Dr. Alexander Berzin: Meditazione sulla vacuità
Identificare il falso “io”
La continuità dell’“io” convenzionale
Secondo la tradizione buddhista indo-tibetana, abbiamo un “io” convenzionale, e in realtà esso è un’astrazione: consiste in un’imputazione sul flusso di continuità, in continuo cambiamento, dei cinque fattori aggregati che costituiscono ogni momento della nostra esperienza soggettiva individuale. Questo “io” convenzionale è incluso nell’aggregato delle altre variabili influenzanti – il grande aggregato che include tutto ciò che è non statico e non negli altri, come tutte le emozioni. L’“io” convenzionale è qualcosa che cambia di istante in istante, non è statico. “Ora sto facendo questo, ora sto facendo quello”. Cambia, ovviamente, attimo dopo attimo. Inoltre può produrre degli effetti. “Posso lavare i vestiti; posso rendere felice qualcuno; posso rendere infelice qualcuno”.
Le cose possono durare per sempre o per un breve periodo. Dal punto di vista Mahayana, ogni singolo “io” convenzionale dura per sempre, senza inizio né fine. Sebbene i cinque aggregati di un individuo possano espandersi nel corso della vita, e poi esistere principalmente in forma potenziale durante il bardo tra una vita e l’altra, la continuità di ogni mente o attività mentale individuale prosegue senza inizio né fine. Continua anche fino all’illuminazione. Vari sistemi di principi buddhisti indiani affermano che diversi livelli o aspetti della mente hanno una continuità ininterrotta che continua per sempre. Indipendentemente dal sistema che seguiamo, però, c’è sempre qualche aspetto dell’attività mentale che può fungere da base per l’imputazione “io” e, per questo, possiamo dire che l’“io” convenzionale continua per sempre.
Partecipante: Pensavo che una persona smettesse di esistere quando raggiunge il nirvana.
Ecco perché ho detto: “secondo il Mahayana”. Secondo il Theravada, e forse anche altre scuole dell’Hinayana, il continuum mentale termina con il parinirvana, dopo che si è diventati un Buddha o un arhat e si è morti. Esistono diverse teorie. In ogni caso, tale conseguimento è probabilmente molto lontano per la maggior parte di noi e quindi il nostro flusso mentale durerà ancora a lungo.
Questo significa che il karma dura per sempre?
Secondo il Mahayana, il karma può essere purificato, nel senso che può essere ripulito senza che debba maturare. Secondo il Theravada, prima di conseguire il parinirvana tutto il nostro karma maturerà, anche se in forma leggera. Nessun sistema buddhista afferma che il karma continui per sempre.
C’è una grande differenza tra il pensare che il mio flusso mentale terminerà quando diventerò un arhat e il pensare che continuerà per sempre.
Buddha ha dato molte spiegazioni diverse per soddisfare persone differenti, con mentalità differenti. E peraltro non devono necessariamente essere per persone diverse: potrebbero essere per la stessa persona, in fasi differenti della propria vita. Questo fine settimana terrò un corso che assumerà il punto di vista della tradizione indo-tibetana Mahayana. In questo sistema si afferma che ogni continuum mentale individuale continua per sempre. Naturalmente, se abbiamo l’opportunità di studiare molte diverse scuole buddhiste, ognuno di noi deve capire quale si addice al proprio attuale livello di sviluppo.
Dal punto di vista Mahayana, la presentazione Hinayana è per chi si sentirebbe molto scoraggiato al pensiero che il flusso mentale continui per sempre, e sarebbe molto più incoraggiato dal pensiero di una fine definita. I Theravadin non affermerebbero questo. Tra le varie scuole dell’Hinayana, neppure tutti i Theravadin direbbero che il flusso mentale termina con il parinirvana. Alcuni sosterrebbero che, dopo essere diventati arhat o Buddha, la qualità del continuum mentale cambia e la sua vecchia qualità cessa. Questo è certo. Tutti concorderebbero su ciò.
Però, che adottiamo la visione Hinayana o Mahayana, in entrambi i casi vogliamo raggiungere il punto in cui finisce la continuità della nostra mente quotidiana, disturbata e pazza. Non è così importante pensare all’esistenza o inesistenza di qualcosa che segua a esso: l’importante è liberarsi dell’aspetto disturbante. Come ho detto, è così lontano che, al momento, non costituisce una grande preoccupazione.
Identificare il falso “io”
In un certo senso, dal punto di vista Mahayana, in ogni individuo c’è qualcosa di eterno; tuttavia non è permanente, non è statico. Dobbiamo veramente capire di che cosa stiamo parlando qui. Quando diciamo anatma o “non sé”, quel sé è molto specifico: non si sta parlando di un sé qualsiasi. Questo sé ha una definizione, possiede determinate qualità.
Il primo livello di ciò che stiamo confutando è un sé, un falso “io”, un atman, che ha tre caratteristiche. La prima consiste nel suo essere statico (immutabile). Statico non significa eterno. Di solito è tradotto come “permanente”, ma questo termine è fuorviante e induce in confusione, specialmente qui. Statico significa che non cambia di istante in istante, non è influenzato da nulla e non può produrre alcun effetto. “Uno più uno uguale due” non cambia. È sempre lo stesso. Non può fare nulla. Questo “io” cambia di momento in momento; compie cose diverse in tempi diversi. Non è qualcosa di statico o immutabile.
La seconda caratteristica che confutiamo è la seguente: che il sé sia una cosa, ossia un monolite privo di parti temporali e di aspetti che lo costituiscano. In un certo senso, questo significherebbe che l’io sarebbe sempre la stessa identica cosa. L’“io” in questa vita sarebbe la stessa cosa rispetto all’“io” nelle mie vite passate e future, e l’“io” che è un padre sarebbe la stessa cosa rispetto all’“io” che è un figlio.
La terza caratteristica che confutiamo è la seguente: che il sé sia totalmente separato, e quindi separabile, da qualsiasi insieme di aggregati, e quindi possa volare via dopo la morte o il nirvana ed esistere per conto proprio. È perché crediamo, erroneamente, di esistere in questo modo che ci sentiamo alienati dal nostro corpo e dai nostri sentimenti. Una volta sono caduto e mi sono rotto le costole, e ho avuto la sensazione che ci fosse un piccolo “io” separato da tutta quell’esperienza e che non voleva effettivamente connettersi con ciò che stava accadendo. Ho pensato: “Oh no, non voglio fare questa brutta esperienza”. È qualcosa che capita spesso alle persone malate.
Questo tipo di “io”, con queste tre caratteristiche, non si riferisce a nulla di reale. Nella pratica della meditazione sulla vacuità diventa molto importante identificare nella nostra stessa esperienza il modo in cui sosteniamo questa visione di noi stessi. Non possiamo avanzare nella pratica se non identifichiamo in noi stessi ciò che questo significa per noi, a partire dalla nostra esperienza. Dobbiamo identificare il falso “io”, l’“io” da confutare.
Domande e dibattito circa un “io” immutabile
Riflettiamo ora ad alta voce, mentre proviamo a identificare questo falso “io”. Io parlerò di questo, ma voi pensate a quello che dico. Restiamo a un livello molto informale.
Penso che, nella maggior parte dei casi, abbiamo la sensazione di rimanere gli stessi per tutta la vita. Limitiamoci a parlare soltanto di questa vita: per quasi tutti gli occidentali, l’idea delle vite future è qualcosa con cui è un po’ difficile cominciare a lavorare.
Che cosa intendi per “identificare questo tipo di sé nella nostra meditazione”?
Il primo stadio della meditazione sulla vacuità consiste nell’identificare ciò che deve essere confutato. Il grande maestro indiano Shantideva ha scritto che se non riusciamo a vedere il bersaglio non possiamo scoccare una freccia verso di esso. Se vogliamo comprendere che la fantasia che proiettiamo su noi stessi non si riferisce a nulla di reale, dobbiamo essere in grado di vedere che cos’è quella fantasia – non soltanto a livello teorico e intellettuale.
Pensateci. Ritenete, come penso faccia la maggior parte della gente, di essere la stessa persona di quando avevate dieci anni? Per esempio: “Ero Alex quando avevo dieci anni e ora sono un Alex cinquantenne: sono la stessa persona?”.
È come un fiume: riceve molta acqua da ogni parte, ma al suo interno c’è l’acqua della sorgente originaria.
Sarebbe come pensare: “Beh, ho imparato molte lezioni – ho raccolto molta acqua – ma sono ancora ‘Alex’, un ‘Alex’ più vecchio – lo stesso fiume, di base – che ha imparato queste lezioni e avuto queste esperienze”. È quasi come se durante la nostra vita avessimo fatto un giro in un parco divertimenti e ci fosse questo “io” che è andato in giro. Vi sentite così?
Ovviamente, sarà diverso per ognuno. Dovete individuare che cosa questo significhi, a partire dalla vostra esperienza. Per quanto riguarda me stesso, per lo meno, ho la sensazione di essere cambiato in alcuni aspetti, ma di essere sempre la stessa persona per quanto riguarda altri aspetti.
Qui dobbiamo operare una distinzione. Dal punto di vista buddhista siamo individui. Non ci siamo trasformati in qualcun altro. A volte pensiamo di essere cambiati, come quando diciamo: “Da quando ho avuto un bambino, sono diventato una persona diversa”. Ma lo siamo veramente? Questo è il tipo di domanda che dobbiamo porci. Che cosa significa dire che siamo cambiati?
Il metodo buddhista non è quello di un insegnante o di un libro, che ci forniscono delle risposte alle nostre domande. Dobbiamo fare esperienza noi stessi delle cose. Se consideriamo l’esempio del Buddha stesso, come ha imparato? Vedendo una persona morta, una anziana, una malata e un monaco. Questo ha avuto un significato importante per lui. Possiamo dare suggerimenti, nel Buddhismo, ma poi dobbiamo rivolgere queste domande a noi stessi e cercare davvero di sentire qualcosa in relazione a quello che realmente significano, e non soltanto dire: “Io non la penso così” e rifiutarlo. Anche se abbiamo una certa esperienza e comprensione del Buddhismo, dobbiamo addentrarci ulteriormente nel sottile e nel profondo, e riflettere: “Penso davvero così, a un livello sottile?”. Esaminiamoci: “Ho mai pensato a me stesso come a un sé immutabile – che non cambia, non è influenzato da nulla e non influenza nient’altro? Che cosa potrebbe significare?”.
Avete mai avuto l’esperienza di trovarvi con altre persone o in mezzo alla folla, e non voler essere lì? L’esperienza di lasciare semplicemente tutto là fuori, in un certo senso, e ritirarvi in una piccola parte della vostra testa, come se in qualche modo poteste scomparire e la vostra presenza potesse non avere alcuna influenza sugli altri? Vi siete mai dissociati, semplicemente, dall’intera situazione? Qualche volta io faccio esperienza di questo. L’idea che siamo immutabili ci porta a pensare che potremmo semplicemente districarci dal processo causa-effetto, come se ciò che facciamo e diciamo non contasse più, perché ci siamo disattivati. Ad esempio, nostro figlio piange e noi siamo stanchi e non vogliamo alzarci e quindi, per un minuto, non sentiamo più il bambino piangere, come se nulla stesse accadendo. Iniziamo a esaminare dove e quando abbiamo potuto avere una simile esperienza. Di che cosa si tratta, nella mia vita?
Conosco questa esperienza, ma per me è come se esistessi a un altro livello rispetto alle persone che mi circondano.
Esattamente. È così. Dovete camminare per una strada pericolosa di notte e vi proteggete ritirandovi in voi stessi; è come se passaste a un altro livello e ci fosse un piccolo “io” prezioso che potete mantenere immune da tutto, e che non sarà influenzato da nulla. Pensiamo: “Non lascerò che io sia spaventato”, il che è davvero strano, come se ci fossero due “io”. Oppure: siamo coinvolti con qualcuno a livello emotivo, e questa persona ci lascia e ci dice cose terribili. Noi, interiormente, ci congeliamo: è come se passassimo a un altro livello ed esistessimo come un sé immutabile, non influenzato da quanto è appena accaduto.
Affinché la meditazione sulla vacuità sortisca un qualche effetto sulla nostra vita, dobbiamo essere in grado di mettere in relazione tutto ciò con la nostra esperienza personale. Altrimenti è solo un esercizio intellettuale che non va da nessuna parte.
Sembra che, al di sotto di questo livello, in noi stessi ce ne siano altri ancor più sottili, che vogliamo proteggere ancora di più, come qualcosa di molto, molto sacro, di cui non vogliamo neppure parlare.
Questo punto si avvicina a ciò di cui stiamo parlando: “C’è qualcosa di speciale qui dentro e non voglio sporcarlo. Non voglio lasciarmi coinvolgere da qualcosa con te, perché non voglio ferirmi”. È questo ciò che significa essere immutabili?
Perché non dedichiamo qualche minuto a rifletterci? Stiamo cercando esperienze in cui immaginiamo di essere in qualche modo separati da ciò che sta accadendo e non influenzati da nulla. Una volta sono stato morso da un cane e mi sono sentito così. Era come se dentro di me ci fosse un “io” che era stato violato da questa creatura. Come ha potuto, questo essere, mordere davvero “me”? Era semplicemente inconcepibile.
[Contemplazione silenziosa]
Ulteriore dibattito circa un “io” immutabile
Alcune persone stavano parlando mentre eravamo intenti a svolgere la nostra contemplazione, e ho notato che alcuni di noi si sono voltati e le hanno guardate. “Che cosa succede? Che cosa sta accadendo?” Il pensiero è questo: “Non voglio essere interrotto”, come se dentro ci fosse un “io” che non vuole essere influenzato da ciò che sta accadendo. Vogliamo mantenere l’“io” come una cosa immutabile dentro di noi, che non cambia e può semplicemente fare le sue cose senza essere influenzata da tutto il resto. Facciamo esperienza di questo tutto il tempo! Ci sono molti esempi, se iniziamo veramente a pensarci.
Esiste un qualche “io” immutabile, che non cambia di istante in istante?
No. Non c’è nulla di immutabile al di sotto del nostro “io” convenzionale. Il nostro “io” convenzionale è tutto ciò che esiste, e cambia, momento per momento. Anche se ce ne rendiamo conto, però, non vogliamo accettarlo. Per qualche istante potremmo capirlo e pensare in termini di un “io” che cambia continuamente, ma poi perdiamo questa nostra consapevolezza e vediamo le cose in modo diverso.
La vacuità è quello stato mentale in cui tutto ciò che accade dentro di me è sempre in armonia con tutto ciò che accade fuori?
Prima di tutto, lasciami chiarire una cosa: la vacuità non è uno stato mentale. Una mente che comprendesse la vacuità, però, sarebbe in armonia, sia esteriormente che interiormente: parteciperemmo pienamente a tutto ciò che accade. Ad esempio, in una situazione in cui ci siano delle persone che parlano durante la meditazione, reagiremmo pensando: “Stanno parlando. L’ho sentito. E allora?” e continueremmo la nostra meditazione. “Se altre persone qui non vogliono meditare in questo frangente, peggio per loro. Magari non avevano capito qualcosa e stavano facendo una domanda al vicino per chiarire quel punto; chi lo sa?”. In questo modo, siamo in armonia con ciò che accade e proseguiamo con la nostra meditazione. Ci mettiamo nei guai, invece, quando pensiamo a questo “io” solido e immutabile: “Questo è il mio momento sacro e speciale per meditare, io ho pagato molto per questo e ora io voglio avere il mio momento speciale! Come osi parlare e interromperMI!”.
Questo desiderio di essere in grado di isolarci da tutto e fare ciò che vogliamo senza essere influenzati da altro, come se fossimo immutabili, è la premessa o il pensiero di base per essere egoisti ed egocentrici. Quando siamo egoisti, pensiamo soltanto a noi stessi, al fatto di non essere influenzati da nient’altro di ciò che accade intorno a noi, e di non influenzarlo a nostra volta. Non ci interessa. Guardiamo soltanto a noi stessi: “Io devo essere servito per primo al ristorante. Devo ottenere questo per primo. IO, IO, IO, IO”. Questo è un “io” che è immutabile e sta fuori dal contesto di ciò che accade intorno a noi.
Questo certamente non significa che non ci si comporti in alcun modo o non si reagisca affatto a ciò che accade all’esterno…
Corretto. Questo è il motivo per cui diciamo che esiste un “io” convenzionale. Altrimenti non potremmo funzionare. In effetti, rispondiamo ancora a tutto ciò che accade.
Forse il punto essenziale è che si è davvero coinvolti quando è necessario, ma, ogni volta che le cose non sono poi così urgenti, semplicemente si passa oltre.
In un certo senso, sì. Non si prendono le cose sul personale, come un insulto personale. Non siamo il centro dell’universo.
Ho visto qualcuno che era arrabbiato e ho pensato che fosse arrabbiato con me. Magari non era così. Magari aveva qualche cosa che non andava con una scarpa…
Sì, quando ci arrabbiamo così, questo si chiama preoccupazione verso sé stessi. Proviene da questa idea sbagliata circa il modo in cui esistiamo. Pensando a noi stessi tutto il tempo, crediamo di essere il centro dell’universo e, se qualcuno ha un’espressione strana sul volto, pensiamo che sia a causa nostra. Oppure potremmo pensare: “Sono arrivato in Europa qualche giorno fa e qui le temperature sono scese qualche giorno fa, quindi devo aver portato io il freddo”. Questa è una preoccupazione narcisistica verso sé stessi.
Oppure, la cameriera porta al nostro tavolo tutti i piatti ordinati dai nostri amici e non porta la nostra pizza. Potremmo arrabbiarci molto: “Voglio la MIA pizza. Sono affamato. Tutti gli altri vengono sempre serviti, ma io non ricevo mai ciò che ho ordinato. Non le piaccio”. È qualcosa di infantile, vero? D’altra parte, se il nostro ordine richiede davvero molto tempo, non dobbiamo semplicemente starcene seduti e pensare: “Beh, che me la porti o meno è lo stesso”. Possiamo chiedere alla cameriera di controllare gentilmente il nostro ordine, ma senza arrabbiarci o prenderla sul personale. Questo è il punto: non prendere le cose sul personale.
Per la maggior parte delle persone, in particolare per i giovani, il fatto di non essere il centro dell’universo è un grande shock. I giovani – e anche alcuni anziani – si preoccupano di come appaiono, quando escono. “Oh, ho un brufolo. Non piacerò a nessuno”. La realtà è che non importa a nessuno: nessuno guarderà. Tutti badano soltanto a loro stessi; non controllano se abbiamo o meno un brufolo. Altri pensano che loro siano il centro dell’universo e che tutti li guardino. Naturalmente, però, non sfoceremo nell’estremo opposto, andando in giro nudi. Ciò che cercheremo di fare è uscire da questa preoccupazione verso noi stessi, come se fossimo il centro dell’universo.
Per le cose normali, di ogni giorno, potrebbe benissimo essere così, ma prendiamo un altro esempio, con un africano nero, in Germania, verbalmente maltrattato e magari persino buttato fuori dalla metropolitana e ferito. Questa persona inizia ad avere paura e diventa paranoica. In questo caso, non è lei a immaginare che le stia succedendo qualcosa, bensì sono la società e le persone che le fanno qualcosa. Che cosa ci sarebbe da dire a riguardo?
Ancora una volta, proveremmo a non prenderla sul personale. L’africano del tuo esempio potrebbe pensare: “Le persone in metropolitana non mi conoscono come persona. Stanno soltanto reagendo al colore della mia pelle. Io non sono semplicemente il colore della mia pelle. Non mi influenza come persona. Non implica che io sia una persona meno degna”. Naturalmente, dobbiamo fare i conti con i pregiudizi degli altri e stare attenti a come guardiamo, agiamo e così via. Se non prendiamo tutto sul personale, tuttavia, non perdiamo la nostra dignità nell’esperienza. Se dobbiamo attraversare un cortile dove un cane agitato abbaia ai passanti, possiamo prenderla sul personale: “A quel cane non piaccio!”. Oppure possiamo pensare: “Questo è un cane molto disturbato che abbaia a chiunque, e ora capita a me passare per di qua, quindi abbaia a me”. Stiamo attenti, ovviamente, ma non siamo offesi e feriti dal cane a livello personale. Penso che sia qualcosa di simile.
In realtà, potremmo fare un passo in più. Potremmo pensare, in riferimento al cane: “Forse questo cane è stato maltrattato dal suo proprietario, ed è per questo che abbaia così furiosamente a tutti quelli che passano”. Allo stesso modo: “Forse queste persone in metropolitana stanno soffrendo per via delle pressioni economiche e sono insoddisfatte della loro vita e delle conseguenze della riunificazione, qui in Germania, e quindi, a causa di ciò, sfogano la loro frustrazione su stranieri dalla pelle scura come me”. Pensando in questo modo, sviluppiamo comprensione e compassione, anziché paura e paranoia.
Domande e dibattito circa un “io” che è uno
“Uno” significa letteralmente “uno” o “identico”. Pensiamo, in qualche modo, di essere sempre la stessa cosa, indipendentemente da ciò che accade, come un monolite privo di parti? Devo dire che io spesso la penso così. Alex era in India all’inizio di questa settimana, poi Alex è stato a Praga e ora Alex è a Berlino, ma è sempre “Alex” – quest’unica cosa. È come una persona che va a vedere due film diversi o guarda anche un altro programma televisivo. È la realtà, questa? Penso che la qualità dell’essere “uno” si riferisca a un monolite privo di parti, che rimane sempre la stessa cosa.
Intuitivamente pensavo che la qualità dell’essere uno significasse che sono tutt’uno con tutto ciò che accade: che tutto è un’unica cosa.
No, è nel pensare a noi stessi, non a ciò che ci circonda.
Quindi questo significa essere uno con me stesso o all’unisono con me stesso? Ma questa è una cosa molto positiva.
Di certo non si tratta di questo. Riflettete su che cosa potrebbe significare pensare che “io” sia un monolite senza parti.
Se penso di essere uno, allora se manca una parte – come una mano o una gamba – non c’è più “io”.
Esatto. Se perdo la mano, sono ancora “io”? Se ho l’Alzheimer e perdo la memoria e la personalità, sono ancora “io”? Questo problema sorge insieme all’identificazione di “me” con alcuni aspetti della mia esperienza – per esempio, il mio corpo nel suo insieme o la mia mente nel suo insieme – e quindi al pensare che “io” sia identico a quest’unica cosa monolitica. Dopotutto, se l’“io” è senza parti, non può perderne alcuna.
Dovremmo davvero distinguere l’idea di una persona monolitica, simile a una statua di pietra, dall’idea di essere tutt’uno con i miei sentimenti? Entrambe sono illusioni, quindi perché dobbiamo operare una distinzione, qui?
Sono due questioni distinte. L’idea di essere tutt’uno con i nostri sentimenti ha a che fare con il non sentirci separati e alienati da essi. E questo è un punto diverso rispetto al concetto di un monolite senza parti che è “uno”.
Ho un piccolo problema con la parola “monolitico”: sembra un po’ statico. Per me è più una concentrazione univoca, un processo. Sembra ci sia qualcosa che è duraturo nel tempo, ma che ha tutte queste esperienze. È questo che intendi per “monolitico”? È qualcosa che attraversa la vita come un filo?
Vedremo questo più avanti. C’è una linea di ragionamento, che usiamo nella meditazione sulla vacuità, chiamata “né uno né molti”. In quel dibattito, “uno” è spiegato come segue. ”Alex” e “Alex” sono uno; ”Alex” e “Dott. Berzin” sono due. Sono diversi. Si riferiscono alla stessa persona ma non sono identici: sono parole diverse. ”Uno” significa totalmente identico, sempre.
C’è quindi una cosa dentro di me che è sacra, che è il vero “io” ed è sempre lo stesso? Le persone possono chiamarmi “Dott. Berzin” o “Alexander”: possono chiamarmi in qualunque modo. Ma, per me, io sono davvero “Alex”. È un punto interessante. Hai mai avuto questa esperienza? Io ho vari nomi. Nell’ambito professionale le persone mi chiamano in un modo, i miei amici mi chiamano in un altro, e quindi chi sono veramente? Per me, io sono davvero “Alex”. Il punto è che questa idea non è corretta. Forse ha qualcosa a che fare con la sensazione che ci siano tutti questi diversi livelli di “me”, ognuno con un nome diverso, ma che in qualche modo dentro di noi ci sia il vero “io”, come una cosa sacra e priva di queste parti aventi nomi diversi. Probabilmente è più simile a qualcosa del genere. Penso che molte persone la pensino così. È qualcosa che potete riconoscere in voi stessi?
Come ho detto, l’intera pratica della meditazione sulla vacuità è un processo. Non è sufficiente che qualcuno ci dica in una frase che cosa la vacuità significhi, così poi lo scriviamo e abbiamo finito.
Finché non abbiamo raggiunto lo stadio liberato di un arhat, sembra che ci sia sempre questa sensazione di un “io”. Questo “io” potrebbe cambiare, ma la sensazione di un “io” è sempre presente.
L’“io” convenzionale è sempre presente, certo. Ma vi aggiungiamo qualcosa e lo esageriamo. Questo è il problema. Proiettiamo su di esso uno speciale “io” che sta dentro di noi ed è sempre uno e il medesimo, senza parti.
Prendiamo in considerazione l’esperienza seguente. Diciamo: “Mi hai fatto davvero del male” come se l’altra persona avesse toccato quel punto molto profondo, in noi stessi, dove proviamo dolore. Tutte le altre cose che ci ha detto erano piuttosto sgradevoli, ma ora “è davvero arrivato a ME”. Questo è ciò di cui stiamo parlando. Siamo molto indignati: “Questo è il mio IO speciale e privato!”
In una situazione del genere, ciò che è ferito non è effettivamente qualcosa che non abbiamo mai osato guardare, qualcosa come il lato nevrotico di noi stessi, la nostra ombra? È qualcosa che si risolverebbe da sé, se fossimo in grado di guardarlo con chiarezza?
Qui dobbiamo fare attenzione. Quando la psicologia junghiana parla del nostro lato ombra, un lato negativo che di solito rimane inconscio, afferma tuttavia che questo lato oscuro è reale. Nel Buddhismo il falso “io” non è reale. C’è una grande differenza. Inoltre, diventare consapevoli dell’idea sbagliata che abbiamo di noi stessi e del modo in cui esistiamo non è sufficiente per liberarcene, sebbene sia un inizio. Dobbiamo renderci conto che tale idea sbagliata non si riferisce a nulla di reale.
Quando proviamo a guardare il nostro speciale “io” privato, perde la sua sacralità. C’è lì quindi, di fatto, qualcosa da trovare? Si tratta del cambiamento stesso?
Se stai chiedendo che cosa ci rimane dopo che ci siamo liberati del falso “io”, ci rimane un sé che cambia continuamente. Bene, e che cos’è? Tu dici “cambiamento”, ma può esserci del cambiamento senza qualcosa che stia cambiando? E come esiste quella cosa che cambia? È qualcosa di solido e rintracciabile? Oppure che cos’è? Vi invito a rifletterci.
I livelli più sottili di un falso “io”
Ripasso
Abbiamo parlato delle qualità del falso “io”, che sono piuttosto specifiche. Il livello del falso “io” con cui abbiamo avuto a che fare è quello che deriva dal concetto di “io”, o atman – l’anima – che è affermato dalle scuole di filosofia indiane classiche non buddhiste. Ci sono tre qualità, qui, ma dobbiamo renderci conto del fatto che queste sono tre qualità proprie di un oggetto: questo falso “io”. Anche se stiamo cercando di capirle una per una, dobbiamo comprendere che questo falso “io” possiede tutte e tre le qualità. Non dovremmo pensare che potrebbe esserci qualcosa che ha soltanto la prima qualità, ma non la seconda. Penso che questo sia il motivo per cui c’è un po’ di confusione nel tentativo di isolare completamente ciò cui ogni termine si riferisce.
Abbiamo parlato di questo falso “io” come “statico”, e questa è la sua prima qualità. Ciò significa che non cambia, non è influenzato da nulla e non influenza nient’altro. È un “io” che può essere escluso, in un certo senso, dalla partecipazione a una qualsiasi relazione di causa ed effetto. “Uno”, la seconda qualità, significa “monolitico”: una cosa unitaria, senza parti e sempre identica a sé stessa. Il terzo aspetto di questo falso “io” consiste nel fatto che è separato dagli aggregati.
Non abbiamo molto tempo da dedicare a questo terzo punto, ma è ovviamente qualcosa su cui potremmo riflettere molto tempo, cercando di riconoscerlo in noi stessi. Pensiamo che ci sia un “io”, separato dagli aggregati, che dopo la morte vola fuori da un corpo e da una mente e poi vola in un altro corpo e in un’altra mente, oppure vola verso il paradiso o l’inferno? Pensiamo che ci sia un “io” separato, che lascia il corpo e la mente quando moriamo e diventa un mero nulla? Avete mai desiderato poter essere qualcun altro, ad esempio quella specifica star del cinema o quell’atleta – come se poteste lasciare il vostro corpo e la vostra mente e diventare un’altra persona, oppure avere la sua corporatura o il suo bell’aspetto?
Quando lavoriamo con la vacuità, ossia la mancanza di una vera identità, o vero sé, cerchiamo di vedere che le nostre idee sbagliate su noi stessi non si riferiscono a qualcosa di reale, nonostante il fatto che crediamo siano vere e abbiamo questa sensazione. Cerchiamo sempre di proteggere questo speciale “io” dentro di noi, ma esso non si riferisce a nulla di reale: non c’è niente da proteggere. Oppure, cerchiamo di dimostrare chi siamo, cerchiamo di farci accettare da tutti; ma non c’è niente da dimostrare. Siamo semplicemente qui; non dobbiamo metterci alla prova. Dalla comprensione di questo punto derivano numerose conseguenze, non solo sul piano intellettuale ma anche a un livello in cui lo si rende davvero parte del modo in cui interagiamo nel mondo.
Un falso “io” come controllore
Che cosa resta, quando abbiamo confutato questo livello di un falso “io”? Che cosa ci rimane? Ora pensiamo a noi stessi come un “io” che non è immutabile. Non è monolitico, quindi in situazioni diverse può essere cose diverse, e persino perdere alcune parti. E non è separato dagli aggregati: non può essere separato da un corpo e da una mente.
Tuttavia, potremmo ancora pensare che questo “io” non immutabile sia un capo o un controllore – un piccolo “io” nella nostra testa, che preme i vari pulsanti e controlla ciò che accade. In altre parole, non solo potremmo pensare che dentro di noi ci sia un “io” controllore, immutabile, monolitico e completamente separato dal nostro corpo e dalla nostra mente, ma potremmo anche pensare che ci sia un “io”, al pannello di controllo nella nostra testa, che è non immutabile, possiede delle parti ed è imputato sul corpo e sulla mente. Tuttavia, anche un siffatto falso “io” non si riferisce a nulla di reale.
Dobbiamo provare a identificarlo in noi stessi. Noi pensiamo: “Che cosa dovrei fare ora? Tutti mi guardano! Che cosa dovrei dire adesso? Penso che dovrei fare questo, penso che dovrei fare quello”, come se ci fosse un “io” che pianifica qualcosa e poi preme i pulsanti e fa compiere un’azione al corpo. Pianifichiamo delle cose per il nostro “sé” – è davvero strano, se ci pensate. Tale pensiero implica quasi che ci siano due “io” dentro di noi. Ecco da dove proviene l’esperienza dell’alienazione. Non c’è nulla di malsano nella pianificazione, però il concetto di un “io” separato, ai comandi, che fa accadere tutto, è falso.
Se fosse come dici, saremmo liberi di prendere decisioni sul da farsi in base alla nostra volontà, cosa che non è affatto vera. Non siamo liberi. Siamo costretti dal karma e dai dodici anelli del sorgere dipendente.
Sì. In un certo senso è corretto, ma lasciamo da parte la discussione sul karma, sul libero arbitrio, sulla predeterminazione, e sulla relazione di tale questione con la vacuità. È molto complicata. Quando comprendiamo il karma, capiamo che sia il determinismo sia il libero arbitrio sono degli estremi da confutare. Il processo decisionale è una “via di mezzo”.
L’idea di un “io” controllore nella nostra testa potrebbe portare a fantasticare sugli esseri umani come esseri sovrani, in grado di controllare persino la natura e cose simili.
Esatto. È ciò che accade quando immaginiamo che questo “io” controllore sia come un Dio onnipotente. Inoltre, con il concetto di un “io” controllore che sia simile a Dio, giudichiamo le persone e pensiamo di punirle: “Hai fatto questo a me. Sei colpevole. Ora, in risposta, che cosa dovrei fare io a te?”.
Gli esempi sono sempre negativi?
No. È la stessa cosa se penso: “Vi offrirò un corso davvero meraviglioso sulla vacuità perché mi piacete, e voglio essere gentile con voi”. Dietro a tale pensiero, credo di essere il controllore e di poter creare qualcosa di carino per voi soltanto grazie al mio potere indipendente.
Quindi il controllore può anche fare cose positive.
Sì, ma fai attenzione a come formuli questo punto. L’“io” convenzionale può fare cose costruttive mentre al contempo immagina, erroneamente, di esistere come controllore. Sulla base di questa idea sbagliata possiamo compiere qualcosa di costruttivo, distruttivo o semplicemente eticamente neutro, ma in ogni caso ciò di cui cerchiamo di liberarci è la nostra convinzione di esistere come controllori: “Voglio controllare la mia casa e la mia famiglia in modo che tutti facciano quello che voglio, ciò che ritengo sia positivo per loro”. E possiamo pensare a questo “io” controllore come immutabile o come non immutabile, e in continuo cambiamento, ma in ogni caso pensiamo che abbia il controllo – o che dovrebbe averlo.
Questa idea sbagliata di un “io” che è un controllore o un capo è ciò su cui dobbiamo lavorare al secondo livello. Dobbiamo capire che non si riferisce a nulla di reale. Non c’è un piccolo “io” dentro di noi, seduto e dedito a sperimentare le varie cose, o seduto al pannello di controllo e intento a farle accadere. Ci sembra di esistere in questo modo falso, e ne abbiamo la sensazione, eppure non esistiamo così. La nostra inconsapevolezza si basa sul fatto che la mente ci fa sembrare che le cose esistano in un modo in cui non esistono, e così, ingannati, crediamo che queste apparenze siano vere.
Un falso “io” che può essere conosciuto in modo autosufficiente, per conto proprio
Anche se capiamo che l’“io” non esiste come un controllore nella nostra testa, tuttavia la nostra mente lo fa automaticamente apparire come se si potesse conoscere in modo autosufficiente, per conto proprio, senza dover contemporaneamente vedere, udire, pensare o conoscere le basi su cui è imputato. Noi pensiamo: “Conosco me stesso” come se potessimo conoscere un io che è “me”, indipendentemente dal conoscere il nostro corpo, la nostra mente, le nostre relazioni, i nostri beni e così via. Oppure, vogliamo che qualcuno ci ami per come “noi stessi” siamo, non per il nostro corpo, cervello, denaro o altro. Anche un siffatto “io” conoscibile in modo autosufficiente non si riferisce a nulla di reale. Come posso guardare me stesso allo specchio la mattina, senza vedere anche il viso su cui è etichettato quel “me”?
Un falso “io” con un segno caratteristico distintivo rintracciabile
Che cosa ci rimane quando confutiamo anche questo livello più sottile di un falso “io”? Che cos’è l’“io” convenzionale? Comprendiamo che l’esistenza dell’“io” convenzionale è stabilita in termini di etichettatura mentale. Ci sono tre cose coinvolte nell’etichettatura mentale: (1) l’etichetta mentale “io”; (2) la base dell’etichettatura, ossia i fattori aggregati del nostro corpo e della nostra mente; (3) ciò cui si riferisce l’etichetta: l’“io” convenzionale.
Tuttavia, potremmo ancora pensare che ci sia qualche segno caratteristico distintivo individuale e speciale, che si trova dal lato del nostro corpo e della nostra mente, che consente una corretta etichettatura degli stessi come “io”. È come se ci fosse qualcosa di rintracciabile in me che rende me “me” – una qualità speciale, una caratteristica distintiva che mi rende “me” e non “te”, che consente alla parola “Alex” di essere correttamente etichettata su di me, e non sul tavolo o su un cane. Se ci sono due gemelli identici, sembra esserci una caratteristica determinabile in ognuno dei due, che lo rende l’uno e non l’altro. Potremmo capire che l’“io” non è un controllore, cambia continuamente, non è monolitico, non è separabile dagli aggregati e non può essere conosciuto per conto proprio, ma potremmo comunque pensare che ci sia qualcosa che rende me “me” – qualcosa di speciale. Anche questa è un’idea sbagliata. Sebbene siamo tutti individui, dentro di noi non c’è nulla di rintracciabile che ci renda tali. E non è molto facile renderci conto di questo.
In meditazione devo vedere se c’è qualcosa che mi rende “me”. Che cosa rende me “me”? È il mio patrimonio genetico, o che cos’altro? Se scriviamo il nostro codice genetico sulla lavagna, è forse quello l’“io?” La questione si fa molto interessante. Che cosa sono? Che cosa rende me “me”? È difficile trovare una risposta. A questo livello, non ci stiamo ancora identificando con gli aggregati. A questo livello, l’idea è soltanto questa: ci deve essere qualcosa! Tuttavia, non possiamo dire di che cosa si tratti esattamente. Che cosa rende me “me”? Il mio naso grosso? Se, come Michael Jackson, mi viene recisa una metà del naso, sono ancora “io”?
È il flusso della mia vita che mi rende “me”: il modo in cui si sviluppa la mia vita.
La direzione stessa? Come puoi avere una direzione, separata da qualsiasi altra cosa? Se ho un elenco di tutti i posti in cui sono andato e di tutti i bocconi di cibo che ho mangiato nella mia vita, questo rende me “me”?
È la totalità della mia esperienza, dei pensieri che mi vengono in mente.
È forse questo ciò che sono? I miei pensieri soltanto? Se scrivo tutti i miei pensieri, sono forse “me”? È come dire che Shakespeare è le sue opere. Mia madre ora ha l’Alzheimer, e credo che non pensi a niente; continua a esserci?
È molto interessante, perché abbiamo questa idea sbagliata non soltanto di noi stessi ma anche di altre persone. Diciamo: “C’è qualcosa di speciale in te che rende te ‘te’. Sei molto speciale”. Non possiamo dire esattamente che cosa sia, ma possiamo quasi assaporarlo, possiamo quasi sentire l’altra persona. Io faccio esperienza degli altri in questo modo. Faccio esperienza di me stesso in questo modo. Ma c’è davvero qualcosa che rende una persona “me” o “te”?
La forma di energia spirituale. Se guardo una persona, emette una forma di energia: questo è ciò che colgo di lei, ciò che la rende quella che è.
Anche da una sua foto? Anche se la ascolti al telefono? E quando dorme?
Allora non è solo qualcosa di attivo. L’energia spirituale di una persona ha due poli: uno attivo e uno passivo.
Quando dorme, come fai a sapere che questa energia spirituale è ancora lì? Come fai a sapere che c’è ma è passiva, e non del tutto assente? Per essere ancora in grado di etichettare correttamente questa persona come “tu”, anche quando dorme, non abbiamo bisogno di percepire quel segno caratteristico speciale, quella speciale energia spirituale?
Semplicemente, allora, non agisce.
Come fai a saperlo? Se questa energia è ciò che quella persona è, e noi non la percepiamo mentre dorme, quando ciò accade non è più quella persona? E quando è sola, e nessun altro sperimenta la sua energia spirituale, continua a essere quella persona?
Tutto ciò non dipende certamente dallo stato del corpo della persona. Che una persona sia sveglia o addormentata, l’energia spirituale è ancora lì, indipendentemente dallo stato del suo corpo.
Dov’è, allora? Possiamo addentrarci nella solita ricerca: è nel naso? È nelle mani? È nella mente? Dov’è?
Forse la caratteristica che rende me “me” è un’individuale e speciale raccolta di abitudini che cambiano in modo individuale e speciale, secondo il karma.
I testi utilizzano l’esempio di un carro, ma noi possiamo usare un’auto. Un’auto non è una raccolta di tutte le sue parti. Se le mettiamo tutte sul pavimento, qui, è forse questa l’auto? Il corpo è composto per il 78% da acqua e per il resto da altre sostanze chimiche. Quindi, se disponiamo tutto ciò in una raccolta di bottiglie sul pavimento, è forse questo quello che siamo? Non siamo soltanto la somma delle nostre parti, anche se riconosciamo che queste cambiano continuamente in base alle forze del karma.
Parte di ciò che rende “me” ognuno di noi è certamente il fatto che, in un senso molto neutro, facciamo un’impressione speciale sul nostro ambiente e su noi stessi.
E quell’impressione è forse ciò che siamo?
Non è ciò che siamo, ma dimostra che siamo.
Ebbene: è vero, effettivamente influenziamo le cose. Ma qui ci stiamo chiedendo se c’è una qualche caratteristica distintiva, una “cosa” dentro di me che rende me “me”. Il tuo punto, tuttavia, ci conduce all’intera questione della vacuità e della relazione causa-effetto di tipo comportamentale, che è molto importante capire. È producendo qualcosa che dimostriamo la nostra esistenza? Cartesio ha detto: “Penso, quindi sono”. “Lavoro e produco questo effetto, quindi sono” – è così?
Credo che gran parte di questo modo di pensare derivi dall’etica del lavoro di stampo protestante. Noi pensiamo che, se produciamo un effetto concreto, ciò dimostra che esistiamo veramente e ci rende persone meritevoli. “Esisto: ho prodotto qualcosa”. Anche tale pensiero si basa sul falso “io”. Noi pensiamo: “Se non produco nulla, non vado bene – e neppure esisto”.
Dobbiamo davvero trovare in noi un segno caratteristico individuale per dimostrare la nostra esistenza? Non è forse tipico degli esseri umani il voler dimostrare qualcosa?
Sì, voler dimostrare la nostra esistenza con qualcosa di rintracciabile dentro di noi, che renda me “me”, fa parte della nostra ignoranza: una cosa del genere non esiste. Peraltro, un “io” la cui esistenza è stabilita o provata da un segno caratteristico rintracciabile dal lato del corpo o della mente non si riferisce a nulla di reale. Questo è il livello successivo di ciò che stiamo confutando, un più sottile livello del nostro fantasticare su un modo impossibile di esistere.
Ciò che ci rimane dopo aver confutato il falso “io”
Che cosa ci rimane quindi, ora che abbiamo confutato ed eliminato l’idea sbagliata di un segno caratteristico distintivo rintracciabile? Ci resta soltanto un’etichettatura mentale. Questo “io” è semplicemente ciò cui la parola o il concetto “io” si riferisce sulla base degli aggregati, ma in essi – nel corpo o nella mente – non c’è nulla che possiamo trovare come “io”, o come segno caratteristico distintivo individuale che rende me “me”.
E per quanto riguarda grandi artisti o scienziati? Tutti affermano che il loro potere creativo derivi dall’intuizione, non da un processo intellettuale di etichettatura mentale.
Certamente, la creatività può giungere spontaneamente e non essere intellettuale o deliberata. Tuttavia, l’essere intellettuale e deliberato non è la stessa cosa dell’etichettatura mentale. Quest’ultima è ciò che è implicato nella questione se la persona è considerata di talento o no; non ha nulla a che fare con il suo processo creativo in sé stesso. In una società si direbbe: “Questo è un individuo di grande talento”. Per un’altra società, la stessa persona potrebbe essere considerata una folle eccentrica che non crea altro se non spazzatura. Il fatto che la persona esista come “talentuosa” – oppure no – sorge in modo dipendente da un’etichetta relativa al gruppo che compie l’etichettatura. Un bambino piccolo, quando guarda il disegno, non penserà: “Oh, è davvero bellissimo!” Semplicemente, lo accartoccerà e cercherà di metterselo in bocca.
Ma da un bambino noi possiamo imparare qualcosa.
È vero, e quanto apprendiamo qui è che affermare che una persona sia “talentuosa” è un giudizio di valore. Qualcuno crea una tela totalmente nera e un gruppo di critici d’arte dice: “Oh! Questa è una grande opera d’arte!” Altri la guardano e dicono: “Questa è spazzatura!”
Però la bellezza non dipende soltanto dall’etichettatura mentale, bensì da varie esperienze e molte altre cose, no?
Stai confondendo due cose. Il motivo per cui una società considera bello qualcosa ha a che fare con la sua storia, le sue religioni e filosofie, il suo ambiente e molti altri fattori. Qui non stiamo parlando del perché una società etichetti, tra tutti, soltanto qualcuno come talentuoso. Stiamo soltanto parlando del fatto che qualcuno esista come talentuoso per una società, e non per un’altra. Non stiamo parlando del “perché”. Stiamo dicendo che in una persona non c’è nulla di intrinseco e rintracciabile che la renda “di talento”, e in un dipinto non c’è nulla di intrinseco e rintracciabile che lo renda “un bellissimo dipinto”. Se ci fosse, allora tutti dovrebbero vedere quella persona come talentuosa e quel dipinto come bello. E se non li percepissero come tali, sarebbe per errore o cecità.
Molte persone, se guardano l’alba, fanno esperienza del diventare tutt’uno con tale avvenimento.
Questo è un esempio perfetto. Quando sono andato a vivere in India, i primi tempi andavo ogni sera a guardare il tramonto e i miei amici occidentali venivano con me. A casa mia viveva anche un monaco tibetano. Un giorno ci ha chiesto: “Che cosa state facendo?” Io ho detto: “Stiamo guardando il tramonto”. Ha chiesto perché e io ho detto: “Perché è molto bello”. Non riusciva assolutamente a capirlo. Pensava che fosse la cosa più folle del mondo. La contemplazione di un bel tramonto colorato è qualcosa di peculiare di una specifica cultura. E, naturalmente, in ciascuna cultura non tutti hanno gli stessi valori. In Francia non tutti amano i formaggi con un odore intenso; in India non tutti amano il peperoncino.
La domanda principale, quindi, è: “C’è qualcosa di rintracciabile in noi o in qualcun altro che ci renda ‘questa’ o ‘quella’ persona?” In primo luogo dobbiamo cercare di comprendere tutto ciò rispetto a noi stessi, se il nostro obiettivo è superare i problemi nella vita e ottenere la liberazione e l’illuminazione. Dobbiamo capire questo rispetto a noi stessi, quindi rispetto ad altre persone, e poi rispetto a tutti i fenomeni, come ad esempio i dipinti.
In sintesi
Permettetemi di provare a riassumere il nostro dibattito. La fonte dei problemi che abbiamo nella vita è la nostra mancanza di comprensione – o ignoranza – ossia la nostra inconsapevolezza. Essa riguarda la relazione causa-effetto di tipo comportamentale e la natura della realtà, il modo in cui esistono le persone – noi stessi e gli altri – e tutti i fenomeni intorno a noi. Rispetto a noi stessi abbiamo un’idea sbagliata, con la quale immaginiamo di esistere come un falso “io”. Qui però non stiamo sostenendo un punto di vista nichilista. Non stiamo dicendo che non esistiamo e che nulla esiste. Si potrebbe dire che questa mano non è altro che atomi ed elementi – sostanze chimiche. Se la tagliamo, però, proviamo dolore. Quindi convenzionalmente esiste, e convenzionalmente “io” esisto.
Abbiamo poi visto che questo “io” convenzionale è come un’astrazione che usiamo per riferirci agli aggregati, i fattori in continuo cambiamento che creano la nostra esperienza di istante in istante.
Abbiamo anche visto che la vacuità si riferisce all’assenza di modi di esistere fantasticati e impossibili. Noi operiamo una proiezione e pensiamo che questo “io” convenzionale esista in vari modi strani e impossibili, che non si riferiscono alla realtà. E non proiettiamo questo perché siamo persone stupide o cattive, ma perché la nostra mente ci fa apparire come esistenti in quel modo. E poi crediamo che la nostra proiezione su noi stessi sia vera, perché abbiamo la sensazione che sia vera.
Abbiamo anche visto che ci sono livelli sempre più sottili di questa idea sbagliata del sé ed è necessario affrontarli passo dopo passo. Prima confutiamo il livello più grossolano e poi lavoriamo con ciò che resta. Se iniziamo con l’ultimo, la nostra operazione diventa davvero insignificante. Dire semplicemente: “Non riesco a trovare nessun ‘io’ perché non sono nel mio naso, non sono nella mia bocca, non sono nel mio orecchio…” Questo non aiuta. O forse un poco aiuta – non dovrei essere così sarcastico… Comunque non è qualcosa di molto profondo.
Ciò che gli insegnamenti buddhisti dicono è che non esiste un “io” immutabile e monolitico, esistente come separato da una continuità individuale di fattori aggregati di corpo e mente. Quindi c’è un “io” che cambia, non monolitico, che fa parte degli aggregati.
Un tale “io” è forse un controllore degli aggregati? No, non esiste nulla del genere. C’è dunque un “io” che cambia e che non è un controllore all’interno degli aggregati. Quell’“io” mutevole e non controllore può forse essere conosciuto per conto proprio? No, non può. Ma se può essere appreso soltanto conoscendo, allo stesso tempo, gli aggregati su cui è etichettato, c’è forse qualcosa all’interno di quegli aggregati – un segno caratteristico distintivo intrinseco e rintracciabile – che consente a quegli aggregati – quella continuità individuale di corpo e mente – di essere correttamente etichettati come “me” e non come “te”? No.
Allora chi sono io? “Io” sono semplicemente ciò cui l’etichetta “io” si riferisce sulla base di questi aggregati, che sono la base della sua etichettatura. Quell’“io” cambia continuamente, possiede delle parti, non può mai essere separato dalla base della sua etichettatura, non è il controllore di quella base e non può essere appreso separatamente rispetto al conoscere simultaneamente anche qualche aspetto di quella base. E non è possibile trovare un segno caratteristico distintivo e rintracciabile, all’interno degli aggregati, che consenta una corretta etichettatura mentale, e di certo un tale segno distintivo rintracciabile non è “me”. La base dell’etichettatura e ciò che viene etichettato su di essa non possono essere la stessa cosa. Per quanto riguarda un’etichetta più specifica del semplice “io”, la mia famiglia potrebbe essere d’accordo a chiamarmi con un certo nome e i miei amici tibetani con un altro nome, e le zanzare potrebbero etichettarmi come un pasto. Posso esistere in modo valido come tutte queste cose diverse per questi gruppi, semplicemente sulla base della sola etichettatura mentale.
Per tornare al dibattito di questa mattina: che cos’è l’arancia? È la vista? È il suono? È l’odore? È il gusto? Dipende dal tipo di coscienza che ha a che fare con essa. Non c’è un odore caratteristico che può essere trovato all’interno dell’arancia e che la renda un’arancia. Non c’è la possibilità di guardare dentro gli atomi e dire: “C’è l’arancia”.
È vero che qualcosa deve essere in grado di svolgere la funzione che corrisponde all’etichetta che le diamo. Se chiamo questa sedia “un cane”, questo non la rende un cane. Non può funzionare come un cane. Esistono varie convenzioni e regole che permettono una corretta etichettatura mentale, senza che debba esserci qualcosa di rintracciabile nell’oggetto.
Questo è molto importante perché, quando neghiamo o confutiamo qualcosa con la vacuità, che cosa deve essere negato? Questo falso “io”. Alla fine di tale confutazione non ci ritroviamo soltanto con un nulla, completamente persi. Se la pensiamo così, il pericolo è pensare che nulla importi e che quindi il nostro comportamento non faccia alcuna differenza. Di fatto, le cose funzionano in base alla relazione causa-effetto, in base all’esperienza e così via. Tutte queste cose funzionano.
Idee sbagliate basate sulla credenza in un falso “io”
Ripasso
Abbiamo parlato della fonte dei problemi nella nostra vita, ossia la nostra ignoranza o inconsapevolezza circa la relazione di causa ed effetto di tipo comportamentale e la natura della realtà: o non le capiamo o le comprendiamo in modo errato. A causa della nostra inconsapevolezza rispetto alla natura della realtà, sopraggiunge l’afferrarci alla vera esistenza. Possiamo definire la vera esistenza in molti modi diversi; in parole semplici, le cose sembrano esistere come “cose” concrete e crediamo che questo sia veramente il modo in cui esistono. Il nostro corpo sembra essere solido e concreto, mentre in realtà è costituito da atomi e campi energetici. Non è per nulla solido. Allo stesso modo, i nostri problemi sembrano essere concreti, ma in realtà sono costituiti da istanti che cambiano, uno dopo l’altro. In essi non c’è nulla di concreto.
Possiamo afferrarci alla vera esistenza di persone o di fenomeni. Con “persone” intendiamo noi stessi o gli altri. Qui ci siamo principalmente concentrati sui problemi che abbiamo rispetto alla nostra visione di noi stessi, di chi siamo. Abbiamo parlato di questo dalla prospettiva dei cinque aggregati. Ogni momento della nostra esperienza è costituito da uno o più elementi di cinque sacchi o raccolte. In ogni istante è sempre coinvolta una qualche forma di fenomeno fisico: il nostro corpo, il cervello, le cellule fotosensibili dei nostri occhi e così via. La forma include anche immagini, suoni, odori e così via – ad esempio la visione del corpo di qualcun altro. Poi c’è la coscienza primaria: il canale su cui, in ogni caso, ci troviamo – mentre stiamo guardando, ascoltando, gustando, annusando, provando una sensazione fisica o pensando. C’è anche il discernimento. Nello specifico campo della nostra consapevolezza – visivo, uditivo o altro – distinguiamo un oggetto dallo sfondo. C’è, inoltre, un certo livello di felicità o infelicità soggettiva. E poi c’è un altro grande sacco con tutte le altre cose che influenzano la nostra esperienza, ed esso include tutte le emozioni, positive e negative, tutte le nostre spinte e i nostri impulsi a compiere determinate azioni (karma), così come l’interesse, l’attenzione e la concentrazione – aspetti che aiutano a concentrarci su qualcosa. In questo grande sacco ci sono anche cose che appartengono alla terza categoria fondamentale dei fenomeni non immutabili: cose non immutabili che non sono né una forma di fenomeno fisico né un modo di essere consapevoli di qualcosa. Ciò include le nostre abitudini, l’età e l’“io” convenzionale.
L’“io” convenzionale è davvero un’imputazione, ma possiamo stabilire la sua esistenza soltanto mediante la mera etichettatura mentale. In ogni momento abbiamo i cinque aggregati che cambiano, ognuno dei quali si trasforma a una velocità diversa. Quando pratichiamo la meditazione di consapevolezza della tradizione Theravada, ciò di cui proviamo a essere consapevoli è il costante cambiamento di ciò che accade, in modo da comprendere, alla fine, che in tutto questo cambiamento non c’è un “io” solido. In ogni caso, quando parliamo dell’“io” convenzionale nel Mahayana, esso è soltanto un’astrazione, imputata come un modo per tenere insieme una continuità individuale dei fattori – sempre mutevoli – di un’esperienza soggettiva.
Questo processo di cambiamento si svolge in una sequenza individuale, come un film, e la sequenza è determinata dal karma e dalla relazione di causa ed effetto di tipo comportamentale, nonché da tutto ciò di esterno con cui interagiamo. Proprio come in un film che viene riprodotto, c’è continuità anche se non c’è nulla di solido che passa da un fotogramma all’altro; allo stesso modo, nulla di concreto passa da un momento all’altro nel film della nostra vita. Eppure c’è continuità. Facciamo attenzione, però, all’analogia del film. Non stiamo parlando della striscia di plastica continua su cui sono stampati i fotogrammi di un film, o dello schermo bianco su cui viene proiettato il film. Stiamo soltanto parlando del film stesso, mentre viene riprodotto.
Proprio come il film in sé non è il suo titolo, allo stesso modo l’“io” convenzionale non è soltanto un modo di riferirci con una parola a questo flusso di aggregati. L’“io” convenzionale non è una parola: è ciò che essa significa; è il significato della parola sulla base di un continuum di fattori in continuo cambiamento. L’“io” convenzionale è simile a un’illusione perché in esso non c’è nulla di solido. Il problema è che non sembra essere così. Ci sembra che ci sia qualcosa di solido e crediamo sia vero.
Il livello più grossolano di ciò che appare è ciò in cui i buddhisti dicono che gli induisti credono (mi esprimo in questi termini per correttezza nei confronti degli induisti). In questo contesto, non ci importa sapere in che cosa credano realmente gli induisti di oggi. Il Buddhismo si riferisce a una visione falsa che ci sembra vera. Ciò che ci appare non è simile all’analogia del film, anzi: è un solido “io”, una sorta di statua solida che si sposta all’interno della vita su un nastro trasportatore.
Ci sono tre caratteristiche in quel falso “io”. In primo luogo, esso è immutabile, nel senso che non solo non cambia ma non è neppure influenzato da nulla e non influenza nient’altro. Sembra isolato dal processo di causa ed effetto, come se potessimo ritirarci in un piccolo “io” speciale dentro di noi ed evitare tutto. In secondo luogo, sembra anche che questo “io” sia monolitico, sia senza parti e rimanga sempre uguale a sé stesso. La terza caratteristica prevede che sia separato dagli aggregati, che non ne faccia parte, come se fosse qualcosa che può dissociarsene e volare via in un altro corpo e un’altra mente.
Quando parliamo della vacuità dell’“io” non stiamo negando o confutando l’“io” convenzionale, e neppure l’esistenza della proiezione di un falso “io”. Stiamo confutando il fatto che l’“io” convenzionale esista nella modalità di un falso “io”. La parola “vacuità” indica “un’assenza”. Ciò che è assente è il fatto che la nostra proiezione di un falso “io” si riferisca a qualcosa di reale – è assente un vero referente della nostra proiezione. Non è assente nel senso in cui un elefante è assente nella stanza poiché si trova nell’altra. È assente nel senso in cui non c’è un elefante rosa in questa stanza. Gli elefanti rosa non esistono. Ma è più di questo. È assente nel senso in cui questa stanza non esiste come occupata da un mostro. La vacuità si riferisce all’assenza di un modo impossibile di esistere che non è mai assolutamente esistito.
Quando eliminiamo questo modo di esistere totalmente immaginario e impossibile – l’esistenza come un “io” statico e monolitico, separato dagli aggregati – ecco che vediamo che cosa ci rimane. Rimane un “io” che cambia continuamente, ecc., ma su cui operiamo la proiezione del ruolo di capo, di controllore che preme i pulsanti e decide che cosa fare. Si preoccupa ed è l’autore della voce che abbiamo nella nostra testa. A tutti noi sembra essere quello che veramente siamo.
Quando vediamo che anche questo non si riferisce a nulla di reale ed è solo una proiezione basata su apparenze, allora ciò che comunque continuiamo a proiettare è un “io” che, tuttavia, può essere conosciuto per conto proprio. Quando voglio che qualcuno ami “me” e soltanto “me”, per me stesso e nient’altro, non sto forse pensando che qualcuno possa amarmi senza amare contemporaneamente qualcosa di me, come il mio corpo, l’intelletto, la personalità, il senso di umorismo, il modo di fare, i beni, ecc.? Questo è semplicemente impossibile.
Ora, quindi, ci rimane l’etichettatura mentale. Tuttavia penso – ed è la mia mente a farmi avere questa percezione – che ci debba essere un segno caratteristico distintivo individuale e rintracciabile dentro di me che renda me “me” e non “te”, e mi permetta di essere correttamente etichettato come “me” e non “te”. Mi è difficile dire che cosa renda me “me”, ma penso che ci debba essere qualcosa. Quando però indago per vedere se c’è qualcosa che mi rende ciò che sono, permettendo una corretta etichettatura, scopro che non c’è nulla di rintracciabile. Quello che mi rimane è il fatto che la mia esistenza come “me” sia stabilita soltanto nei termini di una mera etichettatura mentale.
I tre fattori che determinano la validità di un’etichettatura mentale
Sono forse corrette tutte le etichette mentali, semplicemente di per sé? Se qualcuno pensa che io sia una finestra e mi chiama “finestra”, questo implica forse che io sia una finestra? Ovviamente no. L’etichettatura mentale diventa valida sulla base di tre fattori. In base al primo, l’etichetta deve essere una convenzione rispetto alla quale ci sia accordo e utilizzo da parte di un determinato gruppo di persone, e ciò che viene etichettato come un qualcosa deve essere in grado di funzionare come tale. Potremmo essere etichettati come “insegnanti” dai nostri studenti, “parenti” dalla nostra famiglia e “colazione” dalla zanzara. Ogni etichetta è valida perché funzioniamo in ciascuno di questi modi per i rispettivi gruppi di esseri. E così ciò stabilisce la nostra esistenza convenzionale come insegnanti, parenti e colazioni, rispettivamente per ciascuno di questi gruppi.
In base al secondo fattore, l’etichettatura deve non essere contraddetta da una mente che vede la verità convenzionale in modo valido. Se un gruppo di persone miopi ci guarda, senza occhiali, dalla parte opposta della stanza e ci vede come qualcosa di sfuocato, questo non ci rende tali. Non siamo una massa sfuocata. Ciò infatti viene contraddetto non appena indossano nuovamente gli occhiali.
In base al terzo fattore, l’etichettatura deve non essere contraddetta da una mente che vede la verità più profonda in modo valido. Se un gruppo di persone pensa che ci sia qualcosa di rintracciabile dentro di me che rende me “me” o che mi rende davvero un mostro, questo non fa sì che ciò sia vero. Quando comprendiamo la realtà, ci rendiamo conto che nessuno esiste in quel modo. Una persona può comportarsi come un mostro in determinate situazioni, ma ciò non significa che sia per sempre immutabile e che sia un mostro per tutti. Dovrebbe essere un mostro anche per il suo cane. L’“io” esiste nei termini della sola etichettatura mentale.
Quando vediamo che la nostra proiezione di un falso “io” esistente come mostro, per esempio, non si riferisce a nulla di reale, smettiamo di proiettare il falso “io” e il “mostro”. Quando smettiamo di proiettarli, non significa che il film sia finito: il film dei nostri aggregati e dell’“io” convenzionale continua. Ad esempio, quando vediamo un horror e smettiamo di proiettare il fatto che ci sia un vero mostro che ci stia per catturare, il film continua. Ciò che in esso accadrà sorgerà in dipendenza di cause e condizioni, in base a quanto vi è già accaduto.
Lo stesso discorso vale per la nostra vita. L’“io” convenzionale continua, anche dopo che abbiamo compreso la vacuità. La base su cui è etichettato quell’“io” è la continuità di fattori aggregati che compongono ogni momento della nostra esperienza soggettiva individuale, e che hanno luogo uno dopo l’altro in base alla relazione di causa ed effetto di tipo comportamentale.
Prospettive ingannevoli
Ora diremo qualcosa su ciò che consegue all’afferrarci alla vera esistenza; sebbene possiamo afferrarci alla vera esistenza delle persone o di tutti i fenomeni, ora parleremo soltanto delle persone. L’afferrarci alla vera esistenza delle persone proietta un qualche livello di falso “io” sull’“io” convenzionale e crede che questo falso “io” sia vero. Può farlo in riferimento all’“io” convenzionale nostro o di qualsiasi altra persona in qualsivoglia forma di vita – essere umano, animale, fantasma e così via. Per dirla in parole molto semplici: l’afferrarci alla vera esistenza di una persona opera una proiezione e crede in una sorta di “io” solido e sostanziale.
Ciò che consegue da tale comprensione è una prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria (’jig-lta). Le prospettive ingannevoli sono una forma di emozione o atteggiamento disturbante. Le emozioni e gli atteggiamenti disturbanti sono fattori mentali che, quando sorgono e accompagnano un momento della nostra cognizione sensoriale o mentale, ci fanno perdere la pace mentale e il controllo. Mettono a disagio noi stessi o gli altri. Alcuni di essi non implicano alcuna visione della vita e, in termini occidentali, li indicheremmo come “emozioni disturbanti” – quali la rabbia e l’attaccamento. Altri invece implicano una visione della vita e dovremmo chiamarli “atteggiamenti disturbanti”. Ce ne sono cinque; il primo di tali atteggiamenti disturbanti implicanti una visione della vita è una prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria. La “rete transitoria” si riferisce alla rete dei nostri cinque aggregati transitori che cambiano. Sebbene l’afferrarci alla vera esistenza di una persona possa essere diretto a noi stessi o a qualsiasi altro essere, una prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria è definita come diretta soltanto verso noi stessi.
L’illustrazione di questa prospettiva ingannevole è piuttosto complessa. La maggior parte dei sistemi buddhisti afferma che essa si focalizza su una qualche rete dei nostri aggregati e li considera erroneamente, in termini di falso “io”, come “io” o “mio”. Nel sistema Gelug Prasangika questa prospettiva ingannevole si focalizza sulla rete di aspetti del nostro “io” convenzionale e, proiettandovi un falso “io”, identifica quel falso “io” come identico agli aggregati o come “me stesso, il loro possessore”. Per semplificare il discorso, assumeremo il punto di vista della prima posizione.
Una prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria ha un aspetto riguardante l’“io” e tre riguardanti “il mio”. Poiché ciascuno di questi quattro può essere correlato a ognuno dei cinque aggregati, abbiamo venti prospettive ingannevoli rispetto a una rete transitoria. Qui parleremo soltanto delle prospettive ingannevoli in relazione al corpo.
La prima è: “Io sono questo corpo”. Questa è l’idea di un “io” solido che è identico a questo corpo. Ci guardiamo allo specchio e pensiamo: “Sono una persona anziana”, “Sono grasso”, “Sono magro” e così via. Potremmo identificarci anche con la mente: “Sono intelligente. Sono la mia mente”. Ancora una volta, il tipo di falso “io” qui implicato è immutabile, monolitico, non influenzato da nulla. A chi pensa di essere grasso, quindi, non importa quale sia il suo peso effettivo: nella sua mente è “grasso”. Per una persona che crede di essere brutta, non importa quanto bella gli altri dicano che sia; nella sua mente pensa: “Non lo state dicendo per davvero. Sono brutto”.
Gli altri tre tipi di prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria considerano gli aggregati – il corpo, ad esempio – come il “mio”, ossia come qualcosa che il falso “io” possiede, controlla o abita. Il primo considera gli aggregati come qualcosa che io possiedo come “mio”. Quando diciamo: “Questo è mio, lo possiedo, ce l’ho”, possiamo usare queste espressioni in due modi. Il primo: “Questo corpo è mio”. Il secondo: “Questo pollo è mio”. C’è una differenza: il corpo è sempre con noi, il pollo no. Alcune forme comuni che tale idea sbagliata assume tra gli uomini potrebbero essere le seguenti: “Ho un organo sessuale”, “Ho un corpo muscoloso”. Oppure, per una donna: “Ho un grembo. Posso avere un figlio”. Invece – in linea con l’esempio: “Ho un pollo” – un’altra forma potrebbe essere: “Ho dei soldi”, “Possiedo una bella casa” oppure “Ho una macchina veloce”. “Sono ‘miei’”. Fraintendiamo un “io” solido che possiede una parte dei nostri aggregati come il suo possedimento, come “mio”.
Abbiamo già esaminato la seconda forma di questa prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria come ciò che è “mio”: avere un’idea sbagliata dei nostri aggregati – quali il nostro corpo o il nostro grembo – secondo cui essi sarebbero qualcosa che questo “io” solido può controllare e usare a proprio piacimento. La terza forma riguarda, ad esempio, la nostra testa o il nostro cervello come la sede dove si trova l’“io” solido. Pensiamo: “Nella mia testa continua a esserci una voce, quindi ‘io’ sono lì”.
I tre atteggiamenti velenosi
Queste sottocategorie della prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria ci danno molto da pensare. Dobbiamo riconoscerle in noi stessi. Scopriremo che ci sembra davvero che le cose stiano così. Ad esempio, pensiamo: “Ho una bella mente”, come se ci fosse un “io” solido che può possedere una mente. Sulla base di tale visione di noi stessi, sviluppiamo emozioni disturbanti. Abbiamo insicurezza circa questo “io” apparentemente solido e circa la bella mente che possiede, e quindi con arroganza, per esempio, sentiamo di dover dimostrare quanto siamo intelligenti rispondendo a tutte le domande in classe, senza lasciare a nessun altro l’opportunità di farlo.
Le emozioni disturbanti più comuni sono i tre veleni, ossia tre emozioni o atteggiamenti velenosi: ingenuità, desiderio bramoso e ostilità. Il termine corrispondente a “ingenuità” – in sanscrito: moha – non è molto semplice da tradurre. In passato l’ho tradotto come “ignorante ristrettezza mentale” e come “confusione insensata”. È una sottocategoria dell’ignoranza, o inconsapevolezza, che può riguardare la relazione di causa ed effetto di tipo comportamentale o la realtà. L’inconsapevolezza della relazione di causa ed effetto di tipo comportamentale accompagna soltanto degli stati mentali distruttivi; l’inconsapevolezza della realtà, invece, può accompagnare, oltre a quelli distruttivi, anche stati mentali costruttivi ed eticamente neutri. L’“ingenuità” si riferisce unicamente a quell’inconsapevolezza – di causa ed effetto o della realtà – che accompagna degli stati mentali distruttivi.
Ad esempio: con una prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria, potremmo identificare un “io” solido nel nostro genere – nell’essere un uomo. Un esempio di ingenuità basata su questo sarebbe l’inconsapevolezza che accompagna l’uccisione in duello di qualcuno che ci ha insultati, credendo che ciò provi che siamo uomini. D’altra parte, quando aiutiamo qualcuno a svolgere un lavoro fisico pesante e pensiamo che, così facendo, questo dimostri che siamo uomini, il nostro atteggiamento è un esempio di inconsapevolezza o ignoranza, ma non di ingenuità. Anche aprire una bottiglia di birra con i denti e pensare che ciò dimostri che siamo uomini è ignoranza, ma non ingenuità. È evidente che neppure “ingenuità” è una buona traduzione per tale atteggiamento velenoso, ma non riesco a pensare a un modo migliore per tradurlo.
La seconda emozione velenosa è il desiderio bramoso. Mediante questa emozione disturbante esageriamo le buone qualità di qualcosa o qualcuno che non abbiamo, e sentiamo che dobbiamo averlo. Secondo un’altra definizione, questa emozione disturbante è l’attaccamento. Anch’esso esagera le buone qualità di qualcosa o qualcuno ma, in questo caso, di qualcosa o qualcuno che abbiamo e non vogliamo lasciar andare. Ad esempio: potremmo vedere noi stessi come un “io” solido, e la nostra mente e i libri nella nostra casa come il “mio”. Con desiderio bramoso esageriamo le buone qualità dei libri, li consideriamo attraenti dal loro lato, e sentiamo di doverne comprarne sempre di più – anche se non abbiamo tempo di leggerli – per dimostrare che siamo degli “intellettuali”. Potremmo fare lo stesso con gli amici, l’attenzione o qualsiasi altra cosa, nella speranza di rendere sicura la nostra identità.
La terza emozione velenosa è la rabbia o ostilità. È uno stato mentale brutale che esagera le cattive qualità di qualcosa o qualcuno e vuole danneggiarlo o liberarsene. La rabbia può essere diretta alla nostra stessa sofferenza o a situazioni che possono causare sofferenza. Possiamo arrabbiarci con una persona, con la nostra malattia o con le pareti di una prigione. È come se la nostra malattia potesse essere eliminata e colpita. Qualcosa ci minaccia, minaccia la nostra identità di “io” solido. Ad esempio, potremmo avere questa sensazione: “Sono una persona ordinata. Ho determinate abitudini. Questo è il modo in cui mi prendo cura della mia cucina”. Poi qualcuno vi entra, sposta le cose e agisce diversamente da noi, e allora diventiamo molto ostili e vogliamo cacciare quella persona dalla “NOSTRA cucina” – “Questo è il modo in cui io faccio questa cosa!” Questa è l’ostilità.
Tali emozioni e atteggiamenti velenosi fungono da condizioni per il sorgere di un impulso karmico. Il karma è un impulso o una spinta. Potrebbe essere la spinta a dire qualcosa di molto crudele: “Esci dalla mia cucina, idiota!” Oppure vediamo un libro in un negozio e pensiamo compulsivamente: “Devo ottenerlo!”. Vediamo un gruppo di uomini e c’è una bottiglia di birra, e pensiamo: “Devo mostrare a tutti quanto sono uomo!” La spinta a dire qualcosa di crudele, comprare il libro o aprire la bottiglia di birra con i denti è karma. Seguiamo quell’impulso e compiamo varie azioni, che poi producono degli effetti. La scena successiva del film potrebbe non essere delle migliori.
Ecco come funziona tutto ciò, in una presentazione molto semplice. Questo è il motivo per cui vogliamo liberarci dell’afferrarci alla vera esistenza. Non è sufficiente liberarci della nostra prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria. Se ci identifichiamo con il nostro essere persone basse, grasse, brutte e che nessuno ama, potremmo renderci conto che ciò è ridicolo: non si riferisce a nulla di reale. Questo però non elimina il nostro afferrarci alla vera esistenza. Potremmo avere un corpo relativamente basso, grasso e brutto e renderci conto che questa non è la nostra vera identità, eppure afferrarci ancora a un “io” solido e, su tale base, agire in modo egoistico. Dobbiamo arrivare alla radice: l’afferrarci alla vera esistenza.
Dovrei aggiungere che, se non ci afferriamo a un “io” solido, non ci afferriamo a una sua identità che sia tra i nostri aggregati – il nostro corpo, ad esempio – e quindi non pensiamo che questo “io” solido possieda qualcosa, come ad esempio un corpo sessualmente attraente. Se non abbiamo questa idea sbagliata, non abbiamo il desiderio bramoso con cui potremmo inconsciamente avere la sensazione che una relazione sessuale ogni notte con un partner diverso dimostri che abbiamo un corpo sexy e che esistiamo. Con questo esempio possiamo vedere che, se ci liberiamo della radice dei nostri problemi, il resto cade a pezzi.
Ascoltare e pensare
Come meditiamo su tutto questo? Come ne facciamo uso? Prima di tutto, permettetemi di spiegare qualcosa sulla teoria della meditazione. “Meditazione” significa creare qualcosa come un’abitudine positiva. Per cominciare, cerchiamo di ascoltare una spiegazione corretta. Il secondo passaggio è riflettere su di essa, in modo da capirla. Se tutto il nostro tempo per la meditazione è dedicato a questo secondo passo – cercando di comprendere, ad esempio, il significato della vacuità – non c’è problema. Dobbiamo prenderci del tempo per farlo. Non è facile. Dobbiamo capire che cosa abbiamo sentito o letto e convincerci che sia corretto. Se non riteniamo che sia corretto, perché dovremmo volerlo adottare? La vera e propria meditazione implica dunque il far proprio ciò che abbiamo ascoltato e compreso, integrandolo in noi stessi. Nel caso della meditazione sulla vacuità di noi stessi, dobbiamo essere in grado di generare una comprensione corretta e quindi praticare, considerandoci alla luce della stessa. Attraverso una frequente ripetizione, la meditazione costruisce tale comprensione come un’abitudine benefica.
Per capire la vacuità ed essere convinti che sia corretta dobbiamo compiere un’analisi utilizzando la logica. Come conosciamo le cose? Qual è un modo valido di conoscere? Nel Buddhismo parliamo di due modi validi di conoscere qualcosa: percependola direttamente mediante i nostri sensi, oppure deducendola. Ad esempio: guardiamo una montagna e, vedendo lì una casa, capiamo in modo valido che c’è una casa sul pendio della montagna. Lo sappiamo per via di una cognizione diretta, senza bisogno di fare affidamento sulla logica.
Come facciamo però a sapere se c’è qualcuno che vive in quella casa o la usa? Ogni giorno vediamo del fumo uscire dal camino. Non possiamo vedere se ci sono persone in casa, ma possiamo dedurre che, se c’è fumo che esce dal camino non solo una volta bensì ogni giorno, qualcuno deve accendervi un fuoco all’interno e quindi ci deve essere qualcuno che vive lì o si reca laggiù ogni giorno. Lo sappiamo per via di una cognizione inferenziale.
Per una deduzione dobbiamo fare affidamento su una linea di ragionamento valida. In questo caso sarebbe la seguente: ovunque ci sia del fumo c’è del fuoco. Il fumo esce dal camino ogni giorno, quindi ci deve essere un fuoco in casa ogni giorno. Se c’è un fuoco in casa ogni giorno, ci deve essere qualcuno che accende il fuoco ogni giorno. Se in casa c’è qualcuno che accende il fuoco ogni giorno, deve esserci qualcuno che vive in quella casa o che la visita ogni giorno. Dobbiamo fare affidamento su questa linea di ragionamento per generare la comprensione, o convinzione, che lì ci sia una persona.
La comprensione, qui, è mediante una convinzione basata sulla logica. Questo è un punto importante. Dobbiamo essere convinti che sia vero: lì c’è qualcuno che vive o che vi si reca. Non si tratta soltanto di pensare che forse c’è qualcuno. Allo stesso modo, per quanto riguarda la comprensione della vacuità, non si tratta soltanto di pensare che probabilmente non esiste un “io” solido. Dobbiamo sapere che non esiste un “io” solido. Quindi, per comprendere e convincerci di qualcosa, facciamo affidamento su una linea di ragionamento valido. Questo è il secondo passo che porta alla meditazione: contemplare o pensare.
Meditare
Con il terzo passo, percorriamo nuovamente la linea del ragionamento. Ciò fa parte di quella che talvolta è detta “meditazione analitica”, ma che io preferisco chiamare “meditazione di discernimento”, poiché l’analisi è ciò che principalmente svolgiamo durante il secondo passo, il pensare, al fine di raggiungere comprensione e convinzione. Ora, tuttavia, seguiamo ancora una volta la linea del ragionamento, semplicemente per generare comprensione e convinzione in modo fresco – “fresco” significa “vivido” nella nostra mente. Fermiamo poi il processo del pensiero verbale e proviamo a discernere le cose con quella convinzione.
Prima stavamo parlando di come possiamo discernere che non c’è un elefante in questa stanza. Possiamo discernerlo, possiamo vederlo. Possiamo capire che non ci sono mostri nella stanza. Possiamo anche capire che la stanza non è posseduta dai mostri. Allo stesso modo, discerniamo che non siamo posseduti da un falso “io” dentro di noi. Cerchiamo di capirlo senza dire nulla nella nostra testa.
Quando siamo veramente capaci di discernere l’assenza di un falso “io”, lasciamo allora che ciò penetri in profondità. Questo lasciarlo penetrare in profondità è chiamato “meditazione stabilizzante” o “meditazione di concentrazione”. Quindi alterniamo meditazioni discernenti e stabilizzanti. Quando la nostra meditazione stabilizzante non è più molto chiara, dobbiamo cercare di nuovo di discernere attivamente tale assenza. Per farlo, potremmo aver bisogno di ripercorrere la linea di ragionamento per rinfrescare ancora una volta la nostra comprensione. Una volta che avremo familiarità con la vacuità, saremo in grado di generarne la comprensione più e più volte senza dover fare affidamento sulla linea di ragionamento: non dovremo generarla mediante l’inferenza.
Quando abbiamo una cognizione inferenziale di qualcosa attraverso una linea di ragionamento, la conosciamo concettualmente. Ciò significa che conosciamo quel qualcosa attraverso una categoria cui appartiene. Ad esempio: effettivamente non vediamo la persona nella casa sul pendio della montagna, ma pensiamo al fatto che lì ci sia una persona mediante la categoria generale una persona. In parole semplici, pensiamo alla persona laggiù attraverso l’idea di una persona. Tale idea non ha bisogno di avere una forma o una sagoma specifica, a essa associata, delle sembianze di una persona – e men che meno delle sembianze di quella specifica persona. Tuttavia, può avere una sorta di immagine immaginata associata a essa, per rappresentare una persona, o può avere il suono mentale della parola persona associata a essa.
Allo stesso modo, quando abbiamo una cognizione inferenziale dell’assenza di un “io” solido, ci concentriamo su di esso concettualmente, attraverso la categoria assenza. Quando però ci concentriamo, mediante questa categoria, sulla totale assenza che è la vacuità, deve apparire alla nostra mente qualcosa che è associato a quella cognizione concettuale. Ciò che appare ricorda l’aspetto di uno spazio vuoto.
Il Buddhismo definisce lo “spazio” come un’assenza di qualsiasi impedimento tangibile che ostacolerebbe l’esistenza spaziale o il movimento di qualcosa di materiale. Che aspetto ha uno spazio vuoto? Ebbene, quando vediamo l’assenza di un elefante in questa stanza, che cosa vediamo? Non vediamo “niente”. Però sappiamo che il nulla che vediamo è l’assenza di un elefante, giusto? Non è soltanto un nulla, vero? Pensateci.
La vacuità è come lo spazio, nel senso che è l’assenza di un qualsiasi modo impossibile di esistere che impedirebbe l’esistenza convenzionale di qualcosa o il funzionamento di qualcosa nel contesto della relazione di causa ed effetto. Allo stesso modo, quando ci focalizziamo su di essa attraverso la categoria vacuità o assenza, ciò che ci appare associato a essa è come uno spazio vuoto: nulla. Ma comprendiamo che questo nulla è l’assenza di un modo impossibile di esistere.
Nel primo passo della nostra meditazione sulla vacuità abbiamo una cognizione inferenziale della stessa. La nostra cognizione inferenziale è concettuale – così come tutte le cognizioni inferenziali. È sorta direttamente sulla base di una linea di ragionamento e si concentra sulla vacuità attraverso la categoria vacuità. È come concentrarsi, attraverso la categoria una persona, sulla persona nella casa sul pendio della montagna. Non possiamo vederla e non sappiamo esattamente che aspetto abbia la persona, ma abbiamo l’idea generale di una persona. Allo stesso modo, non possiamo vedere e non conosciamo esattamente l’aspetto della vacuità – o, più precisamente, come appare l’aspetto associato a una cognizione non concettuale della vacuità – ma abbiamo l’idea generale di un’assenza, come nel caso di uno spazio vuoto.
Nel passaggio successivo, dopo questa cognizione inferenziale abbiamo una cognizione diretta concettuale della vacuità. Secondo la presentazione Gelug della scuola Madhyamaka Prasangika del Buddhismo indiano, la cognizione diretta ha due aspetti: concettuale e non concettuale. Entrambi sono “diretti”, perché nessuno dei due si basa direttamente su una linea di ragionamento. La cognizione diretta concettuale della vacuità si concentra anch’essa sulla vacuità attraverso la categoria una vacuità o un’assenza. Ciò che a essa appare è ciò che appare anche alla cognizione inferenziale: qualcosa come uno spazio vuoto, come un nulla.
Molto tempo, molta fatica e un enorme accumulo di potenziale positivo (merito) sono necessari per ottenere una cognizione diretta non concettuale della vacuità. Alla fine, però, la otterremo. A quel punto la nostra concentrazione sulla vacuità non avverrà attraverso la categoria vacuità. Ci sembrerà ancora simile a uno spazio vuoto o al nulla, ma la nostra cognizione sarà molto più vivida rispetto a quando era concettuale.
Una volta raggiunta la cognizione diretta non concettuale della vacuità, avremo soltanto iniziato il processo attraverso cui liberarci dell’afferrarci a un vero “io” solido. Dobbiamo acquisire una familiarità duratura con la cognizione della vacuità. È un processo lungo perché l’inconsapevolezza, o ignoranza, è profondamente radicata in tutti noi. Innanzitutto, ci liberiamo dell’afferrarci che ha una base dottrinale, sorto dall’apprendimento di visioni non buddhiste della realtà. Poi, grazie ad altra meditazione, ci liberiamo dell’afferrarci che sorge spontaneamente e che persino gli animali possiedono. Un cane, ad esempio, ha il suo territorio, che considera il “mio”, e abbaia a chiunque vi entri. Nessuno ha dovuto insegnare al cane a farlo. Infine, induciamo la nostra mente a smettere di produrre e proiettare apparenze di vera esistenza. Solo allora raggiungiamo l’illuminazione.
Meditazione di analisi in quattro punti sulla vacuità
L’analisi in quattro punti: né uno né molti
Abbiamo parlato della vacuità nel Buddhismo, in particolare dal punto di vista dell’assenza di una vera identità in noi stessi – l’assenza di un impossibile falso “io” – e abbiamo detto qualcosa circa il modo in cui meditare. Ora metteremo insieme questi due soggetti e prenderemo in considerazione uno dei modi più comuni di meditare sulla vacuità. Di solito è definito “analisi in quattro punti” e si utilizza la linea di ragionamento chiamata “né uno né molti”. Il primo punto consiste nel riconoscere l’oggetto da confutare; il secondo nel convincersi che la linea di ragionamento per confutarlo, vale a dire “né uno né molti”, lo confuta per davvero; il terzo punto consiste nel confutare “uno”; il quarto nel confutare “molti”. La conclusione consiste nel fatto che, poiché il falso “io” non è né uno né molti, il falso “io” non esiste. Lo scopo del ragionamento è arrivare a questa conclusione. Quando vi giungiamo, proviamo a comprendere noi stessi alla luce di ciò che abbiamo capito e poi cerchiamo di stabilizzare tale visione.
Nel corso delle nostre riflessioni abbiamo già trattato il primo punto: riconoscere l’oggetto da confutare. Per esprimerlo in modo molto semplice, useremo l’idea di un falso “io” come una sorta di “cosa” solida. Con una prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria, potremmo identificare questo falso “io” con una parte degli aggregati, come ad esempio il nostro corpo, e poi pensare: “Sono attraente”. Così facendo, osserviamo le cose come se fossero solide, come se tutto avesse un contorno netto attorno a sé, come in un libro da colorare per bambini. Pensiamo che le cose esistano come se fossero contornate da linee marcate: “Questo sono ‘io’. Questo è il mio ‘corpo’. Questa è la mia ‘mente’” e così via.
Se le cose esistessero in questo modo, potrebbero esistere soltanto o come una o come molte. O c’è una cosa con una linea attorno o ci sono molte cose con una linea attorno. Se non ci sono né una né molte cose contornate da una linea, allora qualcosa con una linea attorno non esiste. Questa è la linea di ragionamento, espressa in un modo molto semplice.
Per comprendere tale linea di ragionamento, e per convincersi che effettivamente provi ciò che afferma di dimostrare, è necessario riflettere. Ad esempio, se ci sono degli scarafaggi nella camera da letto, e non possono entrare o uscire, ci sono soltanto due possibilità: nella stanza o c’è soltanto uno scarafaggio o ce ne sono molti. Non c’è altra possibilità. Se non riusciamo a trovare né uno né più scarafaggi nella camera da letto, qual è la conclusione? Potremmo essere paranoici e dire che gli scarafaggi si stanno nascondendo, ma la conclusione logica è che ci siamo sbagliati. Non ci sono scarafaggi nella stanza.
È la stessa linea di ragionamento che riguarda le cose che esistono con una linea attorno, come un “io”, un “corpo”, una “mente” e così via. Di queste cose, o ce n’è una o ce ne sono molte, e, se non si dà né l’uno né l’altro caso, non ce ne sono affatto. Non è poi così difficile da capire.
Dobbiamo però comprendere bene che cosa significhino “uno” e “molti”. ”Uno” significa totalmente identico – la medesima cosa. Se stiamo parlando di parole, ad esempio: “Alex” e “Alex” sono una; “Alex” e “Alexander” sono due – sono molte. Non importa se si riferiscono o meno alla stessa cosa: sono due parole.
Che cosa sono gli scarafaggi nel nostro esempio? Sono delle cose – ossia: l’“io” e gli aggregati – contornate da una linea netta. Sono una cosa soltanto? Sono identici? Quando penso: “Sono sexy”, ad esempio, sto identificando “me” con un corpo sexy, parte dell’aggregato delle forme. Se l’“io” e il corpo sexy fossero totalmente identici, tutti quelli che mi guardano dovrebbero vedere un corpo sexy. Ciò implica che anche un cane o un bambino dovrebbe vedermi come tale – cosa che, invece, non accade. Persino quando sono ubriaco e mi sono appena vomitato addosso, chiunque dovrebbe vedermi come un corpo sexy, e in nessun altro modo. Neanche questo, però, succede.
Un altro esempio di “uno” è una donna che si identifica con l’essere “madre”. Rispetto a se stessa, crede che “io” e “madre” siano la stessa cosa. Pensando in questo modo, poi, anche quando suo figlio avrà trent’anni dovrà ancora essere madre, e dire a suo figlio che cosa indossare e che cosa mangiare. Deve essere una madre per tutti, anche per le persone che non vogliono che si comporti come tale. È facile rendersi conto di come ciò possa diventare molto nevrotico. Quindi possiamo concludere che un “io” contornato da una linea netta e qualcosa negli aggregati contornato da una linea netta non possono essere la stessa identica cosa.
Allora dobbiamo prendere in considerazione la seguente ipotesi: “Forse ci sono molte cose contornate da linee nette; forse ci sono molti scarafaggi nella stanza”. Se ci fossero molte cose contornate da una linea netta, allora ci dovrebbero essere: un “io” con una linea netta intorno, un corpo con una linea netta intorno, una mente con una linea netta intorno, e così via – tutte cose completamente separate, contornate da linee nette e senza alcuna relazione l’una con l’altra. In un libro da colorare per bambini ci sono molti oggetti separati, con il loro contorno. Non interagiscono tra loro: se ne stanno semplicemente lì, fermi. Questo però non è realistico. Abbiamo una relazione con il corpo: non è completamente separato da noi. Se tagliamo una parte del nostro corpo diciamo che ci siamo tagliati, giusto? Reagiamo; c’è una relazione, sulla base della quale proviamo del dolore. Non è che ci sono molte cose contornate da linee nette, come molti scarafaggi sul pavimento della stanza.
Assorbimento totale sulla vacuità
Se non ci sono né uno né molti scarafaggi in camera, dobbiamo concludere che lì non ci sono scarafaggi. Convinti della verità di tale conclusione, guardiamo attentamente nella stanza e riconosciamo che non vi sono scarafaggi. Vediamo un’assenza di scarafaggi e quindi ci concentriamo su di essa. Questo punto non è poi così semplice. Non ci stiamo concentrando sul pavimento della camera: ci stiamo concentrando sul fatto che lì non vi siano scarafaggi. In altre parole, lì non vediamo nulla. Se lo facciamo bene, alla fin fine non apparirà nulla, se non questa assenza – simile allo spazio.
Ecco forse un esempio più semplice, riguardante la proiezione di un’identità veramente esistente su qualcun altro. Siamo sempre alla ricerca del nostro principe azzurro o della nostra principessa: il partner perfetto. Proiettiamo questa identità su una persona e poi ci arrabbiamo molto quando ci delude perché non agisce come il nostro partner perfetto. La conclusione di questo tipo di analisi della vacuità è la seguente: non esiste il principe azzurro – o la principessa. È una bella fiaba, ma non si riferisce a nessuna persona reale.
Dopo aver realizzato la vacuità, o assenza, del nostro principe azzurro o della nostra principessa, in questa fase della meditazione non si tratta di concentrarci sul nostro amico o la nostra amica e vedere che lui o lei non è il principe azzurro o la principessa. Questo verrà più avanti. Qui, con un totale assorbimento sulla vacuità, ci stiamo concentrando sul fatto che non esiste nulla che sia un principe azzurro – o una principessa. È come se vedessimo scoppiare una bolla. Ci rendiamo conto che la nostra proiezione era solo una fantasia di qualcosa di impossibile: semplicemente, non esiste, non è mai esistito e mai esisterà. Ci rendiamo conto che abbiamo sbattuto la testa contro il muro per niente. Nella relazione, credere nel principe azzurro o nella principessa ha causato molti problemi e ostacoli, a noi e all’altra persona. Ora la bolla è scoppiata e vediamo che non esiste nulla del genere. È vuota, quindi non ci sono più blocchi; non c’è più niente che ostacoli il movimento, l’attività o la relazione, perché non stiamo proiettando sull’altra persona questo modo impossibile di esistere.
Sebbene sia difficile, proviamo a concentrarci soltanto su tale assenza, che è come uno spazio vuoto. Con un assorbimento totale su tale vacuità – chiamato da molti traduttori “equilibrio meditativo sulla vacuità” – ci concentriamo soltanto su questa assenza, con perfetta comprensione, convinzione e concentrazione. In parole semplici: siamo profondamente a contatto con questa verità. C’è una grande differenza tra il vedere che non ci sono scarafaggi in camera e l’incredibile sensazione di sollievo quando ciò viene da noi assimilato, nel pensare: “Qui non ci sono scarafaggi, non devo aver paura”. È qualcosa che abbiamo digerito.
Se il nostro totale assorbimento perde di chiarezza, dobbiamo guardare di nuovo. “Oh, è così, non ce ne sono”, e allora assimiliamo meglio questo punto. In altre parole, dobbiamo alternare i due aspetti della meditazione di cui abbiamo discusso prima – ossia, di discernimento e stabilizzazione – entrambi focalizzati sulla vacuità simile allo spazio.
Ottenimento successivo
Dopo un periodo di totale assorbimento sulla vacuità, continuiamo la nostra pratica con la fase della realizzazione successiva, o ottenimento successivo. Di solito essa è tradotta come “periodo post-meditativo”, ma questa resa non è poi così accurata: tale fase della pratica può verificarsi sia mentre stiamo ancora meditando sia tra le diverse sessioni di meditazione. Si riferisce semplicemente a ciò che realizziamo, o alla realizzazione che conseguiamo, dopo essere emersi dal totale assorbimento sulla vacuità simile allo spazio.
Durante il totale assorbimento abbiamo realizzato – per continuare con la nostra analogia – il fatto che non ci sono scarafaggi nella stanza. Ci siamo concentrati su quell’assenza, e ciò era simile al concentrarci sullo spazio: una mancanza di impedimento all’esistenza spaziale di qualcosa. Durante la fase di ottenimento successivo ci concentriamo sul vedere la camera senza scarafaggi e ci rendiamo conto che, anche se sembra che ci debbano essere degli scarafaggi, la stanza che sembra averli è come un’illusione. È come un’illusione nel senso che il modo in cui appare non corrisponde al modo in cui esiste. La stanza, tuttavia, è soltanto come un’illusione: non è uguale a un’illusione. Non è un’illusione: la usiamo ogni notte per dormire.
Allo stesso modo, durante la fase di ottenimento successivo ci concentriamo sul nostro partner con la consapevolezza che non esiste come il principe azzurro o la principessa, sebbene sembri esserlo. In altre parole, mentre ci concentriamo sul nostro partner, esplicitamente comprendiamo che è un umano come tutti gli altri, e implicitamente comprendiamo che non è il principe azzurro o la principessa. È una persona che, semplicemente, ha l’aspetto – che è come un’illusione – di un principe azzurro o di una principessa. Il nostro partner è soltanto come un’illusione, dal momento che sembra esistere in un modo in cui non esiste; tuttavia, il nostro partner in sé non è un’illusione.
La stessa cosa vale per l’“io” convenzionale. Sono seduto qui a parlare. Potrei aver sbagliato, ma sono un essere umano, e gli esseri umani commettono errori. Ciò che è assente è il fatto che io sia un perfetto idiota che non può mai fare nulla senza sbagliare. La prima realizzazione, durante la fase di totale assorbimento, è questa: non esiste un “io” che sia un “perfetto idiota”. La seconda realizzazione, durante la fase di ottenimento successivo, è la seguente: esiste l’“io” convenzionale e io ho detto qualcosa di sbagliato, sulla base di cause e condizioni, karma e così via. Non stiamo negando il karma. Non stiamo negando ciò che di fatto accade. Questo sarebbe nichilismo. La realtà convenzionale delle persone che commettono errori, tuttavia, è priva del loro esistere come “individui che sono idioti” contornati da una linea netta e spessa. Anche se ciò che abbiamo detto potrebbe essere convenzionalmente considerato come qualcosa di sciocco, ciò non ci rende solidamente esistenti come “veri idioti”.
Com’è l’“io” convenzionale? È come un’illusione. Sembra esistere come un idiota con una linea netta e spessa attorno, ma non esiste affatto in tal modo. E così non è mai esistito, né mai esisterà. L’“io” convenzionale, che ha detto qualcosa di sbagliato, è semplicemente ciò cui si riferisce la parola “me”, se etichettata su un insieme di aggregati che includono il parlare in modo errato. Quell’“io” convenzionale è come un’illusione: sembra esistere come un idiota ben solido, ma non esiste alcun idiota ben solido.
Questo è un punto cruciale. Le cose convenzionali, ad esempio l’“io”, sono come un’illusione, non uguali a un’illusione. C’è una grande differenza. Sono come un sogno, non uguali a un sogno. Tra dire qualcosa di crudele a qualcuno in un sogno e dirlo nella vita reale c’è una grande differenza, giusto?
Questi sono alcuni passaggi della meditazione sulla vacuità: come lo spazio e come un’illusione.
Domande
La base dell’“io” convenzionale
Potresti dire qualcosa in più circa la base su cui etichettare l’“io” convenzionale? Hai detto che è un aspetto della mente.
Permettetemi di provare a spiegarlo con alcuni esempi. Mia madre ha l’Alzheimer ed è nelle fasi finali. Chi è mia madre? La sua memoria è sparita, la sua capacità di riconoscere la famiglia è sparita. Probabilmente non sa nemmeno più chi è. Non so se ricorda più il suo nome. La sua personalità è scomparsa. Chi è? È ancora mia madre? Sì, dobbiamo dire che è ancora Rose Berzin. La personalità, la memoria e tutte queste cose sono sparite, ma ci deve essere ancora qualcosa che è la base per una corretta etichettatura di lei come mia madre, giusto? È ancora viva: non è morta.
La stessa cosa può succedere con il corpo. Qualcuno potrebbe perdere un braccio o una gamba, avere un ictus e rimanere paralizzato, essere terribilmente ustionato in un incendio: una persona può perdere molto del proprio corpo e persino sostituirne alcune parti, quali il cuore o il fegato. Sarebbe ancora vostra madre? Che dire, poi, se fosse in coma? Sarebbe ancora vostra madre se fosse in coma? Dovete dire: “Sì, sarebbe ancora mia madre”, anche se la mente più grossolana sarebbe sparita. E se fosse cerebralmente morta, ma il suo cuore continuasse a battere e il suo respiro fosse mantenuto artificialmente, con una macchina di supporto vitale? Qui il discorso si fa molto complicato, dal momento che non tutti concordano sul confine oltre il quale qualcuno è da considerarsi come effettivamente morto.
La questione riguardante la base ultima per etichettare un “io” convenzionale – quale sia, quando è ancora presente, quando invece è scomparsa – diventa forse un po’ più chiara quando vediamo un cadavere. La maggior parte di noi, in occidente, non vede mai alcun cadavere, se non in una condizione innaturale, quando è messo a giacere in una bara di lusso, tutto pulito e truccato e con vestiti eleganti. È un peccato. Non è bello vedere un cadavere nella sua condizione naturale, è vero, ma Buddha ha imparato molto dal vederne uno. Apprenderemmo molto anche noi.
Sono stato molto fortunato ad aver avuto un’esperienza di questo tipo in India, circa dieci giorni fa, quando un occidentale che viveva a Dharamsala è morto. Era andato a dormire mentre una stufa a carbone era in azione nella sua stanza e aveva dimenticato di lasciare la finestra aperta, quindi è morto nel sonno a causa del monossido di carbonio. Anche se in realtà non lo conoscevo di persona, è stata responsabilità mia e di altri anziani della comunità occidentale andare all’obitorio, prenderlo e cremarlo. Le autorità indiane avevano già eseguito l’autopsia. C’era quest’uomo disteso lì, nudo, su un pavimento di cemento, in una baracca di cemento, come un pesce morto, con lo stomaco sventrato e ricucito alla buona, con un filo, e terribilmente maleodorante. Non avevano fatto nulla per preservare il suo corpo. Abbiamo dovuto prenderlo, portarlo nella jeep e sederci accanto mentre andavamo verso il luogo per la cremazione. A tenerlo in mano sembrava davvero un pesce morto, e aveva persino colori simili. È stato davvero incredibile. Poi abbiamo dovuto tirarlo fuori dalla jeep, gettarlo su una catasta di legna e bruciarlo, come se stessimo bruciando della carta o dell’immondizia.
L’ho trovata un’esperienza incredibilmente utile, per quanto terribile. Il fatto che questa persona non fosse il suo corpo e la grande intensità con cui ci identifichiamo con il nostro corpo sono diventati aspetti molto chiari nella mia mente. Tutte queste cose di cui abbiamo qui discusso hanno iniziato a essere molto rilevanti e vivide. Chi è quest’uomo? Era qualcuno che viveva all’interno di questo corpo, e che ora se n’è andato? Questa è una delle false visioni ingannevoli, giusto? È stato un qualcosa che è entrato in questo corpo e l’ha usato, come si usa un computer, e che ora farà uso di qualche altro corpo? Qual era il rapporto tra la persona e questo corpo? La questione si fa davvero molto interessante. Quando si vede un cadavere in decomposizione, nella sua condizione naturale, si ha l’impressione che sia simile a dell’immondizia. Nessuno lo vuole attorno. Lo si vuole bruciare il più velocemente possibile perché emette un terribile fetore.
La base ultima per etichettare l’“io” convenzionale non è questo corpo, non è la memoria e non è l’insieme di questo genere di cose. Come ho detto, se possiamo vedere effettivamente un cadavere, o andare a fare visita a qualcuno con l’Alzheimer, tutto ciò inizia a essere più evidente. Una persona può perdere molte sue parti ed essere comunque etichettata in modo valido come un “io” convenzionale, mentre un cadavere non è più un “io”. Anche se qualcuno non ha consapevolezza cosciente dell’“io” – trovandosi in coma, ad esempio – è ancora una persona, è ancora un “io”. Forse ha ancora un senso dell’“io” inconscio ma è difficile dirlo, giusto? Abbiamo ancora un senso dell’“io” quando stiamo sognando, ma che dire di quando dormiamo senza sognare? Non lo so.
La discussione sull’“io” convenzionale nel Buddhismo, tuttavia, non ha per oggetto il fatto che una persona sia o meno consapevole o cosciente dell’“io”, o mantenga un senso dell’“io”. Il Buddhismo affronta semplicemente la possibilità che un “io” convenzionale sia o meno etichettato in modo valido su qualcosa che non cessa mai e continua, senza alcuna interruzione di continuità, da una vita all’altra, senza inizio e senza fine, persino nell’illuminazione. Come ci siamo detti prima, nessuno ha bisogno di etichettare attivamente quell’“io” – l’atto di etichettarlo non è rilevante per questa discussione. L’“io” convenzionale è semplicemente ciò cui la parola, l’etichetta o il concetto di “io” si riferiscono, etichettato o imputato su una base appropriata per l’etichettatura. L’“io” deve essere imputabile in modo valido, ma non necessariamente imputato in modo valido da qualcuno.
Per rispondere alla tua domanda, quindi: il Buddhismo afferma che il livello più sottile della mente o dell’attività mentale, insieme all’energia più sottile che sostiene la vita, è ciò che continua incessantemente da una vita all’altra e, alla fine, questa è la base per etichettare l’“io” convenzionale. Nella classe più elevata del tantra, l’anuttarayoga, questo livello estremamente sottile della mente o dell’attività mentale è chiamato “chiara luce” – la “mente di chiara-luce”.
Ricordare le vite passate
A volte dei maestri tibetani di alto livello dicono di essere in grado di ricordare le loro vite precedenti. Come può essere?
Questo è un punto molto interessante. Prima di tutto, dobbiamo guardare alle vite passate senza pensarle come le nostre vite precedenti. Non c’è un “io” solido che le possiede e mantiene sempre una stessa identità fondamentale – ad esempio, pensando: “Alex ha avuto delle vite precedenti”. Dobbiamo considerare le vite passate e future in modo totalmente impersonale, sebbene il flusso di continuità delle vite di ciascuno sia individuale. È forse utile pensare alle vite passate come alle scene precedenti di un film. Proprio come potremmo etichettare “io” sulle scene che stanno accadendo in questo momento, potremmo etichettare “io” sulle scene che sono accadute nell’ultima ora, o in un altro corpo in un’altra vita.
Ora dobbiamo introdurre la trattazione buddhista del funzionamento della memoria. Ciò che il Buddhismo esamina come memoria non si riferisce alla memorizzazione di informazioni ma, piuttosto, al ricordo. È lo stesso meccanismo che troviamo nelle abitudini. Non ho trovato una buona traduzione della parola tibetana che indica un’“abitudine”, perché essa include il modo in cui funziona la memoria. Ricordare qualcosa è un processo che somiglia alla ripetizione di un’abitudine. In entrambi i casi facciamo esperienza di una serie di eventi simili.
Ad esempio, potremmo aver fumato sigarette in molte occasioni, e su questa base possiamo etichettare o imputare l’abitudine di fumare sigarette. Non abbiamo fumato la stessa sigaretta ogni volta, o fumato sempre con lo stesso esatto movimento della mano che la sostiene. Abbiamo fumato sigarette ogni volta diverse, e in modi differenti. Tuttavia, ogni sigaretta che abbiamo fumato era simile alle precedenti e ogni gesto nel fumare era simile ai precedenti. Sulla base di questa abitudine, potremmo fumare un’altra sigaretta simile, in futuro.
Allo stesso modo, magari abbiamo sperimentato qualcosa una sola volta, ad esempio nell’incontro con qualcuno, e poi, in diverse occasioni, ci siamo ricordati di quell’incontro. Non formuliamo esattamente lo stesso pensiero ogni volta che ricordiamo quell’incontro, vero? Ogni volta il nostro pensiero va verso qualcosa di simile – qualcosa che assomiglia a quell’incontro, ma non l’incontro vero e proprio. Sulla base di questa sequenza di occasioni in cui si pensa a qualcosa di simile riguardo a tale incontro, possiamo etichettare o imputare il ricordare. È lo stesso meccanismo della ripetizione di azioni simili, in base ai quali etichettiamo un’abitudine.
Quindi, in questo modo, potremmo ricordare qualcosa di simile a ciò che è accaduto non solo in passato, in questa vita, ma anche in una vita precedente. Questo perché esiste una continuità ininterrotta tra la mente più sottile e l’“io” convenzionale. Le abitudini e i ricordi, intesi come una sottocategoria delle abitudini, hanno come base per l’etichettatura questa continuità della mente più sottile e l’“io” convenzionale etichettato su quella continuità, e così i ricordi e le abitudini hanno lo stesso tipo di esistenza dell’“io” convenzionale. Non sono affatto solidi né rintracciabili. Non sono immagazzinati fisicamente in questa mente estremamente sottile o nell’“io”. I ricordi sono semplicemente dei fenomeni imputabili non statici, che non sono né forme di fenomeni fisici né modi di essere consapevoli di qualcosa.
Gestire il dolore
Se non esiste un “io” solido, non dovremmo fare esperienza del dolore come dolore, giusto? Potremmo pensare: “È solo dolore” e non demoralizzarci troppo. C’è la sofferenza, ma non un sofferente.
Quando urtiamo il piede contro un tavolo al buio, abbiamo due modi per gestire l’accaduto. Il primo è saltare su e giù e farne un dramma. “Oh! Povero ME! Ho sbattuto il piede! Non è giusto!” È come se volessimo che la mamma venisse a baciarcelo e a migliorare l’intera situazione. Dietro a quel modo di reagire c’è l’afferrarci a un vero e solido “io”. L’altro modo di gestire l’accaduto è il seguente: abbiamo urtato il piede, fa male, e però non ne facciamo una tragedia. Pensiamo semplicemente: “Va bene, ho sbattuto il piede. Fa veramente male. Cos’altro c’è di nuovo?”. E poi continuiamo a fare ciò che stavamo facendo, senza proiettare una linea spessa e solida intorno a “me”, l’incidente o il dolore.
Tuttavia, è accaduto un urto – convenzionalmente esistente – del nostro piede contro il tavolo. Non è vero che non è successo niente. Quindi controlliamo con calma il piede, per vedere se stiamo sanguinando o se ci siamo rotti un osso. E, se abbiamo bisogno di cure mediche, andiamo a cercarle.
Quando soffriamo di un grande dolore fisico per un lungo periodo di tempo, come nel caso di un cancro, la situazione è molto più difficile da gestire, perché la reazione di depressione o rabbia per tutto questo torna più e più volte. Come possiamo liberarci di questa reazione compulsiva?
Penso che si tratti della stessa cosa. Esistono molti modi per affrontare il dolore di un cancro. La meditazione di consapevolezza che consiste nel concentrarci sul respiro è di grande aiuto. Ci conferma che siamo vivi e ci collega a qualcosa di più stabile e duraturo del dolore. Se siamo molto robusti nella nostra pratica Mahayana, possiamo anche compiere la meditazione del dare e del prendere, tonglen, ossia dell’immaginare di prendere su di noi il dolore dovuto al cancro di tutti gli altri, e dare loro calma, felicità e buona salute. Questa, però, è una pratica molto avanzata ed è difficile compierla a un livello sincero. È più facile farla mentre siamo seduti qui e non proviamo un intenso dolore.
Potremmo anche provare a compiere la meditazione sulla vacuità come un modo per affrontare il dolore cronico. Che cosa sta accadendo, qui? C’è un “io” solido e contornato da una linea spessa? C’è una malattia solida e contornata da una linea spessa, e c’è un dolore solido e contornato da una linea spessa? Sono come tre scarafaggi? O non sono affatto solidi? Quando pensiamo: “Povero me, io sono la vittima di tutto ciò! Provo dolore ed è decisamente terribile!” il primo punto è riconoscere che cosa deve essere confutato, ossia il vero “io” nel ruolo della vittima, questo vero dolore e questo disastro. Quando entriamo nella mentalità della vittima, non facciamo altro che aggiungere un’enorme quantità di dolore mentale a quello fisico. Dobbiamo renderci conto che non esiste affatto una vittima solida. Questa comprensione può aiutarci a liberarci dallo stato di tensione del corpo e della mente che deriva dalla mentalità vittimistica.
Penso che potremmo capire questo punto con un altro esempio. Quando ci fanno un’iniezione potremmo essere veramente spaventati, pensando: “MI farà molto male!”. E allora i nostri muscoli diventerebbero tesi e rigidi, e di sicuro l’iniezione ci farebbe molto più male. Se invece pensiamo: “Mi faranno un’iniezione. Va bene” e ci rilassiamo, i nostri muscoli saranno distesi e, sì, l’iniezione farà male, ma sarà sopportabile e la lasceremo passare.
È la stessa cosa con qualsiasi tipo di dolore. Quando ci afferriamo a un “io” solido diventiamo letteralmente tesi e nervosi. Ci stiamo afferrando a esso. Se siamo in queste condizioni e ci troviamo seduti sulla poltrona del dentista, sarà una tortura. Se siamo rilassati, andrà molto meglio. La comprensione della vacuità ci aiuta in questo. Possiamo ottenere qualcosa di simile con la meditazione sull’impermanenza: possiamo renderci conto che non ci siederemo sulla poltrona del dentista per il resto della nostra vita, e questo ci aiuta a rilassarci. La meditazione sulla vacuità, però, è molto più forte.
Penso che tutti noi, qui, siamo forse troppo deboli per iniziare con un metodo di meditazione così sofisticato come la meditazione sulla vacuità. Se si rimane semplicemente gioiosi nella sofferenza, c’è un elemento in questo stato mentale che ha già superato la sofferenza.
Sì. Ci sono molti metodi negli insegnamenti di lojong, o allenamento mentale. Se urtiamo il piede contro qualcosa, possiamo pensare: “Sono davvero felice di non essermi rotto il piede”. Oppure: “Sono molto felice di essermi liberato di qualunque ostacolo karmico più grave di questo, che si sarebbe potuto verificare. Ora il karma negativo è finito in un modo che non è poi così brutto”. Esistono molti metodi per trasformarlo.
Siamo giunti al termine di questo nostro corso. Non abbiamo avuto il tempo di compiere effettivamente la meditazione sulla vacuità insieme, e mi dispiace, ma penso che sia stata descritta a sufficienza perché possa essere praticata da ognuno di noi, singolarmente.
Possano qualunque potenziale positivo e qualsiasi comprensione, derivati da questa spiegazione e dall’ascolto della stessa, fungere da causa perché ognuno raggiunga l’illuminazione per il bene di tutti. Grazie.
Trascrizione di un seminario, Berlino, Germania, gennaio 1995; traduzione italiana a cura di Chiara Mascarello.