Thich Nhat Hanh: Come costruire una comunità basata sulla’amore?
Intervista di Bell Hooks a Thich Nhat Hanh. Tratta da “Buone Notizie”, anno IV n°1 (www.reteindra.org). Versione originale su “Shambala Sun”, gennaio 2000.
Bell Hooks ha attraversato i movimenti degli anni settanta e ottanta con ancora nel cuore l’insegnamento di Martin Luther King, senza smettere mai di seguire un cammino guidato dall’amore. Scrive tra l’altro nell’articolo che introduce l’intervista che pubblichiamo integralmente: “Il messaggio di Luther King sull’amore come cammino per mettere fine al razzismo e per guarirne le ferite fu rimpiazzato da un movimento per il potere nero che incitava alla resistenza militante.
Mentre Luther King aveva fatto appello alla nonviolenza e alla compassione, il nuovo movimento ci esortava a indurire i nostri cuori e a muovere guerra contro i nostri nemici. Amare i nemici, ci ripetevano i nuovi leader, non fa altro che renderci più deboli e facilmente manipolabili e di conseguenza molti voltarono le spalle al messaggio di Luther King.(…) Anche il movimento delle donne criticò l’amore e invitò le donne a dimenticarlo in modo da poter prendere il potere.(…) Questi due movimenti per la giustizia sociale che erano entrati nei cuori e nell’immaginazione dei nostri movimenti e che erano nati da un’etica dell’amore erano stati trasformati da leader molto più interessati alle questioni del potere. Alla fine degli anni settanta, non era più necessario mettere a tacere le discussioni sull’amore, il tema non veniva più toccato in nessun ambiente progressista”.
Bell Hooks: Ho cominciato a scrivere un libro sull’amore perché sentivo che gli Stati Uniti se ne stanno allontanando. Il movimento per i diritti civili è stato un movimento così straordinario per la giustizia sociale proprio perché era fondato sull’amore, sull’amare tutti. Si basava sulla convinzione che è sempre possibile ricominciare da capo, praticare il perdono, proprio come ci hai insegnato tu ieri: non devo odiare nessuno, perché si può sempre ricominciare, riconciliarsi. Quello che sto cercando di capire è perché ci stiamo allontanando da questa idea di una comunità fondata sull’amore.
Che cosa pensi dei possibili motivi per cui le persone si allontanano dall’amore? E come si può fare qualcosa per riavvicinare all’amore la nostra società?
Thich Nhat Hanh: Nel nostro sangha buddhista la comunità è il nucleo di ogni cosa. Il sangha è una comunità dove dovrebbero regnare armonia, pace e comprensione. E questo è un frutto della nostra vita quotidiana in comune. Se c’è amore nella comunità, se siamo stati nutriti dall’armonia che vi regna, non ci allontaneremo mai dall’amore.
C’è qualcosa, però, che può farci perdere tutto questo, ed è il guardare costantemente al di fuori di noi, con l’idea che l’oggetto o il motore dell’amore siano all’esterno. Così facendo, lasciamo che ci sfuggano l’amore, l’armonia e la piena comprensione. Questa è la cosa più importante, secondo me. Perciò dobbiamo tornare alla nostra comunità e rinnovarla. In questo modo l’amore potrà riaffermarsi, e così pure la comprensione e l’armonia. Questa è la prima cosa.
La seconda, è che noi stessi abbiamo bisogno d’amore, non solo la società o il mondo esterno. Ma anche qui non possiamo aspettarci che l’amore arrivi dall’esterno.
Dobbiamo domandarci se siamo capaci di amare noi stessi, oltre che gli altri: trattiamo amorevolmente il nostro corpo, nel modo in cui mangiamo, beviamo e lavoriamo? Trattiamo noi stessi con sufficiente gioia, tenerezza e pace? Oppure ci nutriamo delle tossine che ci procura il mercato dello svago spirituale e intellettuale?
Ciò che dobbiamo chiederci è se stiamo praticando l’amore verso noi stessi, perché amare noi stessi significa amare la nostra comunità. Se solo riusciamo ad amare noi stessi, a nutrirci correttamente, a non intossicarci, stiamo già proteggendo e nutrendo la società. Perché nel momento in cui riusciamo a sorridere, a guardare a noi stessi con compassione, il nostro mondo comincia a cambiare. Potremmo anche non aver fatto nulla, eppure quando siamo rilassati, in pace, quando siamo capaci di sorridere e di non guardare al sistema con aggressività, nel mondo si è già prodotto un mutamento.
Dunque il secondo suggerimento, il secondo insight, è che non c’è alcuna reale separazione tra il sé e il non-sé. Qualunque cosa fai per te stesso la fai allo stesso tempo per la società. E qualunque cosa fai per la società la fai anche per te stesso. Nella pratica del non-sé questo insight emerge in modo dirompente.
BH: Penso che uno dei libri più straordinari scritti da Martin Luther King è Strenght to Love (“La Forza di Amare”). Mi è sempre piaciuto a causa della parola ‘forza’, che va contro l’idea occidentale dell’amore come una cosa facile. Al contrario, Martin Luther King diceva che per amare bisogna avere coraggio, e la determinazione assoluta di fare quello che è giusto, e aggiungeva che questo non è affatto facile.
TNH: Martin Luther King è stato tra noi come un fratello, un amico, un leader. Era capace di mantenere vivo quell’amore. Entrare in contatto con lui significava entrare in contatto con un bodhisattva, perché la sua capacità di comprensione e di amore era così grande da contenere tutto. Lui ha provato a trasmettere il suo insight e il suo amore alla comunità, ma forse non lo abbiamo recepito abbastanza. Stava provando a trasmetterci le cose migliori – la sua bontà, il suo amore, la sua non-dualità. Ma noi ci siamo troppo aggrappati a lui come persona e non siamo riusciti a portare l’essenza del suo insegnamento nella nostra comunità. E adesso che non è più tra noi ci sentiamo perduti. Dobbiamo essere consapevoli che l’essenza di ciò che ci stava trasmettendo non era il potere, l’autorità, la posizione, ma piuttosto il Dharma, e cioè l’amore.
BH: Proprio così. La sua non è stata una trasmissione di personalità, e uno dei motivi per cui ho cominciato a scrivere sull’amore è stata proprio la sensazione, come hai detto tu, che la nostra cultura stava dimenticando il suo insegnamento. Sempre più strade e scuole vengono intitolate a Martin Luther King, ma questo conta poco: ciò che di lui deve essere ricordato è proprio la forza di amare.
È dall’energia del suo amore, e non dalla sua immagine, che dobbiamo attingere il coraggio. E questo non è affatto semplice, in una cultura come quella occidentale, votata al culto dell’immagine e della personalità. Ad esempio, il fatto che io abbia imparato così tanto da te, in tanti anni della mia vita, induce molti a domandarmi se ti ho mai incontrato di persona.
TNH: (ride): Sì sì, capisco.
BH: E io rispondo: sì, certo che l’ho incontrato, mi ha trasmesso amore attraverso i suoi insegnamenti e la pratica della consapevolezza.
Ho provato più volte a spiegare ai miei interlocutori che certamente avrei avuto piacere ad incontrarti un giorno, ma che quello che conta è che vivo e imparo dal tuo insegnamento.
TNH: Certo. Questa è l’essenza dell’interessere. Ci siamo già incontrati proprio nel non-inizio (ride): inizio desiderato, inizio fortunato!
BH: Però tu ci hai anche insegnato che trovarsi in presenza del proprio maestro rappresenta a volte un momento di trasformazione. E allora le persone si chiedono: è sufficiente aver appreso i suoi insegnamenti dai libri, oppure bisogna conoscerlo, avere con lui un vero e proprio incontro?
TNH: In realtà, il vero maestro è dentro di noi. Un buon maestro è qualcuno che può aiutarti a tornare a te stesso e a entrare in contatto con il vero maestro dentro di te, perché in te l’insight è già presente. È ciò che nel buddhismo chiamiamo buddhità, o natura di Buddha. Non abbiamo bisogno di qualcuno che trasferisca in noi la buddhità, ma forse avremo bisogno di un amico che sappia aiutarci a entrare in contatto con quella qualità di risveglio e comprensione che agisce dentro di noi.
Dunque un buon maestro è colui che sa aiutarci a ritrovare il maestro dentro di noi. E per far questo può agire in modi molto diversi, anche senza mai incontrarci di persona. Io mi rendo conto di avere tanti buoni allievi che non ho mai incontrato. Molti vivono in un monastero e non escono mai, altri sono in prigione, eppure in molti casi praticano gli insegnamenti meglio di coloro che mi incontrano ogni giorno. È proprio così: quando queste persone leggono un mio libro o ascoltano una registrazione, e in questo modo entrano in contatto con l’insight che è dentro di loro, allora mi hanno veramente incontrato. È questa l’essenza del vero incontro.
BH: Secondo te, come possiamo imparare ad amare un mondo pieno di ingiustizia, più che unendoci, come facciamo di solito, con persone che condividono con noi il colore della pelle o la lingua? Ti rivolgo questa domanda perché il mio primo contatto con te è stato tramite Martin Luther King, che rendeva omaggio alla tua compassione verso coloro che avevano ferito il tuo paese.
TNH: È un argomento davvero interessante. Una questione che fu molto importante per il Buddha stesso. La nostra visione della giustizia dipende dalla nostra pratica del guardare in profondità. Potremmo pensare che la giustizia consiste nell’uguaglianza, nell’avere gli stessi diritti e nel condividere le stesse opportunità. Ma forse non abbiamo avuto occasione di guardare alla natura della giustizia in termini di non-sé. Quella concezione della giustizia si basa sull’idea del sé, eppure sarebbe molto interessante esplorare il concetto di giustizia in termini di non-sé.
BH: Credo che questo fosse proprio il tipo di giustizia di cui parlava Martin Luther King, una giustizia valida per tutti, al di là dell’uguaglianza tra i singoli individui. A volte nella vita non c’è uguaglianza o parità, e allora che senso si può dare al concetto di giustizia laddove non c’è uguaglianza? Eppure un genitore può essere giusto nei confronti di un figlio, anche se tra loro non c’è parità. Mi sembra che in Occidente esista questo equivoco, cioè le persone pensano che non può esserci giustizia se non c’è totale uguaglianza. Anche per questo sento che dobbiamo imparare a ripensare l’amore: pensiamo all’amore troppo in termini di sé.
TNH: È possibile la giustizia senza uguaglianza?
BH: Penso di sì, la giustizia è possibile senza uguaglianza, grazie alla compassione e alla comprensione. Con la compassione, anche se io ho più di te, e quindi non siamo uguali, mi comporterò con te in modo giusto.
TNH: Vero. Ma chi ha creato la disuguaglianza?
BH: Beh, credo che la disuguaglianza sia nelle nostre menti. Questo, penso, è ciò che impariamo attraverso la pratica. Nel libro The Raft is not the Shore, uno dei concetti di cui hai parlato con Daniel Berrigan è che il ponte dell’illusione deve essere distrutto perché si possa costruire un vero ponte. Una delle cose che impariamo è che la disuguaglianza è un’illusione.
TNH: Mi sembra sensato (ride).
BH: Per tanto tempo, prima di venire qui, mi sono scontrata con il problema della rabbia che provo verso il mio ex-fidanzato. Ho preso i voti da bodhisattva, e quindi mi sento sempre molto avvilita quando provo rabbia. Ero arrivata alla disperazione per la grande difficoltà che avevo verso questa mia rabbia. Perciò il tuo discorso di Dharma di ieri, a proposito dell’abbracciare la nostra rabbia e dell’usarla, per poi lasciarla andare, è stato davvero fondamentale per me in questo momento.
TNH: Vuoi essere umana? Dunque arrabbiarsi è normale. Quello che non va è non praticare. Provare rabbia è una cosa umana. Imparare a sorridere alla tua rabbia e a farci pace è molto bello. Il significato della pratica, dell’imparare, è tutto qui. Prestando attenzione alla tua rabbia, puoi trasformarla nel tipo di energia di cui hai bisogno – comprensione e compassione. L’energia positiva si ottiene dall’energia negativa. Un fiore, per quanto bello, un giorno diventerà concime, ma se sai come trasformare il concime di nuovo in un fiore, allora non avrai da preoccuparti. Così non devi preoccuparti della tua rabbia, perché sai come trattarla: abbracciandola, riconoscendola e trasformandola. Questo è quello che si può fare.
BH: Penso sia proprio in questo che le persone fraintendono le parole di Martin Luther King quando ci dice di amare il nostro nemico. Credono che lui si limitasse a ripetere una stupida formuletta, invece quello che lui intendeva era che noi neri americani abbiamo bisogno di lasciar andare la nostra rabbia, perché aggrappandoci ad essa ci precludiamo ogni cambiamento. Aggrappandoci alla rabbia ci auto-opprimiamo. I miei studenti mi dicono: noi non vogliamo amare, siamo stanchi di essere amorevoli. E io gli rispondo: se siete stanchi di essere amorevoli vuol dire che non lo siete stati veramente, perché quando si ama si ha più forza. Come ci dicevi ieri, l’atto di amare ci rende più forti. Penso che per noi neri americani questo fatto di non riuscire ad amare i nostri nemici sia stata una cosa molto dolorosa. Le persone dimenticano la grande tradizione che abbiamo, come afro-americani, nella pratica del perdono e della compassione. E trascurando questa nostra tradizione, soffriamo.
Fonte, che si ringrazia per la grande gentilezza, http://www.esserepace.org/dharma.html