LE SEI PARAMITA o PERFEZIONI
Dopo aver sviluppato il bodhicitta, si deve cominciare a seguire la pratica delle “paramita” (perfezioni o virtù trascendenti): generosità, moralità, pazienza, impegno entusiastico, meditazione, saggezza discriminativa.
Delle 6 paramita, le prime 5 costituiscono il “metodo” (mezzi salutari o azione appropriata), mentre la sesta è la “saggezza discriminante” : la pratica di quelle comporta l’“accumulazione di meriti”, mentre questa comporta l’”accumulazione di saggezza (consapevolezza)”. Le due accumulazioni sono le cause per ottenere – finchè si sta nel samsara – un corpo umano pienamente qualificato, nonché per raggiungere rispettivamente il Rupakaya e il Dharmakaya : esse sono quindi i mezzi per maturare la mente e diventare un Buddha. Gli occhi sono la saggezza, i piedi sono le altre 5 paramita, che devono andare – per così dire – di pari passo, se si vuole arrivare al nirvana: sono indispensabili entrambe come le due ali ad un uccello per poter volare. La pratica delle paramita – purché sia ispirata dal bodhicitta – è la via percorsa da tutti coloro che seguono i sutra ed un preliminare per chi intende poi dedicarsi al tantra. Il bodhisattva le coltiva così lungo i 5 Sentieri, soprattutto a partire da quello della Visione Interiore.
Oltre alle 6 paramita vi sono 4 “perfezioni supplementari o realizzazioni supreme”, che sono aspetti della 6° paramita – per cui si parla anche di 10 paramita in totale.
1) generosità (dana). Consiste nel donare senza attaccamento o desiderio di remunerazione, ma solo per il benessere degli altri. Si distingue in:
a) offerte fatte, con fede e rispetto, ai Tre Gioielli: cose reali (come incenso, musica, ecc.) e mentali (ad es., offrendo mentalmente cose che esistono in realtà, ma di cui non abbiamo la disponibilità: il mare, una bellissima aurora, ecc. oppure visualizzando ricchezze, belle forme, suoni gradevoli, ecc.). I Tre Gioielli non hanno ovviamente bisogno di queste offerte, che in realtà servono solo a noi per eliminare il nostro attaccamento.
b) doni fatti con compassione a chi si trova nel samsara:
• doni materiali: ad es., dare cibo ad un affamato;
• dono della protezione: ad es., proteggere una persona dal pericolo di un incendio;
• dono dell’amore: ad es., confortare chi è infelice;
• dono del Dharma: ad es., insegnare il Dharma verbalmente.
Nel dare, dobbiamo considerare ciò che serve veramente al destinatario e non ciò che piace a noi; inoltre, si deve dare nell’ambito della nostra effettiva disponibilità e non sulla scia dell’emotività, che ci potrebbe poi procurare rimpianti o ripensamenti.
2) etica (sila). Il comportamento corretto consiste nell’abbandonare i “10 atti negativi” (uccidere, ecc.) e nel compiere i “10 atti virtuosi”.
Vi sono 3 tipi di moralità, che consistono nel controllare il proprio comportamento:
-
mantenendo i propri voti, nonché gli impegni presi nelle iniziazioni;
-
aiutando gli esseri senzienti (ad es., mostrando loro gli effetti negativi delle azioni non-virtuose) ;
-
avendo il bodhicitta come unico movente in tutte le nostre azioni.
Inoltre il nostro comportamento dev’essere di buone maniere: stare composti, non parlare con durezza o in modo sboccato, non desiderare ardentemente guadagni e onori, ecc.
I semi delle azioni negative che non sono ancora maturati in sofferenza possono esser distrutti col pentimento, che consiste:
a) nel sentire che quella data azione è sbagliata, cioè provare un’angoscia di
coscienza oppure il risveglio di una migliore comprensione;
b) nell’ammettere a noi stessi l’errore che abbiamo fatto;
c) nel rivolgerci al Buddha e pentirci profondamente;
d) nel promettere di non farlo più (come chi si è ammalato per aver ingerito del veleno, si ripromette di non prenderlo più).
Per le nuove colpe commesse ci si deve pentire subito, in meno di un’ora (considerando anche che la morte può arrivare in ogni momento).
3) pazienza kshanti. Questa virtù consiste nella capacità di sopportare e tollerare (senza reagire con collera o vendicarsi):
A) gli atteggiamenti sgradevoli o cattivi delle altre persone, pensando che:
a] se qualcuno è negativo con noi, significa che non sa essere migliore di così perchè è accecato dai suoi klesha (difetti mentali), non può controllare se stesso e sta soffrendo lui stesso;
b] quando tali suoi atti negativi matureranno, dovrà soffrirne molto e quindi col suo comportamento attuale sta costruendo qualcosa di cattivo per se stesso ; il che ci deve far sorgere una grande compassione per lui;
c] d’altronde, quel suo comportamento negativo verso di noi sta rimuovendo un po’ del nostro cattivo karma (è come il gusto cattivo di una medicina, che ci farà bene in seguito);
d] inoltre, quella persona che ora ci fa del male può essere stata nostra madre o padre o fratello o amico o maestro nelle vite precedenti, nelle quali siamo stati da essa amati e aiutati (amore e aiuto certamente superiori al male che ci fa oggi);
e] il male che ora stiamo soffrendo fu causato karmicamente da un’azione simile da noi commessa in precedenza; perciò, poiché è colpa nostra, sarebbe ingiusto rendere la pariglia;
B) le difficoltà che si incontrano nell’accettare il dolore e le contrarietà fisiche e mentali (ad es., nell’assumersi le sofferenze derivanti dal salvare la vita ad una persona);
C) la fatica derivante dallo sforzo di capire il Dharma il più profondamente possibile, di compiere pratiche come le 100.000 prostrazioni o nel sedere a lungo nella posizione del loto mentre si medita.
4) vigore o perseveranza entusiastica.
E’ l’impegno entusiastico (l’opposto dell’apatia, dello scoraggiamento, della pigrizia e della procrastinazione), che consiste in una grande diligenza nel comprendere ed attuare il Dharma: diligenza gioiosa, e non vista come un dovere pesante. Quindi significa:
• innanzitutto, usare energia e zelo nel rivolgersi al Dharma, compiendo azioni e pratiche positive (anziché perdere tempo in banali attività mondane);
• non stancarsi della pratica spirituale o non cadere nell’indifferenza che ce la fa rimandare di giorno in giorno;
• continuare con entusiasmo ad agire in modo positivo (ad es., praticando le
paramita): da un lato, senza la presunzione di ritenersi soddisfatti delle esigue azioni virtuose che abbiamo finora compiuto; e dall’altro, con l’ottimistica convinzione della nostra capacità innata d’ottenere dei risultati positivi.
5) concentrazione meditativa (dhyana).
La “perfezione della concentrazione meditativa” è lo stato in cui la mente è mantenuta ferma sui pensieri positivi (senza distrazione nè torpore) ed è in grado di controllare – come un potente governante – l’attività mentale stessa e il sorgere dei difetti mentali (klesha).
Tale paramita si ottiene quando si sono realizzati i dhyana tanto del Rupadhatu che dell’Arupadhatu.
Entrando nei dettagli, vi sono 3 tipi di concentrazione meditativa:
a) un modo di meditare in cui si ha l’intenzione di voler provare esperienze di piacere, chiarezza ed assenza di pensieri;
b) un modo di meditare in cui si è superato l’attaccamento a quelle esperienze e si resta attaccati al concetto di vacuità come antidoto;
c) un modo di meditare in cui si è superato anche l’attaccamento al concetto di vacuità e ci si trova nella condizione priva di pensiero discorsivo nella quale si coglie la vacuità in maniera diretta, immediata, intuitiva e spontanea.
Come allenamento secondario alla “perfezione della concentrazione meditativa” è necessario meditare su:
• l’uguaglianza fra sé e gli altri, perché tutti quanti desideriamo la felicità e non vogliamo la sofferenza;
• lo scambio di sé con gli altri, offrendo a questi la nostra felicità ed accogliendo in noi tutte le loro sofferenze;
• l’aver cari gli altri più di noi stessi, augurandoci che la loro sofferenza ricada su di noi e che essi possano esser felici prendendo la nostra felicità.
6) saggezza discriminante (prajña). Si tratta della consapevolezza discriminante o intelligenza discriminativa, che deve ispirare il compimento di tutte le paramita precedenti.
Essa consiste nella consapevolezza dell’essenza, delle differenze, delle caratteristiche (particolari e generali) di ogni oggetto di percezione: ossia, è la facoltà dell’intelligenza presente nel continuum mentale di tutti gli esseri senzienti che permette di esaminare gli oggetti e di formulare giudizi e decisioni.
Può essere :
♦ comune: ogni genere di conoscenza ordinaria, come ad es. l’intelligenza che ci permette di guidare un’automobile ;
♦ non-comune: la percezione della sofferenza, dell’impermanenza dei fenomeni, dell’assenza di un ego concreto e, in ultimo, della vacuità.
Vi sono 3 tipi di quest’ultima specie di “saggezza discriminativa” :
a) quella derivante dall’ascoltare gli insegnamenti e dal comprenderne il significato a livello concettuale;
b) quella derivante dall’esaminare il significato dei vari concetti, riflettendo ripetutamente su di essi ed eliminando i possibili dubbi; dal riferire alla propria
condizione la comprensione degli insegnamenti, confermandoli con l’esperienza personale ; dal dedicarsi alla pratica senza dover chiedere chiarimenti ad altri ;
c) quella derivante dalla meditazione in cui si comprende l’assenza di un’ “entità indipendente ed auto-esistente” sia nella persona sia nei fenomeni (Vacuità).
Lo scopo essenziale della meditazione consiste nell’eliminazione dell’ignoranza, causa di tutte le nostre imperfezioni; ora, la saggezza (comprensione della vacuità) è appunto l’opposto dell’ignoranza.
Ci sono molte tappe per arrivare alla conoscenza di sunyata (vacuità): dapprima dobbiamo ricorrere al ragionamento e all’analisi, da cui sorgerà un tipo di comprensione concettuale e deduttiva della vacuità tipica di chi si trova sui Sentieri dell’Accumulazione e della Preparazione ; successivamente si sviluppa la concentrazione univoca avente come oggetto la vacuità accertata con l’analisi:
entrando costantemente e ripetutamente in rapporto con æ¾nyatõ, si raggiunge un punto in cui il contenuto concettuale svanisce e la visione della vacuità diviene talmente chiara e diretta che non si avverte più distinzione tra la vacuità e la mente che la contempla. E’ questo il Sentiero della Visione, in cui si diventa Aryabodhisattva.
Dunque, nella sua forma più alta e completa (cioè quale prajñaparamita), la prajña è una conoscenza immediata, cosicché percepisce direttamente le cose come sono (ne vede la natura illusoria e vuota) e le apprezza come valide in se stesse (senza bisogno di manipolare le nostre percezioni secondo categorie preconcette e lasciando che le cose siano come sono). Questo atteggiamento è peraltro tuttora un processo di apprendimento, uno strumento, per scoprire la “saggezza vera e propria” (jñana), cioè la conoscenza (o consapevolezza) suprema, che è trascendente ed originaria:
– trascendente significa che è aldilà della dualità di soggetto ed oggetto e di ogni altra concettualizzazione dualistica. Essa percepisce spontaneamente con un singolo atto mentale l’aspetto duale di ogni fenomeno (cioè la sua verità relativa ed assoluta) ;
-originaria significa che è il nostro stato primordiale da sempre perfetto, che normalmente viene oscurato da illusioni e concetti sbagliati. Sebbene tutti gli esseri senzienti possiedano il potenziale per realizzare questa saggezza nel loro continuum mentale, la confusione psicologica e le tendenze illusorie che oscurano la mente impediscono l’espressione di questa potenzialità: da ciò proviene la necessità della purificazione mentale (parisodhana).
Le caratteristiche di jñana sono tre:
a) l’onniscienza,
b) l’infinita compassione,
c) il potere illimitato.
Prajña quindi porta a jñana, che è il risultato che trascende quel processo di
apprendimento.
Le 4 “ paramita supplementari” sono :
7) upaya è l’azione appropriata, l’abilità o l’ingegnosità nell’applicazione (o uso) dei mezzi e metodi salvifici, dei molteplici insegnamenti che conducono tutti gli esseri alla Liberazione.
8) pranidhana, è l’intensa aspirazione o impegno o voto o risoluzione (e quindi lo sforzo conseguente) a realizzare l’Illuminazione e liberare gli altri, cioè ad affrontare ogni difficoltà fino a quando – per i nostri meriti – il maggior numero di esseri sia stato strappato al samsara ;
9) bala, sono le 5 forze morali, poteri o impulsi spirituali – derivanti dall’aver praticato le precedenti 8 paramita – tali da far procedere decisamente verso il nirvana: fiducia, diligenza, introspezione, concentrazione meditativa, saggezza discriminante;
10) jñana, è la suprema conoscenza o sapere trascendente, che – abbattendo l’apparente differenza stabilita tra l’assoluto e il relativo – permette di vedere le cose nella loro realtà non illusoria e afferra la natura ultima dei fenomeni. Consiste pertanto nel superamento di ogni dubbio, nella visione chiara di ogni fenomeno e nella consapevolezza lucida del modo di conseguire l’Illuminazione. Queste 10 virtù corrispondono ad altrettanti gradini o tappe o stadi che il bodhisattva deve percorrere – impiegando anche migliaia di esistenze – per raggiungere la buddhità. Queste 10 tappe (bhumi) costituiscono il Sentiero dello Sviluppo del Paramitayana. Se con le prime 5 paramita si accumula merito e con la 6ª si accumula conoscenza, con le ultime 4 si sviluppa e si completa il progredire morale di tutte le precedenti paramita fino al conseguimento della conoscenza suprema.
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