Giuseppe Baroetto: L’illusione della reincarnazione

È evidente che la fiamma di un lume, impiegato per accenderne un altro, non si trasferisce da un lume all’altro...

Pema Jigdrel Giuseppe Baroetto: L’illusione della reincarnazione

Nel moderno gergo buddhista i termini “rinascita” e “reincarnazione” sono considerati sinonimi e, grazie soprattutto alla popolarità di alcuni lama tibetani ritenuti tulku (La parola tibetana tulku (sprul sku) corrisponde al termine sanscrito nirmāṇakāya.) o, come si afferma solitamente, “reincarnazioni” di importanti maestri spirituali del passato, si è diffusa la convinzione che la credenza nella reincarnazione sia davvero basata sull’insegnamento del Buddha. Però, come ha ribadito Gyatrul Rinpoche, i “tulku genuini” non sono persone che, dopo aver lasciato un corpo, ritornano prendendone un altro, bensì sono «emanazioni spontanee», paragonabili a «raggi di luce emanati dal sole». (Padmasambhava, Natural Liberation, Commentary by Gyatrul Rinpoche, Boston, Wisdom Publications, 2008, pp. 151-152.)

Dunque, se i tulku non trasmigrano secondo la comune concezione della reincarnazione, in cosa consiste la rinascita delle persone che non sono tulku?

All’epoca del Buddha un monaco suo discepolo, immortalato come “Sāti, figlio del pescatore”, basandosi sulle storie di vite precedenti raccontate dal Buddha, credeva che fosse una sola e medesima coscienza a passare da un corpo all’altro, perciò diceva: «Così come io comprendo il Dharma insegnato dal Beato, è questa medesima coscienza, non un’altra, che vaga nei cicli delle nascite». (Mahātaṇhāsaṅkhaya Sutta (Majjhima Nikāya 38). Cfr. Piya Tan, SD 7.10, p. 188.)

Dopo averlo fatto convocare, il Buddha gli chiese cosa fosse la coscienza soggetta alla rinascita. Sāti rispose: «Venerabile, essa è ciò che parla e sperimenta qua e là; essa sperimenta gli effetti delle azioni buone e cattive».

La risposta di Sāti sembra ovvia: la coscienza o mente che trasmigra vagando nei cicli delle nascite è proprio ciò che parla e fa esperienze qua e là, ossia in questo luogo ed in uno differente, in questo momento ed in un altro; infatti, è sempre e solo questa stessa coscienza che sperimenta gli effetti delle azioni (karma) positive e negative in tutte le esistenze. Anche al giorno d’oggi molti buddhisti sarebbero implicitamente d’accordo con Sāti, però dovrebbero riflette sulle ferme e severe parole dette dal Buddha dopo la sua risposta: «Stolto… hai inteso erroneamente con la tua comprensione errata, ti sei fatto del male e hai accumulato molto demerito, perché questo ti danneggerà e ti farà soffrire a lungo».

Come ha scritto Piya Tan introducendo il testo citato, «Il Mahātaṇhāsaṅkhaya Sutta insegna la natura condizionata della coscienza (viññāṇa). La coscienza, in altre parole, non è un’entità (come un’anima immortale o una sostanza permanente) che trasmigra vita dopo vita, ma un “flusso di coscienza” (viññāṇa-sota)». https://www.themindingcentre.org/dharmafarer/wp-content/uploads/2021/11/7.10-Maha-Tanhasankhaya-S-m38-piya.pdf

Dunque, se neppure gli esseri ordinari trasmigrano secondo la comune concezione della reincarnazione, in cosa consiste il ciclo delle rinascite chiamato saṃsāra?

Cercherò di rispondere a questa domanda ricorrendo a una fonte buddhista non canonica, il Milindapañha, che racconta il supposto dialogo avvenuto nel II secolo a.C. tra il re indo-greco Milinda (Menandro I Sotere) ed il monaco buddhista Nāgasena. Ne riporto alcuni brani particolarmente significativi.

Il re disse: «Quando parlate di saṃsāra, Nāgasena, cosa significa?».
«Un essere nato qui, o re, muore qui. Essendo morto qui, appare altrove. Essendo nato là, muore là. Essendo morto là, appare altrove. Questo si intende con saṃsāra». (T. W. Rhys Davids, The Questions of King Milinda, Part I, Oxford, Clarendon Press, 1890, p. 120; III.6.9.)

Il re disse: «Cos’è, Nāgasena, che rinasce?»

«Nome-forma rinasce».

Il re disse: «Lei stava parlando proprio ora di nome-forma. Cosa significa “nome” in quell’espressione e cosa significa “forma”?».

«Tutto ciò che qui è grossolano è “forma”; tutto ciò che è sottile, la mente e i fattori mentali, quello è “nome”».

Nome-forma” (nāmarūpa) è l’organismo psicofisico. Di solito “nome” non include la coscienza o mente (citta), bensì soltanto i fattori mentali (cetasika) invece qui il termine è definito come «tutto ciò che è sottile, la mente e i fattori mentali» (Ye tattha sukhumā cittacetasikā dhammā. In questo contesto “nome” è sinonimo di “corpo mentale” – nāmakāya, mentre “forma” sta per “corpo fisico” – rūpakāya) in un corpo fisico che costituisce la “forma”. La rinascita riguarderebbe appunto tale organismo psicofisico. (Cfr. Cetana Sutta 2, Samyutta Nikāya 12.39), dove si fa riferimento alla rinascita (punabbhava) come “discesa di nome e forma” (nāmarūpassa avakkanti). (Vd. Pya Tan, SD 7.6abc, pp, 43-44, 49.)

Evidentemente la parola “rinascita” non deve essere intesa alla lettera, altrimenti si dovrebbe considerare anche il nuovo corpo fisico come la rinascita di un precedente corpo fisico. Infatti, il termine paisandahati, tradotto nella citazione precedente con “rinasce”, significa precisamente “si ricollega, si riconnette, si riallaccia”. Pertanto, la rinascita è un collegamento, una connessione o un legame che si stabilisce a causa del karma tra la vita passata e la nuova vita: il soggetto cosciente della vita precedente non torna a rivivere, così come non rivive il suo corpo fisico. Su questo punto il brano seguente è esplicito:

«È questo stesso nome-forma che rinasce?».
«No, ma da questo nome-forma le azioni sono compiute, buone o cattive, e tramite queste azioni un altro nome-forma rinasce».

Nel Mahātaṇhāsaṅkhaya Sutta, che inizia con il racconto del confronto tra il Buddha e il monaco Sāti, la coscienza che ha abbandonato il corpo fisico e si trova nello stato intermedio (antarā-bhava) viene chiamata gandhabba (in sanscrito gandharva), ossia “spirito”. Essa condiziona col proprio karma la formazione del nuovo organismo, tuttavia non diventa la psiche di quel corpo, come erroneamente riteneva Sāti. Infatti, la coscienza della vita precedente e quella della vita successiva non sono il medesimo individuo, perché sorgono sulla base di condizioni differenti, nondimeno appartengono ad un ininterrotto flusso di coscienza (viññāṇa-sota). (Vd. Sampasādanīya Sutta (Dīgha Nikāya 28.7); cfr. Piya Tan, SD 14.14, p. 117.)

Il Milindapañha chiarisce questo punto specificando che “nome e forma”, la mente e il corpo, sorgono insieme come il tuorlo ed il guscio:

«Perché, Nāgasena, quel nome non è rinato separatamente o non è rinata separatamente quella forma?».
«Queste condizioni, grande re, sono collegate l’una con l’altra e scaturiscono insieme».
«Fate un esempio».

«Una gallina, grande re, non genererebbe un tuorlo o un guscio d’uovo separatamente, ma i due apparirebbero uniti, essendo entrambi intimamente dipendenti l’uno dall’altro; similmente, se non ci fosse nessun nome, non ci sarebbe nessuna forma. Poiché ciò che si intende come “nome” in quell’espressione è intimamente dipendente da ciò che si intende come “forma”, essi appaiono insieme».

Nonostante il nuovo “nome-forma” non sia lo stesso della vita precedente, non è neppure totalmente diverso; infatti, essi appartengono al medesimo flusso di coscienza:

Il re disse: «Chi è nato, Nāgasena, rimane lo stesso [della vita precedente] o diventa un altro [essere]?».
«Non è lo stesso e neppure un altro».
«Fate un esempio» […].
«È come il latte che, una volta munto, si trasforma dopo un po’ di tempo in giuncata e poi dalla giuncata in burro fresco, quindi dal burro fresco in burro chiarificato. Allora, sarebbe giusto dire che il latte era la stessa cosa della giuncata o del burro fresco o del burro chiarificato?».

«Certamente no, ma essi scaturiscono da quel [latte]».

Il collegamento tra la vita precedente e quella attuale consiste nell’eredità psichica del patrimonio karmico, analoga all’eredità biologica del patrimonio genetico, come si evince dalla seguente metafora che illustrata il meccanismo del saṃsāra:

«È come nel caso di un uomo che, dopo aver mangiato un mango, seminasse il seme nel terreno. Da quel seme nascerebbe un grande albero che darebbe frutti e in quel modo la successione degli alberi di mango continuerebbe senza interruzione».

Il seme di mango simboleggia l’eredità psichica del patrimonio karmico; perciò, così come un albero di mango non trasmigra in un albero nato da un suo seme, non c’è reale trasmigrazione di un’entità da un corpo a un altro. Il re Milinda probabilmente aveva familiarità con la nozione della trasmigrazione, per via della sua cultura religiosa greca, perciò forse percepiva la concezione buddhista del saṃsāra come astrusa. I passi seguenti attestano la sua difficoltà e, nel medesimo tempo, costituiscono la più nota, geniale risposta della filosofia buddhista:

Il re disse: «Dove non c’è trasmigrazione, Nāgasena, può esserci rinascita?”.

«Sì, può esserci [rinascita]».

«Ma com’è possibile? Fate un esempio».

«Immaginate che un uomo, o re, accenda un lume tramite un altro lume: si può dire che uno trasmigri dall’altro o nell’altro?».
«Certamente no».
«Proprio così, grande re, c’è rinascita senza trasmigrazione».

«Fate un altro esempio».
«Ricordate, grande re, di aver imparato, quando eravate ragazzo, qualche verso od altro dal vostro maestro?».
«Sì, ricordo».
«Bene. Allora, quel verso è trasmigrato [in voi] dal vostro maestro?».
“Certamente no».
«Proprio così, grande re, c’è rinascita senza trasmigrazione».

È evidente che la fiamma di un lume, impiegato per accenderne un altro, non si trasferisce da un lume all’altro, così come una poesia od una canzone non passa da un cervello ad un altro. C’è un influsso generato dal lume acceso su quello spento o da chi declama versi su chi li ascolta. Tale influsso simboleggia ciò che nel testo viene chiamato “rinascita” (paisandhi), ossia il collegamento karmico tra una vita che è terminata ed una vita che inizia. La reincarnazione intesa come trasmigrazione (sakamati) della medesima coscienza o anima attraverso molte esistenze è, quindi, un’ingannevole definizione del saṃsāra dal punto di vista della mente che, essendo identificata col contenuto della propria esperienza, crede erroneamente di essere il medesimo soggetto cosciente di tutte le vite ritenute “sue”. Per questa ragione, il Buddha insegnò a trascendere il saṃsāra qui ed ora, rimanendo liberi dall’illusoria identificazione di sé con la propria esperienza transitoria.

Sii libero dal passato.
Sii libero dal futuro.
Sii libero dal presente.
Essendo andato al di là del divenire,

con la mente del tutto libera

non tornerai più
a nascita e vecchiaia.

(Dhammapada 348; 24.15)

(Tratto dal sito https://independent.academia.edu/Baroetto che devotamente ringraziamo per la sua compassionevole gentilezza verso tutti gli esseri che soffrono in questa dolorosa esistenza samsarica.)