Sogyal Rinpoche: Affrontare la morte.

Sogyal Rinpoche: È fondamentale riflettere con calma, e ripetutamente, che la morte è reale e viene senza preavviso.

Sogyal Rinpoche: È fondamentale riflettere con calma, e ripetutamente, che la morte è reale e viene senza preavviso.

Sogyal Rinpoche: Il grande inganno. Attiva pigrizia. Affrontare la morte.

Il grande inganno

La nascita di un uomo è la nascita del suo tormento. Più vive e più diventa stupido, perché la sua ansia di evitare la morte inevitabile si fa sempre più acuta. Che tristezza! Egli vive per ciò che rimane per sempre fuori della sua portata. La sua sete di sopravvivere nel futuro lo rende incapace di vivere nel presente. Chuang Tzu

Dopo la morte del mio maestro, ebbi la gioia di entrare in stretto contatto con Dudjom Rinpoche, uno dei più grandi maestri di meditazione mistici e yogi dei nostri tempi. Un giorno, mentre viaggiava in Francia con la moglie ammirando il paesaggio, passò vicino a un cimitero, ridipinto e infiorato di fresco. Sua moglie disse: “Rinpoche, guarda come tutto in Occidente è bello e pulito. Anche i luoghi dove tengono i cadaveri sono immacolati. In Oriente, neppure le case dei vivi sono altrettanto pulite”

“È vero”, rispose Dudjom Rinpoche. “Questo è un paese molto civile. Hanno abitazioni bellissime per i cadaveri morti, ma, l’hai notato?, hanno case bellissime anche per i cadaveri viventi”

Ogni volta che ripenso a questa frase, rifletto a quanto può essere vana e futile la vita se è fondata sulla falsa credenza nella continuità e nella permanenza. È vivendo così che diventiamo, come si espresse Dudjom Rinpoche, cadaveri viventi e inconsci.

Quasi tutti viviamo così, seguendo un programma prestabilito. Passiamo la giovinezza a scuola, troviamo un lavoro, incontriamo un’altra persona, ci sposiamo e abbiamo dei figli. Compriamo una casa, cerchiamo di riuscire negli affari, sogniamo la seconda casa o la seconda macchina. Andiamo in vacanza con gli amici. Facciamo piani per la pensione. I più gravi dilemmi che alcuni di noi si pongono sono dove andare in vacanza o chi invitare a Natale. Le nostre vite sono monotone, meschine, ripetitive, spese nella ricerca del banale. Come se non conoscessimo niente di meglio.

Il ritmo della nostra vita è così frenetico che l’ultima cosa a cui abbiamo tempo di pensare è la morte. Reprimiamo la segreta paura dell’impermanenza circondandoci sempre più di oggetti, sempre più di cose e di comodità, solo per ritrovarcene schiavi. Tutto il nostro tempo e la nostra energia vanno esauriti nell’occuparci delle cose. L’unico scopo nella vita diventa ben presto la preoccupazione di tenere tutto protetto e al sicuro. Quando arriva un cambiamento ci precipitiamo a cercare un rimedio, un’abile soluzione temporanea. Così le nostre vite si trascinano, finché una grave malattia o una disgrazia non ci scuotono dal torpore.

E neppure dedichiamo tempo e pensieri a questa stessa vita. Pensate a quanti, dopo anni di lavoro vanno in pensione per scoprire che non sanno cosa fare di se stessi, mentre invecchiano e la morte si avvicina. Nonostante tutte le chiacchiere sull’essere pratici, in Occidente essere pratici significa essere di vedute corte, ignoranti e molto spesso egoistiche. La nostra visione miope della vita, e di quest’unica vita, è il grande inganno, la fonte della desolazione del mondo moderno e del suo materialismo distruttivo. Nessuno parla della morte e del dopo morte perché siamo stati condizionati a credere che discorsi del genere servano soltanto a ostacolare il cosiddetto ‘progresso’.

Ma se il nostro desiderio più profondo è vivere e continuare a vivere, perché insistere ciecamente che la morte è la fine di tutto? Perché almeno non considerare la possibilità che vi sia un’altra vita? Se siamo tanto pragmatici come pretendiamo, perché non incominciare a chiederci seriamente: dove si trova il nostro vero futuro? Dopo tutto, ben pochi superano i cent’anni. E, dopo, si distende l’eternità, di cui non sappiamo niente…

ATTIVA PIGRIZIA

C’è una vecchia storia tibetana che mi piace molto. Si chiama: “Il padre di ‘Famoso come la luna'”. Un uomo molto povero era riuscito a mettere da parte un intero sacco di grano al prezzo di un duro lavoro. Fiero di se stesso, tornò a casa e appese il sacco con una corda a una trave per metterlo al sicuro dai topi e dai ladri. Come precauzione in più, la notte si stese sotto

il sacco. Ma la sua mente incominciò a vagare: “Se potessi vendere il grano in piccole quantità ne trarrei il massimo profitto. Con il ricavato comprerei un altro sacco di grano, lo venderei alle stesse condizioni e in breve tempo diventerei ricco. Diventerò una persona rispettata, le ragazze mi vorranno, sposerò una donna bellissima che mi darà un figlio… un maschietto… Come potremo chiamarlo?”. Il SUO sguardo, percorrendo la stanza, si posò sulla finestra che inquadrava la luna nascente.

“Che buon segno!”, pensò. “Che buon augurio! Un nome davvero ottimo! Lo chiamerò: ‘Famoso come la luna’. Mentre l’uomo si perdeva nelle sue fantasie, un topo era riuscito a salire fino al sacco e stava rosicchiando la corda.

Proprio mentre le parole ‘Famoso come la luna’ uscivano dalle labbra dell’uomo, il sacco precipitò e lo uccise sul colpo. Così, ‘Famoso come la luna’ non poté nascere.

Quanti di noi, come l’uomo della storia, sono trascinati via da ciò che mi viene da chiamare ‘attiva pigrizia’? Ci sono molti stili di pigrizia, orientali e occidentali. Lo stile orientale è stato portato alla sua perfezione in India. Consiste nello starsene tutto il giorno al sole senza fare nulla, evitando accuratamente qualunque lavoro o attività fruttuosa, bevendo il

tè, ascoltando dalla radio a tutto volume colonne sonore di film hindi e spettegolando con gli amici. La pigrizia occidentale è piuttosto diversa. Consiste nell’imbottirsi di attività compulsive, che non lasciano il tempo per occuparsi delle cose serie.

Se consideriamo la nostra vita vedremo quanti impegni inutili, le cosiddette ‘responsabilità’, accumuliamo per riempirla. Un maestro lo paragona a “sbrigare le faccende domestiche in sogno”. Diciamo a noi stessi di voler dedicare il nostro tempo alle cose importanti della vita, ma non c’è mai tempo. Anche il semplice alzarsi al mattino richiede un mucchio di attività: spalancare la finestra, rifare il letto, fare la doccia, lavarsi i denti, sfamare il cane o il gatto, lavare i piatti della sera prima, accorgersi che manca lo zucchero o il caffè, uscire a comprarlo, preparare la colazione… La lista è infinita. Poi ci sono i vestiti da sistemare, stirare, piegare e mettere via. Poi i capelli, il trucco… Guardiamo inermi le nostre giornate riempirsi di telefonate e programmi irrilevanti, di tali e tante responsabilità… o dovremmo forse chiamarle ‘irresponsabilità’?

È come se la nostra vita ci vivesse, come se possedesse una sua bizzarra propulsione che ci trascina via, infine sentiamo di non avere facoltà di decisione, di non tenerla sotto il nostro controllo. A volte tutto ciò ci fa star male, abbiamo gli incubi e ci svegliamo in un bagno di sudore chiedendoci: “Che cosa sto facendo della mia vita?”. Ma l’angoscia dura al massimo fino all’ora di colazione. Poi afferriamo la valigetta ventiquattrore, ed eccoci tornati dove eravamo.

Mi viene in mente un santo indiano, Ramakrishna, che disse una volta a un discepolo: “Se dedicassi alla pratica spirituale un decimo del tempo che sprechi a caccia di donne o di soldi, ti basterebbero pochi anni per essere illuminato!”. A cavallo del secolo visse un maestro tibetano chiamato Mipham, una specie di Leonardo da Vinci himalayano. Si dice che avesse inventato l’orologio, il cannone e l’aeroplano. Ma ogni volta che terminava un’invenzione la distruggeva, spiegando che non avrebbero prodotto che ulteriori distrazioni.

In tibetano il corpo si chiama lu, che significa ‘qualcosa che si lascia indietro, come i bagagli. Ogni volta che diciamo ‘lu’ ci ricordiamo di essere solo dei viaggiatori che hanno preso temporaneo rifugio in questa vita e in questo corpo. Per questo i tibetani non si distraevano sprecando tutto il tempo nella caccia alle comodità. Erano soddisfatti di avere da mangiare, abiti per coprirsi e un tetto sulla testa. Fare come noi, ossessionati dallo sforzo di migliorare la nostra condizione, può diventare un fine a se stesso e una distrazione senza senso. Una persona di buon senso si darebbe la pena di ridipingere la stanza d’albergo dove passerà la notte? C’è un consiglio di Patrul Rinpoche che mi piace molto: “Ricorda l’esempio di quella vecchia mucca, contenta di dormire nella stalla. Anche tu devi mangiare, dormire e cacare, è inevitabile. Tutto il resto non ti riguarda”.

A volte penso che il maggior successo della cultura moderna sia l’abilità di vendere il samsara e le sue sterili distrazioni. La società contemporanea mi sembra un inno a tutto ciò che allontana dalla verità, a tutte le cose che rendono difficile vivere per la verità e che scoraggiano persino dal credere nella sua esistenza. E pensare che tutto ciò proviene da una civiltà che afferma di adorare la vita e che invece le toglie ogni vero significato, che parla incessantemente di voler rendere la gente ‘felice’ mentre in realtà sbarra la strada alla fonte della vera gioia.

Questo samsara moderno si ciba dell’ansia e della depressione in cui ci alleva e ci educa, nutrendoci attentamente con una macchina consumistica che ha bisogno di renderci avidi per poter continuare a funzionare. Il samsara è altamente organizzato, versatile e sofisticato; ci assale da ogni angolo con la sua propaganda e ci costruisce intorno un inespugnabile ambiente di assuefazione. Più cerchiamo di sfuggirvi, più cadiamo nelle trappole che dispone ingegnosamente per noi. Come ha detto un maestro tibetano del XVIII secolo, Jikmé Lingpa: “Ipnotizzati dalla varietà delle percezioni, gli esseri vagano all’infinito smarriti nel circolo vizioso del samsara”.

Ossessionati da false speranze, sogni e ambizioni che promettono felicità ma portano in realtà all’infelicità, ci trasciniamo assetati in un deserto senza fine. E tutto ciò che il samsara ci offre è un bicchiere d’acqua salata, per farci provare ancora più sete.

AFFRONTARE LA MORTE

Quando saremo convinti di questa verità, potremo ascoltare le parole di Gyalsé Rinpoche:

Fare progetti per il futuro è come andare a pescare in una gola secca: niente va come vorreste. Lasciate perciò i piani e le ambizioni e se proprio dovete pensare a qualcosa, pensate all’incertezza dell’ora della vostra morte.

La più grande festa tibetana è il Capodanno, che riunisce in un tutt’uno il Natale, la Pasqua e il vostro compleanno. Patrul Rinpoche era un grande maestro, dalla vita ricca di eccentrici episodi che ne vivificavano l’insegnamento Invece di festeggiare il Capodanno e fare gli auguri per l’anno nuovo come chiunque altro, Patrul Rinpoche piangeva. Quando gli chiesero perché, rispose che un altro anno se n’era andato portando la gente più vicina di un anno alla morte, e ancora impreparata.

Pensate a ciò che è accaduto a noi tutti un giorno o l’altro. Camminiamo per la strada immersi in alti pensieri, rimuginando problemi fondamentali o semplicemente ascoltando il nostro walkman… arriva un’automobile e quasi ci travolge.

Accendete il televisore o aprite il giornale: vedete la morte dovunque. Le vittime di quell’incidente aereo o di quello scontro automobilistico si aspettavano di morire? Probabilmente davano la vita per scontata, come facciamo noi. Quante volte è successo che un conoscente o un amico morisse improvvisamente? Non occorre nemmeno essere malati per morire: il corpo può guastarsi di colpo e non funzionare più, proprio come la nostra automobile. Un giorno possiamo stare benissimo, per poi ammalarci e morire l’indomani. Canta Milarepa:

Mentre sei forte e in salute non pensi alla malattia che si avvicina e che si abbatterà con improvvisa violenza, come un fulmine.

Mentre sei immerso nelle cose mondane non pensi alla morte che si avvicina. Essa viene veloce come il tuono fracassandoti la testa.

A volte abbiamo bisogno di scuoterci e domandarci: “E se morissi stanotte? Cosa accadrebbe?”. Non sappiamo se ci sveglieremo domattina né dove. Se dopo aver espirato non riuscite più a inspirare, siete morti. È una cosa semplicissima. C’è un detto tibetano: “Se arriverà prima domani o la prossima vita, non possiamo saperlo”.

Alcuni famosi maestri contemplativi tibetani, all’ora di coricarsi, vuotavano la tazza e la deponevano capovolta accanto al letto, perché non potevano essere sicuri di risvegliarsi al mattino e di averne bisogno. Spegnevano anche il fuoco, senza preoccuparsi di lasciare le braci per il giorno dopo. Vivevano momento per momento nell’imminenza della morte.

Vicino all’eremo di Jikmé Lingpa c’era uno stagno, molto difficile da attraversare. Quando i discepoli si offrirono di costruire un ponte, rispose: “A che scopo? Chi può sapere se domani sera sarò ancora vivo per tornare a dormire qui?”.

Alcuni maestri cercano di svegliarci alla fragilità della vita ricorrendo a immagini ancora più dure. Suggeriscono di vederci come un condannato a morte che esce per l’ultima volta dalla cella, come un pesce che si dibatte nella rete o un animale in fila per essere macellato.

Altri invitano i loro studenti a rappresentarsi con vividezza la scena della propria morte, come parte di una calma e strutturata contemplazione: le sensazioni, il dolore, il panico, il senso di impotenza, l’angoscia dei cari, l’esame di quanto si è fatto e non si è fatto nella vita.

Il corpo disteso sul letto di morte, voci che sussurrano poche, ultime parole, la mente che guarda l’ultimo ricordo dileguare: quando arriverà anche per te questo dramma?

È fondamentale riflettere con calma, e ripetutamente, che la morte è reale e viene senza preavviso. Non fate come il piccione del proverbio tibetano, che passa la notte affaccendato qua e là, a fare e rifare il letto, e quando spunta l’alba non ha avuto il tempo di dormire. Un importante maestro del XII secolo, Drakpa Gyaltsen, dice: “Gli esseri umani passano la vita a preparare, preparare, preparare… solo per arrivare all’altra vita impreparati”.

Fonte: Il libro tibetano del vivere e del morire. http://www.esonet.org/wp-content/uploads/2013/05/136069562-Il-Libro-Tibetano-del-Vivere-e-del-Morire-Sogyal-Rinpoche.pdf