Sogyal Rinpoche: Il processo del morire.

Sogyal Rinpoche: Il processo del morire. Esaurimento della durata della vita. La morte prematura. Il bardo doloroso del morire. La posizione per morire. La dissoluzione esterna: i sensi e gli elementi: Acqua, Fuoco, Aria. La dissoluzione interna. La morte dei veleni. La base. La base della mente ordinaria. L’incontro di madre e figlia. La durata della luminosità fondamentale. La morte di un maestro. La radiosità intrinseca. Le quattro fasi della dharmata. Luminosità: il paesaggio di luce. Unione: le divinità.

Il processo del morire

Nelle parole di Padmasambhava: “Due sono le cause della morte degli esseri umani: la morte prematura e la morte dovuta all’esaurimento della durata della vita. La morte prematura può essere evitata con i metodi per l’allungamento della vita. Se invece la causa è l’esaurimento della naturale durata della vita, siete come una lampada in cui è finito l’olio. Non c’è modo per evitare la morte ingannandola: dovete prepararvi ad andare.

Vediamo meglio queste due cause: l’esaurimento della durata della vita e un incidente che causa una fine prematura.

ESAURIMENTO DELLA DURATA DELLA VITA

Il karma determina la durata della vita che, una volta esaurita, è assai difficile prolungare. Ma una persona esperta nelle pratiche più avanzate dello yoga può anche oltrepassare questo limite e allungare realmente la propria esistenza. Tradizionalmente si dice che alcuni maestri ricevono dai propri insegnanti l’indicazione della durata della loro vita. Ma sanno che, grazie al potere della pratica, alla purezza della connessione con gli studenti e alla pratica di questi ultimi, e grazie ai benefici prodotti con la loro opera, possono vivere anche più a lungo. Il mio maestro rivelò a Dilgo Khyentse Rinpoche che la durata della sua vita era di ottant’anni: il resto dipendeva dalla sua pratica. Visse ottantadue anni. A Dudjom Rinpoche vennero profetizzati settantatré anni, ma anch’egli morì a ottantadue.

La morte prematura

È detto che se siamo minacciati soltanto da un pericolo di morte prematura, possiamo allontanarlo facilmente, a patto di conoscerlo in anticipo. Negli insegnamenti del bardo e nei testi di medicina tibetana sono descritti i segni che preannunciano una morte imminente. Alcuni la segnalano mesi o anche anni prima, altri pochi giorni o settimane. Possono essere segni che appaiono sul corpo, sogni particolari e speciali premonizioni fondate sull’esame dell’ombra. Purtroppo solo persone molto esperte li sanno interpretare, avvertire del pericolo di morte e consigliare di ricorrere a pratiche di lunga vita prima che il pericolo diventi reale.

Qualunque pratica spirituale, in virtù dei ‘meriti’ che produce, contribuisce ad allungare la vita e fortifica la salute. Un buon praticante, mediante l’ispirazione e il potere della pratica, giunge a sentirsi psicologicamente, emotivamente e spiritualmente integro, e ciò rappresenta la massima sorgente di guarigione e la più sicura protezione dalle malattie.

Esistono comunque ‘pratiche di lunga vita’ che raccolgono l’energia vitale dagli elementi e dall’universo attraverso il potere della meditazione e della visualizzazione. Se la nostra energia è debole e non equilibrata, le pratiche per la longevità la rafforzano ed equilibrano, con il risultato di allungare la durata della vita. Allo stesso scopo servono anche altre pratiche, tra cui la consuetudine di comprare e liberare gli animali destinati al macello per salvargli la vita. È una pratica popolare in Tibet e nella regione himalayana dove si va, ad esempio, al mercato del pesce per comprare dei pesci e gettarli di nuovo in acqua. Si basa sulla logica karmica secondo cui uccidere o fare del male agli esseri abbrevia la propria vita, mentre proteggerli la allunga.

Il bardo doloroso del morire

Il bardo del morire si colloca tra il momento in cui contraiamo una malattia terminale o una condizione che porta alla morte e la cessazione del ‘respiro interno’. È detto ‘doloroso’ perché, se non siamo preparati a ciò che accadrà al momento della morte, potremo sperimentare una sofferenza terribile.

Il processo del morire a volte è doloroso anche per un praticante, in quanto perdere il corpo e questa vita potrebbe essere un’esperienza molto difficile. Comunque, se abbiamo ricevuto insegnamenti sul significato della morte, conosciamo l’immensa speranza che vi sarà quando sorgerà la Luminosità fondamentale al momento di morire. Purtroppo non abbiamo la certezza di poterla riconoscere, e per questo è essenziale familiarizzarci con la natura della mente praticando mentre siamo in vita.

Disgraziatamente non tutti hanno la fortuna di incontrare gli insegnamenti, restando ignoranti del significato della morte. Capire di colpo che la nostra vita, la nostra realtà sta scomparendo è un’esperienza terrificante. Non sappiamo cosa ci sta accadendo, dove andremo. Niente, nelle nostre precedenti esperienze, ci ha preparati a questo momento. Come sa chi si occupa di assistenza ai morenti, la sofferenza fisica sarà moltiplicata dall’ansia. Se non ci siamo presi cura della nostra vita, se abbiamo commesso azioni dannose e negative, proveremo rimpianto, colpa e paura. Ma anche una modesta familiarità con gli insegnamenti dei bardo ci darà un po’ di rassicurazione, ispirazione e speranza, anche se non li abbiamo mai praticati realizzati. Per i buoni praticanti, che sanno esattamente cosa accadrà, non solo la morte sarà meno dolorosa e terrificante ma rappresenterà il momento che aspettavano con piacere. Lo affronteranno con equanimità e persino con gioia. Dudjom Rinpoche raccontava la morte di uno yogi realizzato. Era malato da qualche giorno, quando il medico venne a tastargli il polso. Il medico capì che stava per morire, ma non sapeva se dirglielo. Si rabbuiò in viso e prese un’espressione solenne. Con entusiasmo infantile lo yogi insistette per conoscere il peggio. Il medico si decise a dirgli la verità, e parlò come per consolarlo. “Preparati, il momento è giunto”, disse con gravità. Con sua meraviglia lo yogi s’illuminò, eccitato come un bambino sul punto di aprire il regalo di Natale. “Davvero?”, chiese. “Che dolci parole, che meravigliosa notizia!”. Fissò lo sguardo nel cielo e morì prontamente in stato di profonda meditazione.

In Tibet era risaputo che morire di una morte spettacolare era il modo per diventare famosi, se non si era riusciti a diventarlo in vita. Ho sentito parlare di un uomo risoluto a morire miracolosamente e in grande stile.

Sapendo che spesso i maestri annunciano la propria morte e convocano i discepoli, fece lo stesso invitando gli amici a una festa attorno al capezzale. Sedette in posizione di meditazione in attesa della morte, ma non accadde nulla. Trascorse alcune ore, gli ospiti si stancarono di aspettare e decisero di incominciare a mangiare. Riempirono i piatti e, rivolti al futuro cadavere, dissero: “Sta morendo, non ha bisogno di mangiare”. Il tempo passava, la morte non arrivava e il ‘moribondo’ incominciò a provare appetito. Temendo che non sarebbe rimasto nulla, scese dal letto di morte e si unì al festino. La grande rappresentazione si era risolta in un fiasco umiliante.

Praticanti esperti possono bastare a se stessi al momento della morte, ma i praticanti comuni hanno bisogno della presenza del maestro o, se non è possibile, di amici spirituali che gli ricordino l’essenza della pratica e li ispirino a rimanere nella Visione.

Qualunque sia il nostro livello, è bene avere familiarità con il processo del morire. Se ne conosciamo gli stadi, sapremo che le strane e insolite esperienze che proveremo fanno parte di un processo naturale. L’inizio di questo processo segnala l’arrivo della morte, e ci stimola a stare in guardia Per un praticante ogni stadio è un segnale che ci dice ciò che sta accadendo e ci ricorda quale pratica applicare nei vari punti.

Il processo del morire

Il processo del morire è spiegato dettagliatamente in tutti gli insegnamenti tibetani. Consiste essenzialmente in due fasi di dissoluzione: una esterna, con la dissoluzione dei sensi e degli elementi; e una interna, con la dissoluzione degli stati grossolani e sottili del pensiero e delle emozioni. Ma prima occorre conoscere le componenti del corpo e della mente che si disgregano alla morte.

Tutta la nostra esistenza è prodotta dagli elementi: terra, acqua, fuoco, aria e spazio. Essi formano il corpo e lo mantengono in vita. Quando si dissolvono, moriamo. Abbiamo familiarità con gli elementi esterni, che condizionano il nostro modo di vita, ma la cosa più interessante è che gli elementi esterni interagiscono con gli elementi interni del corpo fisico. Le potenzialità e le caratteristiche dei cinque elementi sono presenti anche nella mente. La capacità della mente di fare da base per tutte le esperienze è la qualità della terra; la sua continuità e adattabilità è l’acqua; la chiarezza e la capacità di percepire è il fuoco; il suo movimento continuo è l’aria; la sua vacuità illimitata è lo spazio.

Per quanto riguarda la formazione del corpo fisico, un antico testo di medicina tibetana dice: “La coscienza dei sensi nasce dalla propria mente. La carne, le ossa, l’organo dell’odorato e gli odori si vengono a formare dall’elemento terra. Il sangue, l’organo del gusto, i gusti e l’umidità si vengono a formare dall’elemento acqua. Il calore, il colorito chiaro, l’organo della vista e le forme si vengono a formare dall’elemento fuoco. Il fiato, l’organo del tatto, le sensazioni tattili si vengono a formare dall’elemento aria. Le cavità del corpo l’organo dell’udito e i suoni si vengono a formare dall’elemento spazio”.

“In breve” scrive Kalu Rinpoche, “è dalla mente, che raggruppa le cinque qualità elementari, che si sviluppa il corpo. Anche il corpo fisico è permeato di queste qualità, ed è a causa del composto mente-corpo che percepiamo il mondo esterno, il quale a sua volta è composto delle cinque qualità elementari della terra, acqua, fuoco, vento e spazio”.

Il Tantrismo tibetano offre una descrizione del corpo decisamente diversa a quella cui siamo abituati. Ci presenta un sistema psicofisico composto di una rete dinamica di canali sottili, ‘venti’ o arie interne, ed essenze (rispettivamente nadi, prana e bindu in sanscrito; tsa, lung e tiklé in tibetano). Troviamo qualcosa di simile nei meridiani e nell’energia chiamata ch’i nella medicina e nell’agopuntura cinese.

I maestri paragonano il corpo umano a una città, i canali alle strade, i venti a un cavallo e la mente al cavaliere. I canali sottili sono 72.000, di cui tre principali: il canale centrale, che sale parallelo alla colonna vertebrale, e due canali laterali che si avvolgono attorno a quello centrale formando una serie di ‘nodi’. Lungo il canale centrale sono situate delle ‘ruote dei canali’, i chakra o centri di energia, donde i canali si aprono come le stecche di un ombrello.

Nei canali scorrono i venti, o arie interne. Ci sono cinque venti radice o principali e cinque rami o venti secondari. Ogni vento principale è collegato a un elemento ed è responsabile del funzionamento del corpo, mentre i venti secondari permettono il funzionamento dei sensi. I venti che scorrono nei canali diversi da quello centrale sono considerati impuri e attivano gli schemi mentali negativi e dualistici. I venti del canale centrale sono invece detti ‘venti di saggezza’.

Le ‘essenze’ sono contenute nei canali, e sono di colore rosso o bianco. La sede principale dell’essenza bianca è la corona della testa, e dell’essenza rossa è l’ombelico.

Nelle pratiche yogiche avanzate, lo yogi visualizza con estrema precisione tutto il sistema. Facendo entrare e dissolvendo i venti nel canale centrale con il potere della meditazione, un praticante può ottenere la diretta realizzazione della luminosità della natura della mente, la ‘Chiara luce’. Ciò è reso possibile dal fatto che la coscienza cavalca il vento. Quindi, dirigendo la mente in un punto preciso del corpo, il praticante vi fa confluire i venti. Si imita insomma ciò che avviene alla morte: i nodi dei canali si sciolgono, i venti si riuniscono nel canale centrale e viene sperimentata una momentanea illuminazione.

Dilgo Khyentse Rinpoche racconta la storia di un maestro di ritiri di un monastero nel Kham, amico dei suoi fratelli maggiori, che aveva portato a perfezione lo yoga dei canali, dei venti e delle essenze. Un giorno disse al suo attendente: “Tra poco morirò. Cerca nel calendario una data favorevole”. Benché turbato, l’attendente non osò contraddire il maestro. Esaminò il calendario e vide che il lunedì successivo le stelle erano favorevoli. “Lunedì è tra tre giorni”, disse il maestro. “Penso di potercela fare”. Quando l’attendente ritornò lo trovò seduto nella posizione di meditazione, così immobile che sembrava già morto. Il respiro era cessato, ma il polso continuava a essere appena percepibile. L’attendente decise di non intervenire e di aspettare. A mezzogiorno si udì il suono di una profonda espirazione. Il maestro ritornò alla normalità, parlò con lui con umore gioioso e chiese il pranzo, che mangiò con piacere. Aveva sospeso

il respiro per tutta la mattina trascorsa in meditazione. Il motivo era che la durata della vita è calcolabile in un numero preciso di respiri, e il maestro, sapendo la morte vicina, trattenne il respiro perché il numero stabilito non si esaurisse prima del giorno favorevole. Dopo mangiato, inspirò profondamente e trattenne il respiro fino a sera. Fece lo stesso il giorno dopo e quello dopo ancora. Arrivato il lunedì, chiese: “È oggi il giorno favorevole?”. “Sì”, rispose l’attendente. “Bene, oggi me ne andrò”. Quello stesso giorno, senza apparente malattia o difficoltà, il maestro morì durante la meditazione.

Avendo un corpo fisico, abbiamo anche quelli che sono conosciuti come i cinque skandha, gli aggregati che compongono tutta la nostra esistenza fisica e mentale. Gli skandha sono ciò che costituisce l’esperienza, il sostegno per l’attaccamento dell’io, la base per la sofferenza del samsara. Essi sono: la forma, la sensazione, la percezione, l’intelletto e la coscienza. Possono anche essere tradotti con: forma, sensazione, riconoscimento, formazione e coscienza. “Gli skandha rappresentano la struttura costante della psicologia umana, come pure il suo modello di evoluzione e il modello di evoluzione del mondo. Hanno inoltre a che fare con blocchi di vario tipo: spirituali, materiali ed emotivi”. La psicologia buddhista li esamina molto dettagliatamente.

Con la morte, tutti questi componenti si dissolvono. Morire è un processo complesso e interrelato, in cui elementi materiali e mentali reciprocamente interconnessi si disgregano simultaneamente. Con la dissoluzione dei venti vengono meno le funzioni corporee e sensoriali. I centri di energia collassano e, privati dei loro venti di sostegno, gli elementi si dissolvono in ordine che va dal grossolano al sottile. Il risultato è che ogni stadio della dissoluzione ha precisi effetti fisici e psicologici sul morente, che si riflettono in segni corporei esterni e in esperienze interne.

A volte mi chiedono: siamo in grado, noi persone comuni, di rilevare i segni esterni sul corpo di un amico o un parente che muore? I miei studenti che si dedicano all’assistenza ai morenti mi hanno riferito di aver potuto osservare negli ospedali i segni che descriverò tra breve. Comunque, gli stadi della dissoluzione esterna possono essere estremamente rapidi e non così appariscenti, e nel mondo moderno in genere chi sta vicino a un morente non è abituato a cercarli. Gli infermieri di un ospedale affollato si basano spesso sulla propria intuizione e su molti altri fattori quali il comportamento dei medici o dei familiari, o lo stato mentale del malato. Osservano anche, ma non in modo sistematico, alcuni segni fisici: un cambiamento di colore nell’incarnato, un certo odore molto spesso avvertibile, sensibili cambiamenti nella respirazione. Purtroppo i farmaci moderni possono mascherare i segni indicati dagli insegnamenti tibetani e, abbastanza stranamente, la ricerca occidentale non si occupa di questo importante aspetto. Ciò non dimostra forse la poca comprensione e lo scarso rispetto per il processo del morire?

La posizione per morire

Tradizionalmente si raccomanda di stare sdraiati sul fianco destro nella posizione del ‘leone dormiente’, la stessa nella quale morì il Buddha. La mano sinistra è posata sulla coscia sinistra, la mano destra sorregge il mento e chiude la narice destra. Le gambe sono distese, ma leggermente ripiegate. Sul lato destro del corpo si trovano infatti i canali sottili che stimolano il ‘vento karmico’ dell’illusione. La pressione a cui vengono sottoposti giacendo nella posizione del leone dormiente e la chiusura della narice destra, blocca i canali e facilita il riconoscimento della luminosità che sorge allamorte.

Facilita inoltre l’uscita della coscienza dall’apertura della calotta cranica, mentre tutte le altre aperture sono chiuse.

La dissoluzione esterna: i sensi e gli elementi

La dissoluzione esterna è la dissoluzione dei sensi e degli elementi. Come la sperimentiamo esattamente al momento della morte?

La prima cosa di cui essere consapevoli è la cessazione del funzionamento sensoriale. Se le persone al nostro capezzale stanno parlando, verrà il momento in cui udremo le voci ma non riconosceremo più le parole. Questo indica che la coscienza uditiva ha smesso di funzionare. Se guardiamo un oggetto di fronte a noi e ne vediamo i contorni ma non i particolari, significa che ha smesso di funzionare la coscienza visiva. Lo stesso accade con l’odorato, il gusto e il tatto. L’indebolimento dell’esperienza delle funzioni sensoriali segnala la prima fase del processo di dissoluzione.

Le successive quattro fasi del processo di dissoluzione degli elementi avvengono come segue.

Terra

Il corpo inizia a perdere vigore, le forze vengono meno, non riusciamo ad alzarci, stare eretti o tenere un oggetto in mano. Diventa difficile sostenere la testa. Abbiamo la sensazione di cadere, di sprofondare sotto terra, o di essere schiacciati da un peso enorme. Alcuni testi tradizionali usano l’immagine di essere schiacciati sotto una montagna. Ci sentiamo pesanti e a disagio in qualunque posizione. Forse chiederemo di essere sollevati, di mettere più cuscini per sorreggerci o di togliere le coperte. L’incarnato perde il colore e diventa pallido. Le guance si infossano e sui denti appaiono macchie scure. Aprire e chiudere gli occhi diventa sempre più difficile. L’aggregato della forma si sta dissolvendo, e diventiamo deboli e fragili. La mente, prima agitata e delirante, sprofonda nel torpore.

Questi segni indicano che l’elemento terra si sta dissolvendo nell’elemento acqua. Ciò significa che il vento connesso con l’elemento terra perde la sua capacità di fornire una base alla coscienza, e prende il sopravvento la qualità dell’elemento acqua. Il ‘segno segreto’ che appare nella mente è la visione di un miraggio scintillante.

Acqua

Incominciamo a perdere il controllo dei fluidi corporei. Il naso cola, la bocca perde bava. Gli occhi possono lacrimare e possono manifestarsi fenomeni di incontinenza. Non riusciamo a muovere la lingua. Gli occhi si fanno asciutti. Le labbra sono contratte e non ricevono più l’afflusso del sangue, la bocca e la gola sono impastate e viscose. Le narici si infossano.

Incominciamo a provare sete. Siamo presi da spasimi e tremiti. L’odore della morte inizia ad aleggiare attorno a noi. Mentre l’aggregato della sensazione si dissolve, le sensazioni fisiche si affievoliscono oscillando tra dolore e piacere, caldo e freddo. La mente si annebbia; è frustrata, irritabile e nervosa. Alcuni testi lo paragonano all’inabissarci nell’oceano o a essere trascinati via da un fiume in piena.

L’elemento acqua si dissolve nel fuoco, che prende il sopravvento nel fare da base alla coscienza. Il ‘segno segreto’ è la visione di una foschia con turbinanti fili di fumo.

Fuoco

La bocca e il naso sono completamente prosciugati. Il calore corporeo inizia a dileguare, di solito abbandonando i piedi e le mani in direzione del cuore Dalla corona della testa può uscire un vapore caldo. Il respiro è avvertito freddo nella bocca e nel naso. Non riusciamo più a bere né a digerire L’aggregato della percezione si dissolve, e la mente oscilla tra lucidità e confusione. Non riusciamo a ricordare i nomi dei nostri cari e degli amici, e ben presto non li riconosciamo più. Percepire l’ambiente circostante è sempre più difficile, perché suoni e immagini diventano confusi.

Scrive Kalu Rinpoche: “L’esperienza interiore del morente è di essere consumato in un fuoco, di trovarsi dentro una vampa ardente, o di percepire il mondo intero distrutto in un olocausto di fuoco”.

L’elemento fuoco si dissolve in aria. È sempre meno in grado di fornire una base alla coscienza, mentre diviene sempre più evidente la qualità dell’elemento aria. Il ‘segno segreto’ è costituito da scintille rosso vivido che danzano come lucciole sopra le fiamme.

Aria

Respirare diventa sempre più difficoltoso. Sembra che l’aria ci esca dalla gola. Ansimiamo e boccheggiamo. L’inspirazione si accorcia e diventa faticosa, mentre l’espirazione si allunga. Gli occhi si rovesciano verso l’alto, e non riusciamo a muoverci. L’aggregato dell’intelletto si dissolve, la mente è disorientata e non percepisce più il mondo esterno. Tutto si fa indistinto.

Anche l’ultima sensazione di contatto con l’ambiente si dissolve Incominciano le allucinazioni e le visioni. Se in vita abbiamo accumulato molta negatività, ci appariranno forme terrificanti. Rivediamo i momenti più terribili e dolorosi della nostra vita, e possiamo cercare di gridare per il terrore. Se invece abbiamo vissuto con amorevolezza e compassione, possiamo sperimentare visioni beatifiche e celestiali, e ‘incontra re’ gli amici più cari o esseri illuminati. Per chi ha vissuto una buona vita, nella morte non c’è paura ma pace.

Scrive Kalu Rinpoche: “L’esperienza interiore del morente è un vento impetuoso che spazza via il mondo intero, compresi se stessi, un’incredibile tempesta di vento che distrugge l’universo”.

L’elemento aria si dissolve nella coscienza. I venti si riuniscono nel ‘vento che sorregge la vita’, che ha sede nel cuore. La ‘visione segreta’ è la visione di una torcia o lampada fiammeggiante a luminescenza rossa.

L’inspirazione si fa sempre più superficiale, e l’espirazione sempre più lunga. Il sangue si assorbe tutto nel ‘canale della vita’, nel centro del cuore. Tre gocce di sangue si raccolgono, una dopo l’altra, e causano tre lunghi respiri finali. Dopo di che improvvisamente il respiro cessa.

Solo un minimo residuo di calore resta nel cuore. Le funzioni vitali sono sospese: è la ‘morte clinica’. Ma i maestri tibetani affermano che è ancora in atto un processo interno che va dall’ultimo respiro alla cessazione del ‘respiro interno’ e che dura ‘il tempo di prendere un pasto’, circa venti minuti. Ma nulla è certo, e il processo può concludersi molto più in fretta.

La dissoluzione interna

Nella dissoluzione interna, in cui si dissolvono i pensieri e le emozioni grossolane e sottili, si sperimentano quattro livelli di coscienza sempre più sottili.

Il processo della morte rispecchia, al rovescio, quello del concepimento. All’unione dello spermatozoo e dell’ovulo dei genitori, la coscienza vi si insedia spinta dal karma. Durante la formazione del feto, l’essenza patema, un nucleo descritto come ‘bianco e beato’, va a disporsi nel cakra della corona del capo, all’imboccatura superiore del canale centrale. L’essenza materna, un nucleo ‘rosso e caldo’, si dispone nel cakra situato quattro dita al di sotto dell’ombelico. Proprio da queste due essenze si sviluppano le fasi successive del processo di dissoluzione.

Con la dissoluzione del vento che la mantiene al suo posto, la bianca essenza ereditata dal padre scende lungo il canale centrale in direzione del cuore. Il segno esterno è una percezione di ‘biancore’, come un ‘cielo terso illuminato dalla luna piena’. Il segno interno è l’estrema lucidità della coscienza, e il cessare di tutti gli stati mentali derivati dalla rabbia, in tutto trentatré. Questa fase è chiamata ‘Apparizione’.

A questo punto, con la dissoluzione del vento che la mantiene al suo posto, l’essenza materna risale lungo il canale centrale. Il segno esterno è una percezione di ‘rosso’, come il sole che sfolgora in un cielo terso. Il segno interno è una grande beatitudine, poiché si dissolvono tutti gli stati mentali derivati dal desiderio, in tutto quaranta. Questa fase è chiamata ‘Incremento’.

Nell’incontro delle essenze rossa e bianca nel cuore è racchiusa la coscienza. Tulku Urgyen Rinpoche, un importante maestro che risiede in Nepal, dice: “L’esperienza è simile all’incontro tra il cielo e la terra”. Il segno esterno è una percezione di ‘nerezza’, come un cielo vuoto avvolto in una densa tenebra. Il segno interno è uno stato mentale privo di pensieri. I sette stati mentali derivati dall’ignoranza e dall’illusione si dissolvono. Questa fase è chiamata ‘Completo conseguimento’.

A questo punto la coscienza si riprende leggermente e sorge la Luminosità fondamentale, simile a un cielo immacolato privo di nubi, nebbia o foschia, chiamato a volte la ‘mente di chiara luce della morte’. Dice Sua Santità il Dalai Lama: “Questa coscienza è la mente più interna e più sottile. È chiamata la natura di buddha, l’origine stessa della coscienza. Il continuum di questa mente perdura anche nella buddhità”.

La morte dei veleni

In conclusione, che cosa accade con la morte? È come ritornare allo stato originario: tutto si dissolve, il corpo e la mente si disgregano. Muoiono anche i tre ‘veleni’ (ira, desiderio e ignoranza), sospendendo tutte le emozioni negative radice del samsara e creando un momentaneo intervallo.

E dove ci conduce questo processo? Alla base primordiale della natura della mente, in tutta la sua purezza e semplicità originaria. Tutti gli oscuramenti sono rimossi, e la nostra vera natura si rivela.

Un’esperienza simile si può avere, come ho spiegato nel capitolo successivo, quando, in meditazione, proviamo quella beatitudine, quella chiarezza e assenza di pensieri che segnalano rispettivamente che desiderio, ira e ignoranza sono momentaneamente dissolti.

Morendo l’ira, il desiderio e l’ignoranza, diventiamo sempre più puri. Alcuni maestri spiegano che, per un praticante Dzogchen, le fasi della Apparizione, dell’Incremento e del Completo conseguimento sono segni del graduale manifestarsi del Rigpa. A mano a mano che muore ciò che oscura la mente, comincia ad apparire e a rafforzarsi la chiarezza del Rigpa. L’intero processo diventa un graduale sviluppo dello stato di luminosità, sviluppo collegato al riconoscimento da parte del praticante della chiarezza del Rigpa.

Il Tantra ha sviluppato un’altra modalità di pratica durante il processo di dissoluzione. Il praticante tantrico, mediante lo yoga dei canali, dei venti e delle essenze, si prepara durante la vita al processo della morte simulando i cambiamenti di coscienza che si accompagnano alla dissoluzione e che culminano nell’esperienza della Luminosità, o ‘Chiara luce’. Il praticante cerca di mantenere la coscienza di questi cambiamenti anche mentre si addormenta. È infatti importante ricordare che questa sequenza di stati di coscienza sempre più profondi non si presenta solo al momento della morte ma anche, benché ignorata, nelle fasi dell’addormentamento e ogni volta che passiamo da stati di coscienza più grossolani a stati più sottili. Alcuni maestri hanno dimostrato che è in atto anche nei processi psicologici del normale stato di veglia.

La descrizione particolareggiata del processo di dissoluzione può sembrare complicata ma, se sviluppiamo familiarità con essa, sarà di immenso beneficio. Ci sono pratiche specifiche per ogni fase del processo. Ad esempio, si può trasformare l’intero processo del morire in una pratica del Guru Yoga. A ogni stadio della dissoluzione esterna, sviluppate la devozione e pregate il maestro, visualizzandolo nei vari centri di energia. Quando si dissolve l’elemento terra e appare il segno del miraggio, visualizzate il maestro nel centro del cuore. Quando si dissolve l’elemento acqua e appare il segno del fumo, lo visualizzate nel centro dell’ombelico. Quando si dissolve l’elemento fuoco e appare il segno delle lucciole, lo visualizzate nel centro della fronte. Quando si dissolve l’elemento aria e appare il segno della torcia, vi concentrate totalmente sul trasferimento della vostra coscienza nella sua mente di saggezza.

Si conoscono molte descrizioni degli stadi del morire, che differiscono nei particolari e nell’ordine in cui si presentano. Qui ho dato una descrizione generica, ma vi possono essere differenze a seconda della struttura individuale. Ricordo che durante la morte di Samten, l’attendente del mio maestro, la sequenza era molto precisa. Bisogna comunque tenere conto delle variazioni provocate da una malattia o dalle condizioni dei canali, dei venti e delle essenze. I maestri dicono che tutti gli esseri viventi, sino ai più minuscoli insetti, attraversano queste fasi. Lo stesso in caso di morte violenta e improvvisa, anche se con tempi molto più veloci.

L’esperienza mi ha dimostrato che il modo migliore per comprendere ciò che accade durante il processo del morire, con la sua dissoluzione esterna e interna, è lo sviluppo graduale e il sorgere di stati di coscienza sempre più sottili. Ciascuno emerge con la progressiva dissoluzione dei costituenti fisici e mentali, mentre il processo si muove gradualmente verso il rivelarsi della coscienza più sottile di tutte: la Luminosità fondamentale o Chiara luce.

La base.

Si sentono spesso affermazioni quali: “La morte è il momento della verità”, o “La morte è il momento in cui siamo finalmente a faccia a faccia con noi stessi”. Abbiamo già visto che nelle esperienze di pre-morte viene spesso riferito di rivedere tutta la vita scorrere davanti agli occhi e di sentirsi rivolgere domande quali: “Come hai usato la vita? Che cos’hai fatto per gli altri?”. Tutto indica un unico fatto: al momento della morte non possiamo fuggire da chi o da ciò che siamo davvero. Ci piaccia o no, la nostra vera natura si rivela. Ma è essenziale sapere che gli aspetti del nostro essere che si rivelano al momento della morte sono due: la nostra natura assoluta e la nostra natura relativa, cioè come siamo, e siamo stati, in questa vita.

Come abbiamo visto, con la morte tutti i costituenti del corpo e della mente si separano e si disgregano. Mentre il corpo muore, i sensi e gli elementi sottili si dissolvono, e in seguito muore la mente ordinaria assieme a tutte le sue emozioni negative dell’ira, del desiderio e dell’ignoranza. Alla fine non resta più nulla che possa oscurare la nostra vera natura, perché tutto ciò che in vita nascondeva la mente illuminata è caduto. Ciò che si rivela è la base primordiale della nostra natura assoluta, simile a un cielo limpido e senza nubi.

È chiamato il sorgere della Luminosità fondamentale, o ‘Chiara luce’, in cui la coscienza stessa si dissolve nello spazio della verità che abbraccia tutto. Il Libro tibetano dei morti descrive così questo momento: La natura di tutte le cose è aperta, vuota e nuda come il cielo, luminosa vacuità senza centro né circonferenza: il puro, nudo Rigpa sorge.

La luminosità è così descritta da Padmasambhava:

La Chiara luce, autoprodotta e sin dall’inizio priva di nascita è figlia del Rigpa, anch’esso non generato: che meraviglia!

Questa saggezza autoriginata non è stata creata da nessuno: che meraviglia!

Mai ha conosciuto la nascita e non ha in sé le cause della morte: che meraviglia!

Benché chiaramente visibile, nessuno la vede: che meraviglia!

Benché vaghi nel samsara, non ne subisce alcun danno: che meraviglia! Benché veda la buddhità, non ne ricava alcun beneficio: che meraviglia! Benché esista in tutti in ogni luogo, non è riconosciuta: che meraviglia!

Eppure tu continui a sperare di ottenere altrove un frutto diverso da questo: che meraviglia!

Benché sia la cosa più essenzialmente ma, la cerchi fuori di te: che meraviglia!

Perché questo stato viene chiamato luminosità o Chiara luce? I maestri lo spiegano in modi diversi. Alcuni dicono che esprime la chiarezza radiosa della natura della mente, la sua totale libertà da macchie e oscurità: “libera dall’oscurità del non sapere e dotata della capacità di conoscere”. Un altro maestro descrive la luminosità, o Chiara luce, come uno “stato di minima distrazione”, perché tutti gli elementi, i sensi e gli oggetti sensoriali si sono dissolti. Non bisogna confonderla con la luce fisica che conosciamo, né con le apparizioni luminose che si presenteranno nel bardo successivo. La luminosità che splende al momento della morte è la naturale radiosità della saggezza del nostro Rigpa, la “natura incomposta presente tanto nel samsara che nel nirvana”.

Il sorgere della Luminosità fondamentale, o Chiara luce, al momento della morte è la grande occasione per liberarci. Bisogna però conoscere i termini in cui questa possibilità ci è data. Gli studiosi contemporanei del fenomeno della morte ne svalutano spesso la complessità. Avendo letto e interpretato il Libro tibetano dei morti senza le indispensabili istruzioni orali e senza la pratica che ne svela il significato sacro, semplificano troppo e saltano a conclusioni affrettate. Una di queste è che la comparsa della Luminosità fondamentale è l’illuminazione. Tutti vorremmo associare la morte al paradiso o all’illuminazione, ma più importante dei nostri vani desideri è sapere che il momento della morte offre una reale possibilità di liberazione solo se siamo stati già introdotti alla natura della nostra mente, al nostro Rigpa, e solo se abbiamo reso stabile e salda questa introduzione con la meditazione integrandola nella nostra vita.

Anche se la Luminosità fondamentale si manifesta spontaneamente a tutti, la maggior parte di noi è impreparata alla sua nuda immensità, alla vasta e sottile profondità della sua assoluta semplicità. La maggior parte di noi non ha i mezzi per riconoscerla, perché in vita non abbiamo sviluppato la familiarità necessaria. Di conseguenza tendiamo a reagire istintivamente sulla scorta delle nostre paure e abitudini, secondo i vecchi riflessi condizionati. Sebbene le emozioni negative debbano dissolversi perché la luminosità possa manifestarsi, restano le abitudini contratte nel corso delle vite e celate nelle profondità della mente ordinaria. Anche se con la morte muore anche la nostra confusione, a causa della paura e dell’ignoranza, invece di aprirci e di abbandonarci alla luminosità, ci ritraiamo e ci aggrappiamo istintivamente ai vecchi attaccamenti.

È questo che ci impedisce di utilizzare veramente la potenzialità del momento della morte come occasione di liberazione. Dice Padmasambhava: “Tutti gli esseri sono vissuti, sono morti e sono rinati un numero incalcolabile di volte. Ogni volta hanno sperimentato l’indescrivibile Chiara luce. Ma, oscurati dalle tenebre dell’ignoranza, continuano a vagare eternamente nell’infinito samsara”.

La base della mente ordinaria

Tutte le tendenze abituali, che sono il prodotto del karma negativo e scaturiscono dalle tenebre dell’ignoranza, sono immagazzinate nella base della mente ordinaria. Mi sono chiesto spesso quale sia l’esempio migliore per descriverla. Potremmo paragonarla a una boccia di vetro trasparente, a una sottile membrana elastica, una barriera invisibile o un velo che nasconde la totalità della nostra mente, ma forse l’immagine migliore è quella di una porta a vetri. Immaginate di sedere davanti alla porta a vetri che dà sul giardino e di guardare fuori attraverso il vetro. Tra voi e il cielo sembra non esservi niente, perché il vetro non si vede, ma se vi alzate e cercate di passarci attraverso ci sbatterete il naso. Basta toccare il vetro per accorgervi immediatamente che c’è qualcosa su cui le vostre dita lasciano un’impronta, che c’è qualcosa tra voi e lo spazio esterno.

Nello stesso modo, la base della mente ordinaria ci impedisce di uscire all’aperto nella natura simile al cielo della mente, anche se possiamo averne dei barlumi. Come ho già detto, i maestri mettono in guardia i meditanti dal pericolo di confondere l’esperienza della base della mente ordinaria con la vera natura della mente stessa. Anche raggiungendo uno stato di grande calma e di pace, il praticante può di fatto rimanere nella base della mente ordinaria. È la stessa differenza che corre tra il guardare il cielo attraverso una cupola di vetro e trovarci fuori all’aperto. Per sperimentare l’aria fresca del Rigpa dobbiamo realmente varcare il limite della base della mente ordinaria.

Lo scopo della pratica spirituale, e la vera preparazione al momento della morte, è dunque la purificazione di questa sottile barriera, per indebolirla a poco a poco e finalmente infrangerla. Una volta infranta, niente più si frappone tra voi e lo stato di onniscienza.

L’introduzione alla natura della mente, fatta dal maestro, penetra fino alla base della mente ordinaria, dal momento che la mente illuminata si rivela esplicitamente attraverso questa dissoluzione della mente concettuale. Così, ogni volta che dimoriamo nella natura della mente, la base della mente ordinaria si indebolisce. La durata del nostro permanere nella natura della mente dipende unicamente dalla stabilità della pratica. Purtroppo ‘le vecchie abitudini sono dure a morire’, e la base della mente ordinaria riprende il sopravvento. La mente è come un alcolista: può sbarazzarsi della sua dipendenza per brevi periodi ma, davanti a una tentazione o in momenti di depressione, ci ricade.

Come sul vetro della porta resta l’impronta delle nostre dita, la base della mente ordinaria raccoglie e immagazzina il nostro karma e le abitudini. E come dobbiamo mantenere pulito il vetro, dobbiamo continuare a purificare la base della mente ordinaria. A poco a poco sarà come se il vetro si consumasse, si assottigliasse, vi comparissero piccole crepe e iniziasse a dissolversi.

La pratica rende sempre più stabile la natura della mente, che quindi non si limita più a costituire la nostra natura assoluta ma diventa la nostra realtà quotidiana. In questo processo, più si dissolvono le vecchie abitudini e più si riduce il divario tra la meditazione e la vita quotidiana. A poco a poco potrete uscire in giardino senza che il vetro della porta vi fermi. Il segnale del progressivo indebolimento della base della mente ordinaria è la sempre maggiore facilità con cui dimoriamo nella natura della mente.

All’apparire della Luminosità fondamentale, ciò che conta sarà la nostra capacità di rimanere nella natura della mente, l’abilità che avremo sviluppato di unire natura assoluta e vita quotidiana, e quanto saremo riusciti a purificare la nostra condizione ordinaria riportandola alla purezza primordiale.

L’incontro di madre e figlia

C’è un modo per prepararci al riconoscimento del sorgere della Luminosità fondamentale al momento della morte: il livello più alto della meditazione, il frutto finale della pratica dello Dzogchen. Viene chiamato l’unione delle due Luminosità, o la ‘fusione delle Luminosità madre e figlia’.

La Luminosità madre è un altro nome per indicare la Luminosità fondamentale. È la natura fondamentale, intrinseca di ogni cosa, che è alla base di tutta la nostra esperienza e che si manifesta nel suo pieno fulgore al momento della morte.

La Luminosità figlia, detta anche Luminosità sentiero, è la natura della mente che, se vi siamo stati introdotti dal maestro e l’abbiamo riconosciuta direttamente, possiamo rendere via via più stabile con la meditazione, integrandola sempre più nelle nostre azioni quotidiane. Quando l’integrazione è completa, è completo anche il riconoscimento e avviene la realizzazione.

La Luminosità fondamentale è la nostra natura intrinseca, la natura di tutte le cose; ma, non riconoscendola, rimane celata. Mi piace paragonare la Luminosità figlia alla chiave che il maestro ci dà per aprire la porta del riconoscimento della Luminosità fondamentale ogni volta che si presenta l’occasione.

Immaginate di dover andare all’aeroporto a prendere una donna che non conoscete. Se non avete idea del suo aspetto, vi potrà passare accanto senza che la riconosciate. Ma, se avete in mano una fotografia somigliante, la riconoscerete immediatamente.

Una volta introdotti alla natura della mente, e una volta riconosciutala, avete la chiave per riconoscerla sempre. Ma, così come avete portato la fotografia con voi all’aeroporto per guardarla e imprimervela nella mente, per essere sicuri di riconoscere la persona che aspettate, dovete approfondire e rendere stabile il riconoscimento della natura della mente con una pratica regolare. Il riconoscimento diventa allora così radicato, così parte di voi, che la fotografia non vi serve più. La persona arriva, e il riconoscimento è immediato. Grazie alla pratica continua del riconoscimento della natura della mente, quando si presenterà al momento della morte la Luminosità fondamentale, saprete riconoscerla e fondervi con essa con la stessa immediatezza, dicono i maestri del passato, di un bambino che corre in braccio alla madre, di due amici che si abbracciano, di un fiume che si mescola al mare.

Eppure, è estremamente difficile. L’unico modo per garantire il riconoscimento è l’assidua e continua pratica di fondere le due luminosità ora, mentre siamo vivi. Ci vuole tutta una vita di allenamento e di impegno. Come diceva il mio maestro Dudjom Rinpoche: a meno che non pratichiamo la fusione delle due luminosità ora, e da ora in avanti, non c’è modo di sapere se il riconoscimento si produrrà spontaneamente al momento della morte.

Come avviene esattamente questa fusione delle due luminosità? Si tratta di una pratica molto profonda e avanzata, e questo non è il luogo adatto per spiegarla in dettaglio. Possiamo dire questo: quando il maestro ci introduce alla natura della mente è come se recuperassimo la vista, perché eravamo ciechi alla Luminosità fondamentale presente in ogni cosa. L’introduzione del maestro ci apre l’occhio della saggezza con il quale vediamo chiaramente la vera natura di tutto ciò che sorge, la natura di luminosità, di Chiara luce di tutti i pensieri e le emozioni. Immaginate che, rendendo stabile e perfezionando la pratica, il riconoscimento della natura della mente diventi come un sole che divampa immobile nel cielo. Pensieri ed emozioni continuano a prodursi, come onde di oscurità. Ma, non appena si manifestano e vengono in contatto con la luce, si dissolvono.

La capacità di riconoscimento, man mano che viene sviluppata, diventa parte della nostra visione quotidiana. Se siamo capaci di trasportare la realizzazione della nostra assoluta natura nell’esperienza quotidiana, avremo più probabilità di riconoscere la Luminosità fondamentale al momento della morte.

La riprova che possediamo davvero la chiave è il modo di considerare pensieri ed emozioni al loro apparire: se li trapassiamo con la Visione vedendone l’intrinseca natura luminosa, oppure se li oscuriamo sovrapponendovi le abituali reazioni istintive.

Purificare totalmente la base della mente ordinaria è come aver demolito il magazzino del nostro karma distruggendo le scorte karmiche responsabili delle rinascite future. Se invece la purificazione non è stata completa, nel magazzino del karma restano i residui delle abitudini passate e delle tendenze karmiche che si manifesteranno nelle condizioni adatte, spingendoci verso nuove rinascite.

La durata della luminosità fondamentale

Sorge la Luminosità fondamentale; nel caso di un praticante permane tanto a lungo quanto è capace di restare, senza distrazioni, nella natura della mente. Per quasi tutti, non dura più di uno schiocco di dita. Per altri, dicono i maestri, dura “quanto occorre per consumare un pasto”. Ma la maggioranza non la riconosce e cade in uno stato di incoscienza che può protrarsi per tre giorni e mezzo. Dopo di che, infine la coscienza abbandona il corpo.

Di qui deriva l’usanza tibetana di non toccare e non disturbare il cadavere per tre giorni, fatto fondamentale soprattutto per un praticante che forse si è fuso con la Luminosità fondamentale e dimora nella natura della mente.

Ricordo che in Tibet tutti erano molto attenti a mantenere il silenzio e un’atmosfera di pace attorno al cadavere, soprattutto se si trattava di un grande maestro o di un grande praticante, per evitare anche la più piccola molestia.

Ma anche il cadavere di una persona comune non viene mosso prima dei tre giorni, perché non si può sapere se una persona è realizzata il momento preciso in cui la coscienza abbandona il corpo. Si crede che toccare il corpo in un punto, ad esempio praticando un’iniezione, attiri verso quel punto la coscienza che si può così trovare a uscire dall’apertura più vicina invece che dalla fontanella, andando incontro a una rinascita sfortunata.

Alcuni maestri insistono più di altri sulla necessità di non toccare il corpo per tre giorni. Chadral Rinpoche, un maestro tibetano di stile zen che viveva in India e in Nepal, rispondeva a coloro che si lamentavano del cattivo odore del cadavere in climi caldi: “Non dovete mica mangiarlo o venderlo”.

Sia l’autopsia che la cremazione dovrebbero quindi avvenire solo dopo tre giorni. Ma, poiché oggi non sempre è possibile non toccare o muovere il corpo per questo periodo, bisognerebbe almeno effettuare prima la pratica del phowa.

La morte di un maestro

Al momento della morte, un praticante realizzato rimane nel riconoscimento della natura della mente e si risveglia al manifestarsi della Luminosità fondamentale. Può rimanere in questo stato più giorni. Ci sono maestri e praticanti che muoiono seduti in posizione di meditazione, e altri nella posizione del ‘leone dormiente’. Oltre a queste posture e la padronanza perfette, altri segni possono rivelare che sono nello stato della Luminosità fondamentale: il volto conserva un po’ di colore e di brillantezza, il naso non si infossa, la pelle rimane morbida ed elastica, il corpo non si irrigidisce, si dice che lo sguardo conserva una luce dolce e compassionevole e che ci sia ancora calore nel cuore. Allora il corpo non viene assolutamente toccato, e si mantiene il silenzio finché la persona emerge dallo stato meditativo.

Il Gyalwang Karmapa, grande maestro e capo di una delle quattro principali tradizioni buddhiste tibetane, morì in un ospedale negli Stati Uniti nel 1981. La sua allegria e compassione furono di straordinaria ispirazione per quanti gli erano vicini. Un chirurgo, il dottor Ranulfo Sanchez, disse: “Sono convinto che Sua Santità non era una persona ordinaria. Quando ti guardava era come se ti frugasse dentro, come se potesse vederti attraverso. Fui colpito dal modo in cui mi guardava, e sembrava sapere che cosa stava accadendo. Destò una grande impressione in tutti quelli che, in ospedale, vennero a contatto con lui. Quante volte, quando eravamo sicuri che ormai fosse la fine, ci sorrideva dicendo che ci eravamo sbagliati, e migliorava di colpo..

Non volle mai nessun trattamento contro il dolore. Quando vedevamo che soffriva e gli chiedevamo: “Sua Santità, ha forti dolori oggi?”, lui rispondeva: “No”. Verso la fine sentivamo che percepiva la nostra ansia, e la cosa divenne uno scherzo usuale: “Sente dolore?”, gli chiedevamo; e lui, con quel sorriso tremendamente gentile: “No”.

Ormai i segni di vita erano debolissimi. Gli feci un’iniezione… perché potesse comunicare nei suoi ultimi momenti. Uscii per pochi minuti dalla stanza mentre parlava con i tulku assicurandoli che per quel giorno non sarebbe morto. Cinque minuti dopo ero di ritorno: Sua Santità sedeva con la schiena eretta e gli occhi aperti. “Salve, come va?”, mi chiese. Le sue condizioni si erano ribaltate e per mezz’ora sedette nel letto parlando e ridendo. Clinicamente era inspiegabile, e le infermiere erano impallidite. Una si arrotolò la manica per mostrarmi il braccio: aveva la pelle d’oca.

Il personale dell’ospedale notò che il corpo del Karmapa non seguiva le fasi del rigor mortis e del disfacimento, ma rimaneva com’era al momento della morte. Poi si accorsero che l’area del cuore conservava ancora del calore”.

Dice il dottor Sanchez: “Mi chiamarono nella stanza circa trentasei ore dopo il decesso. Tastai l’area attorno al cuore e la rilevai più calda delle zone circostanti. Anche per questo la medicina non ha spiegazioni”.

Alcuni maestri muoiono in posizione seduta di meditazione, con il corpo eretto. Alla morte di Kalu Rinpoche, avvenuta nel 1989 nel suo monastero nell’Himalaya in presenza di maestri, del medico e di un’infermiera, il suo discepolo più vicino scrisse: “Rinpoche volle mettersi seduto, ma non ci riusciva. Lama Gyaltsen, sentendo che forse era giunto il momento e che non essere seduto avrebbe creato un ostacolo per Rinpoche, gli sorresse la schiena e lo aiutò a sedere. Stese la mano verso di me, e lo aiutai anch’io. Desiderava sedere perfettamente eretto, e lo esprimeva a voce e a gesti. Il medico e l’infermiera erano preoccupati, e Rinpoche rilassò un po’ la posizione, che era comunque una postura meditativa… Poi posò le mani in postura meditativa, con gli occhi aperti nello sguardo di meditazione, mentre le labbra si muovevano leggermente. Fummo invasi da un profondo senso di pace e di felicità che impregnava la nostra mente. Tutti i presenti sentirono che l’indescrivibile felicità che ci colmava non era che un debole riflesso di quella che pervadeva la mente di Rinpoche… Infine, chiuse lentamente le palpebre e il respiro si arrestò”.

Ricorderò sempre la morte del mio amato maestro Jamyang Khyentse Chokyi Lodro, nell’estate del 1959. Negli ultimi anni di vita si era allontanato dal suo monastero il meno possibile. Maestri di tutte le tradizioni gli facevano visita per ricevere insegnamenti, detentori di tutti i lignaggi ricorrevano a lui per istruzioni: era la fonte della loro trasmissione. Il monastero di Dzongsar era diventato uno dei centri più vibranti di attività spirituale del Tibet, dove andavano e venivano tutti i grandi lama. La sua parola era legge. Era un maestro talmente grande che praticamente tutti erano suoi discepoli, a tal punto che poté evitare una guerra civile minacciando di togliere la sua protezione spirituale a entrambe le fazioni.

Mentre la morsa dell’invasione cinese si stringeva, la situazione nel Kham peggiorava rapidamente e anch’io, un ragazzo, avvertivo la minaccia imminente. Nel 1955 il mio maestro aveva avuto segni precisi di lasciare il Tibet.

Dapprima si recò in pellegrinaggio ai luoghi sacri del Tibet centrale e meridionale; poi, dietro desiderio del suo maestro, visitò i luoghi sacri dell’India, e io andai con lui. Speravamo che, durante la nostra assenza, la situazione migliorasse. In realtà, come venni a sapere in seguito, la decisione di partire presa dal mio maestro fu interpretata da molti altri lama e dalla gente comune come un segno della caduta del Tibet, consentendo a molte persone di mettersi in salvo.

Il mio maestro aveva ricevuto da tempo un invito nel Sikkim, un piccolo paese himalayano e una delle regioni sacre a Padmasambhava. Jamyang Khyentse era l’incarnazione del più grande santo del Sikkim, e il re l’aveva invitato a dare insegnamenti e a benedire il paese con la sua presenza. Avvertiti del suo arrivo, molti maestri vennero dal Tibet per ricevere insegnamenti, portando con sé testi e scritture molto rare che altrimenti non si sarebbero salvate.

Jamyang Khyentse era un maestro dei maestri, e il tempio del palazzo reale dove soggiornò divenne ancora una volta un vivace centro spirituale. Più le cose in Tibet peggioravano, e più erano i lama che si raccoglievano attorno a lui.

Si dice che i maestri che insegnano molto non vivono a lungo, come se prendessero su di sé gli ostacoli che si frappongono agli insegnamenti spirituali. Le profezie dicevano che, se avesse abbandonato l’insegnamento e avesse viaggiato come un eremita sconosciuto in luoghi sperduti, il mio maestro sarebbe vissuto molto più a lungo. Infatti ci provò. Quando partimmo dal Kham per l’ultimo viaggio, lasciò tutti i suoi averi e si spostava in incognito, con l’intenzione non di insegnare ma di recarsi in pellegrinaggio. Ma, appena scoprivano chi era, tutti gli chiedevano insegnamenti e iniziazioni. Tanto grande era la sua compassione che, conscio del rischio che affrontava, sacrificò la propria vita pur di continuare a insegnare.

Nel Sikkim, Jamyang Khyentse si ammalò. Contemporaneamente giunse la terribile notizia della caduta del Tibet. Uno dopo l’altro, arrivarono i Lama più anziani, detentori dei lignaggi, per pregare e celebrare giorno e notte riti di lunga vita. Tutti vi presero parte e tutti lo supplicarono di restare in vita, perché un maestro della sua levatura ha il potere di decidere quando lasciare il corpo. Jamyang Khyentse si limitava a stare a letto, accettava le offerte, rideva e diceva con un sorriso d’intesa: “Va bene, tanto per buon auspicio, diciamo che vivrò”.

Invece, avemmo la prima certezza che stava per morire dal Gyalwang Karmapa a cui aveva detto di avere terminato il lavoro che si era assunto in questa vita e che aveva deciso di lasciare questo mondo. Il Karmapa lo riferì a uno dei discepoli più stretti di Khyentse, che scoppiò in pianto. Così, tutti vennero a saperlo. La morte avvenne subito dopo la notizia che i tre grandi monasteri tibetani, Sera, Drepung e Ganden, erano stati occupati dai cinesi. Sembrò un tragico segno che il Tibet cadesse mentre moriva questo grande essere che rappresentava l’incarnazione del Buddhismo tibetano.

Jamyang Khyentse Chokyi Lodro morì alle tre del mattino, il sesto giorno del quinto mese tibetano. Dieci giorni prima, mentre trascorrevamo la notte celebrando un rito di lunga vita per lui, la terra fu squassata da un forte terremoto. Secondo i sutra buddhisti, è il segno dell’imminente morte di un essere illuminato.

Per tre giorni la sua morte fu mantenuta segreta. Nessuno doveva saperlo. A me dissero che era sopravvenuto un improvviso peggioramento, e mi misero a dormire in un’altra stanza. Lama Chokden, suo assistente principale e maestro delle cerimonie, era la persona che aveva passato più tempo con il mio maestro. Era un uomo taciturno, serio e ascetico, dallo sguardo penetrante e le guance incavate, di modi solenni e raffinati, anche se umili. Era stimato per l’assoluta integrità, la profonda umanità, la bontà del cuore e la memoria straordinaria. Ricordava ogni parola e ogni episodio raccontato dal mio maestro, e conosceva nei minimi particolari i rituali più complessi e il loro significato. Era inoltre un praticante esemplare e un maestro. Lo vedevamo portare come sempre il cibo nella stanza di Jamyang Khyentse, ma in volto aveva un’espressione cupa. Gli chiedevamo notizie, e ci rispondeva: “Sempre uguale”. In alcune tradizioni è molto importante mantenere il segreto mentre un maestro rimane in meditazione dopo la morte. E dovemmo aspettare tre giorni per sapere la verità.

Il governo indiano mandò un telegramma a Pechino, che fu ritrasmesso al monastero tibetano di Dzongsar dove molti monaci erano in lacrime perché in qualche modo sapevano già della morte. Prima della nostra partenza, Jamyang Khyentse aveva dato la misteriosa assicurazione che sarebbe ritornato una volta prima di morire. La mantenne. Il giorno di capodanno, sei mesi prima che morisse, durante una danza rituale molti monaci anziani ebbero una visione: lo videro manifestarsi nel cielo nel suo aspetto di sempre. Jamyang Khyentse aveva fondato al monastero un centro di studi, famoso per avere prodotto i migliori studiosi dell’epoca. Nel tempio principale c’era una grande statua del futuro Buddha, Maitreya. Un mattino presto, poco dopo la visione prodottasi in cielo il giorno di capodanno, il guardiano aprì la porta e Jamyang Khyentse era seduto in grembo al Buddha Maitreya.

Morì nella posizione del ‘leone dormiente’. Tutti i segni indicavano che era ancora in stato meditativo, e per tre giorni nessuno toccò il corpo. Non mi abbandonerà mai il ricordo del momento in cui uscì dalla meditazione: il naso s’infossò di colpo, la pelle perse il colore e la testa gli cadde di lato. Ma, fino a quel momento, il suo corpo aveva conservato un certo equilibrio, forza e vita.

Era sera quando lavammo il corpo. Lo rivestimmo e lo trasferimmo dalla sua stanza al tempio principale del palazzo, traboccante di folla venuta a porgere l’ultimo omaggio circumambulando il tempio

Allora accadde qualcosa di straordinario: a poco a poco si manifestò e si propagò ovunque una luce lattea incandescente, come una fine nebbia luminosa. All’esterno del tempio del palazzo c’erano quattro grandi lampade elettriche che a quell’ora splendevano intensamente, perché alle sette era già buio. Ma il loro chiarore era offuscato dalla luce misteriosa. Apa Pant, che era il Rappresentante politico in Sikkim, fu il primo a chiamare per scoprire di cosa si trattava. Poi seguirono le telefonate di molti altri, perché quella strana luce ultraterrena era stata vista da centinaia di persone. Un maestro disse che, secondo i tantra, manifestazioni luminose come quella sono il segno dell’ottenimento della buddhità.

Inizialmente si era deciso di tenere il corpo di Jamyang Khyentse nel tempio del palazzo per una settimana, ma presto incominciarono ad arrivare telegrammi dai discepoli. Era il 1959 e molti, tra cui Dilgo Khyentse Rinpoche, erano appena riusciti a fuggire dal Tibet dopo un viaggio lungo e pericoloso. Tutti chiedevano che il corpo rimanesse esposto per poterlo vedere. Così, restò per altre due settimane. Ogni giorno si tenevano quattro sessioni di preghiera con centinaia di monaci, guidati da lama di tutte le scuole e spesso in presenza dei detentori dei lignaggi. Furono offerte migliaia e migliaia di lampade al burro. Poiché non c’era segno di putrefazione e il corpo non mandava odore, lo tenemmo esposto per un’altra settimana. L’estate indiana è caldissima, ma le settimane passavano e il corpo non presentava segni di disfacimento. Rimase esposto per sei mesi. Alla sua sacra presenza si tenevano pratiche e insegnamenti. Gli insegnamenti lasciati a metà dalla morte di Jamyang Khyentse vennero portati a termine dai discepoli anziani, e furono ordinati moltissimi nuovi monaci.

Alla fine portammo il cadavere nel luogo scelto da Jamyang Khyentse per la cremazione: Tashiding, una delle località più sacre del Sikkim, in cima a una collina. Tutti i discepoli si radunarono e costruimmo lo stupa per conservare le reliquie con le nostre mani, anche se in India i faticosi lavori manuali sono in genere commissionati dietro pagamento a operai. Tutti, giovani e vecchi, dai grandi maestri come Dilgo Khyentse Rinpoche alle persone comuni trasportarono pietre sulla collina e costruirono lo stupa con le loro mani. Fu la più grande testimonianza della devozione che ispirava.

Le parole non possono descrivere la perdita rappresentata dalla sua morte. Quando lasciammo il Tibet, la mia famiglia e io perdemmo tutte le nostre terre e proprietà, ma ero ancora troppo giovane per sentirmi già attaccato. Invece la perdita di Jamyang Khyentse fu così grande che ancora oggi, dopo tanti anni, ne provo dolore. Tutta la mia fanciullezza trascorse illuminata dalla sua presenza. Dormivo in un lettino ai piedi del suo letto, e per tanti anni mi svegliai al suono della sua voce che pregava e dello schiocco dei grani del suo rosario. Le sue parole, gli insegnamenti, la grande e pacifica radiosità della sua presenza, il sorriso, sono impressi indelebilmente nella mia memoria. È la fonte d’ispirazione della mia vita. Nei momenti difficili e mentre dò insegnamenti invoco sempre la sua presenza, assieme a quella di Padmasambhava. La sua morte rappresentò una perdita incalcolabile per il Tibet e per il mondo. Pensavo che se il Buddhismo fosse svanito e solo lui fosse rimasto (e la stessa cosa per Dilgo Khyentse Rinpoche), allora anche il Buddhismo sarebbe rimasto, perché era la perfetta incarnazione di ciò che il Buddhismo insegna. Con la fine di Jamyang Khyentse finì un’era, e forse tutta una dimensione di forza e conoscenza spirituale.

Morì a soli sessantasette anni, e spesso mi chiedo quale sarebbe stato lo sviluppo del Buddhismo tibetano se Jamyang Khyentse ne avesse continuato a ispirare la crescita dall’esilio in Occidente con la stessa autorità e l’infinito rispetto per tutte le tradizioni e i lignaggi che l’aveva fatto tanto amare in Tibet. Poiché era il maestro dei maestri, e poiché tutti i detentori dei lignaggi avevano ricevuto da lui iniziazioni e insegnamenti, venerandolo come il proprio maestro-radice, aveva l’autorità per mantenerli uniti in uno spirito di devota armonia e cooperazione.

Ma un grande maestro non muore mai. Jamyang Khyentse è qui e continua a ispirarmi mentre scrivo queste pagine. È la forza che sorregge questo libro e tutti i miei insegnamenti, è il fondamento e lo spirito di tutto ciò che faccio, è lui che continua a darmi la mia direzione interiore. La sua benedizione e la sua fiducia sono sempre con me, guidandomi nel difficile compito di rappresentare, come posso, la tradizione di cui fu un così sublime rappresentante. Il suo nobile volto è più vivo per me di qualunque altro, e nei suoi occhi vedo quella luce di saggezza e di compassione trascendenti che nessun potere, nel cielo o sulla terra, può spegnere.

Possano i lettori conoscerlo un po’ attraverso questo libro, possiate voi tutti essere ispirati, come io lo sono stato, dall’impegno della sua vita e dal fulgore della sua morte, possiate voi tutti ricavare dal suo esempio di dedizione totale al bene di tutti gli esseri senzienti il coraggio e la saggezza necessari per agire per la verità nell’epoca contemporanea!

La radiosità intrinseca

Quando al momento della morte si rivela la Luminosità fondamentale, un praticante esperto, mantenendo la piena consapevolezza, si fonde con essa e raggiunge la liberazione. Se invece la Luminosità fondamentale non viene riconosciuta, sperimentiamo il bardo successivo: il bardo luminoso della dharmata.

L’insegnamento del bardo della dharmata appartiene specificamente allo Dzogchen e fu preservato nei secoli al cuore degli insegnamenti Dzogchen. Avevo qualche esitazione nel rendere pubblico quello che è tra i più sacri insegnamenti, e se non vi fossero già alcuni precedenti non avrei assolutamente potuto esporlo. Ma sono già stati pubblicati il Libro tibetano dei morti e altri testi che parlano del bardo della dharmata, portando però a conclusioni ingenue. Ritengo sia estremamente importante, e che il momento sia giusto, per fare chiarezza su questo bardo inserendolo nel suo autentico contesto. Sottolineo che non parlerò dettagliatamente delle pratiche avanzate connesse con questo insegnamento, nessuna delle quali può, in nessuna circostanza, essere seguita senza la guida e le istruzioni di un maestro qualificato verso il quale si deve avere una connessione e una dedizione assolutamente pure.

Ho attinto a fonti diverse per rendere più chiaro possibile il capitolo, che ritengo sia uno dei più importanti di tutto il libro. Mi auguro che, leggendolo, molti di voi possano creare un legame con questo straordinario insegnamento e ricevano l’ispirazione per saperne di più e per incominciare a praticarlo.

Le quattro fasi della dharmata

La parola sanscrita dharmata (tibetano cho nyi) indica la natura intrinseca di tutte le cose, l’essenza delle cose così come sono. La dharmata è la nuda verità incondizionata, la natura della realtà o vera natura dell’esistenza fenomenica. Stiamo parlando di qualcosa di fondamentale per la comprensione globale della natura della mente e di tutte le cose.

La fine del processo di dissoluzione e il sorgere della Luminosità fondamentale ci apre una dimensione totalmente nuova che ora comincia a manifestarsi. Credo che una buona analogia sia quella della notte che trapassa nel giorno. La fase finale del processo di dissoluzione della morte è l’oscura esperienza dello stadio del ‘Completo conseguimento’, descritta come un ‘cielo avvolto nell’oscurità’. Il presentarsi della Luminosità fondamentale è come il chiarore nel cielo vuoto che precede l’alba. Poi, a poco a poco, si leva in tutto il suo fulgore il sole della dharmata, illuminando il profilo della terra in tutte le direzioni. È la spontanea manifestazione della naturale radiosità del Rigpa, che divampa in forma di energia e di luce.

Come il sole sorge nel limpido cielo vuoto, la luminosa manifestazione del bardo della dharmata sorge dallo spazio onnipervadente della Luminosità fondamentale. Noi chiamiamo questa manifestazione di suono, luce e colore ‘presenza spontanea’, perché è sempre e intrinsecamente presente nella vastità della ‘purezza primordiale’ che ne costituisce la base.

Quel che avviene in realtà a questo punto è un processo di dispiegamento in cui si rendono sempre più manifeste la mente e la sua natura fondamentale. Il bardo della dharmata è uno stadio di questo processo. Attraverso la sua dimensione di luce ed energia, la mente si dispiega dal suo stato più puro, la Luminosità fondamentale, verso la sua manifestazione come forma nel bardo successivo, il bardo del divenire.

Trovo molto significativo che la fisica moderna abbia scoperto che la materia, indagata sempre più a fondo, si rivela come un oceano di luce e di energia. “La materia è, per così dire, luce condensata o congelata… tutta la materia è una condensazione della luce in configurazioni che si muovono a una velocità media inferiore alla velocità della luce”, scrive David Bohm. Anche la luce è, per la fisica moderna, un fenomeno multidimensionale: “È energia e anche il suo atto di formarsi, prendendo contenuto, forma e struttura. È potenzialità totale”.

Il bardo della dharmata si svolge in quattro fasi, ciascuna delle quali presenta un’opportunità di liberazione. Se questa non viene colta, si mette in moto la fase successiva. La spiegazione che ne darò è ricavata dai Tantra Dzogchen, dove si insegna che solo mediante la speciale pratica avanzata della Luminosità, il Togal, si può realmente comprendere il vero significato del bardo della dharmata. Negli insegnamenti di altre tradizioni tibetane riguardanti la morte, il bardo della dharmata riceve minor attenzione. Persino nel Libro tibetano dei morti, che appartiene anch’esso allo Dzogchen, la sequenza di queste quattro fasi è solo adombrata, come se la si volesse tenere nascosta, e non viene spiegata in modo chiaro e strutturato.

Devo ricordare che le parole non possono far altro che fornire una rappresentazione concettuale di quanto accade nel bardo della dharmata, una rappresentazione che rimarrà concettuale finché il praticante non abbia perfezionato la pratica del Togal trasformando in innegabile esperienza personale ogni dettaglio di ciò che ora descriverò. Il mio tentativo è di comunicarvi la possibilità di una dimensione meravigliosa e stupefacente, completando così la descrizione degli stati di bardo. Mi auguro sinceramente che questa descrizione possa risvegliarvi il ricordo quando attraverserete il processo della morte.

Luminosità: il paesaggio di luce

Nel bardo della dharmata assumete un corpo di luce. La prima fase corrisponde al momento in cui lo ‘spazio si dissolve in luminosità’.

Improvvisamente siete consapevoli di un vibrante mondo fluido di suoni, luci e colori. Le forme del nostro paesaggio abituale si fondono in un onnipervadente paesaggio luminoso. È brillante, luminoso e raggiante, trasparente e ricco di colori, non delimitato da dimensioni o direzioni sfolgorante e in continuo movimento. Il Libro tibetano dei morti lo paragona a un ‘miraggio in una torrida pianura estiva’. I suoi colori sono la naturale espressione delle qualità elementari e intrinseche della mente: lo spazio è percepito come luce azzurra, l’acqua come luce bianca, la terra come luce gialla, il fuoco come luce rossa e l’aria come luce verde.

La stabilità delle scintillanti manifestazioni luminose del bardo della dharmata è in rapporto diretto con la stabilità che avete raggiunto nella pratica del Togal. Solo una reale padronanza del Togal vi permetterà di rendere stabile la vostra esperienza in modo da usarla come strumento di liberazione. Altrimenti il bardo della dharmata vi baluginerà davanti come un lampo di luce, e non vi accorgete neppure che si è manifestato. Desidero sottolineare ancora che solo un praticante di Togal è capace del riconoscimento risolutivo che queste sfolgoranti manifestazioni luminose non sono separate dalla natura della mente.

Unione: le divinità

Se non avviene il riconoscimento della luce come manifestazione spontanea del Rigpa, le luci e i colori iniziano a unirsi e agglomerarsi in punti o sfere luminose di varie dimensioni, chiamate tiklé. Al loro interno appaiono i ‘mandala delle divinità pacifiche e irate’, in forma di enormi concentrazioni sferiche di luce che sembrano occupare la totalità dello spazio.

È la seconda fase, in cui la ‘luminosità si dissolve nell’unione’ manifestandosi come Buddha o divinità di varie dimensioni, colori e forme, ciascuna con i propri attributi. Emanano una luce brillante, fulgida, accecante; suoni fragorosi paragonabili al rombo di migliaia di tuoni; raggi di luce perforanti come fasci laser.

Si tratta delle ‘quarantadue divinità pacifiche e delle cinquantotto divinità irate’ descritte nel Libro tibetano dei morti, che si manifestano per un certo numero di ‘giorni’ entro il proprio mandala specifico ripartito in cinque parti. La visione occupa la vostra percezione con tale intensità che provoca paura e terrore, se non la riconoscete per ciò che è: una paura e un panico cieco possono invadervi fino a farvi perdere la coscienza.

Tra voi e le divinità scorrono sottilissimi raggi di luce, che uniscono il vostro cuore al loro. Nei raggi che emanano dalle divinità appaiono innumerevoli sfere luminose, che aumentano di dimensione e si avvolgono mentre le divinità si dissolvono dentro di voi.

Fonte: Il libro tibetano del vivere e del morire. http://www.esonet.org/wp-content/uploads/2013/05/136069562-Il-Libro-Tibetano-del-Vivere-e-del-Morire-Sogyal-Rinpoche.pdf