Introduzione al confronto fra le cinque tradizioni tibetane buddhiste e Bon
Alexander Berzin, Berlino, 10 Gennaio 2001. Completata da passaggi tratti da una conferenza sullo stesso argomento data a Monaco di Baviera, 30 Gennaio 1995.
Il Bon come quinta tradizione del Tibet
Generalmente si considera che in Tibet siano presenti quattro tradizioni: Nyingma, Kagyu, Sakya e Ghelug, essendo quest’ultima la prosecuzione riformata della precedente tradizione Kadam. Tuttavia al congresso nonsettario di tulku (lama reincarnati) ed abati indetto da Sua Santità il Dalai Lama a Sarnath nel 1988, Sua Santità sottolineò l’importanza di aggiungere a queste quattro la tradizione tibetana pre-buddhista del Bon e di riferirsi sempre alle cinque tradizioni del Tibet. Egli spiegò che non si tratta tanto di stabilire se considerare o meno il Bon una tradizione buddhista. Infatti la forma di Bon che si è andata sviluppando a partire dall’undicesimo secolo d.C. è sufficientemente simile alle quattro tradizioni buddhiste del Tibet da consentire di considerare tutte e cinque le tradizioni in modo unitario.
Gerarchia e decentramento
Prima di approfondire le somiglianze e le differenze fra le cinque tradizioni del Tibet, è importante ricordare che nessuno dei sistemi tibetani costituisce una chiesa organizzata a somiglianza, per esempio, della Chiesa Cattolica. Nessuna delle tradizioni possiede un’o rganizzazione centralizzata di quel tipo. I capi delle tradizioni, gli abati e così via hanno principalmente la responsabilità di conferire l’ordinazione monastica e di trasmettere i lignaggi delle trasmissioni orali e delle iniziazioni tantriche. Il loro principale interesse non riguarda le questioni amministrative. Più che altro la gerarchia determina dove le persone siedono durante le grandi cerimonie rituali (puja), su quanti cuscini siedono, in che ordine viene servito il tè, e così via. Per svariati motivi culturali e geografici il popolo tibetano tende a un’estrema indipendenza, e ciascun monastero generalmente segue le proprie usanze. L’isolamento dei monasteri, le enormi distanze che li separavano, e le difficoltà di spostamento e comunicazione hanno rinforzato questa tendenza al decentramento.
Aspetti comuni
Le cinque tradizioni del Tibet hanno molti aspetti in comune, probabilmente l’ottanta per cento o ancora di più. La loro storia rivela che i rispettivi lignaggi non esistono come monoliti separati da solide barriere, senza contatti reciproci. Il consolidarsi di cinque tradizioni discende dal fatto che i rispettivi fondatori hanno raccolto e combinato in sé diverse linee di trasmissioni, la maggior parte indiane. Convenzionalmente i loro seguaci hanno denominato ciascuna di queste sintesi un “lignaggio”, ma molte di queste stesse linee di trasmissione sono entrate a far parte anche dei lignaggi delle altre tradizioni.
Tradizioni laiche e monastiche
Il primo aspetto comune alle cinque scuole consiste nella presenza di tradizioni laiche e monastiche. Le prime interessano yogi e yogini sposati, impegnati in pratiche meditative tantriche intensive, e laici ordinari la cui pratica di Dharma consiste principalmente nella recitazione di mantra, nel fare offerte sia a casa che al tempio, e nella circumambulazione di monumenti sacri. Le tradizioni monastiche comprendono in tutte e cinque le scuole l’ordinazione maschile piena e quella di novizio, e l’ordinazione femminile di novizio, mentre l’ordinazione femminile piena non è mai giunta nel Tibet. Generalmente si entra nei monasteri e nei conventi all’età di otto anni. L’architettura e le decorazioni dei monasteri sono grossomodo uguali in tutte le tradizioni.
Le quattro scuole buddhiste hanno lo stesso sistema di voti proveniente dall’India, quello Mula-Sarvastivada. Il Bon presenta lievi differenze, ma la maggior parte dei voti sono come quelli buddhisti. Una differenza importante è che i Bon fanno voto di vegetarianesimo. In tutte le tradizioni i monaci si rasano il capo, mantengono il celibato e indossano la stessa veste senza maniche di color rosso scuro, con una sottana e uno scialle. I monaci Bon si limitano a sostituire il colore blu al giallo, nella parte centrale della veste.
Studio del sutra
Tutte le tradizioni del Tibet seguono un sentiero che unisce lo studio dei sutra e tantra con la pratica rituale e meditativa. I monaci da bambini imparano a memoria un vasto numero di testi accademici e rituali e studiano per mezzo di accesi dibattiti. I temi appartenenti al sutra sono gli stessi sia per i buddhisti che per i Bonpo. Essi comprendono la prajnaparamita (discriminazione di vasta portata, la perfezione della saggezza) riguardo gli stadi del sentiero, madhyamaka (la via di mezzo) che riguarda la visione corretta della realtà (vacuità), pramana (validi modi di conoscenza) intorno alla percezione e alla logica, e abhidharma (argomenti speciali di conoscenza), riguardante la metafisica. I libri di testo tibetani per ciascuna di queste materie presentano interpretazioni leggermente diverse non solo fra le cinque tradizioni ma anche, all’interno di ciascuna tradizione, fra un monastero e l’altro. Queste differenze contribuiscono a rendere più interessante il dibattito. Al termine di un corso prolungato di studi ciascuna delle cinque tradizioni rilascia un titolo di studio, Ghesce oppure Khenpo.
Tutte le scuole buddhiste tibetane studiano le quattro tradizioni dottrinali del Buddhismo indiano – Vaibhashika, Sautrantika, Cittamatra e Madhyamaka. Sebbene ogni scuola offra spiegazioni leggermente diverse, tutte concordano che il Madhyamaka espone la posizione più precisa e sofisticata. Le quattro tradizioni inoltre studiano gli stessi classici Indiani di Maitreya, Asanga, Nagarjuna, Chandrakirti, Shantideva e così via. Ancora una volta, ciascuna scuola possiede i propri commentari tibetani, che presentano leggere differenze fra di loro.
Studio e pratica del tantra
Lo studio e la pratica del tantra comprende tutte le sue quattro o sei classi, a seconda dello schema di classificazione utilizzato. Le quattro tradizioni buddhiste praticano molte delle stesse figure di Buddha (divinità, yidam) quali Avalokiteshvara, Tara, Manjusri, Chakrasamvara (Heruka) e Vajrayoghini (Vajradakini). Praticamente in nessun caso la pratica di una figura di Buddha è appannaggio esclusivo di un’unica tradizione: i Ghelugpa praticano anche Hevajra, lo yidam principale dei Sakya, e gli Shangpa Kagyupa praticano Vajrabhairava (Yamantaka), lo yidam principale dei Ghelug. Le figure di Buddha nel Bon hanno attributi simili a quelle del Buddhismo, per esempio alcune rappresentano la compassione o la saggezza, solo con nomi differenti.
La meditazione
In tutte e cinque le tradizioni tibetane la pratica della meditazione comporta ritiri prolungati, spesso della durata di tre anni e tre fasi lunari. I ritiri sono preceduti dalla pratica intensiva dei preliminari, che comporta centinaia di migliaia di prostrazioni, recitazioni di mantra e così via. Il numero dei preliminari e le modalità concrete di esecuzione, la struttura del ritiro di tre anni presentano lievi differenze fra le scuole, tuttavia le pratiche sono sostanzialmente le stesse.
I rituali
Le cinque scuole presentano pratiche rituali assai simili. Tutte praticano l’offerta di ciotole di acqua, lampade al burro ed incenso, siedono nella stessa postura a gambe incrociate ed usano il vajra, la campana e tamburelli chiamati damaru; suonano lo stesso tipo di corni, cimbali e tamburi; cantano ad alta voce; offrono e gustano carne ed alcol consacrati nel corso di cerimonie speciali (tsog), e servono tè al burro nel corso di tutte le cerimonie rituali. Seguendo usanze appartenenti originariamente al Bon, tutte offrono torme (coni di farina di orzo mescolata con il burro e scolpiti), si rivolgono per protezione agli spiriti del luogo, scacciano gli spiriti dannosi per mezzo di rituali elaborati, in certe occasioni costruiscono sculture di burro, e appendono bandiere di preghiera colorate. Tutte accolgono reliquie di grandi maestri in monumenti chiamati stupa e li circumambulano – i buddhisti in senso orario, i Bon in senso antiorario. Anche gli stili di arte religiosa sono molto simili; le proporzioni delle figure nei dipinti e nelle statue seguono invariabilmente le stesse linee guida.
Il sistema dei Tulku (lama reincarnati)
Ciascuna delle cinque tradizioni tibetane possiede il sistema dei tulku, linee di lama reincarnati, grandi praticanti che hanno padronanza sulla propria rinascita. Quando questi lasciano il corpo, generalmente durante un tipo speciale di meditazione in punto di morte, i loro discepoli usano metodi speciali per cercare e rintracciare fra i bambini la loro reincarnazione, dopo un adeguato periodo di tempo. I discepoli consegnano i piccoli reincarnati alle loro precedenti abitazioni e vengono istruiti dai migliori maestri. Sia i monaci che i laici trattano i tulku di tutte le cinque tradizioni con il massimo rispetto. Spesso richiedono ai tulku e agli altri grandi maestri un mo (divinazione) riguardo a questioni importanti della propria vita. Un mo si esegue generalmente lanciando tre dadi mentre s’invoca una delle figure di Buddha.
Tutte le tradizioni tibetane prevedono una formazione nello studio dei testi, nel dibattito, nei rituali e nella meditazione, tuttavia l’enfasi varia da un monastero all’altro anche all’interno della stessa scuola, e fra diverse persone anche entro lo stesso monastero. Inoltre, ad eccezione dei lama di rango elevato, gli anziani e infermi, monaci e monache a turno eseguono i lavori manuali necessari per il sostenimento dei monasteri, come pulire le sale comuni, disporre le offerte, procurare acqua e combustibile, cucinare e servire il tè. Anche se alcuni monaci o monache si dedicano principalmente allo studio, al dibattito, all’insegnamento o alla meditazione, tuttavia alle preghiere comuni, ai canti e ai rituali resta dedicata una parte significativa del giorno e della notte. L’affermazione secondo la quale i Ghelug e i Sakya pongono l’accento sullo studio mentre i Kagyu e i Nyingma sulla meditazione è una generalizzazione superficiale.
Lignaggi misti
Molti lignaggi di insegnamenti si mescolano e s’intersecano fra le cinque tradizioni. Per esempio il lignaggio del Tantra di Guhyasamaja è disceso dal traduttore Marpa sia alla scuola Kagyu che alla Ghelug. Sebbene gli insegnamenti del mahamudra (grande sigillo) che riguardano la natura della mente siano generalmente associati ai Kagyu, anche le scuole Sakya e Ghelug trasmettono lignaggi di questi insegnamenti. Lo dzogchen (la grande completezza) è un altro sistema di meditazione sulla natura della mente che, sebbene generalmente sia associato con la tradizione Nyingma, ha una notevole importanza anche nella tradizione Karma Kagyu a partire dall’epoca del terzo Karmapa, e nelle tradizioni Drugpa Kagyu e Bon. Il quinto Dalai Lama è stato un grande maestro non solo Ghelug, ma anche dzogchen e Sakya, e ha scritto molti testi su ciascuna di queste tradizioni. Ci serve apertura mentale per vedere che le scuole tibetane non si escludono a vicenda: per esempio molti monasteri Kagyu offrono puje a Guru Rinpoche, pur non essendo Nyingma.
Differenze
Uso di termini tecnici
Quali sono allora le principali differenze fra le cinque tradizioni tibetane? Una delle principali riguarda l’uso di termini tecnici. Il Bon tratta in gran parte degli stessi temi del Buddhismo, ma in molti casi utilizzando nomi o termini differenti. Anche all’interno delle quattro tradizioni buddhiste, varie scuole usano gli stessi termini tecnici ma con diverse definizioni. In effetti questo è un grande problema per chi cerca di comprendere il Buddhismo tibetano in generale. Anche all’interno della stessa tradizione, autori diversi definiscono gli stessi termini in modi diversi; addirittura a volte uno stesso autore dà definizioni differenti dello stesso termine in opere diverse. Se non conosciamo esattamente la definizione che un autore usa di volta in volta per i termini tecnici, potremmo fare una grandissima confusione. Facciamo qualche esempio.
I Ghelugpa sostengono che la mente, cioè la consapevolezza degli oggetti, è impermanente, mentre i Kagyupa ed i Nyingmapa che è permanente. Sembra che le due asserzioni si contraddicano e si escludano reciprocamente, ma in realtà non è così. Con il termine “impermanente” i Ghelugpa indicano che la consapevolezza degli oggetti cambia di momento in momento, nel senso che l’oggetto di cui si ha consapevolezza cambia di momento in momento. Mentre con il termine “permanente” i Kagyupa ed i Nyingmapa intendono che la consapevolezza degli oggetti continua per sempre, la sua natura di base non è influenzata da nulla e quindi non è soggetta al mutamento. Ciascuna scuola sarebbe d’accordo con l’altra, ma dal momento che ciascuna attribuisce un significato diverso agli stessi termini sembra che siano in totale contrasto. Senza dubbio i Kagyupa ed i Nyingmapa affermerebbero che la consapevolezza degli oggetti di un individuo percepisce o conosce oggetti diversi di momento in momento, mentre i Ghelugpa concorderebbero certamente sul fatto che ogni mente individuale è un continuum di consapevolezza degli oggetti privo di inizio e di fine.
Un altro esempio è il termine “origine dipendente”. Secondo i Ghelugpa ogni cosa esiste come origine dipendente, vale a dire che le cose esistono come “questo” o “quello” in base al fatto che parole e concetti possono validamente designare le cose come “questo” o “quello”. I fenomeni conoscibili sono ciò a cui si riferiscono le parole e i concetti che li designano. Non vi è nulla che esista dalla parte dei fenomeni conoscibili e che possa per suo potere dare loro esistenza e identità. Quindi per i Ghelugpa l’esistenza come origine dipendente equivale alla vacuità: l’assenza totale di modi di esistenza impossibili.
D’altra parte i Kagyupa sostengono che ciò che è ultimo sia oltre l’origine dipendente. Sembrerebbe che intendano affermare che ciò che è ultimo ha un’esistenza indipendente stabilita per proprio potere, non solo un’esistenza in quanto origine dipendente; ma non è così. Qui i Kagyupa usano il termine “origine dipendente” nel senso dei dodici anelli dell’origine dipendente. Il fenomeno ultimo o il fenomeno vero più profondo è oltre l’origine dipendente nel senso che non sorge in base all’inconsapevolezza della realtà (ignoranza). Anche i Ghelugpa accetterebbero quest’a ffermazione. Il fatto è che essi usano il termine “origine dipendente” in una diversa accezione. Molte discrepanze fra le teorie sostenute dalle scuole tibetane sorgono da simili discordanze nella definizione di termini critici, il che costituisce un’enorme fonte di confusione e di fraintendimento.
Diversi punti di vista
Ancora, le tradizioni tibetane differiscono quanto alla prospettiva a partire dalla quale spiegano i fenomeni. Secondo il maestro Jamyang-kyentse-wangpo, appartenente al movimento Rimè (movimento non settario), le spiegazioni Ghelugpa sono a partire dal punto di vista della base, cioè degli esseri ordinari, coloro che non sono Buddha. Invece i Sakyapa danno le loro spiegazioni dalla prospettiva del sentiero, cioè di quegli esseri che hanno raggiunto uno stadio estremamente avanzato sul sentiero per l’illuminazione. Mentre i Kagyupa ed i Nyingmapa dal punto di vista del risultato, cioè di un Buddha. Dal momento che questa distinzione è estremamente profonda e difficile da comprendere, indicherò solamente un possibile punto di partenza per approfondire la questione.
A partire dal punto di vista della base è possibile soltanto focalizzarsi sulla vacuità o sulle apparenze separatamente, per conseguenza i Ghelugpa spiegano anche la meditazione sulla vacuità di un arya da questa prospettiva. Un arya è un essere altamente realizzato dotato di una percezione diretta e non concettuale della vacuità. I Kagyupa e i Nyingmapa invece sottolineano l’inseparabilità delle due verità, vacuità e apparenza. Dal punto di vista di un Buddha non è possibile parlare solo di vacuità o solo di apparenza, quindi essi parlano dalla prospettiva secondo il quale ogni cosa è già completa e perfetta. La presentazione dello dzogchen della scuola Bon è in accordo con questo stile di spiegazione. Un esempio della presentazione Sakya a partire dal punto di vista del sentiero è l’asserzione che la mente di chiara luce (la consapevolezza più sottile di ciascun individuo) è intrisa di beatitudine. Se questo fosse vero al livello della base, allora la mente di chiara luce che si manifesta al momento della morte sarebbe intrisa di beatitudine, il che non è. Tuttavia sul sentiero la mente di chiara luce viene trasformata in una mente intrisa di beatitudine. Quindi, quando i Sakyapa sostengono che la mente di chiara luce è intrisa di beatitudine, parlano dal punto di vista del sentiero.
Differenza fra i tipi di praticante
Un’altra differenza proviene dal fatto che esistono due tipi di praticante: quelli che avanzano gradualmente stadio dopo stadio e quelli per i quali tutto avviene in un solo momento. I Ghelugpa e i Sakyapa parlano più che altro dal punto di vista dei primi, mentre i Kagyupa, i Nyingmapa ed i Bon, specialmente nelle loro presentazioni della classe più elevata del tantra, spesso parlano dal punto di vista di coloro per i quali tutto avviene in un solo momento. Sebbene le spiegazioni che ne risultano possano dare l’impressione che ciascuna scuola proponga un solo modo di procedere sul sentiero, in realtà si tratta solo di un differente accento posto nella spiegazione sul primo o sul secondo modo.
La meditazione sulla vacuità nel tantra supremo
Come abbiamo già ricordato, tutte le scuole tibetane accettano gli insegnamenti del madhyamaka come i più profondi, ma presentano alcune differenze nel modo di comprendere e spiegare i diversi sistemi dottrinali indiani. Le differenze risultano più evidenti nel modo in cui le scuole comprendono e praticano il madhyamaka nel tantra supremo. Trattandosi anche in questo caso di una questione molto complessa e profonda, cercheremo di avere qui una comprensione iniziale.
La pratica del tantra supremo porta ad acquisire la percezione diretta non concettuale della vacuità per mezzo della mente sottilissima di chiara luce. Quindi sono necessarie due componenti: la consapevolezza di chiara luce e la percezione corretta della vacuità. Quale delle due viene maggiormente enfatizzata nella meditazione? L’approccio della “vacuità di sé” in meditazione pone l’enfasi sulla vacuità in quanto oggetto percepito dalla mente di chiara luce. Vacuità di sé indica l’assenza totale di una natura autoesistente che attribuisca ai fenomeni la loro identità. Tutti i fenomeni sono privi di questo impossibile modo di esistenza. I Ghelugpa, la maggior parte dei Sakyapa ed i Drikung Kagyupa sottolineano questo approccio, sebbene le loro spiegazioni presentino lievi differenze riguardo gli impossibili modi di esistenza dei quali i fenomeni sono privi.
Il secondo approccio consiste nel sottolineare la meditazione sulla stessa mente di chiara luce, che è priva di tutti i livelli più grossolani di mente o di consapevolezza. In questo contesto, la consapevolezza di chiara luce riceve il nome di “vacuità d’altro”, essendo priva di tutti gli altri livelli mentali più grossolani. Questo è l’approccio principale dei Karma, Drugpa e Shangpa Kagyupa, dei Nyingmapa e di parte dei Sakyapa. Naturalmente ciascuna di queste scuole ha metodi leggermente distinti di spiegazione e di meditazione. Quindi, una delle aree principali di differenza fra le scuole tibetane è il modo in cui definiscono la vacuità di sé e la vacuità d’altro, il fatto che accettino l’una, l’altra o entrambe, e su cosa, nella meditazione, viene posto l’accento per raggiungere la consapevolezza di chiara luce della vacuità.
Al di là di questa differenza riguardo la vacuità di sé o vacuità d’altro, tutte le scuole tibetane insegnano metodi per accedere alla consapevolezza di chiara luce, o, nel sistema dzogchen, al suo equivalente: rigpa, la pura consapevolezza. Qui abbiamo un’altra differenza importante: i Kagyupa non dzogchen, i Sakyapa e i Ghelugpa insegnano a dissolvere progressivamente i livelli più grossolani della mente o della consapevolezza per potere aver accesso alla mente di chiara luce. Questa dissoluzione può essere attuata operando con i canali energetici sottili, i venti, i chakra e così via, oppure generando stati di consapevolezza sempre più intrisi di beatitudine nel sistema energetico sottile del corpo. Invece i Nyingmapa, i Bonpo e i praticanti dei lignaggi Kagyupa dello dzogchen cercano di riconoscere e quindi di accedere a rigpa che esiste al disotto dei livelli di consapevolezza grossolani, senza dover prima dissolvere questi livelli grossolani. Tuttavia, dal momento che a uno stadio precedente del loro addestramento costoro si sono impegnati in pratiche riguardanti i canali energetici, i venti e i chakra, nel loro caso i livelli grossolani di consapevolezza si dissolvono automaticamente, senza necessità di un ulteriore sforzo intenzionale, nel momento in cui riconoscono ed accedono a rigpa.
La vacuità può essere espressa a parole?
Esiste tuttavia un’altra differenza, che riguarda la possibilità d’indicare la vacuità per mezzo di parole o concetti, o il suo essere al di là di questi. In parallelo, abbiamo anche una differenza nella teoria della cognizione. I Ghelugpa sostengono che nel caso della cognizione sensoriale non concettuale, per esempio della vista, vengono percepite non solo forme e colori ma anche oggetti, come un vaso. Invece i Sakyapa, i Kagyupa ed i Nyingmapa asseriscono che la cognizione sensoriale non concettuale vede solo forme e colori, mentre il fatto di vedere le forme e i colori come oggetti, un vaso ad esempio, si verifica un nano secondo più tardi, grazie alla cognizione concettuale.
In accordo con questa differenza riguardante la cognizione concettuale e non concettuale, i Ghelugpa sostengono che la vacuità può essere indicata per mezzo di parole e di concetti: la vacuità è ciò cui ci si riferisce con il termine “vacuità”. Al contrario i Sakyapa, i Kagyupa e i Nyingmapa sostengono che la vacuità – sia che si tratti di vacuità di sé che di vacuità d’altro – è al di là di parole e concetti. La loro posizione è in accordo con la spiegazione dei cittamatra, secondo la quale le parole e i concetti che designano gli oggetti sono costrutti mentali artificiali. Quando pensiamo “madre,” la parola e il concetto non sono realmente nostra madre, sono solo dei segni che usiamo per rappresentarla. Non è possibile che una parola contenga veramente nostra madre.
L’uso di termini cittamatra
Di fatto, i Sakyapa, i Kagyupa e i Nyingmapa usano molti termini tipici dei cittamatra anche nelle loro spiegazioni madhyamaka, specialmente quando trattano del tantra supremo, mentre i Ghelugpa non lo fanno quasi mai. Tuttavia quando i non-Ghelugpa fanno uso di termini tecnici cittamatra nel contesto di spiegazioni madhyamaka del tantra supremo, ne danno una definizione diversa da quella che usano quando li utilizzano in un contesto rigorosamente relativo al sutra cittamatra. Per esempio, l’alayavijnana (consapevolezza fondamentale) è uno degli otto tipi di consapevolezza limitata nel sistema sutra cittamatra, mentre nel contesto del tantra supremo madhyamaka, la consapevolezza fondamentale è un sinonimo della mente di chiara luce che continua anche una volta raggiunta la Buddhità.
Sintesi
Abbiamo trattato alcune delle aree principali di divergenza che riguardano profondi aspetti filosofici e meditativi. Potremmo discuterne in estremo dettaglio, tuttavia ritengo sia molto importante tenere sempre ben presente il fatto che in più dell’80% dei casi le scuole tibetane presentano caratteristiche uniformi. Le differenze fra le scuole sono dovute principalmente al modo di definire i termini tecnici, al punto di vista rispetto al quale offrono le loro spiegazioni, e alle tecniche meditative utilizzate per ottenere la consapevolezza di chiara luce della vacuità.
Pratiche preliminari
È uguale anche la formazione generale che i praticanti ricevono nelle varie tradizioni, cambia solo lo stile di alcune pratiche. Per esempio, la maggior parte dei Kagyupa, Nyingmapa e i Sakyapa completano il complesso dei preliminari alla pratica del tantra (le centomila prostrazioni e così via) in un grande evento all’inizio del loro percorso, spesso nel corso di un ritiro specifico. I Ghelugpa normalmente le praticano in successione, inserendole nel complesso delle altre attività, spesso dopo aver completato gli studi di base. Tuttavia, i praticanti di ciascuna tradizione ripetono tutto il complesso dei preliminari all’inizio di ogni ritiro di tre anni.
I ritiri di tre anni
In questi ritiri normalmente i Kagyupa, i Nyingmapa ed i Sakyapa si addestrano in un certo numero di meditazioni di sutra, quindi nelle pratiche rituali fondamentali relative alle principali figure di Buddha del loro lignaggio, dedicando di volta in volta diversi mesi a ciascuna pratica. Inoltre imparano a suonare gli strumenti musicali cerimoniali e a preparare torma scolpite per le offerte. I Ghelugpa acquisiscono la stessa preparazione nella meditazione e nel rituale addestrandosi in queste pratiche una alla volta, facendole rientrare nel complesso delle altre attività, come nel caso dei preliminari. Il ritiro di tre anni per loro consiste nella pratica intensiva di una sola figura di Buddha. I non-Ghelugpa generalmente dedicano tre o più anni di ritiro su una singola pratica di tantra solo nel corso del loro secondo o terzo ritiro di tre anni, non in quello iniziale.
Per partecipare al rituale monastico completo di pratica di una figura di Buddha tuttavia è necessario aver completato un ritiro di diversi mesi che comporta la recitazione di diversi mantra centinaia di migliaia di volte, altrimenti non è possibile procedere all’autoiniziazione. La maggior parte dei monaci di tutte le tradizioni completano questo tipo di pratica, i Gelupa nel corso di un ritiro specifico della durata di alcuni mesi, gli altri inserendola in un ritiro di tre anni. Tuttavia solo i praticanti più avanzati di ciascuna tradizione s’impegnano in ritiri di tre anni dedicati ad una singola figura di Buddha.
Conclusione
È molto importante mantenere un’ottica non settaria in merito alle cinque tradizioni tibetane buddhiste e Bon. Come sottolinea Sua Santità il Dalai Lama infatti, queste diverse tradizioni hanno lo stesso scopo ultimo, in quanto tutte insegnano metodi per raggiungere l’illuminazione così da poter essere di massimo beneficio agli altri. Ogni tradizione è egualmente efficace nell’aiutare i propri praticanti a raggiungere lo scopo, per conseguenza esse formano nel loro complesso un insieme armonioso, anche se non semplice. Mettendo a paragone, sia pure a livello introduttivo, le cinque tradizioni possiamo imparare ad apprezzare i punti di forza specifici di quella che noi seguiamo e a comprendere che ciascuna ha proprie caratteristiche particolari. Se vogliamo diventare Buddha e apportare beneficio a tutti, dovremo prima o poi apprendere lo spettro completo delle tradizioni e il modo in cui si combinano, così da poter insegnare a persone di inclinazioni e capacità differenti. In caso contrario correremo il rischio di “abbandonare il Dharma”, cioè gettare discredito su insegnamenti autentici del Buddha, e in questo modo ci priveremo della possibilità di essere d’aiuto a quegli esseri per i quali Buddha vide che questi insegnamenti sono di beneficio.
È importante tuttavia, nella propria pratica personale, seguire un solo lignaggio. Non è possibile raggiungere la cima di un edificio salendo per cinque scale simultaneamente. Tuttavia, se ne abbiamo la capacità, lo studio delle cinque tradizioni ci può aiutare a comprendere i loro rispettivi punti di forza, il che a sua volta ci può aiutare a comprendere a fondo quei punti che vengono meno elaborati nella nostra tradizione. Questo è quanto il Dalai Lama e tutti i grandi maestri ribadiscono continuamente.
È molto importante anche comprendere che, qualsiasi cosa noi facciamo, sia nella sfera spirituale che in quella materiale, ci sono forse dieci, venti o trenta modi diversi di fare la stessa cosa. In questo modo eviteremo di sviluppare attaccamento al nostro specifico modo di fare qualcosa. Riusciremo a vedere più chiaramente l’essenza, invece di restare incastrati nel pensiero “Questo è il modo giusto di agire, perché è il mio modo giusto di agire!”
Avete domande?
Domande
Domanda : Che tradizione segui tu?
Alex: Sua Santità il Dalai Lama e uno dei suoi maestri, Serkong Rimpoche, la mia principale guida spirituale, mi hanno sempre incoraggiato a seguire il loro esempio, cioè praticare e studiare il più possibile tutte le tradizioni tibetane mantenendo però come mia scuola prevalente la Ghelug. Ho cercato per quanto ho potuto di seguire quest’indicazione.
Domanda : Seguire pratiche meditative appartenenti a molte tradizioni diverse non può generare confusione? Non fa confusione anche solo praticare figure di Buddha diverse all’interno di un’unica tradizione?
Alex: Ci sono molti modi di avvicinarsi alla pratica del Buddhismo, specialmente al tantra. C’è un detto indiano: “Gli indiani praticavano una figura di Buddha e riuscivano a realizzarne cento, mentre i tibetani ne praticano cento e non ne realizzano nemmeno una!” Il senso è che è importante entrare in profondità in una pratica se vogliamo riuscire con molte. L’ampiezza della nostra pratica dipende dalle nostre capacità, e per valutarle dobbiamo esaminare noi stessi con onestà e basarci sulle indicazioni dei nostri maestri.
Se siamo in grado di dedicarci a pratiche tantriche appartenenti a lignaggi diversi, è importante, come raccomanda Sua Santità, non farne un minestrone. Ciascuna pratica deve essere eseguita individualmente, in accordo alla propria tradizione, nei modi specifici. Se il seguire diverse pratiche ci provoca confusione, Sua Santità consiglia di non dare la stessa importanza a tutte; se abbiamo ricevuto iniziazioni e pratiche da molti lignaggi o anche per molte figure di Buddha dello stesso lignaggio e ci sentiamo confusi, possiamo limitarci a mantenere la connessione karmica con alcune di esse recitando il mantra tre volte al giorno, quindi approfondire solo quelle che comprendiamo meglio, e per le quali proviamo più forte connessione.
Credo che la capacità di dedicarsi a molte pratiche dipenda dal nostro grado di comprensione della teoria generale del tantra. Se infatti ne abbiamo una corretta comprensione, possiamo capire come ciascuna pratica si combina con le altre, in caso contrario la nostra pratica del tantra rischia di diventare schizofrenica.
Domanda : Per cortesia, puoi approfondire l’indicazione del Dalai Lama sul non mischiare le pratiche?
Alex: Uno dei motivi per non mischiare o adulterare le pratiche è mostrare rispetto al lignaggio e alla tradizione. Sarebbe come entrare in una chiesa cattolica e fare tre prostrazioni davanti all’altare, quando tutti gli altri s’inginocchiano e fanno il segno della croce. Il quinto Dalai Lama è un buon esempio di persona che conosceva a fondo diverse tradizioni, senza mai confonderle. Quando componeva testi Ghelug, li scriveva usando uno stile assolutamente Ghelug, mentre quando componeva testi Sakya li scriveva in quello stile dall’inizio alla fine, e quando scriveva testi Nyingma lo stile era interamente Nyingma. Nei testi Nyingma, all’inizio, si loda Padmasambhava invece che Tsong Khapa.
Un altro motivo per mantenere la purezza di ciascuna pratica è che all’interno della pratica di visualizzazione, o sadhana, di ogni tradizione, per esempio, tutte le parti, il vocabolario e i modi di espressione sono coerenti. Si combinano armoniosamente proprio come le parti che compongono una particolare marca e modello di automobile.
Per esempio, nella pratica di Hevajra di tradizione Sakya, la preghiera dei sette rami non include la supplica ai Buddha di non morire; questo perché negli insegnamenti Sakya del lamdrè (i sentieri ed i loro risultati) l’enfasi è posta sulla manifestazione dei Buddha come sambhogakaya, che rimangono fino a che ogni essere ha ottenuto la liberazione dalla sofferenza, piuttosto che come nirmanakaya, che insegnano l’impermanenza con la propria morte. Quest’accento particolare sul sambhogakaya si riflette anche nel modo in cui si stabilizza la visualizzazione di se stessi come figura di Buddha e si riceve il potenziamento tantrico (iniziazione). Inserire in una pratica lamdrè Sakya una preghiera dei sette rami in stile Ghelug, che include la supplica ai Buddha di non trapassare, sarebbe quindi come cercare di usare un pezzo di ricambio Volkswagen per un motore Ford: semplicemente non funziona.
Domanda : Non ci sono esempi di pratiche appartenenti a lignaggi diversi che siano state combinate insieme?
Alex: In certi casi, alcune pratiche introdotte da un lignaggio all’altro sono state mantenute nella loro forma pura originaria; per esempio la pratica Ghelug di Hayagriva Yangsang che deriva dai testi tesoro rivelati dal quinto Dalai Lama mantiene lo stesso stile di pratica di ogni sadhana Nyingma.
In altri casi parti della pratica sono stati adattati allo stile del lignaggio nel quale la pratica è stata introdotta; per esempio la pratica di Vajrayoghini, inserita nella scuola Ghelug dalla Sakya, ha molti aspetti comuni a sadhane tipiche Ghelug, e semplicemente sostituisce nella meditazione sulla vacuità lo stile Ghelug a quello Sakya.
Talvolta, si trovano ibridi. Per esempio la pratica di Guru Rinpoche dei Karma Kagyu presenta molti dei componenti di una sadhana Nyingma ma la terminologia e il modo di meditare sulla vacuità sono tipicamente Karma Kagyu. Nella sadhana di Karma Pakshi (il secondo Karmapa), sebbene Guru Rimpoche sieda nel cuore di Karma Pakshi e una delle offerte ricordi lo stile Nyingma, il resto della pratica è tipicamente nello stile Karma Kagyu. Il principale aspetto ibrido consiste nel visualizzare se stessi come figura di Buddha nell’aspetto di un grande maestro del lignaggio. Tuttavia per operare queste sintesi occorre essere un grande maestro dotato di saggezza di vasta portata; non è un tabù, ma richiede grandissima cautela. Per esseri ordinari come noi creare nuove sintesi non ci porterebbe probabilmente che a creare confusione.
Domanda : Se la mia pratica prevalente è Ghelug ma mi piace anche praticare lo dzogchen, come posso fare?
Alex: La cosa migliore sarebbe praticare lo dzogchen separatamente. È come a scuola: nell’ora di matematica si fa matematica, in quella di lettere si fa lettere; si affronta una materia per volta, separatamente, ma alla fine tutto quello che impariamo contribuisce armonicamente al nostro sviluppo.
Per molte persone praticare diversi metodi risulta eccessivo, quindi non è necessario; meglio limitarsi a uno stile di pratica mantenendo tuttavia l’apprezzamento per l’ampia varietà di metodi del Buddhismo. In caso contrario potrebbe capitare che andiamo a un altro centro di Dharma, incontriamo altri praticanti e vediamo che fanno le cose in modo un po’ diverso da noi. Per esempio, noi che seguiamo la tradizione tibetana potremmo andare in un centro Zen e vedere come loro fanno le prostrazioni: alziamo le orecchie come un coniglio di fronte ai fari di una macchina esclamando con orrore: “E’ sbagliato! Tengono i palmi in alto, non in basso! Andranno all’inferno!” Tanto orrore e costernazione derivano dalla ristrettezza della nostra cultura buddhista: tutti i buddhisti cinesi fanno le prostrazioni in quel modo. È vero che alcuni maestri tibetani hanno un atteggiamento fondamentalista a proposito della loro tradizione, ma non è indispensabile seguirne l’esempio.
Domanda : Come facciamo a sapere quale tradizione è più adatta a noi?
Alex: Non è facile. In Tibet si andava nel monastero o dai maestri nella valle in cui si era nati; chi poi non si accontentava e voleva proseguire gli studi, si spostava una volta completata l’istruzione buddhista di base. Per esempio uno dei miei maestri, Ghesce Ngawang Dargyey, da bambino era entrato nel monastero Sakya locale, ma crescendo ha compiuto i suoi studi principali in monasteri Ghelug, prima nella sua regione di provenienza e poi più lontano, a Lhasa.
La situazione qui in occidente è molto diversa; in molte città sono disponibili diverse opzioni, quindi si può andare a curiosare nei diversi centri di Dharma, come quando si guardano le vetrine. Prima o poi comunque dovremo scegliere un lignaggio entro cui focalizzare la parte principale del nostro studio e della nostra pratica: sarebbe stupido continuare a curiosare senza comprare mai niente. Se automaticamente proviamo un senso di familiarità e ci sentiamo a nostro agio con un lignaggio o un maestro particolare, è un buon segno di una connessione karmica, c’è il giusto feeling.
Scegliendo un lignaggio o un maestro è importante rimanere aperti e non fissarsi a pensare “Andrò solo al mio centro di Dharma; non metterò piede in nessun altro centro, non ascolterò nessun altro.” In questo modo, sono convinto, ci priviamo di ottime occasioni per imparare cose nuove. D’altra parte non è necessario andare dovunque: la cosa migliore è esercitare la consapevolezza discriminante e mantenere la giusta “via di mezzo”.
Se abitiamo in una zona isolata con poche possibilità di studio del Dharma, probabilmente dovremo seguire l’esempio tradizionale dei tibetani, cominciando con il frequentare il centro e il maestro che è più vicino o più comodo. Se ci troviamo bene, ottimo; se invece non siamo soddisfatti, rispettosamente impariamo più che possiamo e quindi, se ne avremo l’opportunità, potremo proseguire gli studi e la pratica altrove.
Se questo è il nostro caso, è importante non pensare assolutamente che il fatto di rivolgerci ad altri centri, maestri o anche lignaggi costituisca un atto di slealtà o di tradimento nei confronti del nostro centro o maestro iniziale. Anche passare dalla scuola superiore all’università non vuol dire tradire il liceo o i suoi insegnanti, e lo stesso vale se ci trasferiamo a un’altra università accorgendoci che quella che avevamo scelto inizialmente non offre il programma o il livello di studio che desideriamo. Se manteniamo un senso di rispetto per i nostri vecchi maestri e per i loro insegnamenti non incorreremo in sensi di colpa o biasimo.
Domanda : Qual è il modo migliore di considerare le confutazioni delle posizioni filosofiche delle altre tradizioni che troviamo nei testi di tutte le scuole tibetane?
Alex: Sua Santità il Dalai Lama e alcuni fra i più grandi maestri del passato hanno ricordato che sebbene la scuole tibetane – e anche i diversi testi monastici di una stessa scuola – presentino differenze di opinione in aspetti secondari, riguardo gli aspetti principali più importanti le loro posizioni non sono in contraddizione. Inoltre, come pure ricorda Sua Santità, molti dei grandi maestri del passato non erano particolarmente bravi a spiegare le proprie esperienze meditative in modo logico o coerente. Eppure se si esaminano le loro pratiche e i loro risultati con imparzialità, bisogna concludere che hanno raggiunto risultati autentici.
Molti testi contengono accesi dibattiti fra diversi studiosi non solo appartenenti a scuole diverse ma anche della stessa scuola; a volte, non mancano osservazioni sgarbate e accese nei testi. Possiamo considerare questi dibattiti come battaglie fra fazioni nemiche, ma questo c’i mpedirà di trarre vantaggio dai contenuti del dibattito. Se invece assumiamo un punto di vista più distaccato, potremo coglierne il significato implicito, per esempio: “Se tu sostieni che la mente è permanente senza definire chiaramente cosa intendi per permanente, allora alcuni interpreteranno questo termine secondo la mia definizione; in questo modo faranno confusione perché quando si usa la mia definizione di permanente ne derivano questa e quella conclusione assurda e questa e quella incoerenza e terranno questo in mente.” Credo che da questi dibattiti un po’ forti possiamo trarre conclusioni imparziali in questo modo.
Domanda : Molti lama buddhisti tibetani si sono espressi, oralmente o per iscritto, in termini molto negativi sulla tradizione Bon. Quale è il tuo commento su questo?
Alex: I pregiudizi contro il Bon risalgono al passato, al tempo della conquista dello Zhang-zhung, la terra natale del Bon nel Tibet occidentale, e della sua inclusione nel primo impero tibetano, nel Tibet centrale. Originariamente il termine “Bonpo” si riferiva a ministri e altri funzionari che provenivano dallo Zhang-zhung e non a coloro che praticavano i rituali di quel paese alla corte imperiale. Il pregiudizio contro i Bonpo ebbe origine da motivi politici e non da pratiche o credenze religiose. Sua Santità insiste sul fatto che questo pregiudizio è negativo e fonte di divisione. Sarebbe meglio se i buddhisti tibetani si adoperassero per eliminarlo dalla loro mentalità.
Se consideriamo la situazione dal punto di vista della psicologia Junghiana, penso che sia possibile ricavare qualche intuizione circa lo sviluppo storico del pregiudizio a sfavore del Bon. Nel corso del tempo, la pratica che consiste nel vedere il proprio maestro come un Buddha ha avuto sempre maggiore importanza. Ora, con il crescere dell’intensità della cosiddetta “devozione al guru,” molti praticanti che non avevano ancora raggiunto uno stabile equilibrio emotivo non riuscirono a metabolizzare la pratica correttamente. Più calcavano sul lato della perfezione e lo proiettavano sul maestro, più infatti potenziavano il lato negativo nascosto, quello che Jung chiama “l’ombra,” e lo proiettavano sui cosiddetti “nemici del Dharma”. Gran parte di questa proiezione è finita addosso ai Bonpo.
Il Dottor Martin Kalff, mio buon amico, insegnante di Buddhismo tibetano e psicologo Junghiano, mi ha fatto notare che il racconto del Buddha che medita sotto l’albero del bodhi e viene attaccato da Mara, incarnazione delle interferenze e della negatività, è un’illustrazione di questo principio psicologico. Se ci si focalizza a livello conscio sui propri lati positivi, come compensazione a livello inconscio ci si polarizza sugli aspetti negativi. Quando Shakyamuni ha dimostrato che Mara non poteva in alcun modo influenzarlo, solo allora ha raggiunto l’illuminazione.
È significativo che i lignaggi buddhisti in cui si coltiva più fanaticamente la devozione al guru siano quelli che presentano le pratiche dei protettori più feroci e raccapriccianti: più apparentemente adorano il guru, più sembrano sviluppare una fissazione per distruggere i nemici del Dharma. Questa polarizzazione è assai poco salutare. Come praticanti occidentali è molto importante che evitiamo di cadere preda della tendenza a divinizzare i guru del nostro lignaggio e a trasformare in diavoli i maestri di altri lignaggi e religioni.
Domanda : Quale dei lignaggi tibetani è il più diffuso?
Alex: La tradizione Ghelugpa ha il seguito più numeroso nel Tibet e in Mongolia, come pure fra i tibetani in esilio. Fra gli occidentali e le persone provenienti dall’Asia orientale che non erano tradizionalmente buddhisti sembra che il gruppo principale sia quello Karma Kagyu. Tuttavia nel Governo in esilio del Tibet ciascuna delle tradizioni tibetane è ugualmente rappresentata.
Domanda : Sua Santità si è mai espresso sull’utilità del conservare le cinque tradizioni tibetane o sulla opportunità di unificarle?
Alex: Né il Dalai Lama né alcun altro leader spirituale tibetano ha il potere o l’autorità di operare un cambiamento del genere. Sua Santità considera sempre con favore la presenza di tradizioni spirituali differenti che si adattino alle diverse propensioni della gente. Tuttavia nel corso del convegno nonsettario di cui ho parlato precedentemente, ha raccomandato di creare un comitato cui affidare il compito di scegliere un corpus di preghiere comuni fra le traduzioni tibetane di preghiere provenienti dal Buddhismo dell’India – per esempio la preghiera di Shantideva – che possa essere accettata come liturgia comune da tutte le tradizioni del Tibet, quando si ritrovano insieme. La possibilità di pregare insieme non eliminerebbe le tradizioni, al contrario le potrebbe avvicinare. Il consiglio di Sua Santità risulterebbe certamente utile anche per i centri buddhisti in occidente. Grazie.
(TRATTO DAL SITO: http://www.berzinarchives.com/web/it/archives/study/comparison_buddhist_traditions/tibetan_traditions/intro_compar_5_traditions_buddhism_bon.html che devotamente ringraziamo per la sua compassionevole gentilezza verso tutti gli esseri che soffrono in questa dolorosa esistenza samsarica.)