pratica del metodo compassionevole, il praticante sviluppa il Rupakaya ( o Corpo della Forma ).

Attraverso l’accumulo di Saggezza ( che realizza la Vacuità di esistenza intrinseca n.d.r. ) il praticante sviluppa il Dharmakaya ( o Corpo di Verità ).

La Pratica Principale Dzogchen tratta dal capitolo: “Dimorare nella Natura della Mente attraverso la Contemplazione “

Lo scopo della pratica Dzogchen è quello di raggiungere la visione della ”Chiara Luce”.

Si può considerare la cosa dal punto di vista dell’oggetto e del soggetto. Dal punto di vista dell’oggetto, lo scopo è realizzare la natura ultima dei fenomeni. Dal punto di vista del soggetto, lo scopo come già accennato, è quello di realizzare la natura ultima della mente di Chiara Luce.

La natura ultima della mente viene qui definita come l’unione di CHIAREZZA e VACUITA’.

Essa non dipende da cause e quindi non ha inizio né fine.

I pensieri che sorgono sono una manifestazione creativa di tale mente primordiale.

Quando tra il termine di un pensiero e l’inizio di un’altro si verifica un intervallo, ecco che abbiamo la possibilità di cogliere la natura primordiale e luminosa della mente.

E’ molto importante all’inizio distinguere chiaramente tutti i contenuti mentali in modo poi da poterli abbandonare. E’ essenziale a questo scopo non avere distrazioni e preoccupazioni e abbandonare ogni preoccupazione mondana. Addirittura, si dice che bisogna abbandonare anche tutte le attività di Dharma compiute con il corpo, la parola e la mente. Ad esempio bisogna evitare di fare prostrazioni, recitare preghiere o avere qualsiasi sentimento positivo come l’amore o la compassione.

Si procede come detto abbandonando l’attaccamento ai pensieri concettuali e discorsivi e poi quando riusciamo a cogliere un bagliore di questa natura della mente, si cerca di concentrarsi su di essa il più a lungo possibile.

All’inizio sarà difficile rimanere concentrati per lungo tempo, ma in seguito con l’allenamento costante, lo sforzo verrà meno e diventerà una cosa spontanea.

Riassumendo:

1. Riconoscere tutte le elaborazioni concettuali ed i pensieri non appena sorgono cercando di vederli come ” un amico che si riconosce tra la folla”.

2. In seguito ad una maggiore spaziosità della mente, lasciare andare i pensieri come ” un ladro che entra in una casa vuota”.

3. I pensieri incominceranno ad acquietarsi sempre più. In questa fase, nell’intervallo che trascorre tra un pensiero e l’altro, bisognerà cogliere la natura primordiale della mente che si presenterà spontaneamente.

4. Concentrarsi il più a lungo possibile su tale mente primordiale.

Tuttavia, bisogna sottolineare che questa “purezza primordiale” può veramente essere colta nella sua totalità e pienezza solo quando i veli oscuranti dei difetti mentali e dell’onniscienza sono stati rimossi.

La presente trascrizione non vuole avere la pretesa di sostituirsi alle parole originali di Sua Santità il Dalai Lama, ma vuole semplicemente essere un riassunto di tali Insegnamenti.

Chiediamo scusa per le inevitabili interruzioni nella continuità del discorso e per l’elaborazione eccessivamente sintetica di alcune parti del suddetto testo.

Dalai Lama Insegnamenti – “Allenare la mente”

Premessa importante: Nelle pagine che qui seguono riportiamo gli insegnamenti del 14° Dalai Lama ripresi dal suo sito ufficiale e tradotti “liberamente e così come sono” per tutti voi. Considerate che non avendo alcuna esperienza delle pratiche e della terminologia buddiste, può essere possibile che troviate dei modi di tradurre piuttosto “alla lettera” ovvero non del tutto appropriate o conformi al modo di pensare/intendere buddista.

Ce ne scusiamo fin da ora sperando comunque di aver interpretato al meglio il messaggio di fondo di tali insegnamenti che, se da un lato avvicinano  alle pratiche buddiste dandone il senso, nel loro insieme mi sembra costituiscano un messaggio molto potente che potremmo sintetizzare in questo modo: “Amare il prossimo è molto importante; comprendere i nostri simili aiuta a capire noi stessi e considerarli un valore arricchisce anche noi”. A tutti buona lettura.

Per ogni verso riportiamo un tasto mediante il quale si accede ai commenti di S.S. il Dalai Lama, relativi al verso stesso, che ne spiegano il contenuto.

I primi sette versi degli “Otto Versi per Allenare la Mente” vanno insieme con le relative pratiche, con la pratica del metodo e gli aspetti del percorso come la compassione, l’altruismo, l’aspirazione ad abbracciare Buddha e così via. Gli otto versi vanno insieme con le pratiche che sono dirette verso lo sviluppo della saggezza, aspetto del percorso.

I primi tre versi degli Otto Versi per Allenare la Mente insieme ai commenti di Sua Santità il Dalai Lama furono dati a Washington D.C. I rimanenti cinque versi sono stati estratti dal libro “Trasformare la Mente” di Sua Santità il Dalai Lama.

Dalai Lama – Insegnamenti – “Allenare la mente”

VERSO 1

Con una determinazione a raggiungere le mire più alte

A beneficio di tutti gli esseri viventi

Che sorpassa anche la gemma del desiderio-di-realizzazione,

Posso tenerli cari in ogni momento.

Queste quattro indicazioni sono indirizzate a coltivare il senso di amore per tutti gli esseri viventi. Il punto principale che questo verso enfatizza è lo sviluppo di una capacità che vi metta in grado di considerare gli altri essere viventi come preziosi, come gioielli preziosi. La questione che si potrebbe sollevare è: “perché abbiamo bisogno di coltivare il pensiero secondo cui gli altri esseri viventi sono preziosi e di valore?”.

Per un verso possiamo dire che gli altri esseri viventi sono veramente la sorgente principale di tutte le nostre esperienze di gioia, di felicità, di prosperità, e non solo in termini di nostri rapporti quotidiani con la gente. Possiamo vedere che tutte le esperienze desiderabili a noi care o a cui aspiriamo, dipendono dalla cooperazione e interazione con gli altri essere viventi. È un fatto ovvio. Allo stesso modo, dal punto di vista di un devoto in cammino, molti degli alti livelli di realizzazione che potete raggiungere ed il progresso che potete fare nel vostro viaggio spirituale, dipendono dalla collaborazione e dalla interazione con gli altri esseri viventi. Inoltre, allo stato risultante della vicinanza a Buddha, le attività di vera compassione di un buddha possono venire spontaneamente senza alcuno sforzo solo in relazione ad un essere vivente, poiché questi sono i destinatari ed i beneficiari di quelle attività illuminanti. Così si può vedere che gli altri esseri viventi sono, in un certo senso, la vera sorgente della nostra gioia, della nostra prosperità e della nostra felicità. Le gioie basilari e una vita confortevole fatta di cibo, alloggio, vestiario e amicizia dipendono tutto da altri esseri viventi, come sono la fama e la rinomanza. I nostri sentimenti di benessere e senso di sicurezza dipendono dalle percezioni che gli altri hanno di noi e della loro affezione per noi. È quasi come se l’affezione umana fosse la vera base della nostra esistenza. La nostra vita non può aver inizio senza affetto, e il nostro sostentamento, la nostra crescita e così via, dipendono tutti da esso. Per raggiungere la calma mentale, più avete il senso di cura per gli altri, più profonda sarà la vostra soddisfazione. Io penso che nel momento in cui si sviluppi in voi quel senso di cura per gli altri, questi vi appariranno più positivi. E questo è a causa dei vostri atteggiamenti. Per altro verso, se respingete gli altri, questi vi appariranno in modo negativo. Un’altra cosa che mi sembra piuttosto chiara è che nel momento in cui pensate solo a voi stessi, la focalizzazione della vostra mente si restringe e a causa di questo restringimento, le cose sconfortanti possono appare enormi, impaurirvi e farvi sentire schiacciati dalla tristezza. Nel momento in cui pensate agli altri con senso di amore, comunque, la vostra mente si allarga. Da questo angolo di visuale più allargato i vostri stessi problemi appariranno insignificanti, e questo fa una grande differenza. Se avete un senso di cura amorevole per gli altri, manifesterete una dolce forza interiore a dispetto della vostra situazione difficile e dei problemi. Con tale forza i vostri problemi vi sembreranno meno significativi e preoccupanti. Superando i vostri problemi e prendendovi cura degli altri, acquisite forza interiore, auto-fiducia, coraggio, ed un più grande senso di calma. Questo è un esempio di quanto un modo di pensare possa fare veramente la differenza.

La Guida al Modo di Vivere di Bodhisattva (Bodhicaryavatara) dice che c’è una differenza di fenomeno tra il dolore che avvertite quando assumete su di voi i dolori di altri e quelli che vi colpiscono direttamente in quanto vostre proprie sofferenze. La prima contiene un elemento di disagio poiché dividete il dolore di altri; comunque, come fa notare Shantideva, c’è anche una certa stabilità poiché, in un certo senso, state accettando volontariamente quel dolore. Nella partecipazione volontaria del dolore di un altro c’è forza e  un senso di fiducia. Ma nel secondo caso, quando subite il vostro proprio dolore e le vostre sofferenze, c’è un elemento di involontarietà, e a causa della perdita di controllo da parte vostra, vi sentite deboli e completamente sopraffatti. Negli insegnamenti buddisti sull’altruismo e la compassione, sono usate certe espressioni come: “Non si dovrebbe far caso al proprio benessere ma aver caro quello degli altri”.  È importante comprendere queste disposizioni che riguardano la pratica di condividere volontariamente il dolore di qualcun altro e di soffrire nel loro stesso contesto. Il punto fondamentale è che se non avete la capacità di amare voi stessi, allora semplicemente non ci sono basi su cui costruire un senso di attenzione verso gli altri. L’amore per voi stessi non vuol dire che siate in debito con voi stessi. Piuttosto la capacità di amarsi o di essere gentili con se stessi dovrebbe essere basato su un fatto molto fondamentale dell’esistenza umana: che tutti noi abbiamo la tendenza a desiderare la felicità e ad evitare la sofferenza. Una volta che questa base esista in relazione a se stessi, si può estenderla agli altri esseri viventi. Quindi quando negli insegnamenti troviamo prescrizioni quali “Non fate caso al vostro benessere ma abbiate caro quello degli altri”, dovremmo concepirli in un contesto di auto-educazione secondo l’ideale della compassione. Questo è importante se non ci concediamo ai modi egocentrici di pensare con indifferenza all’impatto della nostra azione sugli altri essere viventi. Come ho detto prima, possiamo sviluppare una capacità di considerare preziosi gli altri esseri viventi riconoscendo che la loro parte gentile ha un ruolo nelle nostre esperienze di gioia, felicità e successo. Questa è la prima considerazione. La seconda considerazione è la seguente: attraverso l’analisi e la contemplazione giungerete a vedere che molte delle nostre miserie, sofferenze, e dolori risultano realmente da un atteggiamento egocentrico che si cura del proprio benessere a spese di altri, mentre molta della gioia, felicità e senso di sicurezza, nella nostra vita ci vengono da pensieri ed emozioni che nutriamo verso il benessere degli altri esseri viventi. Contrastare queste due forme di pensiero ed emozione ci convince della necessità di considerare prezioso il benessere degli altri.

C’è un altro fatto che riguarda il coltivare pensieri ed emozioni che ritengono importante il benessere degli altri: l’interesse e i desideri propri sono realizzati come un di cui del lavoro fatto per gli altri esseri viventi. Come fa notare Je Tsong Khapa nel suo “Great Exposition of the Path to Enlightenment ” – Grande Esposizione della Strada all’Illuminazione – “mentre il seguace si impegna in attività e pensieri focalizzati e diretti verso il raggiungimento del bene altrui, la realizzazione delle sue aspirazioni arriverà come conseguenza, senza che abbia fatto uno sforzo in più”. Alcuni di voi possono aver già sentito l’osservazione, che ho fatto spesso, che in un certo senso i bodhisattvas, i seguaci compassionevoli della strada di Buddha, sono gente prudentemente egoista, mentre la gente come noi è pazzamente egoista. Pensiamo a noi stessi e non badiamo agli altri, e il risultato è che rimaniamo sempre infelici e viviamo momenti miserevoli. È ora di avere più larghe vedute, non è vero? Io credo di si. A un certo punto la questione che emerge è: “Possiamo veramente cambiare il nostro atteggiamento?”.

La mia risposta sulla base della mia piccola esperienza è, senza esitazione, “Si!” Questo mi è quasi chiaro. La cosa che chiamiamo “mente” è una cosa peculiare. A volte è duro e difficile cambiare. Ma con uno sforzo continuo e la convinzione basata sulla ragione, le nostre menti sono a volte oneste. Quando sentiamo veramente che c’è il bisogno di cambiare, allora le nostre menti possono cambiare. Desiderando e pregando da soli non cambierà la vostra mente, ma con convinzione e ragione, la ragione basata in definitiva sulle vostre stesse esperienze, potrete trasformare la vostra mente. Il tempo qui è un fattore poco importante, e col tempo i nostri atteggiamenti mentali possono cambiare sicuramente. Un punto che dovrei toccare qui riguarda alcune persone, specialmente quelli che si vedono molto realistici e pratici, che sono troppo realisti e ossessionati dalla praticità. Questi possono pensare “Quest’idea di desiderare la felicità di tutti gli esseri viventi e l’idea di coltivare pensieri di desiderare il benessere di tutti gli esseri viventi sono irreali e troppo idealistici. Non contribuiscono in nessun modo alla trasformazione della mente di qualcuno o ad adottare qualche tipo di disciplina mentale, perché sono completamente incapaci di raggiungerli”. Alcuni possono pensare in questi termini e sentono che forse un approccio più efficace sarebbe quello di iniziare con un circolo chiuso di persone con cui si hanno relazioni dirette. Pensano che quest’ultimo (approccio) possa espandere ed incrementare i parametri. Pensano semplicemente che non ci sia uno scopo nel pensare agli esseri viventi perché di essi ce ne un numero infinito. Questi possono pensare di aver ragione nel sentire qualche tipo di connessione con i loro seguaci di questo pianeta, ma sentono che gli infiniti esseri viventi delle galassie e dell’universo non hanno nulla a che fare con le loro esperienze individuali. Possono chiedere: “Che scopo c’è nel provare a coltivare la mente che provi ad includere nella sua sfera ogni essere vivente?”. Per un verso può essere una giusta obiezione, ma quello che qui è importante è capire l’impatto di coltivare tali sentimenti altruistici.

Il punto è provare a sviluppare l’obiettivo di empatia con qualcuno in modo che possa estendersi ad ogni forma di vita che abbia la capacità di sentire dolore e felicità. È cioè un problema di definire un organismo vivente come essere capace di provare sentimenti. Questo modo di sentire è molto potente, e non c’è alcun bisogno di essere capaci di identificarlo, in termini specifici, con ogni singolo essere vivente in modo da essere efficaci. Si prenda, per esempio, la natura universale della temporaneità. Non è questo il modo di funzionare della mente. E allora è importate capire questo punto.

Per un primo verso, c’è un esplicito riferimento all’agente “IO”: “Posso io considerare sempre gli altri come preziosi?” Forse una breve discussione sulla comprensione buddista di quello a cui questo “IO” fa riferimento, a questo punto, potrebbe aiutarci. In generale, nessuno contesta che la gente – voi, io e altri – esista. Noi non discutiamo l’esistenza di qualcuno che subisce l’esperienza del dolore. Noi diciamo “Io vedo un certo tale” e “Io ascolto un certo tal altro” e usiamo costantemente il pronome della prima persona durante il nostro discorso. Non c’è alcuna contestazione sull’esistenza del livello convenzionale del “me stesso” che noi sperimentiamo nella vita di tutti i giorni. Il problema emerge, tuttavia, quando cerchiamo di capire che significano veramente quel “me stesso” o “IO”. Nell’indagare questi quesiti potremmo provare ad estendere l’analisi un poco oltre la vita di tutti i giorni e potremmo, per esempio, ricollegarci alla nostra giovinezza. Quando vi ricollegate a qualcosa dalla vostra giovinezza, avete un senso di identificazione vicino allo stato del corpo ed un senso di “me stesso” a quell’età. Quando eravate giovani, c’era un “Me stesso”. Quando divenite più vecchi c’è un “Me stesso”. Ma c’è un altro “Me stesso” che pervade tutte le età. Un individuo può collegarsi alle sue esperienze di gioventù. Un individuo può pensare alle sue esperienze di un’età più avanzata, e così via. Possiamo vedere una stretta identificazione tra gli stati del nostro corpo ed il senso di “Me stesso”, la consapevolezza del nostro “IO”. Molti filosofi e, in modo particolare, i pensatori religiosi hanno cercato di capire la natura dell’individuo, quel “Me stesso” o “IO”, che mantiene la sua continuità nel tempo. Questo è stato importante specialmente nella tradizione indiana. Le scuole indiane non buddiste parlano di atman (Atman in sanscrito designa la vera essenza dell’essere umano, … la sua vera natura; Atman si può definire come Sat, Chit, Ananda, essenza, consapevolezza e beatitudine supreme) che è rozzamente tradotto come “Me stesso” o “anima” e in altre tradizioni religiose non indiane sentiamo parlare circa l’”anima” dell’essere e così via. Nel contesto dell’India, atman ha il significato specifico di un agente che è indipendente dagli aspetti empirici dell’individuo. Nella tradizione indù, per esempio, si crede nella reincarnazione, che ha ispirato molti dibattiti. Ho trovato anche riferimenti a certe forme di pratiche mistiche in cui ritroviamo una coscienza o l’anima di una persona morta di recente. Se dobbiamo avere il senso della reincarnazione, se dobbiamo avere il senso dell’anima che assume un altro corpo, allora dobbiamo ammettere che esiste un qualche tipo di agente che è indipendente dai fatti empirici dell’individuo.  Tutte le scuole indiane non buddiste sono più o meno arrivate alla conclusione che il “Me stesso” si riferisce realmente a questo agente indipendente o atman. Esso si riferisce a ciò che è indipendente dal nostro corpo e dalla nostra mente. Le tradizioni buddiste nel loro insieme hanno respinto il tentativo di porre il “Me stesso”, un atman o un’anima, indipendente dal nostro corpo e dalla nostra mente. Tra le scuole buddiste c’è convergenza a considerare che “Me stesso” o “IO” devono essere compresi in termini di aggregazione del corpo e della mente. Ma quello a cui ci riferiamo esattamente quando diciamo “IO” o “Me stesso”, ha fatto parte di opinioni divergenti anche tra i filosofi buddisti. Molte scuole buddiste sostengono che in ultima analisi dobbiamo identificare il “Me stesso” con la consapevolezza della persona. Attraverso l’analisi, possiamo mostrare come il nostro corpo sia un tipo di fatto contingente e che quello che continua ad esistere nel tempo sia realmente la consapevolezza dell’essere.

Naturalmente, altri filosofi buddisti hanno respinto l’ipotesi di identificare “Me stesso” con la coscienza di se. I filosofi buddisti come Buddhapalita e Chandrakirti hanno respinto l’impulso a ricercare un “Me stesso” eterno, conforme o durevole. Hanno argomentato che seguire questo tipo di ragionamento comporta, in un certo senso, essere succubi del bisogno radicato di aggrapparsi a qualcosa. Un’analisi della natura di “Me stesso” lungo queste linee, non produrrà nulla perché la questione che qui si analizza è di natura metafisica; è una questione di un “Me stesso” metafisico in cui Buddhapalita e Chandrakirti arguiscono che stiamo andando oltre il dominio della comprensione. Del linguaggio e dell’esperienza di tutti i giorni. Quindi “Me stesso”, persona e agente, devono essere compresi puramente in termini di come facciamo esperienza del nostro senso di “Me stesso”. Non dovremmo andare oltre il livello della comprensione convenzionale di “Me stesso” e della persona. Dovremmo sviluppare una comprensione della nostra esistenza in termini di esistenza del nostro corpo e della nostra mente così che “Me stesso” e la persona siano in qualche modo compresi come designazioni dipendenti dalla mente e dal corpo. Chandrakirti, ha usato l’esempio di una carrozza nel suo Guide to the Middle Way (Madhyamakavatara) – Guida alla Via di Mezzo. Quando nell’analisi considerate il concetto di carrozza, non troverete mai un tipo di carrozza metafisica o sostanzialmente reale che sia indipendente dalle parti che costituiscono la carrozza. Ma questo non significa che la carrozza non esiste. Allo stesso modo, quando considerate l’analisi di “Me stesso” e della sua natura, non potremo trovare un “Me stesso” indipendente dalla mente e dal corpo che costituiscono l’esistenza dell’individuo o dell’essere. Questa comprensione del “Me stesso” come essere originato in modo dipendente deve essere esteso anche alla nostra comprensione degli esseri viventi.

Gli altri esseri viventi sono, ancora una volta, designazioni che dipendono dall’esistenza fisica e mentale. L’esistenza fisica e mentale è basata sull’insieme dei componenti psicofisici degli esseri.

Tratto da Insegnamenti del Dalai Lama il 19/01/2010

Dalai Lama – Insegnamenti – “Allenare la mente”

VERSO 2

Ogni volta che interagisco con qualcuno,

posso vedere me stesso come il più piccolo tra tutti,

E, dal più profondo del mio cuore,

Rispettoso considero gli altri come superiori.

Il primo verso punta sulla necessità di coltivare il pensiero per cui tutti gli altri esseri viventi sono preziosi. Nel secondo verso, il punto che sarà fatto è che il riconoscimento  della preziosità di ogni altro essere vivente, ed il senso di affezione che sviluppate su queste basi, non deve essere interrato su un sentimento di pietà verso gli altri esseri viventi, cioè, sul pensiero che siano inferiori. Piuttosto, quello che deve essere enfatizzato è un senso di affezione per gli altri esseri viventi ed il riconoscimento della loro preziosità, basato sulla venerazione ed il rispetto in quanto esseri superiori. Vorrei enfatizzare qui come dovremmo considerare la compassione nel contesto buddista. Generalmente parlando, nella tradizione buddista, la compassione e la gentilezza amorevole sono visti come due facce della stessa medaglia. La compassione è detta essere il desiderio empatico che aspira a vedere l’oggetto della compassione, l’essere vivente, libero dalla sofferenza. La gentilezza amorevole è l’aspirazione che desidera la felicità sopra ogni altra cosa. In questo contesto, amore e compassione non devono essere confusi con l’amore e la compassione in senso tradizionale. Per esempio facciamo esperienze di un senso di solidarietà verso le persone che ci sono care. Avvertiamo un senso di compassione ed empatia per loro. Proviamo anche un amore forte per queste persone, ma spesso quest’amore o compassione è radicata in considerazioni auto-referenziali: “È mio amico così-così”, “la mia sposa”, “il mio bambino” e così via. Quello che succede con questi tipi di amore o compassione, che possono essere forti, è che sono tinti di affetto perché implicano considerazioni auto-referenziali. Una volta che c’è l’affetto c’è anche il potenziale perché emergano rabbia e odio. L’affetto va mano nella mano con la rabbia e l’odio. Per esempio, se la compassione di uno verso qualcun altro è tinto di affetto, questo può facilmente tramutarsi nel suo opposto emozionale dovuto al più piccolo incidente. Per cui, invece di desiderare che quella persona sia felice, potreste desiderare che quella persona sia infelice.

La vera compassione e il vero amore, in un contesto di educazione della mente, sono basati sul semplice riconoscimento che gli altri, proprio come se stessi, aspirano naturalmente ad essere felici e a superare la sofferenza, e che gli altri, proprio come se stessi, hanno il diritto naturale a raggiungere quelle aspirazioni basilari. L’empatia che sviluppate verso una persona, basata sul riconoscimento di questo fatto fondamentale, è la compassione universale. Non c’è alcun elemento di pregiudizio, nessun elemento di discriminazione. Questa compassione è possibile che sia estesa a tutti gli esseri viventi, nella misura in cui essi siano capaci di provare dolore e felicità. Così, la caratteristica essenziale della vera compassione è che è universale e non discriminante. Come tale, educare la mente a coltivare compassione, nella tradizione buddista, significa innanzi tutto coltivare un pensiero sempre imparziale, o di serenità, verso tutti gli esseri viventi. Per esempio, potete riflettere sul fatto che una certa persona può essere vostra amica, un vostro parente, e così via in questa vita, ma che questa persona può essere stata, da un punto di vista buddista, il vostro peggiore nemico in una vita passata. Allo stesso modo, applicate lo stesso tipo di ragionamento a qualcuno che considerate vostro nemico: sebbene questa persona possa essere negativa verso di voi e sia nemica in questa vita, lui o lei potrebbe essere stato il vostro miglior amico in una vita passata, o potrebbe essere stato un vostro parente, e così via. Dalla riflessione sulla natura fluttuante delle relazioni di uno con ogni altro e anche sulla possibilità che tutti gli esseri viventi possano essere amici e nemici, sviluppate questo atteggiamento di imparzialità o serenità.

La pratica di sviluppare o coltivare serenità implica una forma di distaccamento, ma è importante capire ciò che questo distacco significhi. A volte, quando la gente sente della pratica buddista del distaccarsi, pensa che il Buddismo propugni l’indifferenza verso tutte le cose, ma non è questo il caso. Innanzi tutto, nel coltivare il distaccarsi, uno potrebbe dire che evita di farsi coinvolgere dalle emozioni discriminanti gli altri che sono basate su considerazioni di distanza o vicinanza. Voi vi preparate a coltivare una compassione sincera estendendola a tutti gli altri esseri viventi. L’insegnamento buddista sul distaccarsi non significa sviluppare una capacità di disimpegno o di indifferenza dal mondo o dalla vita.

Muovendosi per altro verso, penso che sia importante capire l’espressione “Posso vedere me stesso più piccolo di tutti gli altri” nel giusto contesto. Certamente non è come dire che dovreste impegnarvi in pensieri che vi condurrebbero ad una più bassa autostima, o che dovreste perdere tutte le speranze e sentirvi abbattuti, pensare “Sono il più piccolo di tutti. Non ho capacità, non posso fare nulla e non ho alcun potere”. Questo non è il significato di piccolezza a cui qui si fa riferimento. Il riferimento a se stessi come il più piccolo rispetto ad altri deve essere concepito in termini relativi. Parlando in generale, gli esseri umani sono superiori agli animali. Noi siamo dotati della capacità di giudicare tra giusto e sbagliato in senso morale, di pensare in termini di futuro e così via. Comunque uno potrebbe anche arguire che per altri aspetti gli esseri umani sono inferiori agli animali. Per esempio, gli animali possono non avere la capacità di giudicare tra giusto e sbagliato in senso morale e potrebbero non avere l’abilità di vedere a lungo termine le conseguenze delle loro azioni, ma nel regno animale esiste almeno un certo senso di ordine. Se guardate alla savana africana, per esempio, i predatori cacciano altri animali solo per necessità quando hanno fame. Quando non sono affamati, potete vederli coesistere quasi pacificamente. Ma noi esseri umani, nonostante la nostra capacità di giudicare tra giusto e sbagliato, qualche volta agiamo con pura avarizia. A volte ci impegniamo in azioni di pura indulgenza – uccidiamo per “sport”, diciamo, quando andiamo a caccia o a pesca.  Così, per un verso, qualcuno potrebbe arguire che gli esseri umani hanno dimostrato di essere inferiori agli animali. È in tali termini relativistici che possiamo considerarci più piccoli di altri. Una delle ragioni per cui usare il termine “più piccolo” è di enfatizzare che normalmente quando proviamo emozioni normali di rabbia, odio, forte attaccamento e avarizia, lo facciamo senza senso di costrizione. Spesso siamo incuranti che il nostro comportamento sugli altri esseri viventi.  Coltivando deliberatamente il pensiero di riferirsi agli altri in quanto superiori e degni della nostra riverenza, fornite a voi stessi un fattore restrittivo. Quindi, quando le emozioni si presentano, non saranno così potenti da causarvi indifferenza nell’impatto delle vostre azioni sugli altri essere viventi. È su queste basi che il riconoscimento degli altri come superiori a voi sia un suggerimento che abbia senso seguiate.

Tratto da Insegnamenti del Dalai Lama il 19/01/2010

Dalai Lama – Insegnamenti – “Allenare la mente”

VERSO 3

In tutte le mie azioni posso indagare nella mia mente,

E così come nascono le afflizioni mentali ed emozionali –

Che mettono in pericolo me stesso e gli altri –

Posso decisamente confrontarli e prevenirli.

Questo verso va al cuore di quella che potrebbe essere chiamata l’essenza della pratica del buddhadharma (insegnamenti del Budda n.d.t.).  quando parliamo di Dharma nel contesto degli insegnamenti buddisti, stiamo parlando del nirvana, o liberazione dalla sofferenza. Libertà dalla sofferenza, nirvana o cessazione sono il vero Dharma. Ci sono molti livelli di cessazione – per esempio, trattenersi dall’uccidere o dall’assassinio potrebbe essere una forma di Dharma. Ma questo non può essere definito specificatamente Dharma buddista perché trattenersi dall’uccidere è qualcosa che spesso qualcuno, che non sia religioso, può considerare la conseguenza per aver osservato la legge. L’essenza del Dharma nella tradizione buddista è quello stato di liberazione dalla sofferenza e dalle contaminazioni (Skt. klesha, Tib. nyonmong) che sono alla radice della sofferenza. Questo verso indica come combattere queste contaminazioni o emozioni e pensieri afflittivi. Qualcuno potrebbe dire che per un Buddista praticante, il vero nemico è costituito da questo nemico interno – queste contaminazioni emozionali e mentali. Sono queste afflizioni mentali ed emozionali che fanno strada a dolore e sofferenza. Il vero compito di un praticante il buddhadharma è di sconfiggere questo nemico interno. Poiché applicare antidoti a queste contaminazioni mentali ed emozionali giace nel cuore della pratica del Dharma ed è in un certo senso il suo fondamento, il terzo verso suggerisce che è molto importante coltivare il bene mentale sin dall’inizio. Altrimenti, se lasciate che le emozioni ed i pensieri negativi prendano posto dentro di voi senza alcun senso di restrizione, senza alcun riconoscimento della loro negatività, allora in un certo senso gli state dando libertà di regnare. Questi possono poi svilupparsi fino al punto di non riuscire neanche a contrastarli. Comunque se sviluppate la capacità di riconoscere la loro negatività, quando questi si manifesteranno, sarete in grado di allontanarli così come si sono presentati. Non dovete dar loro l’opportunità o lo spazio di svilupparsi in pensieri emotivi negativi pienamente fluttuanti. Il modo in cui questo terzo verso ci suggerisce di applicare l’antidoto è, penso, a livello della manifestazione e del sentire un’esperienza emozionale. Invece di andare alla radice dell’emozione in generale, quello che si sta suggerendo è l’applicazione di antidoti che siano appropriati a specifiche emozioni e pensieri negativi. Per esempio, per contrastare la rabbia, dovreste coltivare amore e compassione. Per contrastare i forti attaccamenti e oggetti dovreste coltivare pensieri sulle impurità di quegli oggetti, la loro natura indesiderabile, e così via. Per contrastare l’arroganza o l’orgogio di qualcuno, avete bisogno di riflettere sui vostri difetti in modo da fare strada al senso di umiltà. Per esempio, potete pensare a tutte le cose del mondo che voi ignorate completamente. Prendete l’interprete del linguaggio dei segni qui di fronte a me. Quando lo guardo e vedo la complessità dei gesti con cui esegue la traduzione, non ho idea di come continuerà e osservo che solo un’umile esperienza. Dalla mia esperienza personale, non appena ho il sentore di una piccola punta di orgoglio, penso ai computer. Per me è veramente un calmante!

Questi sono I primi tre versi degli Otto Versi di Insegnare alla Mente e commenti di Sua Santità il Dalai Lama che furono donati l’8 novembre 1998 a Washington D.C.

Tratto da Insegnamenti del Dalai Lama il 19/01/2010

Dalai Lama – Insegnamenti – “Allenare la mente”

VERSO 4

Quando vedo esseri con un carattere antipatico

Oppressi da forti negatività e sofferenze,

posso considerarli cari – perché rari da trovare –

come se avessi scoperto un tesoro prezioso!

Questo verso si riferisce al caso speciale di relazione con gente che sono socialmente emarginati, forse per via del loro credo, del loro aspetto, della loro indigenza o per colpa di qualche malattia. Chiunque pratichi la bodhichitta deve avere un’attenzione speciale per questa gente,come se incontrandoli, aveste trovato un vero tesoro. Invece di avvertire repulsione, un vero praticante di tali principi altruistici dovrebbe impegnarsi e sfidare la relazione. Infatti, il modo con cui interagiamo con la gente di questo tipo potrebbe dare grande impeto alla nostra pratica spirituale.

In tale contesto, vorrei portare il grande esempio dei fratelli e delle sorelle cristiani che sono impegnati  in professioni di cura e umanitarie  dirette specialmente agli emarginati della società. Un tale esempio dei nostri giorni è stata Madre Teresa che ha dedicato la sua vita alla cura degli indigenti. Essa esemplifica l’idea espressa in questo verso.

E’ a favore di questo punto che quando incontro I membri dei centri buddisti nelle varie parti del mondo,  spesso gli faccio notare che non è sufficiente per un centro buddista avere semplicemente programmi di insegnamento e meditazione. Ci sono, naturalmente, molti centri buddisti impressionanti, ed altri centri minori, dove ai monaci occidentali è stato insegnato così bene che sono in grado di suonare il clarinetto nel modo tradizionale del Tibet! Ma a loro enfatizzo anche la necessità di portare nei programmi delle loro attività la dimensione sociale e di cura, così che i principi presentati negli insegnamenti buddisti possano dare un contributo alla società.

Sono lieto di dire che ho sentito di alcuni centri buddisti che hanno cominciato ad applicare socialmente i principi buddisti. Per esempio, credo che in Australia ci siano centri buddisti che stano realizzando ospizi, aiutano i moribondi e si prendono cura dei pazienti con l’Aids. Ho anche sentito di centri buddisti impegnati in alcune forme di educazione spirituale nelle prigioni, dove parlano e offrono consulenza legale. Credo siano esempi importanti. È proprio una sfortuna quando questa gente, in particolare i carcerati, si sentono respinti dalla società. Non solo per loro è profondamente doloroso, ma anche da un punto di vista più generale, è una perdita per la società. Non diamo opportunità a questa gente perchè diano un contributo costruttivo alla società quando possiedono la potenzialità di agire in questo modo. Penso quindi che per la società sia importante nel suo insieme non respingere questi individui ma abbracciarli e venire a conoscenza del potenziale contributo che essi possono dare. In questo modo sentiranno di avere un posto nella società e cominceranno a pensare che potrebbero forse avere qualcosa da offrire. (Tratto da Insegnamenti del Dalai Lama il 19/01/2010, Dalai Lama – Insegnamenti – “Allenare la mente”)

VERSO 5

Quando altri, per gelosia

Mi trattano ingiustamente con abuso, calunnia e disprezzo,

Posso considerarmi sconfitto

E offrire loro la vittoria

La considerazione che qui viene fatta è che quando altri vi provocano, forse senza ragione o ingiustamente, invece di reagire in modo negativo, tanto senza ragione quanto per ingiustizia, invece di reagire in maniera negativa, come un vero praticante dell’altruismo dovreste dimostrarvi tolleranti verso di loro. Dovreste rimanere imperturbati da un simile  trattamento. Nel verso successivo impariamo che non solo dovremmo essere tolleranti verso tali persone, ma di fatto dovremmo vederli come nostri insegnanti spirituali. Leggiamo:

VERSO 6

Quando qualcuno che ho aiutato,

O in cui ho riposto molte speranze,

Mi maltratta in modi che mi feriscono molto,

Posso considerarlo ancora come mio prezioso insegnante.

Nel Shantideva’s Guide to the Bodhisattva’s Way of Life (Guida al Modo di Vivere di Bodhisattva – di Shantideva) si trova una lunga trattazione di come possiamo sviluppare questo tipo di capacità, e come possiamo attualmente imparare a vedere, coloro che perpetuano danni verso di noi, come nostri insegnanti spirituali. E ancora, nel terzo capitolo del Chandrakirti’s Entry to the Middle Way (Approccio di Chandrakirti alla Via di Mezzo), ci sono insegnamenti effettivi e profondamente spirituali sullo sviluppo della pazienza e della tolleranza.

(Tratto da Insegnamenti del Dalai Lama il 19/01/2010 Dalai Lama – Insegnamenti – “Allenare la mente”)

VERSO 7

Il settimo verso sintetizza tutte le pratiche che abbiamo visto in precedenza. Leggiamo:

In breve, posso offrire beneficio e gioia

A tutte le mie madri, sia direttamente che indirettamente,

Posso tranquillamente assumere su di me

Tutte le ferite e le pene delle mie madri.

Questo verso presenta una specifica pratica buddista conosciuta come “la pratica di dare e prendere” (tong len), ed è per mezzo della visualizzazione del dare e del prendere che pratichiamo uguaglianza e scambio tra noi stessi e gli altri.

“Cambiare noi stessi con gli altri” non dovrebbe essere preso in senso letterale cambiando se stessi in un altro e l’altro in se stessi. Questo è impossibile comunque. Ciò che si vuol dire qui è il capovolgimento delle capacità che uno ha normalmente  verso di se e gli altri. Noi tendiamo a riferirci a questo così detto “stesso” come nucleo prezioso al centro del nostro essere, qualche cosa che è veramente di valore da tenere caro, fino al punto da avere la volontà di trascurare il benessere degli altri. Di contro, la nostra disponibilità verso gli altri spesso somiglia all’indifferenza; nel migliore dei casi possiamo avere qualche preoccupazione per loro, ma questo può rimanere semplicemente a livello di pensiero o di emozione. Nel complesso siamo indifferenti verso il benessere degli altri e non lo prendiamo sul serio. Allora il punto di questa pratica particolare e di rovesciare questa capacità, così da ridurre l’intensità della nostra avidità e l’attaccamento che abbiamo verso noi stessi, e di tentare di considerare il benessere degli altri come significativo e importante.

Quando si approcciano pratiche buddiste di questo tipo, dove si suggerisce di assumere su di noi il male e la sofferenza, penso sia vitale considerarli con cura e apprezzarli nel loro contesto. Quello che attualmente qui viene suggerito è che se, nel processo di seguire la vostra strada spirituale e di imparare a pensare del benessere di altri, siete stati indotti a farvi carico di certe avversità oppure di sofferenze, allora dovreste essere totalmente preparati a questo. I testi non dicono che dovreste odiare o essere duri con voi stessi o voler attirare miserie su di voi in modo masochista. È importante sapere che non è questo il significato.

Un altro esempio che non dovremmo sbagliare ad interpretare è il verso di un famoso testo tibetano che recita: “Posso avere il coraggio da spendere, se necessario per l’eternità, in innumerevoli vite, anche nel più profondo del regno infernale”. Quello che qui si vuol dire è che il livello del vostro coraggio dovrebbe essere tale per cui se viene richiesta la vostra partecipazione al processo teso al raggiungimento del benessere degli altri, allora dovreste avere la buona volontà e l’impegno di accettare.

Una corretta comprensione di questi passaggi è molto importante perché altrimenti potreste usarli per rinforzare qualche sentimento di odio nei vostri confronti, pensando che se il “se stessi” è l’incarnazione dell’auto-centralità, uno dovrebbe bandire se stesso nell’oblio. Non dimenticate che alla fine, la motivazione che c’è nel desiderare di seguire un percorso spirituale, è quella di raggiungere la suprema felicità, così, mentre uno cerca la felicità per se stesso è portato anche a cercare la felicità per gli altri. Anche da un punto di vista pratico, per qualcuno che vuole sviluppare una vera compassione per gli altri, per prima cosa deve avere una base su cui sviluppare la compassione e questa base è la capacità di connettersi al proprio sentire e ad aver cura per il proprio stesso benessere. Se uno non è capace di fare questo, come può farlo per gli altri e sentirsi impegnato per loro? Aver a cuore gli altri significa avere a cuore se stessi.

La pratica di tong len, del dare e prendere, incapsula le pratiche dell’amore, della gentilezza e della compassione: la pratica del dare enfatizza la pratica dell’amore e della gentilezza mentre la pratica del prendere enfatizza la pratica della compassione.

Shantideva suggerisce un interessante modo di attuare questa pratica nella sua Guide to the Bodhisattva’s Way of Life (Guida al modo di vivere di Bodhisattva). È un immaginario che ci aiuta a riconoscere i difetti dell’auto-centrismo e ci fornisce dei metodi per contrastarli. Da un lato raffigurate il vostro normale “se stesso”, quello che è totalmente impermeabile al benessere degli altri e una incarnazione dell’auto-centrismo. Questo è quel “se stesso” che ha a cuore solo il suo benessere, fino al punto che ha sempre la volontà e l’arroganza di sfruttare gli altri per raggiungere i propri fini. Poi, per altro verso, immaginate tanti esseri che stanno soffrendo, senza alcuna protezione o rifugio. Potete focalizzare la vostra attenzione su individui specifici se lo desiderate. Per esempio, se desiderate immaginare qualcuno che conoscete bene e per cui provate affetto, e che sta soffrendo, allora potete assumere quella persone come oggetto specifico del vostro immaginario e dar corso all’intera pratica del dare e del prendere in relazione a lui o a lei. In un terzo luogo, vedete voi stessi come una terza persona in qualità di osservatore neutrale ed imparziale, che prova a valutare gli interessi più importanti del contesto. Isolando voi stessi nella posizione di osservatore neutrale rende più facile per voi vedere i limiti dell’auto-centrismo e vi fa realizzare quanto più giusto e più razionale sia la preoccupazione per voi stessi rispetto al benessere degli altri esseri viventi.

Come risultato di questo immaginario, cominciate a sentire lentamente un’affinità con gli altri ed una profonda empatia con le loro sofferenze e a questo punto potete cominciare a dar corso alla meditazione del dare e prendere.

Per eseguire la pratica meditativa del prendere, è sempre utile avere un altro immaginario. Per prima cosa, focalizzate l’attenzione sull’essere sofferente e provate a sviluppare ed intensificare la vostra compassione per loro fino al momento in cui sentite la loro sofferenza per lo più insopportabile. Allo stesso tempo, comunque, realizzate che non c’è molto che potete fare per aiutarli in senso pratico. Così per imparare a diventare più efficaci, con una motivazione compassionevole immaginate di assumere su di voi la loro sofferenza, la causa della loro sofferenza, i loro pensieri e le emozioni negativi e così via. Potete farlo immaginando tutte le loro sofferenze e negatività come un flusso di fumo scuro e immaginando che questo fumo si dissolva dentro di voi.

Nel contesto di questa pratica potete immaginare di dividere le vostre stesse positività con gli altri. Potete pensare a qualche azione meritoria di cui siete stati protagonisti, a qualcosa di potenzialmente positivo di sui siate dotati ed anche a qualche conoscenza spirituale o a qualcosa di intelligente che avete raggiunto. Inviateli agli altri esseri viventi così che anche loro possano beneficiarne. Potete fare questo immaginando le vostre qualità in forma sia di luce brillante, che di flusso di luce bianca penetrante gli altri esseri e assorbita al loro interno. Questo è il modo con cui praticare l’immaginario del dare e prendere.

Naturalmente, questo tipo di meditazione non ha un effetto materiale sugli altri poiché resta un immaginario, ma quello che produce è aiutarvi ad incrementare la vostra preoccupazione per gli altri e la vostra empatia con le loro sofferenze, mentre nel contempo  aiuta a ridurre i potere del vostro auto-centrismo. Questi sono i benefici della pratica.

Questo è come abituate la vostra mente a coltivare aspirazioni altruistiche di aiuto degli altri esseri viventi. Quando questo aumenta con l’aspirazione a raggiungere la piena illuminazione, allora avete realizzato il bodhichitta, cioè, l’intenzione altruistica di raggiungere la piena illuminazione per amore di tutti gli esseri viventi.

(Tratto da Insegnamenti del Dalai Lama il 19/01/2010 Dalai Lama – Insegnamenti – “Allenare la mente”)

VERSO 8

Nel verso finale leggiamo:

Tutto questo può rimanere incontaminato

Dalle macchie degli otto affanni terreni;

E posso, riconoscendo tutte le cose come illusioni,

Prive di aderenza, essere affrancato dalla schiavitù.

Le prime due righe di questo verso sono molto critiche per un vero praticante. Le otto preoccupazioni terrene sono atteggiamenti che tendono a dominare generalmente le nostre vite. Essi riguardano: sentire gioia quando qualcuno vi prega, deprimersi quando qualcuno vi insulta o sminuisce, sentirsi felici a fronte di un successo, essere depressi quando si fallisce, essere gioiosi quando si acquista ricchezza, sentirsi disperati quando si diventa poveri, essere lieti quando si è famosi e sentirsi depressi quando non si ricevono riconoscimenti.

Un vero praticante dovrebbe assicurarsi che la sua coltivazione di altruismo non è contaminata da questi pensieri. Per esempio, se, mentre sto tenendo questo discorso, ho nel mio retrocranio anche il più piccolo pensiero per cui spero che la gente mi ammiri, allora questo indica che la mia motivazione è contaminata da considerazioni terrene o da quello che i Tibetani definiscono le “otto preoccupazioni terrene”. È molto importante controllarsi ed assicurarsi che non sia il caso. Allo stesso modo, un praticante può applicare pensieri altruistici nella sua vita di tutti i giorni, ma, se del tutto improvvisamente prova orgoglio e pensa: “Ah, sono un grande praticante”, immediatamente le otto preoccupazioni terrene contaminano la sua pratica. Lo stesso vale se un praticante pensa: “Spero che la gente ammiri quello che sto facendo”, aspettandosi di ricevere un elogio per il grande sforzo profuso. Tutte queste sono preoccupazioni terrene che sciupano la sua pratica ed è importante assicurarsi che questo non succeda così che la nostra pratica sia pura.

Come potete vedere, le istruzioni che potete trovare negli insegnamenti lo-jong circa la trasformazione della mente sono molto potenti. Vi fanno pensare veramente. Per esempio c’è un passaggio che dice: “Io posso rallegrarmi quando qualcuno mi sminuisce e posso non aver piacere quando qualcuno mi prega. Se ho piacere degli elogi questo incrementa immediatamente la mia arroganza, l’orgoglio e la vanità; mentre se ho piacere delle critiche, questo almeno mi aprirà gli occhi circa i miei limiti. Questo, infatti, è un sentimento molto forte.

Fino a questo punto abbiamo discusso tutte le pratiche relative alla coltivazione di quello che è conosciuto come “bodhichitta convenzionale”, l’intenzione altruistica diviene pienamente illuminante a beneficio di tutti gli esseri viventi. Ora, le ultime due righe degli Otto Versi si riferiscono all’esercizio di coltivare  quello che è conosciuto come la “massima bodhichitta”, che si riferisce allo sviluppo della percezione della massima natura della realtà.

Sebbene la generazione di saggezza sia parte della bothisattva ideale, come incastonato nelle sei perfezioni, generalmente parlando, così come abbiamo visto in precedenza, ci sono due aspetti principali nel metodo-del-sentiero buddista e della saggezza. Entrambi sono inclusi nella definizione di illuminazione, che è la non-dualità della forma perfetta e della saggezza perfetta. La pratica della saggezza o della percezione mette in correlazione con la perfezione della saggezza mentre la pratica degli strumenti di abilità o dei metodi correla con la perfezione della forma.

Il sentiero buddista è presentato all’interno di un quadro generale di quelli che sono definiti Terra, Sentiero e Prima Realizzazione, noi sviluppiamo una comprensione della natura di base della realtà in termini di due livelli di realtà, la verità convenzionale e la massima realtà; questa e la terra. Poi, sul sentiero vero, comprendiamo gradualmente la meditazione e la pratica spirituale come un insieme in termini di non-dualità di forma perfetta e saggezza perfetta.

Le ultime due righe riportano:

E posso, riconoscendo tutte le cose come illusioni,

Prive di aderenza, essere affrancato dalla schiavitù.

Queste righe fanno veramente riferimento alla pratica di coltivare percezione nella natura della realtà, ma in superficie sembrano denotare un modo di rapportarsi al mondo durante lo stadio di post-meditazione. Negli insegnamenti buddisti o nella massima natura della realtà, si distinguono due periodi temporali distinti; uno è la vera meditazione sul vuoto, e l’altro è il periodo successivo alla sessione di meditazione quando vi legate attivamente al mondo reale così come era. Così, qui, queste due righe riguardano direttamente il modo di rapportarsi al mondo nel periodo post meditativo sul vuoto. Questo perché il testo parla di apprezzare come fosse un’illusione la natura della realtà, poiché questo è il modo in cui uno percepisce le cose quando sale, da una meditazione su un singolo punto, al vuoto.

A mio modo di vedere, queste righe costituiscono un punto molto importante poiché, a volte, la gente ha l’idea che quello che realmente conta sia una meditazione sul vuoto concentrata su un singolo punto all’interno di una sessione meditativa. Pongono molta meno attenzione su come questa esperienza dovrebbe essere applicata nei periodi post-meditativi. Comunque, penso che il periodo post- meditazione sia molto importante. La completa meditazione sulla massima natura della realtà è assicurarsi che non siate ingannati da apparenze che possono spesso deludere. Con una comprensione più profonda della realtà, potete andare oltre le apparenze e relazionarvi al mondo in un modo molto più appropriato, effettivo e realistico.

Spesso faccio un esempio di come dovremmo rapportarci ai vicini. Immaginate di vivere in una particolare zona della città dove l’interazione con i vostri vicini sia piuttosto impossibile e che sia meglio per voi interagire con loro piuttosto che ignorarli. Per farlo nel miglior modo dipende da quanto conoscete la personalità dei vostri vicini. Se, per esempio, l’uomo che vive nella porta accanto è pieno di risorse, allora comunicare ed avere rapporti amichevoli con lui sarà per voi un beneficio. Allo stesso tempo, se sapete che giù nel profondo può anche essere appena difficile, la sua conoscenza è preziosa se volete mantenere una relazione cordiale ed essere attenti se non volete che prenda sopravvento su di voi.  Allo stesso modo, una volta che avete una più profonda comprensione della natura della realtà, nella post-meditazione, quando effettivamente rientrate nel mondo, wi relazionerete alla gente e alle cose maniera molto più appropriata e realistica.

Quando il testo suggerisce di vedere tutti i fenomeni come illusioni, indica che la natura immaginaria delle cose può solo essere percepita se avete liberato voi stessi dall’attaccamento ai fenomeni come entità discrete indipendenti. Una volta che riuscirete a liberarvi da questi legami, la percezione della natura immaginaria della realtà verrà fuori automaticamente. Comunque le cose vi appaiano, sebbene sembrino avere un’esistenza indipendente ed oggettiva, in seguito alla vostra meditazione saprete che questo non è veramente il caso. Sarete consci che le cose non hanno una consistenza ed una solidità come sembra. Il termine “illusione” quindi, punta alla differenza tra come percepite le cose e come esse sono veramente.

Tratto da Insegnamenti del Dalai Lama. Articoli – Dalai Lama. Anteprima articoli e pensieri Dalai Lama

Il Buddhismo – Divisione dei veicoli – Dalai Lama

La letteratura buddhista classica cita vari sistemi di pensiero e pratica. l Tali sistemi sono detti yana, ovvero veicoli.

Oltre ai veicoli buddhisti, che sono: il veicolo della liberazione individuale (hynayana), il veicolo della salvezza uni versale (mahayana) e il veicolo del tantra (vajrayana), esisto no vari altri veicoli degli esseri umani e degli esseri divini. In questo contesto, veicoli degli esseri umani e degli esseri divi ni si riferisce a sistemi che indicano la pratica e i metodi essenziali sia per realizzare le maggiori aspirazioni di questa vita sia per ottenere una rinascita propizia come essere umano o come essere divino. Tali sistemi sottolineano la necessità di mantenere uno stile di vita eticamente corretto  fondato sull’astensione dal commettere azioni negative  poiché‚ il condurre vita retta e mantenere un buon comportamento è considerato il fattore più importante per assicurarsi una rinascita positiva.

Il Buddha ha parlato anche di un altro tipo di veicolo, il veicolo brahmanico, che comprende le tecniche di meditazione che mirano al raggiungimento della più elevata forma di vita possibile all’interno del samsara (il ciclo dell’esistenza condizionato dal karma). Tali tecniche com prendono, tra l’altro, il ritrarre la mente da tutti gli oggetti esterni, il che conduce a uno stato di concentrazione univoca. Gli stati meditativi esperiti come risultato dell’aver generato concentrazione univoca costituiscono stati di coscienza modificati che, per quanto riguarda i loro aspetti fenomenologici e anche il modo di rapporto con gli oggetti, corrispondono strettamente a stati di esistenza nei mondi della forma e senza forma.2   Dal punto di vista buddhista tutti i veicoli sono degni di rispetto, in quanto tutti hanno il potenziale per arrecare grande beneficio a un grande numero di esseri senzienti.

Ciò non significa, tuttavia, che tutti questi siano completi nel presentare una via che conduca alla piena liberazione dalla sofferenza e dal ciclo dell’esistenza. Vera libertà e vera liberazione possono essere raggiunte solo quando sia totalmente superata la nostra fondamentale ignoranza, la nostra abituale errata percezione della natura della realtà. Questa ignoranza è alla base di tutti i nostri stati emotivi e cognitivi ed è il fattore principale che ci lega al ciclo pe renne di vita e morte nel samsara. n sistema di pensiero e di pratica che presenta una via completa di liberazione da questa schiavitù è denominato veicolo del Buddha (buddhaydna).

Il veicolo del Buddha contiene due sistemi principali di pensiero e pratica: il Veicolo Individuale, o Hmayana, e il Veicolo Universale, o Mahayana. Il primo include il sistema Theravada, forma di buddhismo prevalente in molti paesi asiatici, per esempio Sri Lanka, Thailandia, Birmania, Cambogia e altri. La letteratura buddhista classica presenta due divisioni principali del Veicolo Individuale: il Veicolo degli Uditori e il Veicolo dei Realizzatori Solitari. Una fondamentale differenza tra il Veicolo Individuale e il Veicolo Univer sale consiste nella diversa visione della dottrina buddhista della non esistenza del s‚ e del suo raggio di applicazione.

Il Veicolo Individuale interpreta la visione della non esisten za del s‚ solo in rapporto alla persona o all’identità personale, e non in rapporto alle cose e agli eventi in generale; mentre nel Veicolo Universale tale principio non è confina to a quell’ambito limitato, ma abbraccia l’intero spettro dell’esistenza, tutti i fenomeni. In altre parole, il sistema del Veicolo Universale considera la non esistenza del s‚ un principio universale. Interpretato in questo modo, quel concetto acquista maggiore profondità. Secondo gli insegnamenti del Veicolo Universale, solo quando l’esperienza di non esistenza del s‚ è radicata dal praticante nell’interpretazione universale, l’esperienza stessa porterà all’eliminazione delle afflizioni mentali e degli stati di ignoranza ad esse sottesi. Eliminando tali stati di ignoranza possiamo tagliare la radice del samsara. Inoltre, una profonda esperienza di non esistenza del sé può anche condurre, in ultima analisi, alla piena illuminazione: uno stato di totale libertà dai condizionamenti sottili e dalle tendenze abituali ostruttive create dalla nostra errata interpretazione della natura della realtà. Il sistema di pensiero e pratica che presenta tale visione del s‚ viene denominato Mahayana, cioè Veicolo Universale.

Il Veicolo Tantrico, o Vajrayana, che la tradizione tibetana considera il veicolo più alto, è incluso nel Veicolo Uni versale. Oltre a pratiche meditative volte a potenziare la comprensione della vacuità e di bodhicitta,3 questo sistema comprende anche particolari tecniche avanzate per utilizzare i vari elementi del corpo fisico nella pratica meditati va, sulla base di sofisticate tecniche yoga che comportano il penetrare mentalmente i punti all’interno del corpo do ve sono localizzati i cakra, o centri dell’energia.

Grazie a questa sottile, raffinata coordinazione di mente e corpo, il praticante è in grado di accelerare il processo per arrivare alla radice dell’ignoranza e superare completamente i suoi effetti e condizionamenti, processo che culmina, infi ne, nel raggiungimento della piena illuminazione. L’impegnarsi in pratiche di meditazione che comportano la sottile coordinazione di elementi fisiologici e mentali del praticante è una caratteristica particolare e unica del Vei colo Tantrico.

Spiegherò ora brevemente il quadro storico del Buddhismo quale noi lo conosciamo. Secondo il pandit kashmiro gakya grl, che giunse in Tibet all’inizio del secolo XIII, il Buddha nacque in India circa 2500 anni fa. Ciò concorda con la posizione generalmente accettata dalla tradizione Theravada, ma, secondo alcuni studiosi tibetani, il Buddha apparve nel mondo più di 3000 anni fa.4 C’è poi una terza opinione che fa risalire la nascita del Buddha all’VIII secolo avanti Cristo. Riflettendo su queste contrastanti opinioni riguardo alla data forse più importante della storia del Buddhismo, trovo a volte piuttosto imbarazzante che non si sia ancora raggiunta l’unanimità su quando effettiva mente visse il maestro Buddha Sakyamuni!

Penso seria mente che sarebbe utile se, con tutto il rispetto necessario, si conducessero test scientifici sulle reliquie del Buddha ritenute autentiche. Queste reliquie si trovano in diversi paesi come l’India, il Nepal e il Tibet. Forse esperimenti scientifici che si avallassero delle risorse sofisticate della tecnologia e della chimica moderna sarebbero in grado di stabilire con un maggior grado di precisione le date dell’esistenza storica del Buddha. Ciò sarebbe utilissimo. Gli eruditi buddisti del passato si sono valsi soprattutto di strumenti logici e dialettici per dimostrare la veridicità della loro versione dei fatti relativi alla vita storica del Buddha. Data la natura del la questione, tuttavia, ritengo che tale genere di prove non possa mai essere definitivo.

Nonostante le contrastanti asserzioni sulla data di nascita del Buddha, la letteratura mostra generale accordo riguardo agli eventi principali della sua vita. Sappiamo che egli era in origine una persona normale, come noi, con tutti i difetti e le debolezze dell’essere umano. Nacque da una famiglia reale, si sposo’ ed ebbe un figlio. In seguito, tuttavia, la insoddisfacente natura di sofferenza della vita gli si rivelo’  nella forma di inaspettati incontri con persone afflitte da malattia, vecchiaia e morte.

Profondamente turbato da ciò che vedeva, il principe fin per abbandonare il palazzo paterno e rinunciare alla vita agiata e protetta che aveva condotto fino a quel momento. Inizialmente la sua reazione fu quella di adottare l’austero stile di vita dell’asceta, impegnandosi in una via spirituale che com portava grandi penitenze fisiche. In seguito, scopri’ che la vera via che allontana dalla sofferenza si trova in una via di mezzo tra gli estremi del severo ascetismo e del lusso indulgente con se stesso. La sua risoluta ricerca spirituale sboccio’ infine nel pieno risveglio, o illuminazione: lo stato di buddhità.

Sento che la storia della vita del Buddha ha grande significato per noi. Essa esemplifica le immense potenzialità e capacità che sono intrinseche alla natura umana. Mi pare che gli avvenimenti che portarono alla piena illuminazione del Buddha costituiscano un esempio degno e ispiratore per i suoi seguaci. In breve, la sua vita ci tra smette questo messaggio: Questo è il modo in cui dovreste percorrere il cammino spirituale. Tenete a mente che il raggiungimento dell’illuminazione non è compito facile. Esso richiede tempo, volontà e perseveranza. Perciò, fin dall’inizio, è fondamentale non illudersi che il cammino sia semplice e rapido.

In quanto apprendisti spirituali dovete essere preparati ad affrontare le difficoltà connesse a una vera ricerca spirituale, ed essere decisi a rispettare il vostro impegno e a mantenere salda la volontà. Dovete aspettarvi i molteplici ostacoli che necessariamente incontrerete sul cammino, e comprendere che la chiave di una pratica coronata da successo sta nel non perdere mai la determinazione. Tale fermo atteggiamento è molto importante. La storia della vita del Buddha, come abbiamo visto, è la storia di una persona giunta all’illuminazione attraverso un duro lavoro e una inflessibile dedizione. E un po’ ridicolo che noi, che seguiamo i passi del Buddha, possiamo a volte pensare di poter raggiungere la piena illuminazione con maggiore facilità e minore fatica! Il primo giro della ruota del Dharma

Tratto da “La via del Buddhismo Tibetano – SS Dalai Lama

Interdipendenza – Dalai Lama – Tratto da “Siddhi”

L’interdipendenza nasce quando una persona percepisce di essere vincolata ad altre

per il conseguimento di un obiettivo(vantaggio) comune a tutto e a tutti.

Una riflessione di Sua Santità il Dalai Lama sulla stretta interelazione che lega tutti gli esseri sulla Terra, tratta da Siddhi, periodico del Buddhismo Mahayana e rivista dell’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia.

Nella vita quotidiana siamo impegnati in innumerevoli e svariate attività e riceviamo numerosissimi input sensoriali.

Il problema del fraintendimento, che naturalmente può essere più o meno grave, nasce quasi sempre dalla nostra tendenza a isolare particolari aspetti di un evento o di un’esperienza e a vederli come se ne costituissero la totalità. Questo determina un restringimento della prospettiva e di conseguenza induce a false aspettative.

Quando invece prendiamo in esame la realtà in sé, ci rendiamo subito conto della sua infinita complessità e possiamo capire che il nostro modo di percepirla è spesso inadeguato. Se così non fosse, il concetto stesso di delusione sarebbe privo di significato. Se tutto si svolgesse sempre e secondo le nostre aspettative, non sapremmo neppure cosa sono l’illusione o il fraintendimento.

Come mezzo per prendere coscienza di tale complessità, trovo che il concetto di originazione dipendente (in tibetano ten del) così come è stato sviluppato dalla scuola di filosofia buddhista Madyamika (la Via di Mezzo), sia particolarmente utile. Secondo questa scuola possiamo comprendere la vera natura delle cose e degli eventi in tre modi diversi.

Al primo livello, ci si riferisce al principio di causa ed effetto, per cui l’origine di ogni cosa ed evento dipende da una complessa rete di cause e condizioni correlate. Questo ci induce a pensare che nessuna cosa (o evento) possa essere intesa come capace di entrare nell’esistenza o di rimanervi, di per se stessa. Per esempio, se prendo l’argilla e la modello, posso creare un vaso. Il vaso, quindi, esiste come effetto delle mie azioni. Al tempo stesso, è anche il prodotto di una miriade di altre cause e condizioni. Per esempio, la materia grezza è il risultato della combinazione dell’acqua e dell’argilla.

Ma possiamo spingerci oltre e considerare questi due componenti come il risultato della combinazione di molecole, atomi e altre minute particelle (che a loro volta dipendono da innumerevoli altri fattori). Ci sono poi le circostanze che mi hanno portato a decidere di fare un vaso e, inoltre, le condizioni che hanno operato insieme alle mie azioni nel momento in cui davo forma all’argilla. Il vaso è originato in modo dipendente. Tutti questi diversi fattori ci fanno capire che il mio vaso non può esistere indipendentemente dalle sue cause e condizioni.

Al secondo livello, ten del può essere inteso nei termini della dipendenza reciproca che lega le parti e il tutto. Senza le parti non può esserci il tutto; senza il tutto, il concetto di parti è privo di significato. L’idea del tutto è fondata sulle parti, ma le parti stesse devono essere considerate come interi che a loro volta comprendono parti.

Al terzo livello, tutti i fenomeni possono essere intesi come originati in modo dipendente in quanto, se li analizziamo, troviamo che, in definitiva, essi non possiedono un’identità indipendente. Possiamo comprenderlo dal modo in cui ci riferiamo a certi fenomeni. Per esempio, le parole ‘azione’ e ‘agente’ sono l’una il presupposto dell’altra. Lo stesso vale per ‘genitore’ e ‘figlio’. Si è genitori unicamente perché si hanno dei figli. Una figlia o un figlio vengono così chiamati solo in relazione al fatto che hanno dei genitori. Lo stesso rapporto di dipendenza reciproca si riscontra nei termini che usiamo per i mestieri o le professioni. Certe persone sono chiamate contadini per il fatto che lavorano la terra, i medici perché operano nel campo della medicina e così via.

Un altro modo, ancora più sottile, di giungere alla comprensione delle cose e degli eventi in termini di originazione dipendente è quello, per esempio, di chiedersi: che cosa è esattamente un vaso d’argilla? Nel momento in cui cerchiamo qualcosa da definire come la sua effettiva identità, ci rendiamo conto che la sua stessa esistenza – e, di conseguenza, quella di tutti gli altri fenomeni – è in qualche misura provvisoria e frutto di una convenzione. Quando ci chiediamo se la sua identità è determinata dalla sua forma, dalla sua funzione, dalle sue parti specifiche (vale a dire il fatto che sia composta da argilla, acqua e così via), ci rendiamo conto che il termine ‘vaso’ non è altro che una designazione verbale.

Per quel che riguarda i fenomeni mentali, anche qui riscontriamo che esiste una dipendenza. In questo caso tra colui che percepisce e il percepito.

La comprensione della realtà che ci viene suggerita dal concetto di originazione dipendente ci mette di fronte a una sfida importante. Ci sfida a vedere le cose e gli eventi meno in bianco o nero, più come una fitta rete di relazioni, difficili da scindere e fissare. E diventa difficile anche parlare in termini assoluti. Inoltre, se tutti i fenomeni dipendono da altri e nessuno può esistere in modo indipendente, dovremo ritenere che neppure il nostro io-sé, che abbiamo tanto a cuore, esiste come noi siamo soliti supporre.

In realtà, se indaghiamo in modo analitico sull’identità dell’io-sé, vediamo che la sua apparente solidità si dissolve anche più rapidamente del vaso di argilla o del momento presente. Infatti, mentre un vaso è qualcosa di concreto che possiamo effettivamente indicare, l’io-sé è più elusivo: la sua identità come costruzione artificiale appare subito evidente. Ci rendiamo conto che l’abituale netta distinzione che facciamo tra ‘io’ e gli ‘altri’ è un’esagerazione.

(di Sua Santità il Dalai Lama – tratto da “Siddhi“, periodico di Buddhismo Mahayana)

Uguali nella diversità – Dalai Lama

“Il fatto che esistano metodi e visioni differenti risponde alla natura e alle disposizioni dei vari esseri”.

Un articolo del Dalai Lama per spiegare come sia giusto che esistano diverse religioni: percorsi e linguaggi diversi per una unica meta

La distinzione tra bene e male non è un concetto assoluto, astratto: è esattamente il bene e il male che i nostri stati dell’essere, i nostri modi di pensare, producono in termini di benessere o malessere.

Il vero senso di una religione, di una spiritualità, è esattamente quello di preoccuparsi di fornire gli strumenti per sviluppare le qualità costruttive ed eliminare i pensieri distruttivi. Vi possono essere molte credenze religiose connesse a questa aspirazione di evitare la sofferenza e trovare il benessere. Queste credenze possono avere forme primitive o essere più complesse.

Da benefici estremamente terreni, limitati alla sopravvivenza, nacque un insieme di credenze attribuite alla luce, al potere del sole e degli elementi naturali; possiamo supporre che in esse non vi fossero inizialmente profondità filosofiche.

Queste religioni primitive, nei secoli, hanno cominciato a diventare più complesse, più profonde, incorporando delle visioni metafisiche e filosofiche sulla vita e il suo senso. Allora si è instaurata una visione più vasta, una conoscenza più profonda delle cose, dei meccanismi della felicità e della sofferenza.

Possiamo distinguere varie posizioni metafisiche che si sono sviluppare nel corso del tempo: alcune per esempio hanno affermato l’esistenza di un dio creatore, dando vita alle spiritualità teiste; altre si sono orientate verso la legge di causalità e non hanno formulato l’idea di un creatore… insomma, nelle diverse parti della Terra, riguardo le religioni si sono stabilite delle differenze di carattere metafisico.

Lasciando da parte le credenze primitive, con la loro venerazione degli elementi naturali e così via, se osserviamo le grandi religioni o le grandi spiritualità fondate su visioni metafisiche e filosofiche molto profonde, notiamo che tutte incoraggiano, stimolano e considerano essenziale lo sviluppo dell’amore verso il prossimo, l’amore altruista e la compassione. Non ce n’è una che, alla base, non ritenga essenziale sviluppare tali qualità.

L’accento sull’importanza dell’amore altruista e della compassione lo ritroviamo nel cristianesimo, nell’ebraismo, nell’islamismo, nelle varie correnti dell’induismo, nel Buddhismo, nel jainismo, insomma, in tutte le grandi religioni.

Per quanto riguarda le religioni monoteiste, è chiaro che quando si descrivono le qualità di un dio creatore o di un creatore in quanto principio assoluto, gli si attribuiranno tutte le qualità positive, come amore infinito, grande compassione, grande pazienza, e grandi qualità di conoscenza, fino all’onniscienza. Saranno quindi tali qualità attribuite che ispireranno la nostra fede in quella religione. Infatti, nessuno aspirerebbe ad affidarsi a un dio che sarebbe incessantemente in collera, che vorrebbe incessantemente nuocere alle proprie creature, che sarebbe irritato e geloso.

È chiaro che nella loro essenza, nel loro fondamento, le religioni, teiste o no, accordano un valore essenziale all’amore del prossimo e alla compassione. Il modo per coltivare amore e compassione, i motivi per cui dobbiamo farlo, differiscono a causa delle differenti filosofie e a seconda che si tratti di religioni teiste o no. La ragione di tante differenze filosofiche dipende dalle differenti condizioni umane, dalle differenti culture sviluppate nelle varie epoche e regioni della Terra. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che tutte le religioni, nelle loro diversità, mirano a migliorarci in quanto esseri umani; per questo è importante avvicinarsi a queste grandi religioni, conoscerle, promuovere rapporti armoniosi con i loro praticanti, evitare di comportarsi con ostilità.

È esattamente con lo scopo di esprimere l’altruismo nei confronti degli esseri umani, di fare il loro bene, che Buddha, per esempio, ha dato insegnamenti in apparenza contraddittori. In varie situazioni, di fronte a individui con facoltà intellettive, attitudini e disposizioni differenti, il Buddha ha dato risposte apparentemente in contraddizione tra loro. Perché? Perché nel suo desiderio di aiutarli a migliorare, in funzione del loro sviluppo e del loro bene, ha compreso che era necessario un insegnamento che tenesse conto di tale diversità.

Il fatto che esistano metodi e visioni differenti risponde alla natura e alle disposizioni dei vari esseri, perché gli esseri umani in questo senso non sono tutti uguali, non possono essere aiutati nello stesso modo, non si può dare a tutti gli stessi strumenti per migliorare in un modo unico, uguale per tutti. Le differenze tra le varie tradizioni religiose, quindi, non solo sono accettabili, ma auspicabili.

Come si possono conciliare, allora, le diversità filosofiche e metafisiche? Si può parlare di vari tipi di verità, ognuna in un certo senso valida, giustificata. Ma allora, con quale criterio scegliere? Come conciliare questa relatività con il fatto che quando noi personalmente percorriamo un sentiero spirituale abbiamo bisogno di credere a una sola verità, così come non possiamo andare nello stesso tempo in tutte le direzioni? Se guardate questo uditorio [Il discorso si è svolto davanti a oltre 6.000 persone, n.d.r.], vedrete che tra voi vi sono credenti e non credenti di diverse religioni, persone che applicano una pratica religiosa, ma tra loro la pratica non è la stessa, e persone che non hanno nessun credo religioso ma hanno una filosofia e una visione della vita.

È chiaro che qui, in questo momento, c’è una pluralità di credi e non-credi, è come uno specchio del mondo, una pluralità che è necessaria e benvenuta. Nello stesso tempo vedete bene che tutti noi manifestiamo rispetto gli uni per gli altri e che queste differenti visioni e fedi in questi giorni coabitano in modo armonioso.

Sul piano individuale, però, quando si tratta di percorrere il nostro cammino spirituale, quello che abbiamo scelto, dobbiamo concentrarci completamente su tale sentiero di trasformazione e apprezzare nel suo giusto valore l’aspetto di verità che riflette. Dobbiamo sentire, avere fiducia che ‘questa, per me, è la verità’, perché altrimenti faremo davvero fatica a sviluppare la forte determinazione necessaria a progredire sul nostro sentiero. Dovremmo quindi avere una convinzione personale, nel nostro intimo, che ‘questo è per me il modo in cui prende forma la verità’ e tuttavia rimanere aperti alla realtà di una pluralità di verità.

(Dalai Lama – Tratto da SIDDHI, periodico di Buddhismo Mahayana)

Impermanenza – S.S. Dalai Lama

I fenomeni sono dovuti a cause e condizioni perciò esistono. Noi utilizziamo l’addestramento in cui viene detto che tutti i fenomeni composti sono impermanenti, per impermanenza intendiamo due significati: una grossolana, quella con cui vediamo le cose decadere pian piano, ed una sottile, a livello microscopico.

Se guardassimo una nostra foto di qualche anno fa potremmo notare molti cambiamenti, vediamo qualcosa che esisteva ed ora non esiste più. Se al mattino ci rasiamo il capo, verso sera vediamo che qualcosa sta cominciando a ricrescere. Questi cambiamenti grossolani sono il risultato visibile di un continuo cambiamento microscopico. Il cambiamento che si manifesta in un anno non potrebbe apparire improvvisamente, in un attimo.

Tutto questo arriva gradualmente. Siamo testimoni di questo processo di cambiamento. Vediamo anche gli effetti del mondo tecnologico che ci circonda. Nuovi macchinari vengono prodotti e qui c’è un grande cambiamento progressivo.

La mente anche in un minuto vi son infiniti cambiamenti, ed anche in un secondo vi sono cambiamenti. Da queste esperienze è noto che non esiste alcun fenomeno che sia permanente. Anche se non vediamo l’impermanenza a livello sottile possiamo percepire quella a livello grossolano. Quindi tutte le cose sono della natura del cambiamento e nulla puo’ fermare questo cambiamento. Quando Buddha insegnò le 4 nobili verità parlò dei due livelli di impermanenza, grossolano e sottile. Tutti i fenomeni dipendono da cause.

Non è possibile che cause qualsiasi diano risultati qualsiasi. Da una causa deriva un risultato congeniale. Quindi c’è questo cambiamento legato alla natura dei fenomeni. Nel bodhisattvacharyavatara troviamo due cause: una a livello fisico ed una a livello mentale. Per quanto riguarda la realtà fisica il processo di causalità è iterabile all’infinito, vi sono cause sostanziali a loro volta causate da altre cause. Mentre a livello della mente la causa fondamentale è il karma. L’azione ed il risultato corrispondono all’intenzione che è la causa. A livello di causa l’elemento dell’intenzione è accompagnato dalla potenzialità di sperimentare un momento piacevole o spiacevole.

A livello finale per quanto riguarda gli esseri viventi la causa principale è l’intenzione. Gioia, felicità e sofferenza non sorgono dal nulla ma sorgono da precise cause e condizioni. Le azioni positive porteranno una intenzione che produrrà gioia. E’ importante considerare le azioni che vengono indotte dall’intenzione. Molte specie di uccelli sembrano essere più vicini alla comprensioni della legge di causa ed effetto. Ci sono fenomeni che sembrano non avere un risultato immediato. Non può esserci una relazione casuale ma sempre causale.

Nella nostra vita quotidiana ci sono così tanti fattori che se guardassimo una particolare relazione la possiamo analizzare con il passato ed il futuro, penetrando il significato di causa ed effetto otterremo una comprensione maggiore: tutti i fenomeni sono mutuamente designati. E’ sulle basi di questa profonda conoscenza che dobbiamo coltivare sempre di più la nostra relazione. Il livello sottile dell’originazione interdipendente è proprio questo: ogni fenomeno non esiste di per sé, senza dipendere da altri. Nelle scritture si trova molto chiaramente la linea di demarcazione che stabilisce qual è il livello di esistenza dei fenomeni che non è né eternalismo né nichilismo. Noi Buddisti siamo profondamente ammirati dalla fisica moderna quando scoprono che Nagarjuna aveva avanzato ipotesi sulla realtà simili a quelle che la scienza modern sta facendo oggi.

La scienza ha un punto di vista imparziale, senza preconcetti, è importante questo. L’onniscienza è molto rara e non si ottiene così facilmente ma è una cosa che va realizzata percorrendo il sentiero. Vi sono delle relazioni tra le cause e l’effetto. Quindi questa produzione viene vista in termini di cause, proprie cause, che portano ad una produzione specifica. Vi deve essere la causa completa perché vi sia un risultato completo.

Sua Santità il Dalai Lama

Tutte le cose non possono nascere dal nulla, tutti i fenomeni sorgono da cause e tutte le cause devono essere corrette per dar origine ad un’effetto coretto.

Vi sono persone più portate alla gelosia, rabbia ed anche se accumulano molte ricchezze non sono migliorate in questo senso. Se non si prende il Dharma nel proprio cuore tutti i titoli che si possono ricevere saranno sempre macchiati da queste emozioni disturbanti. Nel caso di qualcuno con meno riconoscimenti, una situazione materialmente meno agiata, può essere anche intellettualmente sfavorito ma se ha preso nel cuore anche poco Dharma pian piano otterrà una grande ricchezza spirituale.

Io non incoraggio il praticare divinità mondane per accumulare ricchezza materiale, è molto più importante accumulare ricchezze mentali che materiali, a volte le ricchezze materiali invece che essere di aiuto, potrebbero risultare di danno perché ci possono portare fuori strada. Gli agi materiali non potranno stare per sempre con noi nelle vite future mentre la pace interiore sì. Chiunque può accumulare la concentrazione, penetrare dentro se stessi, raggiungere il calmo dimorare, la visione speciale…dobbiamo impegnarci a studiare ed una volta che abbiamo deciso di imboccare questo sentiero lo dobbiamo praticare fino in fondo.

Nel Buddhismo parliamo di diverse discipline e la più importante è quella spirituale. Nei paesi sviluppati si inizia ad avere interesse tra gli scienziati alle emozioni. Nella tradizione non solo Buddhista ma anche sanscrita si motiva all’applicarsi allo studio graduale. Non tanto sulla recitazione dei testi ma sulla comprensione profonda dei testi fino ad arrivare ad una consapevolezza che abbraccia tutto il mondo interiore.

dal sito https://www.sangye.it Un monaco in laboratorio – Dalai Lama

26 aprile 2003

Un Monaco in laboratorio

Di S.S. il Dalai Lama

DHARAMSALA, India

Nel tempo attuale le emozioni distruttive come l’ira, la paura e l’odio stanno creando problemi devastanti in tutto il mondo. Giornali e telegiornali ogni giorno ci propongono macabri richiami della potenza distruttiva di queste emozioni; la domanda che ci dobbiamo porre quindi è: Cosa possiamo fare, ciascuno di noi, per sconfiggerle?”

Naturalmente queste emozioni disturbanti sono sempre state parte della condizione umana. Coloro che inclinano a ritenere che nulla potrà “curare” i nostri impulsi all’odio ed alla distruzione reciproca, direbbero che questo non è che il prezzo dell’essere umani. Questo punto di vista tuttavia rischia di indurre un atteggiamento di apatia nei confronti delle emozioni distruttive, e di farci concludere che la nostra distruttività è incontrollabile.

Personalmente credo che come individui noi abbiamo a disposizione mezzi pratici per vincere i nostri impulsi pericolosi – quegli impulsi che a livello collettivo possono condurre alla guerra ed alla violenza di massa. Come prova di questo non porto soltanto la mia pratica spirituale e la comprensione dell’esistenza umana basata sugli insegnamenti buddhisti, ma ora anche il lavoro degli scienziati.

Negli ultimi 15 anni mi sono impegnato in una serie di conversazioni con alcuni scienziati occidentali. Ci siamo scambiati informazioni su argomenti che andavano dalla fisica quantistica e la cosmologia alla compassione ed alle emozioni distruttive. Ne ho concluso che mentre i risultati della ricerca scientifica offrono una comprensione più approfondita in campi quali la cosmologia, sembra che le spiegazioni offerte dal Buddhismo, specialmente nel campo delle scienze cognitive, biologiche e del cervello, talvolta possono offrire agli scienziati di formazione occidentale una prospettiva nuova dalla quale riconsiderare il proprio campo di studio.

Può sembrare strano che una guida religiosa si occupi così tanto della scienza, ma gli insegnamenti Buddhisti enfatizzano l’importanza della comprensione della realtà, per conseguenza è importante prestare attenzione a quanto gli scienziati hanno scoperto sul mondo attraverso i loro esperimenti e le loro misurazioni.

Analogamente i Buddhisti vantano 2.500 anni di studio sul funzionamento della mente. Nei millenni, molti praticanti hanno portato avanti, possiamo dire, “esperimenti” sul modo di sconfiggere le nostre tendenze verso le emozioni distruttive.

Ho incoraggiato gli scienziati ad esaminare Tibetani che fossero praticanti spirituali avanzati, per verificare quali benefici queste pratiche possano portare anche al di fuori di un contesto religioso. Quello che ci si propone è di aumentare la nostra comprensione del mondo mentale, della coscienza e delle emozioni.

Per questo motivo ho visitato il laboratorio di neuroscienze del dott. Richard Davidson, all’Università del Wisconsin. Con l’utilizzo di strumenti che mostrano attraverso immagini ciò che accade nel cervello durante la meditazione, il dott. Davidson ha potuto studiare l’effetto delle pratiche buddhiste finalizzate alla coltivazione di compassione, equanimità e presenza mentale. Per secoli i buddhisti hanno sostenuto che queste pratiche sembrano rendere le persone più calme, più felici ed amorevoli, e sempre meno inclini alle emozioni distruttive.

A parere del dott. Davidson, la scienza ora può sostenere questa convinzione. Il dott. Davidson mi ha riferito che la comparsa di emozioni positive può essere dovuta a questo meccanismo: la meditazione di presenza mentale rafforza il circuito neurologico che calma una parte del cervello che agisce da innesco per paura e rabbia. Questo suggerisce la possibilità che ci sia modo di creare una sorta di separazione fra gli impulsi violenti del cervello e le nostre azioni.

Sono stati già eseguiti esperimenti che dimostrano come alcuni praticanti riescono a raggiungere uno stato di pace interiore anche in circostanze estremamente disturbanti. Il ott. Paul Elkman dell’Università della California a San Francisco mi ha riferito che rumori sgradevoli, dell’intensità anche di un colpo di fucile, non hanno provocato soprassalti nei monaci buddhisti che stava sottoponendo a test; il dott. Elkman dice di non aver mai visto nessuno restare tanto calmo in presenza di un rumore così forte.

Un altro monaco, abate di uno dei nostri monasteri in India, è stato sottoposto a test mediante l’uso dell’elettroencefalografo per misurare le onde cerebrali. Secondo il dott. Davidson, l’abate presentava la più elevata attività dei centri cerebrali associati alle emozioni positive mai misurata nel suo laboratorio.

Naturalmente, i benefici derivanti da queste pratiche non sono riservati ai monaci che trascorrono mesi in ritiro. Il dott. Davidson mi ha riferito sulle proprie ricerche con persone impegnate in lavori altamente stressanti. A queste, che non erano Buddhiste, venne insegnata la presenza mentale, uno stato caratterizzato da prontezza mentale in cui la mente non si lascia coinvolgere da pensieri e sensazioni, ma li lascia andare e venire, proprio come quando si osserva il fluire di un fiume. Dopo otto settimane, il dott. Davidson ha accertato che in queste persone, la parte del cervello coinvolta nella formazione di emozioni positive diventava progressivamente più attiva.

Le implicazioni sono chiare: il mondo di oggi ha bisogno di cittadini e di leaders capaci di lavorare per una crescente stabilità e di entrare in dialogo col “nemico”, a prescindere da eventuali violenze od aggressioni abbiano potuto subire.

Vale la pena di sottolineare che questi metodi non sono solo utili, ma anche economici: non occorrono farmaci o iniezioni, non è necessario diventare Buddhisti o adottare nessuna fede religiosa particolare. Ciascuno di noi ha il potenziale per condurre una vita pacifica e significativa. Sta a noi scoprire, quanto più possiamo, come fare.

Personalmente, cerco di applicare questi metodi nella mia stessa vita. Ogni volta che ricevo cattive notizie, specialmente i tragici racconti che spesso mi narrano i miei compagni Tibetani, naturalmente reagisco provando tristezza. Tuttavia, cercando di contestualizzare, ho scoperto che riesco a farvi fronte abbastanza bene. E solo raramente provo un sentimento di rabbia impotente, che non serve ad altro che ad avvelenare la mente e amareggiare il cuore, anche a fronte delle notizie peggiori.

Se riflettiamo, comprenderemo che nella nostra vita gran parte della sofferenza che proviamo è provocata non tanto da cause esterne quanto da eventi interni come il sorgere di emozioni disturbanti. Il miglior antidoto a questa rovina è accrescere la nostra capacità di fronteggiare queste emozioni.

Se l’umanità vuole sopravvivere, la felicità e l’equilibrio interiori sono essenziali; altrimenti la vita dei nostri figli e dei loro figli sarà con ogni probabilità infelice, disperata e di breve durata. Il progresso materiale certamente contribuisce – in qualche misura – alla felicità e ad una vita confortevole; ma questo non basta. Se vogliamo raggiungere un livello più profondo di felicità non dobbiamo trascurare il nostro sviluppo interiore.

La sciagura dell’11 settembre ha dimostrato che la tecnologia moderna e l’intelligenza umana guidata dall’odio possono portare a distruzioni immense.

Azioni così terribili non sono che sintomi violenti di uno stato mentale preda delle emozioni disturbanti. Per poter reagire con saggezza ed efficacia è necessario che siamo guidati da stati mentali più salutari, non solo per evitare di alimentare le fiamme dell’odio, ma così da rispondere abilmente. Faremmo bene a ricordare che la guerra contro l’odio ed il terrore può essere combattuta anche su questo fronte, il fronte dell’interiorità.

Tenzin Gyatso, S.S. il XIV Dalai Lama dal sito:  http://www.followingdalailama.it/index.htm

Retta intenzione

Senza retta intenzione, scienza e tecnologia, invece di aiuto, portano al mondo più paura e minacciano la distruzione globale.  Il pensiero compassionevole è molto importante per il genere umano.

(Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama)

Pazienza e tolleranza – Dalai Lama

“…la pazienza e la tolleranza non vanno considerate un segno di debolezza e di rinuncia, ma anzi, un segno di forza: la forza che proviene dalla saldezza interiore. Reagire a circostanze difficili con pazienza e tolleranza, anzichè con rabbia e odio, significa avere un controllo attivo delle cose, che è frutto di una mente forte e autodisciplinata.”

(Dalai Lama – “Il nostro bisogno d’amore“)

Il Mezzo di trasformazione – Dalai Lama

L’Amore è l’unico mezzo per trasformare gli esseri umani, anche quando sono pieni di collera e di odio. Manifestate tale Amore in continuazione, senza cessare, senza cedere, e li commuoverete.

(Dalai Lama – Om)

Kalachakra

Kalachakra Mandala

IL SIGNIFICATO DEL KALACHAKRA – parte 1

L’iniziazione del Kalachakra è il più grande rituale buddista regolarmente conferito da Sua Santità il Dalai Lama. È data tradizionalmente ad estesi gruppi di persone provenienti da tutto il mondo, ed è associata alla promozione della pace e della tolleranza universale. È considerata una benedizione speciale per tutti coloro che vi partecipano e per l’ambiente in cui è data.

La divinità di Kalachakra (yab-yum) simbolizza l’unione del principio maschile del metodo con quello femminile della saggezza.

La parola Kalachakra significa “La Ruota del Tempo”, in riferimento alla presentazione unica dei cicli del tempo all’interno del Kalachakra Tantra. Questa comprensione del tempo è usata in Kalachakra come base per un sistema finalizzato alla liberazione ed all’illuminazione. La parola tantra significa “un flusso inesauribile di continuità”. I fondamenti del Kalachakra, come tutta la pratica buddista, si basano sulle argomentazioni contenute nelle “Quattro Nobili verità”. Partendo da questo presupposto, per un praticante buddista, ricevere l’iniziazione significa detenere l’autorizzazione ad iniziare lo studio e la pratica del Kalachakra Tantra.

Impegnandosi nella pratica con la motivazione di liberare tutti gli esseri dalla sofferenza, e con le adeguate circostanze interne ed esterne, si possono conseguire all’interno della propria mente le realizzazioni del percorso verso l’illuminazione. Chi non è buddista, o chi, pur essendolo, non desideri prendere attualmente l’iniziazione, può riceverla ugualmente come benedizione. Per tutti coloro che vi partecipano, senza badare al livello di partecipazione, il Kalachakra rappresenta una preghiera universale per lo sviluppo dell’etica di pace e d’armonia in noi stessi e nell’umanità.

PARTECIPARE ALL’INIZIAZIONE DEL KALACHAKRA

Nonostante che le più alte meditazioni della tradizione di Kalachakra siano prerogativa d’una esigue schiera d’eletti, attualmente, a causa d’eventi ormai trascorsi e di quelli ancora da venire, per stabilire un forte rapporto carmico col Kalachakra nelle menti delle persone, vige la tradizione di conferire l’iniziazione di Kalachakra in occasione di grandi incontri pubblici.

Quali sono le qualificazioni di chi desidera ricevere la trasmissione per poi veramente praticare?

Il primo attributo è quello della bodhichitta, l’aspirazione altruistica alla più alta illuminazione, che beneficia gli altri ancor più di sé stessi.

Si dice che il miglior discepolo è chi coltiva l’esperienza ineffabile tramite la sua mente sublime, mentre il praticante dalle capacità intermedie riesce a coglierne un barlume nelle sue meditazioni, invece quello dalle capacità più limitate dovrebbe nutrire almeno un apprezzamento ed un interesse a svilupparlo.

La seconda qualificazione consiste nell’addestramento alla comprensione speciale: in altre parole, alla pratica sulla vacuità. In questo caso si ritiene che il miglior discepolo abbia acquisito un’esperienza precisa sulla natura della realtà ultima, come spiegato nelle scuole Madhyamaka o Yogachara del pensiero Mahayana. Il praticante dalle attitudini intermedie manifesta una comprensione corretta basata sullo studio e sulla razionalità in generale; mentre il discepolo dalle capacità più limitate dovrebbe esprimere almeno un grande apprezzamento ed interesse a conoscere i punti di vista filosofici di una delle due scuole suddette.

In più, un discepolo che chiede l’iniziazione di Kalachakra dovrebbe comunque manifestare una sensibilità ed un interesse per questa particolare tradizione tantrica.

Lo scopo dell’iniziazione consiste nel collocare degli speciali semi carmici nella mente del destinatario. Ma, se il ricevente non possiede una sufficiente apertura, generata da un sostanziale interesse spirituale, sarà molto difficile che questi semi possano attecchire. Chiunque desideri assistere ad una cerimonia d’iniziazione, soltanto per ricevere una benedizione, vale a dire per stabilire un rapporto carmico con il lignaggio di Kalachakra, sarà ammesso all’iniziazione se dimostrerà apprezzamento e rispetto per l’evento.

Kalachakra – parte 2

Kalachakra Mandala

IL SIGNIFICATO DEL KALACHAKRA – Chi desideri assistere all’iniziazione soltanto da questo punto di vista, non dovrebbe immaginare d’assumerne gli impegni o le discipline connesse all’iniziazione, quali i voti di bodhisattva o i precetti tantrici. Piuttosto, dovrebbero pensare d’essere presente solo per apprezzare l’energia spirituale sprigionata dall’evento. Anche in chi è animato più dalla fede che dalla conoscenza, nonostante non comprenda i principi del percorso che unisce il metodo e la saggezza, possono ancora saldamente attecchire i semi dell’iniziazione, a patto che il continuo mentale del ricevente manifesti almeno un’attitudine spirituale di fondo. Di conseguenza, questa è la qualificazione minima richiesta per assistere all’iniziazione di Kalachakra. Occorre aver generato almeno una interesse spirituale di base, anche se non si è un praticante convenzionale.

IMPEGNARSI NELLA PRATICA QUOTIDIANA

Coloro che assistono all’iniziazione, e desiderano dedicarsi ad un addestramento quotidiano, solitamente iniziano ad applicarsi nella pratica quotidiana del Guruyoga in sei sessioni, di cui è disponibile una varietà di testi. Questo tipo di pratica presenta, all’interno del contesto di una preghiera e di una meditazione di guruyoga, una revisione concisa dei punti salienti degli yoga dello stadio di generazione del sentiero di Kalachakra.

Le pratiche di questa natura sono chiamate “yoga in sei-sessioni” perché sono strutturate per essere recitate e visualizzate tre volte durante il giorno e tre volte alla notte. Se questo non risultasse possibile, dovremmo iniziare il nostro addestramento provando a leggere almeno una volta al giorno il guruyoga, meditandovi sopra, armonizzando il nostro continuo mentale con il significato delle parole.

Non dovremmo tuttavia limitare la nostra pratica soltanto a questo livello dell’attività. Per adempiere al meglio allo scopo dell’iniziazione, dovremmo assumere il metodo del guruyoga in sei-sessioni come la base della nostra meditazione quotidiana, per sforzarci, quindi, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, a provare ad espandere costantemente la nostra mente nell’approfondimento della pratica.

All’inizio, dovremmo studiare approfonditamente la natura del percorso di Kalachakra, la sua generazione e gli yoga dello stadio di completamento, prestando un’attenzione speciale a quegli aspetti che troviamo più difficili da capire. Allora, dopo aver udito e riflettuto sulle istruzioni, dovremmo provare a generare la loro realizzazione all’interno del nostro proprio flusso di essere.

Dal momento che le nostre menti sono condizionate da una modalità di percezione comune, che si rivela distorta ed alterata, dobbiamo dissolvere nella realtà del Dharmadhatu, la natura di vacuità, questi modelli impuri di pensiero e queste false concezioni. Adempiendo a questo compito, allora automaticamente realizziamo gli scopi del Buddhadharma, del Mahayana, del Vajrayana, i più alti yoga tanta, derivanti da conferimento dell’iniziazione di Kalachakra.

Anche se il percorso verso l’illuminazione è un’impresa in qualche modo rigorosa, ne vale proprio la pena. Perciò il saggio vi si applica, quindi, con tutte le sue forze.

da Glenn Mullin: “The practise of Kalachakra” pubblicato da “Snow Lion” www.snowlionpub.com

Agire per cambiare

Dovremmo ricordare che se una situazione non si può cambiare, non c’è motivo di preoccuparsi; nemmeno se si può cambiare c’è motivo di preoccuparsi: basta agire per cambiarla.

(Dalai Lama)

Non darti per vinto

Non darti mai per vinto; qualunque cosa accada, non cedere;

allarga il cuore;

nel tuo Paese si consuma troppa energia

per sviluppare la mente anziché il cuore.

Sii compassionevole non solo coi tuoi amici,

ma con tutti. Sii gentile.

Impegnati per portare pace nel tuo cuore e nel mondo.

Datti da fare per la pace e, ancora, ti dico: non cedere.

Qualunque cosa accada, qualunque cosa succeda intorno a te, non darti mai per vinto.

(Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama – perle.risveglio.net)

Atteggiamento d’amore

Anche nel caso degli individui, non c’è possibilità di arrivare alla felicità con la rabbia. Se in una situazione difficile si è interiormente disturbati, sopraffatti dal disagio mentale, allora nessun aiuto potrà venire dalle cose esterne. Tuttavia, se malgrado le difficoltà o i problemi esteriori si conserva interiormente un atteggiamento d’amore, di calore e di gentilezza, allora i problemi possono essere affrontati ed accettati.

(Dalai Lama)

Talvolta si crea

Talvolta si crea una potente impressione dicendo qualcosa e talvolta si crea un impressione altrettanto significativa tacendo.

(La via della tranquillita’ – S.S. Il Dalai Lama del Tibet)

l’Arte della Felicità – Dalai Lama

Se definiamo l’amore il desiderio genuino di saper felice un altro, ne consegue che ciascuno di noi in realtà ama se stesso: tutti noi desideriamo sinceramente la nostra felicità.

“Per raggiungere il nostro pieno potenziale umano, dobbiamo riuscire a bilanciare l’esigenza di intimità e unione con il senso di autonomia, ovvero con quel bisogno di rivolgere l’attenzione verso noi stessi che è parte integrante della nostra evoluzione di individui.”

Mutare prospettiva è spesso uno degli strumenti più potenti ed efficaci che abbiamo a disposizione quando ci confrontiamo con i problemi quotidiani della vita.

Sostanzialmente mutare prospettiva non vuol dire essere incoerenti oppure bandiere al vento. Ma se espressione della nostra voglia di capire gli altri rispecchiano la capacità di guardare la situazione da un altro punto di vista che in certe situazioni potrebbe essere anche quello del nostro peggiore nemico.

Cercare di capire il nostro nemico è anche segno di misericordia. Rispettare ed amare colui che ci ha fatto del male vuol dire far crescere in noi il seme della compassione. E se il mondo si dovesse riempire di compassione non ci sarebbe più posto per guerre, cattiverie e crudeltà.

(brani tratti da “L’Arte della felicità” – Dalai Lama)

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Che cosa occorre per essere felici?  Il denaro?  Il successo?  L’amore?  La stima degli altri?

E’ un interrogativo che da sempre l’uomo si pone senza sapersi dare una risposta. IlDalai Lama, rivolgendosi a tutti, indipendentemente dalle condizioni o dalle storie personali, dalla religione o dalla cultura, ci spiega come per raggiungere la felicità siano necessari una disciplina e un metodo interiori che ci aiutino a combattere gli stati mentali negativi (la rabbia, l’odio, l’avidità) e a coltivare gli stati mentali positivi (la gentilezza, la generosità, la tolleranza verso gli altri).

L’Arte della Felicità non attinge quindi a credenze religiose o verità assolute, ma è la conquista e l’esercizio di una pratica quotidiana, difficile ma possibile: conoscere se stessi, capire le ragioni degli altri, aprirsi al diverso e guardare le cose in modo nuovo.

In una parola, riscoprire la qualità umana per eccellenza: la compassione. Insegnandoci a trasformare le avversità in occasioni per conquistare una stabile e profonda serenità interiore, il Dalai Lama ci rivela così come sconfiggere l’ansia, l’insicurezza, la collera e lo sconforto, per vivere meglio con se stessi e con gli altri

Il significato della compassione

Vorrei spiegare il significato della compassione, che è spesso mal compreso. La vera compassione non si basa sulle nostre proiezioni e aspettative, ma, piuttosto, sui diritti dell’altro: indipendentemente dal fatto che l’altra persona sia un amico intimo o un nemico, nella misura in cui detta persona vuole pace e felicità e vuole evitare la sofferenza, su questa base possiamo sviluppare una genuina preoccupazione per i suoi problemi.

Questa è la vera compassione. Di solito, quando siamo interessati alla sorte di un amico intimo, chiamiamo quest’interesse “compassione”; ma non è compassione, è attaccamento.

Anche nel matrimonio, in quei matrimonï che durano poco, ciò avviene a causa dell’attaccamento.

I matrimoni durano poco a causa della mancanza di compassione; c’è solo attaccamento emotivo, basato sulle proiezioni e sulle aspettative.

Se l’unico legame fra amici intimi è l’attaccamento, allora anche un’inezia può indurre un mutamento delle proiezioni. Non appena le proiezioni cambiano, l’attaccamento scompare, perché quell’attaccamento era basato solo sulle proiezioni e sulle aspettative.

È possibile avere compassione senza attaccamento e, similmente, provare rabbia senza odio. Di conseguenza dobbiamo chiarire le distinzioni fra compassione e attaccamento e fra rabbia e odio.

Tale chiarezza ci è utile nella vita quotidiana e nell’impegno per la pace nel mondo. Ritengo che questi siano i valori spirituali di base per la felicità di tutti gli esseri umani, che siano credenti o meno.

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(Tenzin Gyatzo, XIV Dalai Lama – © copyleft perle.risveglio.net)

La natura della sofferenza

La natura della sofferenza

Nella cornice della pratica buddista,

riflettere sulla sofferenza

ha un’enorme importanza,

perche’ e’ comprendendo

la natura della sofferenza

che si matura una piu’ ferma risoluzione

a por termine a tutte le cause di sofferenza,

e ai comportamenti

come alle azioni insalutari

che la incrementano,

e ad aumentare l’entusiasmo necessario

per intraprendere quelle azioni

e comportamenti salutari

che arrecano felicita’ e gioia.

Dalai Lama

Il dolore insegna

Il dolore è l’ago della bilancia che sappia indicare le nostre aspettative, gli attaccamenti e quello a cui non sappiamo rinunciare. Il dolore è a volte rivestito d’orgoglio ; di quel sentirsi non rispettati o ascoltati. Il più grande dolore è la consapevolezza della nostra morte, della finitezza del nostro corpo; la malattia e quella di chi ci è caro; il dubbio di perderlo o di perderci senza poter più godere di beni materiali o quell’amore che conosciamo. Ma la nostra vita non è solo materia, non è solo quello che resta nella memoria di chi ci ama: abbiamo un percorso interiore, un significato, un’opporetunità di crescita interiore che ci possa condurre a fare per noi stessi e per gli altri un miglioramento che sia capace di incidere il senso del nostro passaggio qui. Noi non restiamo sempre qui; siamo destinati a tornare ” a casa” a lo faremo senza il peso di cose inutili ma con maggiore consapevolezza e ricchezza interiore se sapremo rendere produttiva la nostra vita.

Impermanenza – S.S. Dalai Lama

I fenomeni sono dovuti a cause e condizioni perciò esistono. Noi utilizziamo l’addestramento in cui viene detto che tutti i fenomeni composti sono impermanenti, per impermanenza intendiamo due significati: una grossolana, quella con cui vediamo le cose decadere pian piano, ed una sottile, a livello microscopico.

Se guardassimo una nostra foto di qualche anno fa potremmo notare molti cambiamenti, vediamo qualcosa che esisteva ed ora non esiste più. Se al mattino ci rasiamo il capo, verso sera vediamo che qualcosa sta cominciando a ricrescere. Questi cambiamenti grossolani sono il risultato visibile di un continuo cambiamento microscopico. Il cambiamento che si manifesta in un anno non potrebbe apparire improvvisamente, in un attimo.

Tutto questo arriva gradualmente. Siamo testimoni di questo processo di cambiamento. Vediamo anche gli effetti del mondo tecnologico che ci circonda. Nuovi macchinari vengono rodotti e qui c’è un grande cambiamento progressivo.

La mente anche in un minuto vi son infiniti cambiamenti, ed anche in un secondoo vi sono cambiamenti. Da queste esperienze è noto che non esiste alcun fenomeno che sia permanente. Anche se non vediamo l’impermanenza a livello sottile possiamo percepire quella a livello grossolano. Quindi tutte le cose sono della natura del cambiamento e nulla puo’ fermare questo cambiamento. Quando Buddha insegnò le 4 nobili verità parlò dei due livelli di impermanenza, grossolano e sottile. Tutti i fenomeni dipendono da cause.

Non è possibile che cause qualsiasi diano risultati qualsiasi. Da una causa deriva un risultato congeniale. Quindi c’è questo cambiamento legato alla natura dei fenomeni. Nel bodhisattvacharyavatara troviamo due cause: una a livello fisico ed una a livello mentale. Per quanto riguarda la realtà fisica il processo di causalità è iterabile all’infinito, vi sono cause sostanziali a loro volta causate da altre cause. Mentre a livello della mente la causa fondamentale è il karma. L’azione ed il risultato corrispondono al’intenzione che è la causa. A livello di causa l’elemento dell’intenzione è accompagnato dalla potenzialità di sperimentare un momento piacevole o spiacevole.

A livello finale per quanto riguarda gli esseri viventi la causa principale è l’intenzione. Gioia, felicità e sofferenza non sorgono dal nulla ma sorgono da precise cause e condizioni. Le azioni positive porteranno una intenzione che produrrà gioia. E’ importante considerare le azioni che vengono indotte dall’intenzione. Molte specie di uccelli sembrano essere più vicini alla comprensioni della legge di causa ed effetto. Ci sono fenomeni che sembrano non avere un risultato immediato. Non può esserci una relazione casuale ma sempre causale.

Nella nostra vita quotidiana ci sono così tanti fattori che se guardassimo una particolare relazione la possiamo analizzare con il pssato ed il futuro, penetrando il significato di causa ed effetto otterremo una comprensione maggiore: tutti i fenomeni sono mutuamenti designati. E’ sulle basi di questa profonda conoscenza che dobbiamo coltivare sempre di più la nostra relazione. Il livello sottile dell’originazione interdipendente è proprio questo: ogni fenomeno non esiste di per sé, senza dipendere da altri. Nelle scritture si trova molto chiaramente la linea di demarcazione che stabilisce qual è il livello di esistenza dei fenomeni che non è né eternalismo né nichilismo. Noi Buddhisti siamo profondamente ammirati dalla fisica moderna quando scoprono che Nagarjuna aveva avanzato ipotesi sulla realtà simili a quelle che la scienza modern sta facendo oggi.

La scienza ha un punto di vista imparziale, senza preconcetti, è importante questo. L’omniscienza è molto rara e non si ottiene così facilmente ma è una cosa che va realizzata percorrendo il sentiero. Vi sono delle relazioni tra le cause e l’effettto. Quindi questa produzione viene vista in termini di cause, proprie cause, che portano ad una produzione specifica. Vi deve essere la causa completa perchè vi sia un risultato completo.

Sua Santità il Dalai Lama

Tutte le cose non possono nascere dal nulla, tutti i fenomeni sorgono da cause e tutte le cause evono essere corrette per dar origine ad un’effetto coretto.

Vi sono persone più portate alla gelosia, rabbia ed anche se accumulano molte ricchezze non sono migliorate in questo senso. Se non si prende il Dharma nel proprio cuore tutti i titoli che si possono ricevere saranno sempre macchiati da queste emozioni disturbanti. Nel caso di qualcuno con meno riconoscimenti, una situazione materialmente meno agiata, può essere anche intellettualmente sfavorito ma se ha preso nel cuore anche poco Dharma pian piano otterrà una grande ricchezza spirituale.

Io non incoraggio il praticare divinità mondane per accumulare ricchezza materiale, è molto più importante accumulare ricchezze mentali che materiali, a volte le ricchezze materiali invece che essere di aiuto, potrebbero riultare di danno perchè ci possono portare fuori strada. Gli agi materili non postranno stare per sempre con noi nelle vite future mentre la pace interiore sì. Chiunque può accumulare la concentrazione, penetrare dentro se stessi, raggiungere il calmo dimorare, la visione speciale…dobbiamo impegnarci a studiare ed una volta che abbiamo deciso di imboccare questo sentiero lo dobbiamo praticare fino in fondo.

Nel Buddhismo parliamo di diverse discipline e la più importante è quella spirituale. Nei paesi sviluppati si inizia ad avere interesse tra gli scienziati alle emozioni. Nella tradizione non solo Buddhista ma anche sanscrita si motiva all’applicarsi allo studio graduale. Non tanto sulla recitazione dei testi ma sulla comprensione profonda dei testi fino ad arrivare ad una consapevolezza che abbraccia tutto il mondo interiore.

dal sito https://www.sangye.it

Un monaco in laboratorio – Dalai Lama

26 aprile 2003

Un Monaco in laboratorio

Di S.S. il Dalai Lama

DHARAMSALA, India

Nel tempo attuale le emozioni distruttive come l’ira, la paura e l’odio stanno creando problemi devastanti in tutto il mondo. Giornali e telegiornali ogni giorno ci propongono macabri richiami della potenza distruttiva di queste emozioni; la domanda che ci dobbiamo porre quindi è: Cosa possiamo fare, ciascuno di noi, per sconfiggerle?”

Naturalmente queste emozioni disturbanti sono sempre state parte della condizione umana. Coloro che inclinano a ritenere che nulla potrà “curare” i nostri impulsi all’odio ed alla distruzione reciproca, direbbero che questo non è che il prezzo dell’essere umani. Questo punto di vista tuttavia rischia di indurre un atteggiamento di apatia nei confronti delle emozioni distruttive, e di farci concludere che la nostra distruttività è incontrollabile.

Personalmente credo che come individui noi abbiamo a disposizione mezzi pratici per vincere i nostri impulsi pericolosi – quegli impulsi che a livello collettivo possono condurre alla guerra ed alla violenza di massa. Come prova di questo non porto soltanto la mia pratica spirituale e la comprensione dell’esistenza umana basata sugli insegnamenti buddhisti, ma ora anche il lavoro degli scienziati.

Negli ultimi 15 anni mi sono impegnato in una serie di conversazioni con alcuni scienziati occidentali. Ci siamo scambiati informazioni su argomenti che andavano dalla fisica quantistica e la cosmologia alla compassione ed alle emozioni distruttive. Ne ho concluso che mentre i risultati della ricerca scientifica offrono una comprensione più approfondita in campi quali la cosmologia, sembra che le spiegazioni offerte dal Buddhismo, specialmente nel campo delle scienze cognitive, biologiche e del cervello, talvolta possono offrire agli scienziati di formazione occidentale una prospettiva nuova dalla quale riconsiderare il proprio campo di studio.

Può sembrare strano che una guida religiosa si occupi così tanto della scienza, ma gli insegnamenti Buddhisti enfatizzano l’importanza della comprensione della realtà, per conseguenza è importante prestare attenzione a quanto gli scienziati hanno scoperto sul mondo attraverso i loro esperimenti e le loro misurazioni.

Analogamente i Buddisti vantano 2.500 anni di studio sul funzionamento della mente. Nei millenni, molti praticanti hanno portato avanti, possiamo dire, “esperimenti” sul modo di sconfiggere le nostre tendenze verso le emozioni distruttive.

Ho incoraggiato gli scienziati ad esaminare Tibetani che fossero praticanti spirituali avanzati, per verificare quali benefici queste pratiche possano portare anche al di fuori di un contesto religioso. Quello che ci si propone è di aumentare la nostra comprensione del mondo mentale, della coscienza e delle emozioni.

Per questo motivo ho visitato il laboratorio di neuroscienze del dott. Richard Davidson, all’Università del Wisconsin. Con l’utilizzo di strumenti che mostrano attraverso immagini ciò che accade nel cervello durante la meditazione, il dott. Davidson ha potuto studiare l’effetto delle pratiche buddhiste finalizzate alla coltivazione di compassione, equanimità e presenza mentale. Per secoli i buddhisti hanno sostenuto che queste pratiche sembrano rendere le persone più calme, più felici ed amorevoli, e sempre meno inclini alle emozioni distruttive.

A parere del dott. Davidson, la scienza ora può sostenere questa convinzione. Il dott. Davidson mi ha riferito che la comparsa di emozioni positive può essere dovuta a questo meccanismo: la meditazione di presenza mentale rafforza il circuito neurologico che calma una parte del cervello che agisce da innesco per paura e rabbia. Questo suggerisce la possibilità che ci sia modo di creare una sorta di separazione fra gli impulsi violenti del cervello e le nostre azioni.

Sono stati già eseguiti esperimenti che dimostrano come alcuni praticanti riescono a raggiungere uno stato di pace interiore anche in circostanze estremamente disturbanti. Il ott. Paul Elkman dell’Università della California a San Francisco mi ha riferito che rumori sgradevoli, dell’intensità anche di un colpo di fucile, non hanno provocato soprassalti nei monaci buddhisti che stava sottoponendo a test; il dott. Elkman dice di non aver mai visto nessuno restare tanto calmo in presenza di un rumore così forte.

Un altro monaco, abate di uno dei nostri monasteri in India, è stato sottoposto a test mediante l’uso dell’elettroencefalografo per misurare le onde cerebrali. Secondo il dott. Davidson, l’abate presentava la più elevata attività dei centri cerebrali associati alle emozioni positive mai misurata nel suo laboratorio.

Naturalmente, i benefici derivanti da queste pratiche non sono riservati ai monaci che trascorrono mesi in ritiro. Il dott. Davidson mi ha riferito sulle proprie ricerche con persone impegnate in lavori altamente stressanti. A queste, che non erano Buddhiste, venne insegnata la presenza mentale, uno stato caratterizzato da prontezza mentale in cui la mente non si lascia coinvolgere da pensieri e sensazioni, ma li lascia andare e venire, proprio come quando si osserva il fluire di un fiume. Dopo otto settimane, il dott. Davidson ha accertato che in queste persone, la parte del cervello coinvolta nella formazione di emozioni positive diventava progressivamente più attiva.

Le implicazioni sono chiare: il mondo di oggi ha bisogno di cittadini e di leaders capaci di lavorare per una crescente stabilità e di entrare in dialogo col “nemico”, a prescindere da eventuali violenze od aggressioni abbiano potuto subire.

Vale la pena di sottolineare che questi metodi non sono solo utili, ma anche economici: non occorrono farmaci o iniezioni, non è necessario diventare Buddhisti o adottare nessuna fede religiosa particolare. Ciascuno di noi ha il potenziale per condurre una vita pacifica e significativa. Sta a noi scoprire, quanto più possiamo, come fare.

Personalmente, cerco di applicare questi metodi nella mia stessa vita. Ogni volta che ricevo cattive notizie, specialmente i tragici racconti che spesso mi narrano i miei compagni Tibetani, naturalmente reagisco provando tristezza. Tuttavia, cercando di contestualizzare, ho scoperto che riesco a farvi fronte abbastanza bene. E solo raramente provo un sentimento di rabbia impotente, che non serve ad altro che ad avvelenare la mente e amareggiare il cuore, anche a fronte delle notizie peggiori.

Se riflettiamo, comprenderemo che nella nostra vita gran parte della sofferenza che proviamo è provocata non tanto da cause esterne quanto da eventi interni come il sorgere di emozioni disturbanti. Il miglior antidoto a questa rovina è accrescere la nostra capacità di fronteggiare queste emozioni.

Se l’umanità vuole sopravvivere, la felicità e l’equilibrio interiori sono essenziali; altrimenti la vita dei nostri figli e dei loro figli sarà con ogni probabilità infelice, disperata e di breve durata. Il progresso materiale certamente contribuisce – in qualche misura – alla felicità e ad una vita confortevole; ma questo non basta. Se vogliamo raggiungere un livello più profondo di felicità non dobbiamo trascurare il nostro sviluppo interiore.

La sciagura dell’11 settembre ha dimostrato che la tecnologia moderna e l’intelligenza umana guidata dall’odio possono portare a distruzioni immense.

Azioni così terribili non sono che sintomi violenti di uno stato mentale preda delle emozioni disturbanti. Per poter reagire con saggezza ed efficacia è necessario che siamo guidati da stati mentali più salutari, non solo per evitare di alimentare le fiamme dell’odio, ma così da rispondere abilmente. Faremmo bene a ricordare che la guerra contro l’odio ed il terrore può essere combattuta anche su questo fronte, il fronte dell’interiorità.

Tenzin Gyatso, S.S. il XIV Dalai Lama

dal sito:  http://www.followingdalailama.it/index.htm

Retta intenzione

Senza retta intenzione, scienza e tecnologia, invece di aiuto, portano al mondo più paura e minacciano la distruzione globale.  Il pensiero compassionevole è molto importante per il genere umano.

(Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama)

Pazienza e tolleranza – Dalai Lama

“…la pazienza e la tolleranza non vanno considerate un segno di debolezza e di rinuncia, ma anzi, un segno di forza: la forza che proviene dalla saldezza interiore. Reagire a circostanze difficili con pazienza e tolleranza, anzichè con rabbia e odio, significa avere un controllo attivo delle cose, che è frutto di una mente forte e autodisciplinata.”

(Dalai Lama – “Il nostro bisogno d’amore“)

Il Mezzo di trasformazione – Dalai Lama

L’Amore è l’unico mezzo per trasformare gli esseri umani, anche quando sono pieni di collera e di odio. Manifestate tale Amore in continuazione, senza cessare, senza cedere, e li commuoverete.

(Dalai Lama – Om)

Agire per cambiare

Dovremmo ricordare che se una situazione non si può cambiare, non c’è motivo di preoccuparsi; nemmeno se si può cambiare c’è motivo di preoccuparsi: basta agire per cambiarla.

(Dalai Lama)

Non darti per vinto

Non darti mai per vinto; qualunque cosa accada, non cedere;

allarga il cuore;

nel tuo Paese si consuma troppa energia

per sviluppare la mente anziché il cuore.

Sii compassionevole non solo coi tuoi amici,

ma con tutti. Sii gentile.

Impegnati per portare pace nel tuo cuore e nel mondo.

Datti da fare per la pace e, ancora, ti dico: non cedere.

Qualunque cosa accada, qualunque cosa succeda intorno a te, non darti mai per vinto.

(Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama – perle.risveglio.net)

Atteggiamento d’amore

Anche nel caso degli individui, non c’è possibilità di arrivare alla felicità con la rabbia. Se in una situazione difficile si è interiormente disturbati, sopraffatti dal disagio mentale, allora nessun aiuto potrà venire dalle cose esterne. Tuttavia, se malgrado le difficoltà o i problemi esteriori si conserva interiormente un atteggiamento d’amore, di calore e di gentilezza, allora i problemi possono essere affrontati ed accettati.

(Dalai Lama)

Talvolta si crea

Talvolta si crea una potente impressione dicendo qualcosa e talvolta si crea un impressione altrettanto significativa tacendo.

(La via della tranquillità – S.S. Il Dalai Lama del Tibet)

Note dai discorsi del Dalai Lama