Alexander Berzin: L’importanza di tenere gli occhi aperti

bh4Alexander Berzin, Monaco, Germania, giugno 1996.
Traduzione italiana a cura di Benedetta Lanza.

Prima sessione: abbattere i muri. Introduzione

Questo fine settimana mi è stato chiesto di parlare di un argomento che non è facile da definire: “Affrontare le fantasie sul Buddhismo” oppure “Affrontare il Buddhismo con un atteggiamento realistico” o forse “Affrontare il Buddhismo con i piedi per terra.” Devo ammettere una certa difficoltà nel farmi venire in mente cosa vorrei esattamente dire e fare durante questo fine settimana. Potrei parlare delle difficoltà che ho dovuto affrontare nella mia esperienza con il Buddhismo o di quelle incontrate da amici e conoscenti, ma niente di questo potrebbe essere di particolare interesse in relazione alle difficoltà che potreste trovare voi. Questo è il problema. Quindi da una parte potrebbe essere utile parlare delle difficoltà che incontrano le persone in generale; dall’altra potrebbe anche essere utile dare a questo corso un taglio per il quale siete voi a dire ciò che vi interesserebbe sapere o i problemi che avete incontrato.

Non voglio però che alla fine il corso consista solo in domande tecniche su questo o quell’a spetto del Buddhismo. Credo che sarebbe di maggior beneficio per tutti parlare di problemi generali che molte persone hanno incontrato cercando un approccio pratico con il Dharma, come la difficoltà di accettare un maestro o di considerare un maestro necessario, difficoltà di relazionarsi con il tantra e così via.

Come procedere

Permettetemi di esprimere questo pensiero, come fosse un assaggio da una scatola di cioccolatini, per comunicarvi il senso di ciò che ho in mente. Ad esempio, il modo in cui s’inizia qualsiasi insegnamento buddhista è stabilire o determinare la propria motivazione. In realtà, non è una cosa molto facile da fare. Io non la trovo così facile, perché è necessario trovare un equilibrio accurato tra la semplice ripetizione di parole nella nostra testa ed il riuscire davvero a sentire qualcosa nel nostro cuore e corpo.

Credo che per molti di noi sia estremamente difficile definire in modo chiaro cosa voglia dire sentire qualcosa, in particolare una motivazione. Voglio dire, potremmo sentirci tristi e questo sappiamo cos’è. Ma non è così facile sapere cosa vuol dire sentire una motivazione. Credo che questo fine settimana sarebbe interessante discutere proprio di questo tipo di argomenti. Sono temi piuttosto difficili, non sono per nulla facili. Credo che possano essere di maggior beneficio rispetto a “Quanti segni di illuminazione ha un Buddha?” Ed io rispondo con il numero, non questo tipo di domande. Ma come dicevo all’inizio, ho avuto una certa difficoltà a mettere insieme questo tipo di argomenti in una sequenza logica. Mi piacciono le cose ordinate ed in questo caso non è facile.

Questo solleva un aspetto molto importante che credo possa interessare molte persone. Si tratta del fatto che noi non solo abbiamo spesso dei preconcetti generali, come il pensare che tutte le cose debbano avere un ordine logico, ma, più profondamente, ci piace tenere tutto sotto controllo. Quando abbiamo controllo sulle cose e tutto è “in ordine,” o almeno quando crediamo che tutto sia sotto controllo, allora ci sentiamo un po’ più sicuri. Crediamo di sapere cosa sta per accadere. Ma la vita non è sempre così. Non possiamo sempre avere il controllo e le cose non possono sempre essere “in ordine.” Un altro aspetto della stessa questione è che deleghiamo il controllo a qualcun altro in modo che ci controlli o controlli la situazione in cui ci troviamo. È la stessa questione del controllo.

Ma nessuno, né noi né nessun altro, può avere il controllo di ciò che accade nella vita. Quello che avviene è influenzato da milioni di fattori, non solo da una persona. È quindi necessario lasciare andare questa forte adesione ad un “io” solido che esiste in modo indipendente da qualunque altra cosa e che vuole dominare, a prescindere da quello che gli accade intorno. Si tratta dell’“io” solido che pensa di assicurarsi un’esistenza certa mediante il controllo. È come pensare: “Se controllo, esisto. Se non riesco a controllare, non esisto veramente.” Quando si segue un percorso buddhista è necessario rinunciare a quest’idea di “avere controllo.” Questo vuol dire rinunciare anche all’altro versante di questo aspetto che consiste nel delegare il controllo a qualcun altro, nello specifico al guru, al maestro, in modo che il controllo lo abbia lui. È la stessa questione. Entrambi gli aspetti del controllo devono essere superati.

Credo che una cosa molto importante da fare in questo fine settimana, dal momento che avremo a che fare con aspetti molto umani, sia parlarsi l’un l’altro come esseri umani. Quindi vi parlerò come un essere umano che parla con un altro. Spero di parlare sempre come un essere umano che parla con un altro essere umano, e non come un’autorità in piedi su un podio, come se avessi tutte le risposte.

Invece di voler tenere le cose sotto controllo e fare in modo che questo corso abbia un ordine logico nella sua progressione, credo che sarebbe meglio fare in modo che esso si svolga come se si stesse dipingendo un quadro. Mettiamo una pennellata qua e là, invece di impegnarci in una presentazione ben ordinata. Ritengo che questo sia il modo più sensato di procedere, dal momento che molti degli argomenti di cui parleremo in questo fine settimana si sovrapporranno uno all’altro e saranno interconnessi.

La motivazione

Torniamo ora a quel primo cioccolatino nella nostra scatola di assaggi. Non ho ancora finito di masticarlo, così come molti di voi forse. La questione era come fare a sentire una motivazione. Credo, dal momento che ho affrontato questa cosa nel corso del mio sviluppo, che tutti noi pensiamo che le sensazioni per esistere debbano essere forti. Se sono forti, allora sono sensazioni significative, esistono; se non sono forti, non hanno significato e non esistono veramente. Penso che questo sia condizionato dai film e dalla televisione. Non è un film interessante se è qualcosa di molto sottile, vero? Ci vuole qualcosa di drammatico, con una musica commovente in sottofondo!

A volte leggiamo un testo buddhista in cui si dice: “La nostra compassione dev’essere così intensa che tutti i peli del corpo si drizzano e le lacrime ci sgorgano dagli occhi.” Credo però che sarebbe molto difficile vivere sempre così. Quando generiamo una motivazione, a volte ci viene da pensare: “ dovrei sentire qualcosa,” ed ecco un argomento sul quale torneremo spesso in questo fine settimana, proprio su questa parola “ dovrei.” Pensiamo che “ dovrei sentire qualcosa di forte. Altrimenti se ciò non accade non sto veramente generando una motivazione.” Ma quando noi generiamo una motivazione in genere si tratta a stento di una sensazione, almeno nella mia esperienza personale. È qualcosa di molto più blando del drizzarsi dei peli sulle braccia. Pensavo quindi che sarebbe di beneficio parlarvi così, non come se mi trovassi su un podio, ma condividendo con voi la mia esperienza personale con il Buddhismo e parlando di come ho affrontato questi problemi tipici per la maggior parte di noi occidentali. Quindi, facciamo così.

Negli insegnamenti ci viene sempre detto che dovremmo cercare di relazionarci agli altri come se fossero nostra madre. “Riconoscete tutti gli esseri come vostra madre.” Molte persone, però, hanno delle difficoltà nella relazione con la loro madre, quindi possiamo sostituire quest’idea o immagine con il nostro più caro amico. Questo perché il punto non è “la madre;” il punto è che sia qualsiasi persona che abbia con noi un forte e positivo legame emotivo.

Quando stabiliamo una motivazione, ad esempio stasera quello che provo a fare è pensare a tutti coloro che si trovano tra il pubblico come se fossero i miei migliori amici. Quando ci troviamo con il nostro migliore amico, il nostro amico più caro, siamo sinceri. Non cerchiamo di metterci in mostra o di nasconderci dietro a qualche maschera o ruolo. Non è vero? E quando ci troviamo insieme al nostro migliore amico proviamo sinceramente qualcosa per quella persona. Non è sempre qualcosa di drammatico, ma è qualcosa che è presente.

Quando iniziamo a mettere in pratica un insegnamento come “Considerate tutti come vostra madre,” nel senso di “Considerate ogni persona come il vostro migliore amico,” allora iniziamo ad avere effettivamente una certa motivazione. Abbiamo una motivazione sincera. Vogliamo sinceramente fare qualcosa per essere di beneficio a questa persona. Desideriamo che il tempo trascorso con quella persona sia significativo ed utile per lui o lei, a meno che non siamo degli egoisti che vogliono solo sfruttare l’altra persona per il proprio piacere o vantaggio.

L’importanza di tenere gli occhi aperti

Trovo inoltre che quando svolgo le varie pratiche buddhiste come equiparare e scambiare se stessi con gli altri, se faccio queste pratiche visualizzando con gli occhi chiusi, non sento veramente commozione nel mio cuore. Sì, posso chiudere gli occhi e visualizzare il mio migliore amico, ma non è la stessa cosa che relazionarmi con persone che si trovano davanti a me, o davanti a voi, proprio ora. Trovo che queste pratiche acquistino significato quando le svolgo ad occhi aperti, guardando le persone.

Quando pratichiamo da soli è un’altra cosa, naturalmente. Potremmo guardare foto di persone se ci è difficile immaginarle. Penso vada benissimo lo stesso. Ma anche quando visualizziamo gli altri, credo sia di maggior beneficio visualizzare specifici individui piuttosto che in modo astratto “tutti gli esseri senzienti.” E lo faccio ad occhi aperti, non isolandomi dal mondo intorno a me con gli occhi chiusi.

Quando si seguono le istruzioni sulla visualizzazione nella pratica tantrica, ad esempio nello stadio di generazione dell’anuttarayoga tantra, un punto molto importante è che ciò va fatto con la coscienza mentale. Non con la coscienza sensoriale. Riuscire a visualizzare con la coscienza sensoriale è qualcosa che avviene solo durante lo stadio completo. Lo stadio completo è molto avanzato e richiede l’aver effettivamente manipolato i venti-energia delle nostre cellule sensoriali, in modo che esse creino le immagini della visualizzazione. Questo vuol dire che nello stadio di generazione non si cambia il modo in cui le cose vengono percepite; si cambia il modo di concettualizzare o concepire ciò che percepiamo. Ad esempio, invece di concepire gli esseri che vediamo come esistenti nella loro forma ordinaria, li concepiamo come divinità o forme di Buddha.

Spero vi sia chiara l’idea che, per lavorare con il Dharma in modo significativo, dobbiamo mettere insieme tutte le cose che abbiamo appreso fin dall’inizio. Ciò vuol dire che quando visualizziamo qualcuno come una divinità o, in questo esempio particolare, quando visualizziamo tutti come fossero i nostri migliori amici o nostra madre, non stiamo cambiando all’inizio la nostra percezione sensoriale della persona. Stiamo semplicemente cambiando il modo di concettualizzare la persona quando la vediamo.

Diciamo che vediamo una persona e domandiamo: “Cosa vuol dire concettualizzare una persona? Cos’è una cognizione concettuale?” In questo caso dobbiamo riferirci agli insegnamenti del Lorig, i modi del sapere. Qui impariamo che la cognizione concettuale è quella in cui l’oggetto di fronte a noi, diciamo un oggetto fisico, viene unito con l’idea di una categoria. Comunque il solo pensare all’idea della categoria “migliore amico” unita con l’immagine mentale di qualcuno, non ha altrettanta forza che pensare a questa idea e allo stesso tempo vedere effettivamente qualcuno.

Proprio per questo, ciò che ha davvero forza è fare tutte queste pratiche meditative ad occhi aperti guardando veramente le persone. Non posso insistere abbastanza su questo! In tutte le varie pratiche, questo fa davvero la differenza. Negli insegnamenti Mahayana tibetani è detto piuttosto chiaramente: “fate le meditazioni ad occhi aperti.” In molti sbagliano a non prenderlo sul serio perché non è facile da fare. Per alcuni è molto meglio meditare da soli ad occhi chiusi. Specialmente se tendono a distrarsi facilmente, avere altre persone intorno li distrae. Ma se abbiamo un po’ di stabilità, allora le pratiche diventano molto significative quando le applichiamo a persone in carne ed ossa, nella realtà.

Vediamo cosa vuol dire generare una motivazione in questo esempio specifico, qui in questa stanza; vi guardo di fronte a me e concepisco di voi e il modo in cui mi relaziono a voi, come se foste il mio migliore amico. Se siete davvero il mio migliore amico, e non riesco a trovare un termine migliore, in parole povere non posso raccontarvi balle. Devo essere sincero. Quindi ho una naturale motivazione ad esservi di beneficio. Certo, possiamo anche ripetere queste parole nella nostra mente: “Spero veramente che tutto ciò sia significativo e di beneficio per te.” Ma, in un certo senso, questo vuol dire diventare un po’ più consapevoli di ciò che abbiamo già stabilito guardando le persone intorno a noi come fossero i nostri migliori amici.

Quando faccio questa cosa non sento i peli che mi si drizzano sulle braccia. È vero. Però c’è comunque qualcosa che aiuta nella relazione tra di noi. Credo che questo sia il modo comune in cui possiamo generare una qualche sensazione per queste semplici cose che diamo per scontate: “bla, bla, bla. Stabilisco la mia motivazione.” In genere lo diciamo in tibetano, per cui per la maggior parte di noi neppure le parole che si recitano hanno un significato.

Magari possiamo fare un po’ di pratica. In questo fine settimana non voglio essere solo l’unico a parlare. Dal momento che non siamo in tanti, sediamoci in circolo. Quando siamo seduti in fila, uno dietro l’altro, tendiamo a provare l’imbarazzo che deriva dal fissare un cuscino o la schiena o la testa di chi ci sta di fronte e la cosa è davvero strana dopo un po’. Se ci sediamo in circolo, ognuno ha la possibilità di vedere il volto degli altri.

Quello che adesso possiamo fare è stabilire la nostra motivazione. Ecco di nuovo “stabilire la motivazione,” suona così artificiale, no? Si tratta, se lo diciamo con altre parole – sono un traduttore quindi amo cambiare le parole – di “stabilire lo stato d’animo” in noi stessi. Ed è lo stato d’animo di quando ci troviamo con il nostro migliore amico. Come ci sentiamo quando siamo con il nostro più caro amico? Quando siamo con il nostro migliore amico, siamo completamente rilassati. Non ci stiamo “mostrando,” non siamo “sul palcoscenico,” non dobbiamo dimostrare nulla. Non dobbiamo recitare alcun tipo di ruolo, giusto? Nelle nostre lingue occidentali c’è un modo buffo per dirlo, che in realtà è estremamente non buddhista: “possiamo essere noi stessi,” qualunque cosa significhi.

Lasciar cadere i muri

Tutti i muri possono cadere. Quando ci si trova con il proprio migliore amico, tutte le difese possono cadere. È possibile, in sua compagnia, essere completamente aperti alla semplice condivisione, senza aggrapparsi a questa persona. C’è una certa gioia, non una gioia drammatica, ma è presente una certa gioia e non sentiamo di dover farequalcosa. Ma abbiamo anche il sincero desiderio di aiutare questa persona. Questa persona ci piace in un modo molto sincero ed umano.

Ora cerchiamo di vedere tutti in questa stanza in questo modo. Uniamo un’idea con una percezione visiva. Non lo facciamo ad occhi chiusi perché ci sarebbe il rischio di non avere alcuna sensazione. Gli occhi devono restare aperti; abbiamo bisogno di vedere le persone intorno a noi in un certo modo. Questo non vuol dire che la nostra percezione visiva sia cambiata in alcun modo. Questa parola, visualizzazione, ci confonde enormemente e pensiamo che dobbiamo in qualche modo cambiare la nostra percezione sensoriale visiva. Non è questo ciò che dobbiamo fare. È una questione di cognizione in generale. Che tipo d’idea ci viene in mente o in quale stato d’animo siamo quando vediamo l’altra persona?

Penso che la sensazione con la quale bisogna iniziare sia di rilassatezza e stabilità. Perché ciò avvenga, i muri devono cadere, no? E quando i muri sono caduti, possiamo davvero essere sinceri. Proviamo a fare questo mentre ci guardiamo l’un l’altro.

[pausa]

Poi aggiungiamo a questo un po’ di intensità con la sensazione “Che io possa essere d’aiuto.” Questa è una sensazione d’essere disposti ad aiutare. È un componente importante. Non è “Oh, devo aiutare, cosa dovrei fare? Non so cosa fare, sono incapace,” o qualcosa del genere. Non è questo atteggiamento negativo, è la disponibilità ad essere d’aiuto con franchezza.

[pausa]

Imparare a rilassarsi

Credo che questa sia l’indicazione, la linea guida per iniziare a sentire le cose in modo sincero. La linea guida ci indica che prima di tutto dobbiamo far cadere i muri. A volte abbiamo paura di provare qualcosa perché non sappiamo quello che può succedere, è come se perdessimo il controllo. Ecco quel grosso e solido “io” protetto dai muri. Dobbiamo rilassarci. È essenziale.

Rilassarsi non vuol dire semplicemente rilassare i muscoli o le tensioni a livello fisico, sebbene questo certamente sia un aspetto del rilassamento. Piuttosto, vuol dire avere la mente rilassata, e questo nasce dalla comprensione, almeno in una certa misura, degli insegnamenti sulla vacuità. Vacuità vuol dire un’assenza di modi impossibili di esistere con riferimento a noi stessi, a tutti gli altri e a tutto ciò che ci accade intorno. Nessuno e niente esiste “concretamente” da solo, in modo indipendente da tutto il resto e separato da ciò che accade.

Al livello più semplice, se riusciamo a rilassare il nostro imbarazzo, la nostra insicurezza, la preoccupazione verso noi stessi, avremo un indizio di cosa voglia dire ottenere un certo livello di questa comprensione. Come dicevo, tutto deve sempre tornare negli insegnamenti. È possibile avere una certa consapevolezza della vacuità anche senza averla studiata approfonditamente, perché in qualche modo l’abbiamo provata con il nostro migliore amico. Se nella vita affrontiamo le situazioni stabilendo questo tipo di motivazione, allora funzionerà.

Questo significa affrontare le situazioni in modo molto sincero, invece di fare una sceneggiata. Non stiamo cercando di vendere noi stessi, come quando si fa domanda per un posto di lavoro. Non stiamo inscenando una commedia. Siamo invece estremamente a nostro agio con tutti. Questo è dovuto al fatto che fondamentalmente siamo a nostro agio con noi stessi. Naturalmente tutto ruota intorno alla nostra comprensione del sé. Si connette alla nostra comprensione del modo di esistere del sé – in altre parole, alla vacuità. Il sé è privo di modi impossibili di esistere. “Io” sono privo di modi impossibili di esistere. Così anche voi.

Potrebbe sorgere un’obiezione: “Ma se lascio cadere le mie barriere, poi non divento vulnerabile ad essere ferito?” Non credo sia il caso. Si può usare l’esempio delle arti marziali: se siamo tesi, non riusciamo a reagire velocemente se qualcuno scatta verso di noi. Ma se le barriere del nostro imbarazzo sono abbassate, allora siamo totalmente attenti a ciò che accade. Allora è possibile reagire in modo estremamente veloce a qualsiasi cosa stia accadendo.

Come dicevo, si tratta di affrontare il fattore della paura, no? Dal momento che è la paura quella che c’impedisce di abbassare le barriere, è proprio la paura che dobbiamo superare. Abbiamo paura che “Se abbasso le barriere mi feriranno.” Questo accade perché in primo luogo manteniamo alte le nostre barriere, e pertanto feriamo noi stessi. Ma queste cose vanno imparate attraverso l’esperienza e la conoscenza personale. Questo ci porta ad un altro importante argomento, quello della “comprensione.”

Generare una sensazione basata su una comprensione inferenziale

Molte persone sono scoraggiate da alcuni degli approcci che vediamo nel Buddhismo, in particolare nel Buddhismo tibetano ed in particolare nel Buddhismo tibetano Ghelugpa. Mi riferisco all’enfasi sulla comprensione logica e inferenziale. Ma non c’è nulla di cui spaventarsi qui, perché si tratta del modo in cui la nostra comprensione funziona tutto il tempo. La comprensione non è necessariamente un pesante processo intellettuale. Sentiamo suonare la sveglia al mattino e capiamo che è ora di alzarsi. Perché è ora di alzarsi? Perché la sveglia ha suonato. C’è una linea di ragionamento cosciente che è anche il modo in cui il cervello lavora a livello inconscio. La linea di ragionamento logico per capire che è ora di alzarsi è: “Se la sveglia suona, è ora di alzarsi. La sveglia ha suonato. Quindi è ora di alzarsi.” Possiamo presentarlo con questo tipo di sillogismo logico. Non è necessario elaborare un complesso esercizio intellettuale per capire da quel segno – questa è esattamente la parola che si usa in tibetano – per capire da quel segno o indicazione che è ora di alzarsi. Il suono della sveglia è il segno sul quale ci basiamo per capire che è ora di alzarsi.

In modo simile, vedere qualcuno come il nostro migliore amico è il segno affidabile o indicazione che ci consente di capire che non c’è alcun bisogno di mantenere su le barriere. E questo perché non c’è niente di cui aver paura e non c’è bisogno di fare alcuna commedia davanti a questa persona. Come facciamo a saperlo? Lo sappiamo perché abbiamo visto un segno, e in base a questo l’abbiamo inferito in modo logico. Il segno è che vediamo questa persona come il nostro migliore amico. Quindi deriviamo una comprensione inferenziale, e questa proviene da una semplice inferenza e non da un pesante processo logico.

Essere in grado di generare delle sensazioni è legato alla comprensione. Molte persone sono davvero confuse riguardo al modo in cui si passa da qualcosa di intellettuale a qualcosa che è una sensazione. È un problema molto diffuso tra noi occidentali perché il nostro modo di pensare vede intelletto e sentimento come due cose separate e quasi estranee.

Il modo per superare questa difficoltà è, prima di tutto, rendersi conto che provare una sensazione ha due aspetti: sentire che qualcosa è vero, in altre parole credere che qualcosa sia vero, e quindi provare la sensazione emotiva basata su quella convinzione. Capire qualcosa, credere che sia vera ed avvertire un’emozione, derivano una dall’altra. [Considerare] che queste tre non abbiano relazione tra di loro è un modo di esistere impossibile.

Ad esempio, otteniamo la comprensione di qualcosa basandoci su un qualche tipo di segno. Possiamo esprimere questo processo in forma logica: “Se sono con il mio migliore amico, non devo stare sulla difensiva. Questa persona è il mio migliore amico. Quindi, non devo stare sulla difensiva.” Dal momento che questa comprensione è basata su un sillogismo logico, possiamo chiamarla comprensione intellettuale, ma così non cogliamo il punto. Il punto è che, basandoci su questa comprensione, crediamo sia vero che non dobbiamo stare sulla difensiva con questa persona. Basandoci su questa convinzione, possiamo iniziare ad abbattere i muri e a sentirci più rilassati. Se i muri non si abbattono e non ci rilassiamo, la colpa in genere sta nella nostra comprensione e convinzione. È naturale che altri fattori esterni possano influenzarci, come ad esempio altri eventi accaduti nella vita in quel periodo. Ma credo che mi abbiate capito.

Dobbiamo riuscire a riconoscere cosa vuol dire capire qualcosa. Se riconosciamo cosa vuol dire capire qualcosa, allora la connessione tra quello, il sentire che un fatto sia vero e provare un’emozione basata sul credere in quel fatto sarà molto più semplice da fare. Cerchiamo di fare un esempio. Beh, un esempio è quello della sveglia che suona. Cerchiamo di capire “intellettualmente,” con un processo inferenziale, che è ora di alzarsi.

Ora, cercate di concentrarvi su cosa si provi nel capire che è ora di alzarsi. Quali sono le qualità che riconoscete qui?

Partecipante: (traduttore) [Questa persona] dice che ha imparato che se suona la sveglia si deve alzare e capisce che se si alza in tempo, arriverà facilmente al lavoro. Altrimenti farà tardi.

Alex: Va bene, ma approfondiamo la cosa. Non si tratta solo del senso del dovere o qualcosa del genere. Questo è secondario. Ad un livello più profondo, dobbiamo lavorare su due emozioni principali riguardanti la convinzione in ciò che abbiamo compreso quando sentiamo suonare la sveglia. La prima è il non volere accettare quello che sentiamo, ciò che capiamo, e cioè il fatto che ci dobbiamo davvero alzare. Questa è la prima questione principale. La seconda è prendere la decisione di accettare la verità ed alzarci effettivamente dal letto. Poi può esserci un aspetto secondario che riguarda il perché prendiamo quella decisione: per il senso del dovere, per un senso di colpa o qualsiasi altra cosa. Prendiamo la decisione per svariate ragioni e poi segue il punto che hai menzionato.

Partecipante: (traduttore) Quello che prova non è solo il senso del dovere. Ma basandosi sulla sua esperienza, sa che se si alza in tempo avrà a disposizione qualche minuto per rilassarsi ed iniziare meglio la giornata. Quindi la sua sensazione quando si alza dal letto è più positiva.

Alex: Questo è molto importante, in quanto basandoci sulla comprensione, accettiamo la logica per la quale ci dobbiamo alzare quando suona la sveglia e prendiamo la decisione di alzarci. Comprendiamo che se ci alziamo, allora uscire di casa sarà una cosa più rilassante piuttosto che trovarci in affanno perché abbiamo solo due minuti per prepararci ad uscire. Quindi, dato che ci sono dei vantaggi nell’alzarsi un po’ prima e dato che capiamo questi vantaggi, alzarci non ci pesa. In ogni caso la realtà è che dobbiamo alzarci, sia che l’emozione che proviamo sia di risentimento o di benessere. Proviamo risentimento quando pensiamo agli svantaggi del doversi alzare: non possiamo più restare nel nostro letto caldo e confortevole. Ed avvertiamo benessere quando pensiamo ai vantaggi di alzarci adesso.

Quando osserviamo la struttura degli insegnamenti buddhisti, per ogni punto viene dato un vantaggio. Ci sono vantaggi nell’aver abbattuto i muri, ci sono vantaggi nel vedere tutti gli esseri come la propria madre, nell’essere consapevole della propria preziosa vita umana, nella consapevolezza dell’impermanenza e così via. Dobbiamo capire i vantaggi dell’accettare e credere

alla verità di qualcosa. Ecco che all’inizio tutto torna al tema della comprensione. Comunque, una volta che abbiamo capito qualcosa, dobbiamo ancora lavorare per riuscire ad accettarla. L’emozione che avvertiremo assumerà diverse colorazioni a seconda che accettiamo o meno la verità della nostra comprensione, e del modo in cui l’accettiamo.

Accettare qualcosa che abbiamo compreso

L’accettazione è in realtà un argomento molto difficile. Potremmo avere difficoltà ad accettare il fatto che ci dobbiamo alzare ogni mattina, come nel nostro esempio della sveglia. Questa difficoltà può esserci nota anche in altri esempi nella nostra vita, come quando desideriamo un pezzo di cioccolata. Cerchiamo in giro per casa e non troviamo la cioccolata. Quindi, la conclusione logica è che in casa non c’è cioccolata. Questo può essere piuttosto difficile da accettare.

Ad esempio, ci troviamo fuori dalla porta di casa e cerchiamo le chiavi in tutte le tasche e borse, devono essere in una di queste. Ma se non ci sono, questo è un segno valido per concludere in modo logico che abbiamo perso le chiavi o le abbiamo dimenticate. Siamo rimasti chiusi fuori. Questo è molto difficile da accettare, vero? Cerchiamo ancora affannosamente. Sono esempi piuttosto semplici. Ma quando dobbiamo accettare che non c’è un “io” solido perché abbiamo cercato dappertutto e non lo abbiamo trovato, allora non è così facile.

Il processo che riguarda il passaggio dalla comprensione intellettuale ad una sensazione emotiva è molto difficile per via del modo in cui lo concepiamo. Guardiamo ad esso come se dovessimo passare da qualcosa di intellettuale a qualcosa di emotivo, e come se le due cose non fossero assolutamente in relazione. Ma anche se si concepisce questo processo come il passaggio da una comprensione, il che mi sembra più costruttivo, ad una sensazione, non è ugualmente facile per via della questione d’accettare ciò che abbiamo capito.

Trovare il coraggio di abbattere i muri

Quindi la domanda è: come si impara ad accettare? Torniamo al nostro esempio più semplice. Come accettate di abbattere i muri? Qualcuno vuol parlare?

Partecipante: Quando si capisce che è utile, è più facile accettarlo. Più capiamo che potrebbe essere utile, più è facile accettarlo.

Alex: Bene. Accettiamo di abbattere i muri e cerchiamo di farlo quando comprendiamo ed accettiamo come veri i vantaggi di abbatterli. Qualcun altro?

Partecipante: Per accettare qualcosa bisogna farne esperienza. Quindi per prima cosa devi provare. Ad esempio, ti tuffi in acqua e affondi ma prima devi trovare il coraggio di provare, e l’esperienza di andare a fondo.

Alex: È vero. Per abbattere effettivamente i muri dobbiamo avere un grande coraggio. Ma all’inizio c’è bisogno di una certa comprensione anche solo per capire che è possibile abbattere i muri. Questa comprensione deriva dall’esperienza di essere stati molto feriti nelle nostre relazioni quando non abbiamo abbassato i muri. Sulla base di quell’esperienza e basandoci poi su ciò che qualcuno ci ha raccontato, e vedendo direttamente in loro cosa vuol dire abbattere i muri, troviamo il coraggio per provarci noi stessi.

Ora possiamo dare una pennellata nella parte del dipinto in cui si trova il guru. Perché l’i spirazione ci viene dal vedere un esempio di un insegnante qualificato, i cui muri sono abbassati. Attenzione però, ci sono molti insegnanti che non sono qualificati. Con un insegnante qualificato, vedremmo un esempio vivente di cosa voglia dire avere abbattuto i muri. Ci dà ispirazione e coraggio per provarci noi stessi.

Imparare ad abbattere i nostri muri

Partecipante: (traduttore) [Questa persona] dice che da bambini non abbiamo questi muri ma poi, a causa delle brutte esperienze, del fatto di essere stati trattati male, alziamo i muri ed ora che dovremmo abbatterli, la paura è ancora lì. Ma ora che è entrato in contatto con il Buddhismo, cerca di abbatterli, ma ha ancora paura che gli altri potrebbero abusare della sua apertura.

Alex: Questo è esattamente il punto che volevo sollevare. Come si impara che abbattere i muri è di beneficio? Come impariamo a sentirlo, a generarlo? Si impara perché quando facciamo l’esperienza di abbattere i muri, abbiamo un’esperienza diretta dei benefici. Ecco come lo sappiamo. Ma i benefici non sono sempre immediati. Quindi questo primo apprendimento non è così facile.

C’è un secondo modo di imparare, perché a volte abbattiamo i muri e veniamo feriti. Questo proviene anche da un’esperienza passata. A volte ci hanno ferito, si sono approfittati di noi. Dobbiamo quindi capire cos’è andato storto. Molto spesso se riusciamo a capire cos’è andato storto, possiamo correggerlo. Ipotizzando una determinata situazione, il problema era nel fatto che i muri erano abbassati, o forse c’era qualcosa di inappropriato nel modo in cui abbiamo gestito la situazione in riferimento a come abbiamo concepito noi stessi?

Facciamo un esempio. Ci trovavamo con qualcuno e questa persona si è arrabbiata con noi. Ora, avremmo potuto affrontare la situazione in due modi, con i muri alzati o abbassati. Avremmo potuto pensare: “I miei muri erano abbassati, ero vulnerabile e mi hanno parlato in quel modo rabbioso, ferendomi.” Avremmo potuto anche pensare: “Beh, se avessi tenuto i muri alzati, non sarei stato ferito.”

Dobbiamo essere molto chiari su questo punto perché in effetti è abbastanza folle il modo in cui l’abbiamo appena formulato. Com’è che non saremmo stati feriti se i nostri muri fossero stati alzati? Come sarebbe andata?

In realtà saremmo stati feriti sia con i muri alzati che abbassati. Tutto dipende dall’idea che ci facciamo di noi stessi. Se qualcuno ci lancia un bel pezzo di fango e noi restiamo lì impalati e veniamo colpiti in faccia, questo è paragonabile ad un’idea molto solida di noi stessi. Ma se siamo molto flessibili, se qualcuno ci lancia del fango ci spostiamo un po’ da una parte e non lo prendiamo in faccia. Le parole rabbiose ci passano accanto. Quella persona era di cattivo umore, non la prendiamo come una cosa personale.

Ecco la chiave, essere flessibile e non prendersela a livello personale per le parole rabbiose, non lasciare che ci colpiscano in faccia. Se invece consideriamo noi stessi in modo solido, rigido e prendiamo tutto ad un livello molto personale, allora anche se i muri sono abbassati saremo vulnerabili e tutto ci colpirà come uno schiaffo in faccia.

Se abbiamo quello stesso senso di IO che prende tutto a livello personale, alzare i muri non ci proteggerà per niente. Prenderemo ancora tutto ad un livello personale. Oppure ci nascondiamo dietro ai muri per paura e insicurezza. Inconsciamente veniamo feriti oppure impediamo a noi stessi di sentirci feriti, ma dentro di noi ci sentiamo feriti. Neghiamo, ma in realtà siamo molto feriti. Ecco l’“io” solido rannicchiato dietro al muro. Quindi dobbiamo avere molto chiaro cosa sta accadendo. Qual è la causa per cui veniamo feriti? La causa per cui si viene feriti non ha nulla a che fare con i muri abbassati. Quello che causa il dolore è l’idea sbagliata di un “io” solido.

Partecipante: (traduttore) [Questa persona dice che] forse capisce il problema a livello intellettuale, quando si parla della vacuità dell’“io” solido. Ma se la cosa è avvenuta, se c’è la sensazione di essere stata ferita, non riesce ad applicare questa comprensione alla sua sensazione, e non riesce ad integrare questa comprensione nelle sue sensazioni. Ad esempio, se è stata ferita potrebbe dire: “Va bene, l’ego non esiste,” ma allo stesso tempo sentirsi ferita. Quindi il fatto di pensare che non c’è un ego non dissolve la sensazione di essere stata ferita.

Alex: È vero. Ci sono stadi nel sentiero. Il dolore, la sofferenza e queste cose non passano istantaneamente. Perfino quando otteniamo la cognizione non concettuale della vacuità, questo non significa la fine della nostra sofferenza. La semplice cognizione ha bisogno di diffondersi in noi lentamente; deve penetrare per un lungo periodo di tempo, con molta esperienza, prima d’eliminare davvero la sofferenza. C’è un grande divario tra l’essere un arya, qualcuno che ha la cognizione non concettuale della vacuità, ed un arhat, qualcuno che si è liberato per sempre dalla sofferenza. Il punto è che non dobbiamo aspettarci più di quello che è il normale e progressivo avanzamento di ciascun individuo verso l’ottenimento della liberazione. Si va per stadi, è un processo graduale.

Qui dobbiamo ricordarci della Prima Nobile Verità. La vita è difficile! Questa è la Prima Nobile Verità. Anche se comprendiamo la vacuità, i nostri problemi non finiscono all’istante. La vita è difficile! La sofferenza non ci abbandona istantaneamente. È un lungo processo graduale. All’inizio, potremmo sentirci feriti, ma poi la differenza sta nel fatto che non ci aggrappiamo a questa sensazione. Se ci riuscissimo, la sofferenza passerebbe molto più velocemente. Questa è la differenza evidente. Dovremmo quindi essere contenti di quel risultato e poi, con la familiarità, l’effetto migliorerà. Non ci dobbiamo scoraggiare per quel risultato; dovremmo sentirci incoraggiati.

Dire di “no”

Vorrei evidenziare un altro punto che riguarda l’abbassare i muri. È un’esperienza che fanno in molti quando abbattono i muri; sentono di dover sempre dire di “sì” e di non poter mai dire di “no” a nessuno. Così, invece di venire feriti direttamente dall’altra persona, inavvertitamente non si curano dei propri bisogni perché non dicono mai di “no.” Vengono feriti indirettamente. Sapete di cosa parlo?

In una situazione del genere dobbiamo cercare di riconoscere che se diciamo “no” e ci occupiamo dei nostri bisogni, ciò non è lo stesso di dire che stiamo nuovamente alzando i muri. Naturalmente lo potremmo fare, ma non vuol dire necessariamente che stiamo nuovamente alzando i muri. Potremmo ancora essere totalmente aperti, totalmente ricettivi e dire semplicemente: “mi dispiace molto, non lo posso fare” oppure “adesso ho bisogno di riposarmi” ed allo stesso tempo rimanere aperti. Invece quando c’è quell’“io” solido, allora il “povero me di cui si sono approfittati” si manifesta e ci innervosiamo. Oppure sentiamo che “se dico di ‘no’ poi l’altra persona ‘mi’ abbandona, allora è meglio se tengo la bocca chiusa.” Quindi indirizziamo tutta l’ostilità, la colpa e la rabbia al nostro interno verso questo “io.” Nuovamente, tutto gira intorno all’idea di un “io” solido: questa è l’idea sbagliata che dev’essere abbandonata.

Rispondere a coloro che tengono i muri alzati

Partecipante: C’è una cosa ricorrente nella mia vita. Ho delle aspettative del tipo “i miei muri sono abbassati quindi dovrebbero esserlo anche quelli dell’altra persona. Non c’è niente di cui aver paura, e allora perché non li abbassano?” E se tengono i muri alzati mi arrabbio molto.

Alex: Ci sono due cose che mi vengono in mente. La prima è una conversazione che ho recentemente avuto in treno con una donna; quando le ho detto che insegno Buddhismo ed insegno a superare l’egoismo, lei ha risposto: “che c’è di male ad essere egoista? Se tutti sono egoisti ed io non lo sono, allora sono stupida!” È la stessa cosa che hai detto tu: “Se tutti tengono alzati i loro muri ed io no, allora devo proprio essere stupido.” A quella donna ho risposto: “Beh, seguendo questa logica, se tutti vanno in giro a sparare alla gente e tu non lo fai, allora devi essere stupida.” Quindi, è ovvio, bisogna essere un po’ più obiettivi circa i benefici e i difetti di sparare alle persone o di tenere alzati i propri muri.

La seconda cosa che mi viene in mente è l’esempio di mia madre. Mia madre si arrabbiava molto quando vedeva il notiziario in TV. Vedeva le notizie, gli assassinii, i furti, gli stupri che c’erano stati quel giorno, e si arrabbiava moltissimo. “Perché le persone si comportano così?”

Credo che qui la questione sia il proprio senso di superiorità. Il nostro senso di superiorità può esprimersi in modo molto esplicito. Non era questo il caso di mia madre. Ma può anche esprimersi in un modo molto più sottile. Credo che lei avesse proprio una forma più sottile di “Io sono meravigliosa e tutti gli altri sono così cattivi.” Credo nuovamente che tutto giri intorno a questa idea sbagliata di un “io” solido. In altre parole ci identifichiamo con un comportamento positivo, come abbattere i muri o il non andare in giro ad uccidere e derubare le persone. In base a questo stabiliamo un “io” solido. Usiamo questa cosa per fortificare la nostra identità nel tentativo di mettere al sicuro questo “io.” Poi usiamo il meccanismo per il quale rifiutiamo categoricamente coloro che non si comportano come noi, per fare in modo che questo “io” sia meno minacciato e ancora più al sicuro.

Faccio un esempio per capire il modo in cui possiamo rispondere in modo differente. Noi beviamo l’acqua dal bicchiere, così. Il nostro cane non beve l’acqua in questo modo. Quindi se ci sono molti cani e tutti bevono l’acqua tirandola su con la lingua da ciotole sul pavimento, questo ci fa forse sentire superiori in quanto noi beviamo l’acqua in modo corretto, mentre loro sono tutti cattivi perché la bevono in modo sbagliato? No. Come mai questa cosa non ci fa sentire tesi?

E allora perché ci sentiamo tesi se siamo aperti mentre gli altri intorno a noi non lo sono? Qual è la differenza tra questo ed il bere l’acqua in modo diverso da un animale? Credo che la differenza si trovi nell’identificare un “io” solido con una determinata posizione. Non ha importanza il modo in cui beviamo, questo è irrilevante. Quindi non c’importa come beve il cane. Invece questo “io” solido: “cerco in tutti i modi di essere aperto e di essere ‘buono’…”

Ora dobbiamo dare un’altra pennellata in un’altra zona del dipinto che si riferisce al fatto che ci turbiamo se gli altri non si comportano come noi. Questa pennellata riguarda l’intera questione del “dovrei” – “dovrei fare così.”

Non curarsi di quello che gli altri dicono o fanno

Partecipante: (traduttore) [Questa persona] dice che c’è un’altra possibilità. Se vuoi essere una persona rispettata e qualcuno ti dice “sei un idiota,” allora ti arrabbi. Ma se non ci tieni ad essere una persona rispettata e qualcuno per dieci volte ti ripete “sei un idiota,” allora non te ne importa. Se qualcuno si vuole prendere tua moglie per qualche ragione e tu vuoi tenertela stretta, inizi a fare a pugni. Se invece pensi: “Va bene, se mia moglie se ne vuole andare, va bene così, lo accetto;” allora, dal momento che non hai il desiderio di trattenerla, non fai a pugni.

Alex: Qui bisogna fare una differenza tra le due verità. Le chiamiamo verità definitiva e convenzionale oppure verità più profonda e verità convenzionale. Dal punto di vista della verità più profonda, è vero, vediamo che le cose non esistono in maniera solida e quindi cerchiamo di non attaccarci ad esse. Ma dal punto di vista della verità convenzionale ci sono “cose da accettare e cose da respingere.” Dal punto di vista della verità convenzionale è di maggior beneficio essere aperti che essere chiusi ed è di maggior beneficio proteggere nostra moglie piuttosto che lasciare che qualcuno la violenti e se la porti via. Questo non contraddice la verità più profonda per la quale non proviamo attaccamento. Dobbiamo stare attenti a non confondere queste due verità.

Esercizio conclusivo

È venuto il momento di concludere la nostra sessione per questa sera. Terminiamo con un po’ di pratica, e lo facciamo guardandoci intorno in modo aperto. Vogliamo essere aperti ma non nel senso di un “io” solido che ha abbassato i muri ma che poi qualunque fango gli venga lanciato lo prende…ahi! Proprio in faccia. Invece i muri sono abbassati e non c’è nulla di solido di cui preoccuparsi, nulla che possa ricevere una ferita. Ma ovviamente siamo qui. Reagiamo a qualunque cosa accada senza bisogno di stare sulla difensiva aggrappandoci a qualcosa, con paura. Da dove viene la paura? La paura deriva dall’idea che esiste un “io” solido che può essere ferito. Allora, è naturale, abbiamo paura.

La verità convenzionale è che, se qualcuno ci lancia addosso qualcosa, ci spostiamo da una parte. Se pretendono troppo da noi, diciamo di “no.” Convenzionalmente, gestiamo queste cose con consapevolezza discriminante o la capacità di fare distinzioni obiettive, piuttosto che con giudizi soggettivi di superiorità.

Partecipante: Se abbassiamo i muri, significa questo avere flessibilità, quindi anche se sentiamo cose belle o brutte, vogliamo ugualmente essere d’aiuto? Essere in grado di comportarsi così vuol dire avere flessibilità?

Alex: Esattamente. Solo quando i muri sono abbassati possiamo essere davvero flessibili e spontanei e tutte quelle altre cose. Se i muri sono alzati, non possiamo rispondere liberamente. Siamo molto rigidi. Andiamo in giro con tutti quei muri intorno a noi.

Partecipante: Avere i muri abbassati vuol dire in larga misura essere flessibili. Ma non vuol dire solo questo, vero? Avere i muri abbassati non vuol dire soltanto che siamo flessibili, è così?

Alex: Esattamente. Non vuol dire soltanto essere flessibili. Vuole anche dire essere in grado di relazionarsi davvero in modo opportuno. Vuol dire molte cose. Tutte le cose sono interconnesse. Possiamo anche essere più sensibili quando abbassiamo i muri. Se siamo più sensibili, siamo più flessibili. Se siamo più sinceri, l’altra persona sarà più rilassata in nostra presenza. Vuol dire molte cose. Sono tutte interconnesse. Se i muri sono abbassati e stiamo davvero osservando cosa sta accadendo con le altre persone, sarà molto più facile avere la consapevolezza discriminante per sapere chiaramente cosa fare. Si dice che la discriminazione ed i mezzi abili sorgano naturalmente quando i muri sono abbassati.

Anche se non riusciamo a generare questa sensazione di avere abbassato i muri sulla base della comprensione della vacuità, possiamo generarla rivolgendoci a tutte le persone come se fossero i nostri migliori amici. Perché? Dato che vari modi di viaggiare possono condurre alla stessa destinazione, varie cause possono portare allo stesso risultato che vogliamo raggiungere, come ad esempio abbattere i muri. Questo proviene dagli insegnamenti sulla vacuità di causa ed effetto. Quindi ci sono molti modi differenti di ottenere una comprensione e ci sono molti differenti livelli di comprensione, ognuno dei quali può essere utile.

Alla luce della compassione cerchiamo quindi di generare questa apertura: vediamo tutti gli esseri come fossero i nostri migliori amici. E se riusciamo a generare questa apertura anche alla luce di una corretta comprensione della vacuità, questo sarà ancora più utile. La compassione e la saggezza sono sempre connesse. Ricordate? È l’immagine delle due ali.

Assumersi la responsabilità degli altri

Partecipante: (traduttore) [Questa persona dice che] se vediamo nell’altro il nostro migliore amico, questo vuol dire che ci dobbiamo assumere la piena responsabilità dell’altro e quindi, da questo punto di vista, abbiamo paura.

Alex: Di cosa abbiamo paura? A causa di questo “io” solido che pensa: “Io sbaglierò.” Questo vuol dire che dobbiamo dare un’altra pennellata al nostro quadro, pure questa sul lato della vacuità di causa ed effetto. L’esempio tipico usato dal Buddha era che un secchio d’acqua non viene riempito né dalla prima né dall’ultima goccia; viene riempito dall’unione di tutte le gocce. Quando cerchiamo di aiutare qualcuno a superare la sua sofferenza, questo non dipende al 100% da ciò che facciamo. Pensarlo vuol dire gonfiare eccessivamente il nostro “io.” Il risultato deriva dalla combinazione di molte, molte, molte cause.

Da una parte, non dobbiamo pensare di essere i soli responsabili nel senso che se quella persona non migliora, allora siamo colpevoli d’essere dei falliti. Ma dall’altro lato, non dobbiamo neppure andare all’estremo opposto, cioè non fare nulla. Facciamo del nostro meglio. Ma il fatto che quella persona riesca o meno a superare la sua sofferenza dipende per la maggior parte da quello che fa.

Questo argomento ci consente di dare un’altra pennellata al quadro che stiamo dipingendo, ma ne parleremo molto più approfonditamente domani: quest’idea che “io dovrei.” “ Dovrei fare questo. Dovrei aiutarli. Dovrei essere in grado di risolvere tutti i loro problemi, e così via. E se non funziona e non risolvo i loro problemi, allora è colpa mia perché ho fatto qualcosa di sbagliato.”

E questo naturalmente ci riporta al dibattito su Dio, dal quale deriva tutta la questione del “ dovrei.” Nella nostra immaginazione dovremmo essere onnipotenti come Dio, ed essere in grado di ottenere tutto ciò che vogliamo solo grazie al nostro stesso potere. Ne parleremo domani.

Quindi concludiamo sentendoci aperti e senza paura per qualche minuto, e poi generiamo il desiderio: “Non sarebbe meraviglioso se tutti fossero aperti e senza paura? Mi auguro che tutti gli esseri possano diventare in questo modo. Mi auguro di poter essere in grado di aiutare tutti gli esseri a diventare così.”

Ricordate, dobbiamo sempre chiederci di cosa abbiamo paura, perché abbiamo paura e, naturalmente, chi è che ha paura.

Seconda sessione: la direzione sicura (il rifugio)

Abbattere i muri per imparare

Come abbiamo discusso ieri, quello che cerchiamo di fare è di sentirci aperti ad essere d’aiuto agli altri, relazionandoci direttamente con loro, con i muri abbassati. I muri devono essere abbassati non solo verso le persone, ma anche verso la possibilità d’imparare. È un processo simile. Bisogna tenerli abbassati per riuscire ad essere aperti e a mettere le cose in pratica noi stessi, senza erigere muri o una sorta di barriera intellettuale. In altre parole, ciò che potremmo fare è alzare un muro per proteggere un “io” interiore dall’apparenza solida e pensare: “Queste cose le ascolterò solo come un esercizio intellettuale, per imparare qualcosa di curioso e interessante. Perché se devo andare a toccare qualcosa di intimo e profondo, questo mi sembra pericoloso, e pertanto alzerò un muro.” Anche questo tipo di muro va abbattuto.

Cerchiamo di essere aperti in questo modo per imparare e per trasformare noi stessi, così da poter aiutare gli altri verso i quali siamo aperti ad un livello personale. In maniera simile a ciò che abbiamo descritto ieri, possiamo sviluppare tale sentimento caloroso all’inizio guardando gli altri intorno a noi, le altre persone in questa stanza o le immagini dei Buddha alle pareti, e dopo aver abbassato i muri, sentiamo la motivazione ad essere aperti alla trasformazione, ad un livello più profondo, di noi stessi e della nostra relazione con gli altri.

Facciamo questo per un momento. E per favore facciamolo con l’intenzione di essere attenti e concentrati. Non è che vogliamo starcene semplicemente lì seduti con la mente che vaga dappertutto.

[pausa]

Usare la “pratica” buddhista come un muro

Quando ci avviciniamo al Buddhismo, sostanzialmente lavoriamo per un certo livello di trasformazione personale. La trasformazione personale può fare paura. Ne abbiamo parlato un po’ ieri. Per non dover cambiare, alziamo i muri. Poi, con questi muri alzati, ci avviciniamo al Buddhismo come se fosse un diversivo, uno sport o un hobby. Guardiamo alla pratica buddhista come a qualcosa che è piuttosto indipendente dalla nostra vita.

È molto interessante chiedere a persone che frequentano il Buddhismo da un po’ di tempo: “Qual è la tua pratica?” Molto spesso la risposta è che la loro pratica consiste in un certo rituale quotidiano, derivante dal fatto che hanno preso un’iniziazione tantrica. Ogni giorno devono recitare qualcosa, e quella è la loro pratica. Magari guardano la cosa perfino da un punto di vista cristiano: “Devo dire le mie preghiere ogni giorno.” E in effetti molti chiamano questi testi rituali le loro “preghiere.” In questo fine settimana abbiamo usato la metafora del dipinto; ora possiamo aggiungere qualche pennellata alla parte del dipinto che ha a che fare con il senso del “ dovrei,” “ dovrei dire le mie preghiere perché voglio essere una brava persona, perché l’ho promesso…” Ed eccoci tutti presi dall’idea di Dio e del guru.

Ora iniziamo a dare piccole pennellate in giro per il quadro. Anche se non svolgiamo alcun tipo di rituale tantrico, forse facciamo delle prostrazioni o qualche altra pratica allo stesso modo. Come dicevo prima, è molto facile che queste cose vengano prese come uno sport, qualcosa di completamente separato dalla nostra realtà interiore. In altre parole, diciamo che svolgiamo le nostre “pratiche” o per un senso del dovere: “qualcosa che dovrei fare perché ho detto che l’avrei fatto;” o come un tipo di sport che non ha alcuna relazione con la nostra vita: “e questa è la mia pratica!”

Si tratta di un modo estremamente sbagliato di avvicinarsi al Buddhismo. Ci sono molte persone che fanno così da moltissimi anni e che, a causa di questa visione erronea, ne traggono solo un beneficio minimo. Ci possono essere dei benefici certo, non lo nego. Ma non molti in confronto a ciò che potrebbe essere. Quando noi o qualcun altro – in genere si tratta di qualcun altro – diciamo: “La mia pratica è la compassione, la vacuità, l’impermanenza e così via,” a volte le persone possono avere delle strane reazioni. Se la nostra pratica consiste in rituali e qualcuno ci parla così, potremmo pensare che quella persona è pretenziosa e molto orgogliosa e che in qualche modo sta cercando di sminuirci e criticarci perché noi facciamo delle pratiche rituali. In un certo senso, la vediamo quasi come una minaccia.

Ecco che ritorna questo IO solido, racchiuso tra i muri, che recita tutti questi rituali quasi fosse un modo per rinforzare ulteriormente i muri. Ci comportiamo così perché, dall’interno dei muri, non dobbiamo affrontare noi stessi e la nostra vita. Ci teniamo molto occupati con i rituali così che non dobbiamo avere a che fare con gli altri o con noi stessi. Avete presente quelle persone che dal primo momento in cui si svegliano al mattino accendono la radio con la musica e la tengono accesa tutto il giorno, oppure quelle case in cui c’è la televisione costantemente accesa? Al giorno d’oggi molte persone vanno in giro tutto il giorno con le cuffie, sparandosi la musica nelle orecchie. L’effetto, anche se non cosciente, è che non si ritrovano mai a pensare o a stare da soli con se stessi. È un modo strano di affrontare la solitudine ma noi, come persone con uno stile di vita occidentale, sappiamo di cosa si tratta. Il vero risultato di tali abitudini è che siamo distratti dalla possibilità di dare sul serio uno sguardo alla nostra mente e alla nostra vita.

È molto facile riprodurre questo schema anche con la pratica buddhista. Facciamo i rituali o ripetiamo un mantra tutto il giorno, il che è simile ad ascoltare musica per tutto il giorno. Non va veramente a toccare una parte profonda di noi. In altre parole, usiamo quella pratica come fosse un altro muro, un altro strato di quel muro spesso che ci circonda. Anche se la nostra pratica diventa estremamente sofisticata – diciamo che riusciamo a visualizzare per tutto il giorno ogni tipo di cose come mandala e divinità – è molto facile usarla come se fosse un altro muro grazie al quale non ci dobbiamo mettere in gioco nella vita. Credo sia molto importante che la struttura di base della nostra pratica non consista in cose esterne alla nostra vita, cose che pratichiamo per un’ora al giorno o quanto sia. La nostra stessa vita dev’essere la pratica.

La prima nobile verità – le vere sofferenze

Per fare in modo che la nostra vita diventi la nostra pratica, bisogna tornare alla struttura di base degli insegnamenti del Buddha, le Quattro Nobili Verità, i Quattro Fatti della Vita. È necessario prenderli molto seriamente. La prima di queste verità, come abbiamo detto ieri sera, è “ la vita è difficile.” Si potrebbe dire “Tutto è sofferenza,” ma è un’espressione molto sgradevole. È molto più rilevante dire: “La vita è difficile.”

Il punto è che è necessario affrontare ed accettare il fatto che la vita è difficile. A volte lo neghiamo. Oppure, alzando i muri, diciamo semplicemente in termini teorici: “Sì c’è tutta questa sofferenza,” ma in realtà non applichiamo questo fatto a noi stessi e non lo riconosciamo come vero in relazione alla nostra vita. Siamo troppo preoccupati a cercare la felicità. Più tardi nella giornata di oggi oppure domani, prenderemo in esame l’intera questione della felicità e se sia giusto essere felici quando si è un praticante buddhista. Ecco un altro punto delicato per i praticanti occidentali, un aspetto con il quale abbiamo difficoltà a riconciliarci. Ma lasciamolo da parte per un momento.

Molte persone, in particolare le donne ma non solo, si trovano in situazioni difficili nella vita; ad esempio devono occuparsi dei bambini, delle faccende domestiche ed in più magari devono anche lavorare. A volte hanno anche delle difficoltà con il marito o il compagno perché questi o non aiuta o non riconosce la difficoltà della situazione. Spesso l’uomo trova piuttosto difficile relazionarsi alla donna perché il modo tipico in cui gli uomini rispondono è “Dimmi, qual è il problema?” E poi vogliono aggiustarlo come fosse un tubo rotto. Questo in realtà non è quello che la donna cerca in una situazione del genere. A volte potrebbe solo desiderare che le difficoltà vengano riconosciute, e ricevere un po’ di conforto, non nel senso di “oh, poverina” ma conforto nel senso di sostegno emotivo e comprensione. Questa è una vera pratica della generosità, la prima paramita o atteggiamento lungimirante.

Un altro punto che ha una certa importanza in questo contesto ci viene dal maestro indiano Shantideva che disse, e lo sto parafrasando: “Non si può fare affidamento sugli esseri ordinari perché sono infantili e immaturi, e ci deluderanno sempre.” Grazie Shantideva. Questo è di grande importanza per la situazione in molte case, perché spesso il marito non può davvero offrire il tipo di supporto che la donna vorrebbe. È anche rilevante per la nostra discussione sulla Prima Nobile Verità, perché la situazione di una donna che accudisce la casa e i bambini è solo un esempio che “ la vita è difficile.” Anche per gli uomini la vita è difficile, sentono la responsabilità di fornire una sicurezza economica alla famiglia e in qualche modo di dover proteggere tutto e tutti. Anche questo è difficile.

Quando parliamo di questa Prima Nobile Verità, come facciamo a parlarne in modo da non negarla ma da riconoscerla come davvero rilevante per noi? Credo che ciò di cui abbiamo bisogno sia di soddisfare, in qualche modo, quest’impulso di ricevere un certo sostegno emotivo e comprensione per il fatto che la nostra vita è difficile e che la vita in generale è difficile.

Rivolgersi ai Tre Gioielli per avere sostegno

La domanda è: a chi dobbiamo rivolgerci per ottenere comprensione e sostegno? Se ci rivolgiamo agli esseri ordinari, questi hanno i loro problemi ed è difficile ricevere sostegno da loro. Questo ci porta all’argomento del rifugio. Il termine “rifugio” non mi piace molto perché dà un’idea di passività. Il mio modo di concepirlo è invece un processo attivo nel quale prendiamo una direzione sicura e positiva nella nostra vita. Se desideriamo rivolgerci a qualcuno che possa davvero sostenerci amorevolmente, allora come buddhisti nel contesto del rifugio ci rivolgiamo ai Tre Gioielli: i Buddha; i loro insegnamenti e conseguimenti, ovvero il Dharma; e la comunità del Sangha.

In occidente abbiamo iniziato ad usare la parola sangha in un modo totalmente non buddhista, equivalente alla congregazione d’una chiesa. La usiamo per riferirci alle persone che frequentano un centro buddhista. Questo non è il significato originale. Comunque, anche se gli altri membri della nostra comunità buddhista non sono oggetti di rifugio, possono tuttavia offrirci una certa solidarietà e riconoscere la realtà che la vita è difficile. La MIA vita è difficile, non solo la vita in generale è difficile.

Per quanto riguarda la Seconda, Terza e Quarta Nobile Verità, queste sono paragonabili al modo tipicamente maschile di risolvere le cose: “Troviamo la causa e risolviamo il problema,” come se si trattasse di aggiustare un tubo. Ma dobbiamo farlo nel contesto di quest’approccio più femminile, che è il riconoscimento e il sostegno [del fatto] che la vita è difficile. È difficile. Sia come uomo che come donna, abbiamo bisogno della combinazione di entrambi. Non dobbiamo pensare che il sesso stabilisca un punto di vista esclusivo.

Come riceviamo questo sostegno? Rivolgersi agli altri membri della nostra comunità buddhista, da una parte, può sembrarci una buona idea. Ma a volte scopriamo che le persone nella nostra comunità non sono molto mature, e quindi tendiamo a giudicarle; tendiamo ad essere chiusi l’uno verso l’a ltro. In molte delle comunità buddhiste occidentali, le persone si circondano di alti muri perché pensano che in qualche modo debbano dare l’immagine di essere dei santi spiritualmente avanzati. Quindi spesso ci si incontra per una lezione o per qualche rituale o per meditare insieme e poi tutti se ne vanno. Così ci facciamo l’idea che sia questo il significato del praticare in gruppo: semplicemente stare seduti insieme o recitare insieme un mantra, simile al pensare che è questo ciò che significa praticare da soli. In realtà il vero scopo della pratica in un gruppo buddhista è essere amichevoli l’uno con l’altro, essere di aiuto agli altri, avere comprensione ed essere aperti ed amorevoli. Se questo è l’aspetto principale dalla pratica di gruppo, allora possiamo trarre un qualche supporto emotivo l’uno dall’altro considerando che la vita è difficile e che stiamo tutti lavorando su noi stessi nei confini di questa realtà. Restiamo comunque esseri ordinari e a volte è molto difficile riuscire a dare quel tipo di sostegno agli altri.

Se guardiamo all’effettivo rifugio Sangha, questo si riferisce agli esseri arya, coloro che hanno ottenuto la cognizione non concettuale della vacuità. Una bella differenza, no? Anche se tali persone non si sono ancora liberate dalla sofferenza, il loro senso dell’ego è molto più debole e per questo possono offrire molto più facilmente un sostegno a noi. Ma non ci sono molti arya intorno a noi, vero?

Poi forse ci possiamo rivolgere al rifugio nel Buddha per ricevere questo sostegno. Sentiamo che “il Buddha mi capisce; il Buddha capisce le difficoltà della mia vita.” Questo ci dà sicuramente un certo conforto. Questo richiama alla mente la funzione che ha nel Cristianesimo l’affermazione: “ Gesù mi ama.” Se Gesù mi ama, non posso essere così orribile. Più crediamo che Gesù ci ama davvero, più rinforziamo il nostro valore di essere umano, il che ci dà la forza di affrontare la nostra vita. A volte, non ci è sufficiente solo l’amore del nostro cane!

Possiamo trasferire questo stesso tipo di atteggiamento cristiano al Buddha: “il Buddha mi ama, il Buddha mi capisce.” Questo ci dà conforto e sostegno. Ora possiamo dare un’altra pennellata al nostro quadro, dalla parte del maestro spirituale – di nuovo un maestro spirituale qualificato, non chiunque. Ricordo molto bene il mio maestro principale, Serkong Rinpoche. Una delle sue eccezionali qualità era che prendeva tutti sul serio. A prescindere dalle assurde richieste che la gente faceva – ad esempio venne una volta un hippy davvero strano e gli chiese: “Insegnami i sei yoga di Naropa” – non importava quanto strana una persona potesse apparire, lui la prendeva sul serio. Disse: “ Fantastico! Hai veramente un interesse per questo meraviglioso insegnamento e se davvero lo vuoi imparare, bene, devi iniziare a preparare te stesso interiormente.” Quindi gli insegnò qualcosa di appropriato al suo livello. Questo funzionò molto bene con quella persona, perché se il maestro l’aveva presa sul serio, anche quella persona avrebbe potuto cominciare a prendersi sul serio.

Si può osservare che “il mio maestro mi capisce e mi ama” funzionerebbe in modo simile a: “il Buddha mi capisce e mi ama.” Spesso però non abbiamo uno stretto contatto personale con un maestro, e nemmeno con il Buddha. Inoltre, i maestri con i quali siamo in contatto a volte non sono perfettamente qualificati. Comunque ci rivolgiamo a loro perché ci sembra un po’ troppo teorico e distante dire: “il Buddha mi capisce” o “il Buddha mi ama.”

Così dobbiamo fare riferimento ad un altro livello del rifugio. Possiamo prendere una direzione sicura non solo nel Buddha, Dharma e Sangha, come una sorta d’ispirazione che ci spinga ad intraprendere il sentiero spirituale; possiamo anche prendere rifugio e direzione sicura nello stadio risultante che noi stessi otterremo seguendo quel sentiero. Questo vuol dire che in via definitiva il sostegno e la comprensione devono venire da noi stessi, perché tutti noi abbiamo i potenziali completi e le abilità, nel contesto della natura di Buddha, di ottenere lo stato della liberazione e dell’illuminazione di Buddha, Dharma e Sangha. Abbiamo inoltre tutti i potenziali per dare questa comprensione e questo sostegno non solo a noi stessi, ma anche agli altri. Credo sia davvero un punto molto importante. Io l’ho trovato di grande importanza nel mio stesso sviluppo.

Shantideva diceva, e anche mia madre lo diceva, “Se vuoi che qualcosa venga fatta bene, allora falla tu stesso. Se chiedi a qualcun altro di farla, non verrà fatta nel modo in cui volevi tu.” La stessa cosa è vera per quanto riguarda ottenere la comprensione, il riconoscimento e il conforto di cui abbiamo bisogno per affrontare la realtà che la vita è difficile. Non c’è nulla di più affidabile che offrire a noi stessi questo sostegno comprendendo noi stessi, accettando la situazione della nostra vita, ed essendo gentili con noi stessi per quanto riguarda quelle circostanze, senza giudicarci in tutto questo processo.

Non giudicare noi stessi

Se giudichiamo noi stessi, tutto ciò che facciamo è aggiungere un’altra pennellata nella parte del dipinto del “Dovrei fare questo e non dovrei fare quest’altro, voglio essere buono e non voglio essere cattivo.” Se abbiamo questo atteggiamento, in effetti stiamo osservando noi stessi dicendoci che “La mia vita è difficile. È perché sono ‘cattivo.’ C’è qualcosa di sbagliato in me.” Se consideriamo la nostra vita in questo modo critico: “Voglio essere buono, non voglio essere cattivo,” allora stiamo giudicando noi stessi in base alla nostra vita: “La mia vita è difficile. Sto facendo per forza qualcosa di sbagliato, sono cattivo.” Invece di concederci un qualche sostegno emotivo, finisce che ci rimproveriamo e ci puntiamo contro il dito in modo critico. Questo non ci è di alcun aiuto; ci fa solo sentire peggio.

Comunque confortarci solamente non vuol dire trattare noi stessi come dei bambini, e poi non fare nulla per la nostra situazione. È ovvio che quando una donna cerca la comprensione e il conforto del marito, non è questo tutto ciò che desidera. Se lui lavasse anche i piatti, la donna lo apprezzerebbe molto. Allo stesso modo, ci farebbe piacere se qualcuno ci accarezzasse la testa come si fa con un cane, ma desideriamo anche ricevere un aiuto autentico. Funziona allo stesso modo nei confronti di noi stessi. Da una parte dobbiamo essere comprensivi e buoni verso noi stessi, ma poi abbiamo bisogno anche d’aggiustare da soli il tubo rotto e fare qualcosa per venire incontro ai nostri bisogni più profondi.

La cosa nel suo insieme è piuttosto complessa. È una materia delicata. Penso ad esempio a coloro che non hanno avuto un’infanzia felice o genitori particolarmente comprensivi. Queste persone spesso sono alla ricerca di un sostituto dei genitori, che sia la madre o il padre. Entrano in delle relazioni e inconsciamente attribuiscono al partner il ruolo della madre o del padre e pretendono che questi dia loro quel tipo di comprensione che non hanno avuto da bambini.

Come ci si comporta con qualcuno che ha questo tipo di problema? Queste sono relazioni piuttosto nevrotiche. Potremmo dire: “Cerca di capire i meccanismi inconsci del tuo comportamento, cerca di capire quanto sei stupido e quanti problemi stai causando a te stesso, e smettila!” È come quando il cane fa i suoi bisogni sul pavimento, a volte le persone ci mettono dentro il naso del cane e dicono “Guarda che disastro hai fatto. Smettila!” Ma non funziona molto bene. Magari può funzionare con il cane, ma non funziona molto bene con noi stessi perché va semplicemente a rinforzare la sensazione di essere una cattiva persona e genera senso di colpa e il desiderio di “Voglio essere una brava ragazza; voglio essere un bravo ragazzo.” Tutti questi atteggiamenti giudicanti girano intorno all’idea di un IO solido.

Riconoscere il nostro diritto

Se ci affidiamo a dei metodi psicologici un po’ più sofisticati, ciò che è di grande aiuto è il nostro riconoscimento che avere un genitore amorevole e comprensivo sarebbe stato un suo diritto. Tutti ne hanno il diritto ed è stata davvero dura per coloro che non l’hanno avuto. Lo psicologo riconosce questo fatto in modo che anche la persona stessa possa ammetterlo ed accertarlo. L’a nalogia sta nel rendersi conto che la vita è difficile e, in particolare, la nostra vita è difficile e che abbiamo diritto ad essere felici. Abbiamo diritto di diventare un Buddha, perché abbiamo la natura di Buddha.

Sulla base di questo riconoscimento, scopriamo che il nostro bisogno di avere avuto un bravo genitore in genere si trasforma. Viene soddisfatto quando noi stessi diventiamo il bravo genitore di qualcun altro. Posso dire dalla mia esperienza che funziona davvero. Nel riconoscere che la nostra vita è difficile e nel trarre in un certo senso un supporto emotivo da questo riconoscimento, scopriamo che nel fronteggiare le difficoltà della vita, ciò che può guarirci al meglio è donare ad altri il nostro riconoscimento e la nostra comprensione. Più riusciamo a dare questo agli altri in modo molto sincero, più siamo in grado di fronteggiare le difficoltà della nostra vita e, in realtà, scopriamo che quelle difficoltà si fanno molto meno intense. Questo è molto diverso dall’essere un assistente sociale che vuole impulsivamente risolvere i problemi del mondo, andando sempre in giro cercando di fare cose per gli altri, ma senza affrontare mai la propria vita. In genere la vita di questa persona è un caos. Essenzialmente, dipende dal modo in cui diamo rifugio a noi stessi.

Ora per qualche istante ammettiamo la difficoltà della nostra vita, senza esprimere critiche su di essa. Cerchiamo di rendercene conto e basta. Rendersene conto vuol dire ovviamente affrontarla. Non con i muri alzati. Non con qualche pratica esterna che chiamiamo “Il mio Buddhismo.” Questo vuol dire anche farlo in un modo tale per cui non proviamo commiserazione per noi stessi. Come la madre oberata di cose che non vuole che il marito dica: “Oh, poverina…” e provi pena per lei, non vogliamo fare questo neanche verso noi stessi.

Il tipo di riconoscimento di cui sto parlando è qualcosa di molto gentile. È piuttosto come “ essere lì” – se possiamo immaginare questo strano modo di idearlo. È semplicemente un “essere lì” con noi stessi. Se siamo molto ammalati, non vogliamo che qualcuno venga a dirci “Oh, poverino” trattandoci con condiscendenza. Quello che ci aiuta è qualcuno che non è spaventato dalla nostra malattia e che ha la capacità di sedersi accanto a noi e farci compagnia tenendoci la mano. Sebbene questo modo di concepire sia l’opposto della comprensione della vacuità, a un livello emotivo quello di cui abbiamo bisogno è tenere la nostra stessa mano, senza avere paura e senza sentire in qualche modo di dover mostrare platealmente la nostra comprensione o autocommiserazione. Proviamo a farlo.

[pausa]

Nutrire il demone

Svolgere questa pratica in modo astratto come ora descritto può presentare delle difficoltà; proviamo quindi a praticare nella maniera di “nutrire il demone.” Possiamo guardare ai nostri vari problemi come se fossero dei demoni al nostro interno. Possiamo quindi provare ad osservare le sensazioni che nascono in noi, dovute all’aspetto ed alle qualità del demone, ad esempio di questo demone che cerca un po’ di comprensione: “La mia vita è così difficile: Ho così tante responsabilità. Ho così tante cose da fare. Non ho abbastanza tempo, non ho abbastanza energia, non ho abbastanza sostegno…”

Per cominciare, ci domandiamo qual è l’aspetto di questo demone. Quando ci siamo fatti un’idea della sua immagine, lo facciamo uscire fuori da noi stessi e lo facciamo sedere su un cuscino di fronte a noi. Poi gli chiediamo: “Cosa vuoi?” Possiamo quindi andarci a sedere sul cuscino oppure solo immaginare di farlo: “Voglio comprensione. Voglio sostegno. Voglio che le difficoltà della mia vita vengano riconosciute.” Poi dal posto in cui siamo seduti, immaginiamo di nutrire il demone. Diamo al demone sostegno, comprensione, riconoscimento privo di critiche, tutto ciò che vuole.

Facendo così, scopriamo che è un metodo molto più efficace per aiutare noi stessi, invece di stare semplicemente lì seduti cercando di farlo in modo astratto. Nutrire il demone è molto utile anche nel senso che ci allena a dare comprensione agli altri. Lentamente, incominciamo a capire che offrendo comprensione e cura agli altri, cercando di essere un bravo genitore per qualcun altro, daremo inizio al nostro stesso processo di guarigione. Funziona nello stesso modo. Così come dare comprensione al demone vuol dire curare noi stessi, allo stesso modo anche dare sostegno agli altri guarirà noi stessi.

Ora per qualche momento diamo questa comprensione e riconoscimento al demone – che la vita è dura anche per il demone ed è questo che mi sta consumando dentro. Fate questo processo cominciando dall’inizio, ovvero comprendendo questo nostro bisogno interiore, facendolo uscire all’esterno e nutrendolo. Date al demone al vostro interno quello di cui ha bisogno e che vuole.

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Adesso pensate a persone che fanno parte della vostra vita e concedete loro la stessa comprensione e riconoscimento delle difficoltà della loro vita. Che siano malate o anziane o appesantite dal troppo lavoro, qualunque cosa sia, riconoscetelo, accettatelo e date loro sostegno. Questo include le persone con difficoltà emotive, quelli che sono sempre arrabbiati o che si comportano sempre male con le altre persone. Ammettete che anche la loro vita è difficile. Nutrite queste persone, così come avete fatto con il demone. Immaginate di avere una scorta infinita di quello che l’altra persona vuole, così come avete una scorta infinita di quello che il demone vuole.

Lasciando che una scorta infinita di questa comprensione e accettazione passi attraverso di noi e giunga all’altra persona, potremo essere generosi in un modo che non ci turba. Se ne siamo turbati, sentiamo che: “Oh, devo fare qualcosa in questa situazione difficile, ma non posso fare niente. Sono impotente. Sono senza speranza. Com’è tremenda tutta questa situazione…” Quindi siamo emotivamente turbati da tutta la faccenda. Invece, lasciamo semplicemente che la generosità scorra da noi come un infinito flusso di acqua rinfrescante.

Questo è un po’ simile alle visualizzazioni in cui immaginiamo il nettare che fluisce dal Buddha verso di noi. È una cosa simile ma ad un livello più semplice. Possiamo lasciare che questo flusso scorra per tutto il tempo necessario. Non c’è pericolo che si asciughi; semplicemente scorre verso gli altri per rinfrescarli e risollevarli. Senza sforzo, semplicemente scorre. Come facciamo a farlo scorrere? Abbassiamo i muri! Non c’è niente di cui aver paura, non c’è niente da perdere.

Terza sessione: l’inconsapevolezza della realtà

La seconda nobile verità – le vere cause della sofferenza

Avendo preso in considerazione la prima nobile verità in un modo più personale ed accettabile, dobbiamo ora guardare alle altre tre nobili verità nello stesso modo, per fare sì che la nostra pratica buddhista ci tocchi personalmente in una maniera molto più significativa e trasformante.

Una volta riconosciute le difficoltà della nostra vita ed avendo concesso a noi stessi un certo sostegno emotivo, analizziamo la seconda nobile verità, le cause della sofferenza. Dobbiamo sapere qual è la causa per cui il tubo rotto non funziona, in modo tale da poterlo riparare. Quando cerchiamo le cause dei nostri problemi, è molto importante farlo in modo personale dal punto di vista della via di mezzo. In altre parole, non vogliamo dare la colpa solo a fattori esterni: “Sono così perché quando avevo tre anni mia madre mi ha fatto questo, e la società mi ha fatto questo, l’e conomia mi ha fatto quest’altro.” D’altra parte, non vogliamo neppure negare totalmente quei fattori e dire “È tutta colpa mia,” facendo ricadere pesantemente su di noi tutte le mancanze e le colpe.

Quando si dice che la causa più profonda della nostra sofferenza e dei nostri problemi è l’ignoranza, è poi facile che ciò diventi: “Sono stupido, sono cattivo, sono un buono a nulla. Quindi sono io il colpevole.” Tutto questo ruota intorno al pensiero di un IO solido: è sempre lui lo stupido, quello che sbaglia sempre, quello cattivo. Io preferisco usare “ Siamo inconsapevoli della realtà,” invece di “Siamo ignoranti.” Questo può forse aiutarci a rimuovere un po’ quest’aspetto critico dalla seconda nobile verità, le vere cause delle nostre difficoltà nella vita.

Per poter sempre di più approfondire in modo più salutare le cause per le quali la nostra vita è difficile, dobbiamo unire la seconda nobile verità alla comprensione della vacuità. Non esiste alcun IO solido dentro di noi, quello stupido che manda tutto all’aria; quell’IO solido che ha rovinato tutto e che è un vero idiota. In generale le parole che ci vengono in mente sono ancora più pesanti.

Anche se possiamo rintracciare la fonte delle nostre difficoltà della vita nella nostra mancanza di consapevolezza, questo non nega l’origine dipendente. Tutti i nostri problemi non sono stati causati da una cosa sola, come nell’esempio del secchio che non è riempito né dalla prima né dall’u ltima goccia d’acqua. Allo stesso modo, tutti i problemi della nostra vita non sono causati da una cosa sola, avente una grande e solida linea attorno, e da nient’altro che influenzi la situazione. Non è così. Tutte le cose sorgono in dipendenza da molti fattori; si tratta quindi di una combinazione di mancanza di comprensione e confusione, insieme alla società, l’economia e a quello che fece mia madre. E tutte queste gocce insieme hanno riempito il secchio della nostra difficile vita.

Quando si dice che la radice della sofferenza è la mancanza di consapevolezza, ci riferiamo al fatto che l’inconsapevolezza – non conoscere la realtà o conoscerla in modo errato – sia la causa più profonda della nostra sofferenza e, se vogliamo cambiare la situazione, è di questa che dobbiamo liberarci davvero. Le altre cause e condizioni derivano infatti da questa inconsapevolezza, o sono qualcosa che non ci è possibile cambiare. Non possiamo cambiare qualcosa che nostra madre ci ha fatto quando avevamo tre anni. È finita; è storia. È molto importante lavorare con la seconda nobile verità in questo modo, senza giudicare, applicando gli insegnamenti sulla vacuità e sull’origine dipendente.

Riuscite a farvi un’idea generale? È un processo molto simile a quello che abbiamo usato in precedenza per la prima nobile verità. Ci guardiamo dentro e vediamo che “Certo, sono confuso; certo, non so cosa sto facendo nella vita,” ma cerchiamo di accettarlo senza giudicare. È una cosa delicata. E come se ci tagliamo affettando le verdure e riusciamo ad accettare che ci siamo tagliati senza appesantire la cosa con: “Oh sono uno stupido, non sono capace…” Forse non siamo stati molto attenti; qualunque cosa sia, è successa. Cose così accadono. Lo accettiamo e basta. Inoltre non ci siamo tagliati solo perché non abbiamo prestato attenzione. È successo anche in base al fatto che il coltello era molto tagliente. Se il coltello non fosse stato tagliente, non ci saremmo tagliati. È anche dipeso dal fatto che avevamo fame e per l’appunto abbiamo un corpo umano che dev’essere nutrito ogni giorno. Se non l’avessimo, l’incidente non sarebbe potuto accadere.

Questo vale per tutti i problemi della nostra vita. Sorgono da una combinazione di tutti questi elementi, ed è come il fatto per cui non siamo degli incapaci solo perché ci siamo tagliati. Nuovamente, possiamo usare l’approccio di “nutrire il demone.” Quando saremo in grado di avere questo atteggiamento non critico con noi stessi riguardo alle cause dei problemi della nostra vita, poi potremo farlo anche con gli altri. Proviamoci.

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La terza nobile verità – i veri arresti della sofferenza

Con la terza nobile verità abbiamo a che fare con la possibilità di un vero arresto dei nostri problemi. Questo è il significato del termine cessazione: possiamo fermare i nostri problemi, possiamo liberarcene. In inglese, la parola cessation [cessazione] non ha un gran significato per la grande maggioranza delle persone. È una parola troppo lunga che viene usata davvero raramente. Non è una parola comune, quindi la maggior parte di noi non ne saprebbe il significato. Certamente mia madre non la conosceva e sicuramente non l’avrebbe mai usata in tutta la sua vita. Quindi possiamo chiamare la terza nobile verità “veri arresti.”

La questione qui non riguarda solo l’arresto o la fine dei nostri problemi, ma anche delle loro cause. E non si sta parlando solo di un problema specifico, perché ovviamente ogni problema specifico ha una fine. Quando ci cuciniamo un pasto e lo mangiamo, il problema specifico della fame in quel momento finisce. Il problema più grande però, è che avremo nuovamente fame. Quello che vogliamo ottenere è l’arresto di un problema ricorrente e delle cause ricorrenti del problema. La causa della mia fame di stasera naturalmente svanirà quando avrò cenato. Ma il fatto di aver cenato stasera non elimina per sempre la mia fame. Non stiamo parlando dell’eliminazione della causa di un problema specifico, come quello di avere fame adesso. Stiamo parlando dell’e liminazione del continuo sorgere della causa. Questo è l’obiettivo principale qui.

La questione è: “Credo veramente che sia possibile liberarsi dall’incontrollabile flusso di continuità delle cause dei miei problemi? E se credo che ciò sia possibile, come faccio effettivamente a liberarmene?” In altre parole, è davvero possibile ottenere la liberazione e l’i lluminazione?

Questi sono aspetti molto difficili. Se non siamo convinti, almeno ad un certo livello, che sia possibile ottenere per sempre la liberazione dai nostri problemi, allora cosa ci stiamo facendo nel Buddhismo? Qual è il nostro scopo? Stiamo solo aspirando ad ottenere qualcosa di fantastico che non crediamo sia davvero possibile raggiungere? Se è così, allora diventare un Buddha e ottenere la liberazione sono solo fantasie infantili. E noi ci stiamo prendendo in giro e stiamo perdendo il nostro tempo cercando di ottenere qualcosa che non crediamo sia possibile ottenere. Questa è una domanda seria.

Sfortunatamente, la linea di ragionamento che ci consente di capire come sia possibile ottenere la liberazione e l’illuminazione è estremamente complessa. Ha a che fare con la presentazione della filosofia Prasanghika, per la quale un vero arresto equivale alla vacuità. È una cosa molto difficile da capire. Quindi per noi, adesso, cosa vuol dire? Nel contesto del corso che si svolge in questo fine settimana, vuol dire che non capiremo istantaneamente come sia possibile la liberazione. Sarà un processo lungo; ma fino a quando non capiremo che è davvero possibile, non potremo raggiungere la convinzione. Se non ne siamo convinti non lo proveremo, come abbiamo discusso ieri – tramite tutto quel processo di come accettiamo qualcosa una volta che l’abbiamo capita. In sostanza si tratta di dover provvisoriamente accettare per fede che la liberazione e l’illuminazione sono possibili. Questo è un modo provvisorio di lavorarci.

È questa la “fede cieca?” “Ci credo! Alleluia!?” Come facciamo a crederci? Alcune persone potrebbero rispondere: “Ci credo perché il mio guru è un Buddha. In lui vedo l’illuminazione, per questo è possibile.” Questo non è molto stabile per la maggior parte delle persone, perché in molti maestri spirituali altamente realizzati possiamo osservare vari difetti. A volte commettono errori. È necessario fare una differenza, e ne parleremo più tardi, tra: “È il guru un Buddha per la sua stessa natura?” Oppure: “È il guru un Buddha che sorge in dipendenza dalla relazione tra studente e maestro?” Naturalmente è il secondo caso. Le cose sorgono in dipendenza da un punto di vista. Essere un Buddha non è qualcosa che viene stabilito in assoluto dal lato dell’insegnante come un fatto da prendere alla lettera. Quello che scopriamo nella realtà è che tanti di questi insegnanti che pensavamo fossero così meravigliosi, commettono errori. Quindi restiamo delusi e disillusi e pensiamo che l’illuminazione non sia possibile.

Usare l’approccio degli stadi graduali del sentiero del lam-rim per convincerci che la liberazione è possibile

Possiamo applicare la struttura di base del lam-rim, gli stadi graduali del sentiero, per aiutarci ad affrontare il dilemma di credere che la liberazione e l’illuminazione siano possibili. La versione del lam-rim di Atisha presenta tre livelli di motivazione – tre scopi, tre obiettivi. Il più alto è l’illuminazione, quello intermedio la liberazione. C’è anche un livello iniziale di motivazione, che consiste nel rinascere in uno degli stati favorevoli. Se vogliamo esprimere questo scopo iniziale con parole più semplici senza dover necessariamente avere a che fare con la rinascita, possiamo dire che si tratta fondamentalmente della motivazione di migliorare il samsara – migliorare la nostra esistenza samsarica. Prima di poter pensare al miglioramento delle nostre vite future, abbiamo bisogno all’inizio di migliorare questa stessa vita.

[Vedi: Dharma “light” vs. “il vero” Dharma.]

La cosa importante è essere onesti con noi stessi e non essere spiritualmente presuntuosi. Tra i praticanti buddhisti, credo siano pochissimi coloro che possano dire con grande sincerità di aspirare alla liberazione e all’illuminazione. Se davvero aspiriamo alla liberazione, questo vuol dire che abbiamo una rinuncia perfetta. La maggior parte delle persone non vogliono neppure sentir parlare di rinuncia, figuriamoci se ce l’hanno.

Ciò a cui si rinuncia non sono il cioccolato o la televisione. Rinunciamo alla causa dei nostri problemi, che in sostanza a livello iniziale sono i tratti negativi della nostra personalità ed il comportamento distruttivo che ne deriva. Dobbiamo rinunciare proprio a questo: la nostra rabbia, il nostro egocentrismo, l’avidità, i nostri muri. La maggior parte di noi non ha alcuna intenzione di rinunciare a tutto questo. Vogliamo aggiungere qualcosa alla nostra vita, ovvero la felicità ed altre belle cose, ma senza dover rinunciare a nulla. Pertanto quando diciamo senza rinuncia: “ Aspiro all’illuminazione, aspiro alla liberazione,” non è proprio molto sincero.

Ecco che dobbiamo dare un’altra pennellata all’argomento “dovrei.” Quello che la maggior parte di noi pensano è che “DOVREI aspirare all’illuminazione perché altrimenti sono un cattivo praticante e non piaccio al mio guru.” Questo è un po’ infantile, o no? Dobbiamo renderci conto che lo scopo iniziale, il primo livello di motivazione nel quale aspiriamo a migliorare il nostro samsara, è perfettamente legittimo. Va bene essere al primo livello. In effetti essere al primo livello è un grande conseguimento. La maggior parte delle persone non pensano neppure di cercare di migliorare questa vita, figuriamoci le vite future. Qui non si sta parlando di un miglioramento economico ma di uno sviluppo interiore. La maggior parte delle persone in questo mondo non sono interessate a questo. Quindi avere quell’aspirazione va bene e, su questa base, si può approfondire la pratica del Dharma e provare, in un lungo periodo di tempo, a capire che è possibile ottenere la liberazione e l’illuminazione, perché può essere difficile convincersene veramente.

In altre parole, è più onesto pensare: “Al momento non posso dire di aspirare alla liberazione e all’illuminazione, perché non sono veramente convinto che sia possibile ottenerle e non voglio impegnarmi per una favola. Quindi intendo cercare di comprendere che sono possibili, perché poi potrò impegnarmi con sincerità per ottenerle. Nel frattempo, mi impegno a migliorare la mia situazione samsarica, la difficile situazione della mia vita e, a questo proposito, ho una certa fiducia di poter almeno indebolire le cause dei miei problemi ed eliminare alcuni aspetti che sono un po’ più facili da eliminare rispetto alla mia confusione.” Pensare in questo modo ci consente di lavorare con un maestro spirituale in un modo che ritengo più salutare.

Ora, non è un problema se il maestro sia effettivamente liberato o illuminato. Non è più un aspetto vitale. Invece, il punto è che questa persona sia più realizzata di noi; qualcuno che ha davvero ridotto ampiamente la propria confusione, rabbia e così via. Dobbiamo pensare: “Anche se questa persona a volte può commettere un errore e può a volte mostrarsi un po’ turbata emotivamente, va bene. Più avanti, quando progredirò sul sentiero, affronterò come relazionarmi alla cosa in questi termini: ‘Il mio maestro sta cercando d’insegnarmi qualcosa,’ e cose del genere. Affronterò la questione più avanti. Ora, a questo livello, è sufficiente riconoscere che questo sia un essere altamente sviluppato. Ora come ora non m’interessa sapere se il mio maestro è perfetto o meno. È il suo modo di essere a darmi ispirazione per progredire.”

Anche se gli insegnamenti buddhisti non lo spiegano così, da occidentale credo che sia di grande aiuto usare questo come uno stadio per il nostro sviluppo spirituale, perché da occidentali abbiamo molto spesso la tendenza a guardare le cose come nere o bianche. In altre parole il maestro è un Buddha perfetto, oppure pensiamo: “Lasciamo perdere tutto il sentiero spirituale perché ho visto che commetteva un errore.” Per evitare di cadere in questo estremo, e per evitare anche l’estremo di dichiarare la nostra aspirazione alla liberazione e all’illuminazione quando non è proprio vero, credo che questo passaggio intermedio sia di grande aiuto.

Quello che ho imparato dalla mia pratica personale è che non ha importanza se i miei maestri sono veramente dei Buddha e se hanno o meno tutte le qualità dei Buddha. Possono camminare attraverso un muro, volare in aria e moltiplicarsi in dieci miliardi di forme? Davvero, non me ne importa. Per me non fa alcuna differenza. Ma il fatto che siano molto più sviluppati di quanto lo sia io – per quello che posso capire e per quello a cui posso relazionarmi quando trattano con la gente, quando affrontano la vita e così via – mi mostra che sono molto più evoluti di me. Questo mi dà l’ispirazione che è possibile raggiungere lo stesso livello.

È questo il livello su cui possiamo iniziare a lavorare. Lo ritengo molto più accessibile. Diventare convinti che questo livello d’arresto delle cause dei nostri problemi sia possibile – anche se potrebbe non essere un vero arresto per ottenere la liberazione – è sufficiente per permetterci di lavorare come una persona all’interno dello scopo iniziale della motivazione. Questo è un livello perfettamente legittimo nella nostra pratica spirituale, ed è un livello necessario per iniziare. In altre parole, quando vediamo un maestro a tale livello, iniziamo a convincerci che è possibile raggiungere almeno un certo livello d’arresto delle cause dei problemi, anche se potrebbe non essere una vera cessazione con cui otteniamo la liberazione. Già essere convinti della possibilità di questo livello d’arresto delle cause dei nostri problemi, ci dà la fiducia di praticare in modo sincero, quale persona che si trova a questo livello di motivazione iniziale. Questo è uno stadio estremamente necessario. Non solo va bene, ma è anche uno stadio necessario da attraversare per avere uno sviluppo spirituale stabile.

Quindi quello che dobbiamo evitare all’inizio è passare direttamente al livello più alto di motivazione e poi quando ne rimaniamo disillusi – crash! – cadiamo rovinosamente per terra. Questo è il tipico schema di uno studente occidentale che si avvicina al Buddhismo. Possiamo evitarlo senza essere pretenziosi ed iniziando a lavorare per migliorare il nostro samsara che, dopo tutto, è la ragione per cui persone sincere s’avvicinano al Buddhismo: non lo facciamo come se fosse una gita o uno sport. Questo è il livello iniziale d’un sincero coinvolgimento nel Buddhismo.

Siamo ora giunti alla quarta nobile verità: per fare in modo che questa auto-trasformazione avvenga, dobbiamo fare qualcosa noi stessi. Dobbiamo essere attivi; non è una cosa che ci viene giù dal cielo, senza nessuno sforzo. In realtà dobbiamo cambiare noi stessi.

Quarta sessione: le implicazioni del prendere rifugio

Il rifugio come orientamento di base della nostra vita

Abbiamo parlato di vari problemi che ci troviamo ad affrontare a volte nel Buddhismo, e abbiamo posto l’attenzione sulle difficoltà che molti di noi incontrano nell’applicare effettivamente gli insegnamenti buddhisti alle nostre vite. C’è un altro argomento importante da considerare quando si ha a che fare con questi problemi: il rifugio. Ci sono molti aspetti dei primi stadi del sentiero buddhista che spesso ci appaiono banali e che saltiamo a piè pari. Per molte persone, il rifugio è uno di questi. Ciò è molto triste, perché se consideriamo il rifugio banale e senza significato, stiamo privando noi stessi del fondamento di tutta la pratica buddhista.

Prendere rifugio non consiste semplicemente nel ripetere una formula, nel tagliarsi un ciuffetto di capelli come si fa in alcune tradizioni, e nel prendere un nome buddhista; non è questa l’essenza del rifugio. Piuttosto si tratta di cambiare radicalmente il nostro atteggiamento verso la vita. È uno stato della mente tramite il quale intraprendiamo una direzione sicura nella vita, la direzione che consiste nel lavorare su noi stessi cercando di trasformarci per, come dicevamo prima, migliorare un po’ il nostro samsara, per ottenere la liberazione, o per raggiungere l’illuminazione per essere in grado di aiutare gli altri il meglio possibile. Prendere rifugio non vuol dire impegnarsi ad essere fedeli ad un qualche culto. E, dicendo culto, non mi riferisco soltanto ad un culto organizzato, potrebbe anche trattarsi del culto della personalità di qualche maestro. Rifugio vuol dire invece impostare la nostra vita con un orientamento totalmente nuovo in modo che, quando questo orientamento diviene stabile in noi, saremo consapevoli di ciò che stiamo facendo con la nostra vita, di dove sta andando la nostra vita e di quale sia lo scopo della nostra vita. Si tratta di crescere.

Quando ci saremo fatti un’idea della direzione che abbiamo intrapreso nella vita – cosa stiamo facendo nella vita – tutti gli insegnamenti saranno allora fondati su questa base. Nello specifico, facciamo riferimento agli insegnamenti del Buddha ed al suo esempio affinché ci indichino tale direzione sicura e positiva. Non è necessario entrare in un lungo insegnamento sul rifugio, credo invece che una cosa molto utile, sulla base di questa sicura direzione del rifugio presente nella nostra vita, sia l’atteggiamento che assumiamo nei confronti degli insegnamenti. Ciò vuol dire che tutti gli insegnamenti saranno per noi rilevanti sia per diminuire o eliminare la sofferenza sia per essere in grado di aiutare gli altri. Prendiamo gli insegnamenti molto sul serio e abbiamo fiducia che siano stati insegnati dal Buddha o da un suo discepolo, unicamente allo scopo di aiutarci ad eliminare la sofferenza e per riuscire ad essere maggiormente di aiuto agli altri. Questo è l’intero scopo di qualsiasi insegnamento. Cerchiamo di capire cosa c’è in questi insegnamenti che ci aiuta ad ottenere questi obiettivi.

Comprendere lo scopo più profondo della pratica rituale

Usiamo l’esempio dei vari rituali che spesso vengono chiamati la nostra pratica buddhista. Tutte le pratiche con le divinità, i rituali, le puja e così via, sono insegnamenti del Buddha. Ciò vuol dire che devono essere in grado di aiutarci ad eliminare i problemi e ad aiutare gli altri. Come fanno? Avere il rifugio vuol dire prendere sul serio questi rituali e analizzarli davvero per cercare di capire in quale modo essi conseguono questi scopi. E dopo li applichiamo per questo scopo. Cerchiamo di impegnarci in questo modo nelle pratiche rituali.

La ragione per cui ci aiutano ad ottenere la liberazione e l’illuminazione potrebbe non essere così ovvia. Ma questo vuol dire semplicemente che si tratta d’una sfida. Se non abbiamo quest’atteggiamento che deriva dalla sicura direzione del rifugio nella nostra vita, allora tutte queste varie pratiche rituali sono irrilevanti per la nostra vita, non ci toccano realmente e di conseguenza danno un risultato minimo o nullo. Infatti, se nei confronti di queste pratiche abbiamo tale atteggiamento che ci fa pensare: “Sono soltanto rituali orientali esotici; può essere divertente svolgerli nei momenti buoni, ma in altri momenti sono una noiosa imposizione.” Se abbiamo questo tipo di atteggiamento non ne ricaveremo niente. Non avranno alcun effetto positivo. E la mancanza di effetti positivi rivela che non stiamo prendendo gli insegnamenti davvero sul serio. Non abbiamo veramente un atteggiamento di apertura e rispetto per il Buddha o per il fatto che egli ha insegnato delle pratiche che ci aiuteranno. Non ha insegnato delle cose divertenti o terribilmente noiose, che dobbiamo svolgere per il senso del dovere o senso di colpa, così da essere “bravi.”

Questi punti rimandano non solo alle varie pratiche rituali ma a qualsiasi aspetto degli insegnamenti. Negli insegnamenti buddhisti si ascoltano molte cose strane. A volte la stranezza deriva da problemi di traduzione. Ci sono molti esempi nei quali la parola che si usa per tradurre in una lingua occidentale rimanda ad un’interpretazione completamente errata. I miei esempi preferiti sono: virtù e non virtù, merito, peccato, ecc. Questa è una terminologia cristiana, non buddhista. E gira intorno all’idea del DOVREI: “Dovrei fare questo e non dovrei fare quello; se faccio così sono buono, se non faccio così sono cattivo.” È tutto collegato ad un contesto giudicante, in cui Dio è il giudice. Questo non è assolutamente il contesto del Buddhismo.

Ogni volta che proviamo confusione e difficoltà nei confronti degli insegnamenti, prima di tutto dobbiamo verificare se vi siano problemi dovuti alla traduzione. È un passo estremamente necessario. Ma come dicevo, negli insegnamenti ci sono molte cose strane, come gli insegnamenti sui reami infernali, o sul Monte Meru e cose di questo genere. Possiamo osservarle e pensare “Questo è stupido, non mi piace,” oppure possiamo cercare di capire quale intenzione c’è dietro che li rende uno strumento per aiutarci ad ottenere una migliore rinascita, la liberazione o l’illuminazione? Se la direzione del rifugio è stabile nella nostra vita, cercheremo di comprendere tutti questi insegnamenti e non li rifiuteremo.

I racconti che insegnano

Ricordo gli insegnamenti sul karma. Serkong Rinpoche era solito insegnare il karma con esempi classici, come quello di una persona che possedeva un elefante che defecava oro. Ogni volta che cercava di liberarsi di questo elefante, a causa del fatto che attraeva folle e scompiglio, non ci riusciva. L’elefante tornava sempre indietro. Da occidentali, davanti ad un racconto del genere diciamo: “Dài, è ridicolo!” E ci sentiamo anche un po’ imbarazzati. Non vorremmo davvero mostrare ai nostri genitori un libro che stiamo studiando contenente cose del genere. Penserebbero che siamo usciti di cervello. Quando facevo questa osservazione a Serkong Rinpoche, la sua risposta era piuttosto interessante. Diceva: “Se il Buddha avesse voluto inventare una buona storia, avrebbe dovuto inventarne una migliore di questa.”

Ci sono due modi di comprendere quello che ha detto Rinpoche. Uno consiste nel prendere il racconto alla lettera, e sono convinto che ci sono molte persone appartenenti a culture tradizionali asiatiche che prendono queste storie piuttosto alla lettera. Non credo però che questo sia il solo significato che possiamo ricavare dalla risposta di Serkong Rinpoche. L’altro modo di comprendere la risposta è che il racconto non aveva il solo scopo di divertirci, perché il Buddha potrebbe farci divertire molto di più. Invece, la storia ha lo scopo d’insegnarci qualcosa. Anche in occidente c’è una simile tradizione orale; ci sono favole, leggende, miti e racconti fiabeschi che vengono raccontati a persone di tutte le età. In ogni favola c’è un insegnamento, in genere su causa ed effetto, ed è un metodo d’insegnamento molto valido ed efficace. Non è necessario che gli insegnamenti siano unicamente fatti di liste. Si può anche insegnare con questi racconti.

Come dicevo prima, se il nostro rifugio è ben saldo, quando nei testi leggiamo di tutte queste cose fantastiche – Ci sono milioni di Buddha in milioni di campi di Buddha, ed in ciascun minuscolo poro di ciascun Buddha ci sono altri milioni di campi di Buddha – cercheremo di capire quale sia il punto. “Tutto ciò sicuramente è fatto per aiutarmi, non è fatto solo per qualche stupida persona che crederebbe a queste cose. L’obiettivo è aiutarmi a superare i problemi della mia vita, aiutarmi a essere di maggior beneficio per gli altri. Come fa questo? Qual è la lezione da imparare?” Con questo atteggiamento, possiamo cominciare a fare più facilmente un collegamento tra gli insegnamenti e noi stessi, in modo personale.

Mettere insieme i pezzi del puzzle

È molto importante capire il metodo di base degli insegnamenti buddhisti. Questo consiste nel fornire agli studenti i pezzi di un puzzle. È poi compito dello studente metterli insieme. Un bravo insegnante non dà tutti i pezzi del puzzle in una volta sola. Sta a noi domandarne altri. Se non li chiediamo, questo vuol dire che non siamo veramente interessati, non siamo davvero motivati. Quindi se l’insegnante ci avesse dato più pezzi, sarebbe stato uno spreco.

Questa presentazione degli insegnamenti aiuta lo studente a sviluppare entusiasmo, pazienza, a lavorare duro, tutte cose che consentono agli insegnamenti di radicarsi bene in noi. Il processo di insegnamento buddhista non consiste solo nel fare una copia di un file in un computer e trasferirlo su un disco vuoto. Non si tratta solo di trasferire informazioni da un maestro a un discepolo. L’intero processo dell’insegnamento ha lo scopo di sviluppare la nostra personalità di studenti.

È importante quindi avvicinarsi in questo modo agli insegnamenti e non essere impaziente e lamentarsi: “Non ha spiegato tutto” o “Non è chiaro,” e così via. Dobbiamo raccogliere i vari pezzi del puzzle e poi lavorarci su cercando di metterli insieme. Cerchiamo di scoprire: cosa vogliono dire realmente? In che modo hanno a che fare con la vita? Il rifugio ci aiuta ad essere aperti per sviluppare quell’atteggiamento nei confronti dell’apprendimento. Questo è un aspetto del rifugio.

Fonti di rifugio provvisorie e definitive

Un altro punto che riguarda il rifugio è: a cosa ci rivolgiamo quando la vita è difficile e le cose vanno male? Quando accade qualcosa di brutto o quando iniziano a sentirsi nervose, alcune persone aprono il frigorifero. Oppure si danno all’alcol o alle droghe, o al sesso, o allo sport. Sono tantissime le cose in cui le persone prendono rifugio. È molto interessante osservare quest’aspetto del rifugio in noi stessi. Quando le cose sono davvero difficili a cosa o a chi ci rivolgiamo? Ci rivolgiamo a un amico? Oppure iniziamo a bere? Potremmo rispondere: “DOVREI rivolgermi al Buddha, Dharma e Sangha.” Questo crea però un certo disagio perché quell’atteggiamento degenera facilmente in “Dio aiutami, Buddha aiutami.”

Gli insegnamenti parlano di rifugio provvisorio e definitivo. Permettetemi di usare un esempio personale. Quando sono nervoso o irritato per qualcosa, la mia tendenza è di aprire il frigorifero. Mangio qualcosa che mi piace molto, e questo mi aiuta un po’. Ricordate, abbiamo parlato della prima nobile verità: la vita è difficile. Bisogna essere un po’ comprensivi. So che quando i miei venti-energia si agitano o perdono equilibrio, se mangio qualcosa, in particolare pane integrale, quei venti verranno calmati in modo da darmi un po’ di stabilità. È come prendere un’aspirina quando non ci si sente bene, so che non è la soluzione definitiva ai miei problemi. Lo so molto chiaramente. Dico a me stesso: “So che questo mi aiuterà solo ad un livello superficiale; ma ho la direzione più profonda a cui mi sto rivolgendo per aiutare me stesso a risolvere effettivamente il problema.”

Naturalmente qui bisogna fare una certa discriminazione, perché se l’unica variabile implicata fosse ciò che ci aiuta provvisoriamente ad affrontare un problema, potremmo dire: “Mi faccio di eroina, è come un’aspirina provvisoria, tanto conosco la soluzione più profonda.” C’è una differenza tra mangiare una barretta di cioccolato e farsi di eroina. Bisogna essere sicuri che un rifugio provvisorio non sia assolutamente qualcosa che danneggi grossolanamente noi stessi o gli altri. Non dovrebbe essere: “Uscire e andare a sparare a un coniglio mi fa sentire bene, quindi se sono nervoso vado fuori e ammazzo qualcosa.”

Dobbiamo un po’ lavorare in questi termini: “Nel momento del bisogno a cosa mi rivolgo veramente?” E non questa cosa del “DOVREI rivolgermi al Buddha, Dharma, Sangha, quindi mi metto a sedere e medito, e se invece mangio dei biscotti questo vuol dire che sono una persona cattiva o un cattivo buddhista.” Va bene prendere l’aspirina, mangiare i biscotti o la cioccolata o qualunque altra cosa, parlare con qualcuno al telefono va bene, se è chiaro che non sono soluzioni definitive. Se le vediamo quali soluzioni più profonde, resteremo delusi perché non funzioneranno. Qualunque conforto esse ci possono dare, non può durare. È superficiale. Dopotutto, la vita è difficile. Questi sono alcuni aspetti del rifugio.

Ci sono domande?

Etica biblica

Partecipante: [tradotto] [Questa persona dice che] se ha voglia di sparare a un coniglio, ecco che si presenta nuovamente l’idea: “non dovrei sparare ai conigli.” Torna l’idea del “dovrei.”

Alex: Forse dovremmo smettere di dare piccole pennellate nella parte del dipinto che riguarda il “dovrei” e “non dovrei,” ed addentrarci più in profondità nell’argomento.

La discussione su “dovrei” o “non dovrei” gira intorno a varie cose: l’etica e l’approccio all’etica, ed anche gli insegnamenti sulla vacuità.

L’etica biblica ad esempio, è un sistema basato su un’autorità più alta che ha stabilito certe regole e leggi, quindi in questo sistema, etica vuol dire fondamentalmente essere obbedienti. In questo contesto una persona che segue l’etica è una persona obbediente che rispetta le regole provenienti dall’alto. Se obbediamo, siamo bravi. Se disobbediamo siamo cattivi e saremo puniti. Questa più alta autorità manifesta una certa reazione emotiva di base verso di noi: se quindi obbediamo, l’autorità più alta sarà compiaciuta e ci premierà. Se disobbediamo, non piaceremo più all’autorità più alta che smetterà di amarci e ci punirà. Questa è la caratteristica emotiva di questo tipo di etica.

Possiamo parlarne nei termini di Dio oppure dei nostri genitori. L’attribuiamo anche ai nostri genitori che ci dicono sempre: “Devi essere una brava bambina, devi essere un bravo bambino; non devi essere cattivo.” Se disobbediamo, allora siamo cattivi ed abbiamo la sensazione che non ci amino più e allora vogliamo compiacerli. La nostra condotta etica è basata sulla volontà di compiacere questa più alta autorità che ha stabilito le regole.

Quindi, per la maggior parte di noi cresciuti in culture che seguono la Bibbia, la nostra intera etica è basata su “dovrei” e “non dovrei.” Vogliamo sapere: “Cosa dovrei fare?” Così da essere apprezzati e premiati, in modo che tutto vada bene. Anche se forse a un certo livello quello che sto spiegando può essere considerato eccessivamente semplicistico, è davvero sorprendente quanto tendiamo a comportarci veramente così. Quando ci troviamo in una situazione nuova, vogliamo sapere cosa DOVREI fare. Vogliamo che qualcuno ci dica quali sono le regole. E finché conosciamo le regole, sappiamo a cosa dobbiamo obbedire ed allora ci sentiamo bene e a nostro agio. Tutto sarà in ordine e sotto controllo.

La questione dell’essere in controllo

Questo punto affronta la questione di “essere in controllo.” Quando conosciamo le leggi e sappiamo che dobbiamo rispettarle, allora sentiamo che se le seguiremo avremo la situazione “sotto controllo.” Abbiamo la sensazione di sapere cosa accadrà, quindi conoscere tutte le regole ci dà sicurezza. Quando affrontiamo la vita con quest’atteggiamento di voler essere in controllo, quest’atteggiamento di obbedienza alle regole e di avere tutto in ordine, stiamo davvero basando la nostra condotta sul sentimento per il quale vogliamo essere bravi e vogliamo compiacere.

Questo tipo di approccio è fondamentalmente basato sul concetto di un IO solido e di un TU solido che detta le regole. In questo modo, siamo perennemente preoccupati per questo IO che, se siamo cattivi, verrà rifiutato o abbandonato, cacciato via dal giardino dell’Eden. A causa della preoccupazione per questo IO solido, sorge in noi tutta questa paura e questo bisogno di controllare, la preoccupazione di avere le cose sotto controllo. Ci sembra che l’unica alternativa sia il caos completo, qualcosa di simile alla paura di abbassare i nostri muri, in quanto saremo nel caos e privi di difese. Tendenzialmente è questa la forte eredità culturale che abbiamo in occidente, il tipo di atteggiamento nei confronti dell’etica che si basa sul “dovrei” e “non dovrei” e sul seguire le regole.

Allora, se abbiamo questo atteggiamento tendiamo a vedere e ad affrontare gli insegnamenti buddhisti nello stesso modo. Consideriamo l’etica buddhista come delle regole su ciò che “dovrei” e “non dovrei” fare: “Non dovrei uccidere. Dovrei fare le mie pratiche di recitazione ogni giorno. Se non lo faccio, mi comporto male e i miei maestri non mi vorranno più bene. Saranno dispiaciuti e non mi ameranno più.”

Durante la pausa pranzo qualcuno ha detto che a volte è molto difficile seguire gli insegnamenti che ci dà il nostro maestro. Vogliamo però essere comunque il bravo discepolo; vogliamo essere apprezzati e vogliamo piacere al nostro maestro. Quindi, invece di seguire quello che il maestro ci ha insegnato, adottiamo, riguardo a quel maestro, una sorta di mentalità basata sul culto che ci fa pensare: “Il mio maestro è migliore di chiunque altro.” Sentiamo, forse a livello inconscio, che questo farà piacere al nostro maestro. Invece di essere fedeli al nostro maestro mettendo in pratica gli insegnamenti, pensiamo che essere fedeli significhi venerare lui o lei. Quindi attribuiamo l’idea del “dovrei” e “non dovrei” all’idolatria verso il nostro maestro, come in un culto. Questo lo facciamo perché è troppo difficile seguire il Dharma che ci insegna il nostro maestro.

Etica buddhista

L’etica occidentale è in effetti una combinazione tra l’approccio biblico e quello della Grecia antica. Nella versione greca, invece di essere imposte da un’alta autorità in paradiso, le leggi erano fatte da un’assemblea legislativa di cittadini. I cittadini si riunivano ed emanavano leggi per il bene della società. Anche qui si ripresenta la questione di: “Obbedisci e tutto andrà bene; disobbedisci e sarai mandato in prigione e punito perché sei un cattivo cittadino di questa società.”

La società occidentale, quindi, combina insieme, in modo interessante, l’etica biblica e civile, ma nessuna di esse è attinente all’etica buddhista. Nell’etica buddhista, il punto principale non è scoprire quali sono le leggi e se le comprendiamo bene, tutto quello che dobbiamo fare è obbedirle.

Questo non è assolutamente l’orientamento. Il Buddha in effetti non ha parlato di ciò che “dovremmo” o “non dovremmo” fare. Il Buddha ha detto: “se ti comporti così, questo sarà il risultato. Se ti comporti in quest’altro modo, quest’altro sarà il risultato.” In altre parole, dipende da noi cosa vogliamo fare. Quello che facciamo è una nostra scelta. Se continuiamo a sbattere la testa contro il muro, continueremo a farci del male. Se smettiamo di sbattere la testa contro il muro, saremo più felici. Non stava dicendo: “Dovreste smettere di sbattere la testa contro il muro.” Semplicemente spiegava cosa accade quando sbattete la testa e quando non la sbattete.

Quindi sta a noi come individui distinguere e fare una scelta. Se vogliamo smettere di soffrire e di creare problemi a noi stessi, allora in un modo o in un altro, modificheremmo il nostro comportamento. Se non ce ne importa… allora, questo è quanto. Non cambiate. Non è questione di essere buoni o cattivi. È solo: “Se vuoi continuare a soffrire, questa è la tua scelta, è un tuo privilegio. Se vuoi smettere di soffrire, avrai bisogno di modificare il tuo comportamento.” Questo non vuol dire negare che in una società certe leggi siano necessarie. Mettere in prigione i criminali in modo che non continuino ad andare in giro ad ammazzare la gente è necessario. L’etica buddhista non contraddice questo.

Per il nostro sviluppo personale, sviluppiamo quindi quella che è chiamata “consapevolezza discriminante” o “saggezza.” Abbiamo bisogno di distinguere tra quello che è utile e quello che è dannoso per noi stessi e gli altri. È più difficile conoscere quello che danneggia gli altri, e quindi l’enfasi viene posta sull’evitare quello che danneggia noi stessi. Ad esempio, possiamo regalare ad una persona una rosa con l’intenzione di farla contenta, ed invece questa sviluppa una reazione allergica. È molto difficile capire quello che veramente può aiutare qualcun altro. Di conseguenza qui diamo più importanza alla distinzione tra ciò che ci è dannoso e ciò che ci è di beneficio: questo è più facile da differenziare. Non è una questione di: “Dovrei fare questo o non dovrei fare quest’altro.” Ma, invece di capirlo, spesso ci avviciniamo ai nostri maestri chiedendo: “Dimmi cosa dovrei fare. Come dovrei praticare? Cosa dovrei fare?” Questo non aiuta.

Affrontare la paura della punizione

Partecipante: Però una volta che ho scoperto l’aspetto della realtà karmica di causa ed effetto, quando compio un’azione dannosa, mi resta ancora un senso di paura, la paura di essere punito. Mi piacerebbe essere in grado di avere la libertà di scegliere cosa fare, senza paura. Vorrei poter fare una scelta in maniera sana e non cercare di liberarmi dal comportamento dannoso per paura. È infantile e non mi piace. Quindi come posso esercitarmi, addestrarmi per liberarmi da questa paura e senso di colpa?

Alex: La paura è legata all’aggrapparsi ad un IO solido. Crediamo che questo io solido esista e vogliamo approvazione per questo io solido ed abbiamo paura della disapprovazione e della punizione. Abbiamo paura. Questa convinzione errata può riguardare solo questo “io” in sé, oppure è possibile complicare ulteriormente la cosa credendo ad una figura autorevole solidamente esistente che questo io solido vuole compiacere e da cui vuole ricevere approvazione. In questo modo tutto diventa più complicato perché abbiamo paura di essere abbandonati da questa figura autorevole solidamente esistente.

So che il modo in cui sto spiegando questa cosa non è proprio quello giusto, perché abbiamo davvero bisogno di andare molto più in profondità nella discussione della vacuità per evitare che la reazione a questo profondo insegnamento buddhista sia quella di pensare nuovamente: “Sono cattivo, sono stupido perché non lo capisco,” oppure quello di andare all’estremo opposto dicendo: “Non esisto.” Quindi lasciatemi spiegare solo un po’.

Apparenze ingannevoli

Fondamentalmente, la mente fa apparire le cose in un modo che non corrisponde alla realtà. Questo accade automaticamente. Tutti noi abbiamo esperienza d’una voce all’interno della nostra testa e la nostra mente la fa apparire come se ci fosse dentro qualcuno che sta parlando. Sembra che ci sia un autore della voce che sta parlando lì dentro e che dice: “Cosa dovrei fare ora? Oh no, questo sta per succedere.” Appare in questo modo, e pensiamo che l’autore di quella voce sia IO, un IO solidamente esistente.

Quando parliamo delle cosiddette “apparenze ingannevoli,” ci riferiamo al normale tipo di apparenze che tutti noi abbiamo, come questa. La nostra mente la fa apparire come se ci fosse una piccola persona, un “io” interiore che siede nel pannello di controllo della nostra testa. Tutte queste informazioni giungono ai nostri occhi e alle nostre orecchie e poi questo piccolo io dice: “Oh, cosa dovrei fare? Forse dovrei fare questo, forse dovrei fare quello. Oh farò questo…” E quindi preme un bottone che fa dire al corpo questo o quello.

Abbiamo la concezione di un io solido che crediamo sia vera. Questo è soltanto il modo in cui la mente fa apparire le cose in modo ingannevole, ed è la base della paura in tutta questa sindrome del “Dovrei fare questo e cosa dovrei fare?” E del “Voglio essere buono” e “Non voglio essere cattivo.” Ma la realtà è che non esiste nessun piccolo solido personaggio nella nostra testa. Dove si trova? Quello lì, così preoccupato perché non sa cosa dovrebbe fare e ha tanta paura di fare la cosa sbagliata. Quando noi stessi ci aggrappiamo all’idea d’esistere effettivamente come questo “io” – questa parola aggrapparsi non è così facile da capire – sorge in noi la paura.

Aggrapparsi

Esploriamo il termine aggrapparsi. L’immagine che mi viene in mente è quella di un ratto che sta affogando in una pozza d’acqua e che cerca di aggrapparsi a tutto ciò che gli galleggia intorno per cercare di non affogare stando a galla. Quando parliamo d’aggrapparsi, c’è sempre una situazione disperata nella quale siamo tremendamente insicuri e confusi. Quindi ci aggrappiamo a qualsiasi cosa, come fa il ratto che sta per affogare, per cercare di stabilizzare in qualche modo la situazione. Ad esempio, quando ci troviamo in una situazione difficile con qualcuno, ci aggrappiamo a qualunque cosa questa persona faccia e pensiamo: “Ah, questo vuol dire che non mi ami davvero,” oppure: “Questo vuol dire che non mi ami affatto.”

Oppure, ci troviamo in una relazione difficile e l’altra persona è sempre lì a criticarci e a fare cose ridicole, cose molto negative nei nostri confronti. Ma non vogliamo ammetterlo ed abbiamo paura di essere abbandonati, quindi ci aggrappiamo a qualcosa. Supponiamo di fare sesso insieme a questa persona, ed anche se ci sta solo usando per la sua gratificazione sessuale, ci aggrappiamo a questo e pensiamo: “Il fatto che questa persona fa sesso con me vuol dire almeno che mi ama veramente.” Ci aggrappiamo fortemente a questo pensiero, come il ratto che affoga, perché se lo lasciamo andare abbiamo paura d’affogare, d’essere abbandonati.

La vita è simile a questo. È terrificante. Non sappiamo cosa fare. Ci mette in confusione. Vogliamo qualcosa di stabile e quindi ci aggrappiamo a qualche mito che abbiamo proiettato. Ci aggrappiamo a qualcosa che sentiamo possa darci maggiore stabilità e sicurezza, qualcosa che ci dia il senso di una vera e solida esistenza. Ad esempio, ci aggrappiamo a quella voce nella nostra testa e pensiamo: “Sono io!” Oppure possiamo aggrapparci a qualunque altra cosa: il nostro corpo, la nostra professione, la macchina, il cane, qualunque cosa. È un processo estremamente complesso; ora non abbiamo il tempo d’approfondirlo. Che sia conscia o inconscia, quella profonda sensazione è presente, la sensazione che se non ci aggrappiamo a qualcosa, affogheremo.

Abbiamo un atteggiamento simile nei confronti delle leggi: ci afferriamo a ciò che dovrei o non dovrei fare perché sentiamo che se non abbiamo quella struttura e non abbiamo il controllo sulle cose, allora affogheremo. La realtà è che possiamo nuotare; l’opzione di nuotare è aperta e noi possiamo nuotare. Non è necessario aggrapparsi o attaccarsi a nulla. Possiamo gestire la vita in modo molto spontaneo e aperto. Ovviamente con saggezza e distinguendo ciò che è utile da ciò che è dannoso. Ma la conoscenza di ciò che è utile e dannoso non consiste in un un blocco solido di regole incise nella pietra.

Il pensiero concettuale verbale

Per alcune persone la mente lavora concettualmente con il suono delle parole. Va bene. È così. Niente di speciale, niente che faccia crollare il mondo. Anche se sembra che vi sia un piccolo personaggio lì dentro che pronuncia quelle parole, non c’è nulla. Il suono delle parole nella nostra testa è solo il modo in cui la mente funziona. Funziona con i pensieri concettuali che in genere hanno il suono delle parole associato ad essi.

Possiamo ancora prendere delle decisioni, e possiamo pure farlo pensando con le parole, ma senza basarle su quest’idea di un io solido che parla dentro la nostra testa, che si preoccupa ed è così impaurito di fare la cosa sbagliata: “Cosa dovrei fare?” Fallo e basta. Agisci distinguendo quello che è utile da quello che è dannoso nella vita. Naturalmente non vogliamo fare nulla di dannoso, ma non dobbiamo neppure ingigantire noi stessi pensando che io sono totalmente responsabile di tutto ciò che accade. Non lo siamo. Possiamo contribuire ad una situazione ma non ne siamo l’unica causa. Possiamo temere di provocare un danno, ma senza averne paura.

Possiamo non volere fortemente di provocare un danno e questo è diverso dall’aver paura di farlo. È una forte intenzione: “Non voglio causare danno; proverò a non causare danno. Non voglio danneggiare gli altri o danneggiare me stesso.” Non c’è un io solido lì dentro che trema di paura a causa di tutto ciò. Ma nel realizzare questo, dobbiamo essere attenti a non negare l’io convenzionale: “Sono qui, sto facendo questo e non voglio fare quest’altro” e così via. “Non voglio provare sofferenza.” L’io convenzionale esiste meramente in dipendenza da quello a cui la parola io si riferisce, designato in base alla continuità di momenti della nostra esperienza individuale.

In breve, anche se non è facile, l’unico modo per superare la paura è attraverso la comprensione della vacuità. Da una parte non c’è niente di cui avere paura e nessuno di cui avere paura. Dall’altra parte dobbiamo essere attenti a non negare completamente noi stessi, come se non esistessimo affatto. È davvero necessario avere un sentiero intermedio che non ci conduca né ad un estremo di paura né ad uno in cui “Non importa cosa faccio, perché io in realtà non esisto.” Quando sorge in noi la preoccupazione del “Cosa dovrei fare?” E del “Voglio essere buono, non voglio essere cattivo,” quando facciamo questa esperienza, dobbiamo cercare di riconoscere che proviene da questa concezione errata dell’esistenza di un piccolo io solido lì dentro, un bambino che piagnucola: “Cosa dovrei fare?”

Il metodo d’insegnamento del Buddha

Un esempio del metodo d’insegnamento del Buddha basato su questa comprensione dell’io, è quello di una madre che andò una volta dal Buddha portando il suo bambino morto. Lei implorò il Buddha dicendo: “Buddha, per favore riporta in vita il mio bambino.” Il Buddha rispose: “Prima devi portarmi un seme di mostarda proveniente dalla casa di una famiglia che non è stata mai visitata dalla morte, e dopo potremo riparlarne.” La madre vagò di casa in casa e presto realizzò che la morte era stata da tutti, in ciascuna famiglia. In questo modo fu in grado di fare pace con la morte del figlio. Capì da sola. Il Buddha non disse: “Non dovresti farmi questa domanda. È stupida perché tutti muoiono. Ricorda l’impermanenza e la morte. Non va bene che tu chieda questo.” E non disse: “Oh va tutto bene, il tuo bambino è andato in paradiso o in qualche campo di Buddha.” Invece, il Buddha creò le circostanze affinché lei stessa potesse comprendere la morte di suo figlio.

Allo stesso modo, quando siamo noi stessi a mettere insieme i pezzetti del puzzle del Dharma, ciò lascia un’impronta molto più profonda. Se andiamo dal maestro chiedendo: “Cosa dovrei fare? Dammi la risposta così che non devo pensare e decidere da solo, perché ho paura di fare la scelta sbagliata.” Questo compromette l’intero processo di crescita spirituale che stiamo cercando nel Buddhismo. Invece, come dicevo, abbiamo bisogno di fare attenzione a ciò che facciamo, di assumerci la responsabilità delle nostre azioni e di ottenere noi stessi la comprensione. Prestare attenzione ed essere prudenti non vuol dire avere paura. Essere prudenti vuol dire prendersi cura, avere a cuore le conseguenze che le nostre azioni hanno su noi stessi e gli altri. Tale cura è una caratteristica della compassione, il desiderio di essere liberi dalla sofferenza. Prendersi cura è anche un’affermazione dell’esistenza dell’io convenzionale – non l’io solido – che proverà i risultati di ciò che scegliamo di fare.

Quinta sessione: stabilire relazioni sane con i maestri spirituali

Affrontare situazioni problematiche

Abbiamo trattato l’argomento del cosa dovrei e cosa non dovrei fare e della paura che ne deriva, e così via. Abbiamo visto come l’intera questione ruoti intorno ad una concezione errata di noi stessi. Abbiamo bisogno di fare una chiara distinzione tra l’esistenza convenzionale, consueta di noi stessi e di tutto ciò che ci circonda, e l’esistenza solida, quella che davvero non esiste affatto. Ricordate, quando si parla di vacuità, si parla dell’assenza di modi impossibili di esistere, i quali non esistono assolutamente.

Allora, come esistono le cose effettivamente? Nel Buddhismo diciamo che tutte le cose esistono in quanto sorgono in dipendenza da molti, molti fattori: cause, parti, le imputazioni mentali e i concetti per quest’ultimi, e così via. Restiamo ora al livello in cui le cose sorgono ed esistono in dipendenza da cause e condizioni. Da questo punto di vista, possiamo dire che le cose non sono solide – solide nel senso di sorgere in modo solido solo da una singola causa – ma che tutto è complesso e pertanto sorge in seguito a interazioni molto complesse.

Ad esempio, quando affrontiamo delle situazioni, le cose non sono bianche o nere: “Dovresti fare questo e non dovresti fare quest’altro” e, per via di questo, c’è un solo modo di comportarsi che è corretto e l’altro è sbagliato. In realtà, ogni situazione problematica in cui potremmo trovarci è molto complessa e la soluzione dipenderà da moltissimi fattori. Quindi, decidere cosa fare richiede una notevole dose di sensibilità e consapevolezza. Quando iniziamo a superare questa sindrome del “dovrei” e “non dovrei” e del seguire le leggi indiscriminatamente, ciò non vuol dire che non ha importanza quello che decidiamo o che facciamo, perché è tutto nella nostra immaginazione. Significa che invece d’essere rigidi nella nostra abilità di risolvere situazioni problematiche – “Ecco il libro delle regole, ora lo consulto solamente e mi comporto di conseguenza,” che sarebbe il modo rigido, solido di reagire in base al “dovrei” e “non dovrei” – usiamo la nostra discriminazione, la nostra saggezza e tutta la nostra esperienza per trovare la soluzione appropriata alla situazione. Questo richiede molta flessibilità. Più sono i fattori che prendiamo in considerazione per cercare di risolvere il problema, più possibilità avremo di risolverlo saggiamente. Quando non consideriamo molti fattori, la soluzione che troveremo non risolverà veramente il problema.

Quando diciamo pertanto che le cose non sono nere o bianche, questo non nega il fatto che possiamo avere soluzioni efficaci o inefficaci per un problema. È importante tenerlo a mente. Inoltre, dobbiamo ricordare che non siamo Dio. Non possiamo risolvere tutti i problemi con un semplice schiocco delle dita.

Ci sono domande su questo punto prima di andare avanti?

Accumulare forza positiva per realizzare la vacuità

Partecipante: È possibile realizzare la vacuità da soli durante una sessione di meditazione e come si ottiene? O è possibile solo se ci viene introdotta da un maestro?

Alex: Tsongkhapa non era un uomo stupido. Ha lavorato molto intensamente e certamente aveva una comprensione della vacuità molto più profonda di quella della maggior parte di noi. Comunque, si rese conto che per ottenere una corretta comprensione non concettuale della vacuità aveva bisogno di accumulare maggiore potenziale positivo, che in genere viene tradotto con “merito.” Trovandosi ad uno stadio molto avanzato lungo il sentiero, decise che fosse necessario fare tre milioni e mezzo di prostrazioni e, non ricordo il numero esatto, milioni di offerte del mandala. Dopo aver fatto tutto ciò, fu in grado di comprendere la vacuità correttamente e non concettualmente. Credo che questo sia un insegnamento molto importante. Sia che ci sediamo e cerchiamo da soli di comprendere la vacuità, sia che un insegnante venga e dica: “Alex, questa è la vacuità, vacuità, questo è Alex, permettetemi di presentarvi;” se non abbiamo quel potenziale positivo, il cosiddetto “merito,” non accadrà nulla.

Si sente spesso parlare della necessità di accumulare le due raccolte di merito e intuizione, quelle che io preferisco chiamare “scorte” o “reti” di “potenziale positivo” o “forza positiva” e “profonda consapevolezza.” A prescindere da come li chiamiamo, credo che queste due siano estremamente importanti, e qualcosa di molto vero, come ho notato nella mia esperienza personale. Quando cerchiamo di capire o di conseguire qualcosa, che sia nella meditazione oppure scrivere un libro o quando cerchiamo di risolvere un problema o qualsiasi altra cosa, a volte raggiungiamo un punto in cui c’è una sorta di blocco mentale. Non riusciamo a proseguire. Raggiungiamo un punto di stallo. Il problema è che in quello stato la nostra energia è troppo debole per andare oltre. Abbiamo bisogno di energia positiva, di forza o potenziale positivi per andare oltre. Questo è il merito. Non si tratta di accumulare punti come se dovessimo vincere ad un gioco. In situazioni del genere in cui siamo bloccati, quello che aiuta è mettere da parte le cose che stiamo facendo e agire positivamente, ad esempio andando ad aiutare gli altri.

Questo può essere fatto in vari modi. Ce n’è uno particolarmente semplice che uso tutte le volte che non riesco a capire qualcosa e voglio rendere chiara la mia mente in modo veloce, ad esempio quando sto scrivendo un libro e non mi viene in mente la parola giusta o come esprimere qualcosa chiaramente. Il metodo che uso consiste nel fermarmi e ripetere il mantra di Manjushri con le appropriate visualizzazioni. Lo trovo di grande aiuto. Se c’impuntiamo – “Devo capire, devo capire!” – senza fare qualcosa come ripetere un mantra, allora scusate l’immagine, è un po’ come stare sul gabinetto costipati e sforzarsi di defecare. Non accadrà nulla. Ci darà soltanto un grande disagio.

È davvero importante rilassarsi per ottenere maggiore chiarezza, e questo tipo di mantra è molto efficace in questo senso. Specialmente quando voglio che la mia mente sia molto chiara ed acuta e quindi genero una forte intenzione e desiderio d’essere così, allora il mantra diventa ancora più efficace. E diventa ancora più efficace quando accompagno la recitazione con visualizzazioni che aiutano la mia mente a concentrarsi in modo acuto. In quella situazione, è come se aggiungessimo qualcosa alla formula. Aggiungiamo la forza ed il potenziale positivo che deriva dalla recitazione del mantra per aiutarci a superare il blocco mentale. Trovo che funzioni. Nella maggior parte dei casi è molto efficace. Poi, se siamo molto aperti, la soluzione arriverà, senza forzarla.

Questa è una di quelle situazioni in cui c’è bisogno di una soluzione immediata, come quando non riesco a trovare la parola giusta in una traduzione. Ci sono altre situazioni nelle quali la nostra energia si fa un po’ fiacca. Nella mia esperienza, quando viaggio e insegno, considero questa situazione come fosse un ritiro di bodhicitta, e questo mi aiuta. Potrei pensare: “Questo mi distrae terribilmente dalla scrittura,” ed in un certo senso rimpiangere il tempo che trascorro lontano dalla mia scrivania e dal computer. Oppure posso considerarla una cosa estremamente positiva che mi aiuterà a scrivere in modo più chiaro.

Sto solo usando esempi della mia vita, ma quest’approccio potrebbe essere applicato alla vita di chiunque, se siamo bloccati in qualche situazione a casa, in famiglia, o in qualche relazione. Se usciamo e facciamo qualcosa di positivo, del volontariato in un ospedale o qualsiasi altra cosa che potrebbe essere appropriata alla nostra situazione, questa farà una grande differenza e ci farà accumulare forza e potenziale positivo.

Quest’approccio d’accumulare una scorta di potenziale positivo, non è limitato a quando abbiamo un blocco mentale. Ad esempio prima di partire per questo ciclo di conferenze, la mia scrittura procedeva benissimo. Non avevo alcun blocco. Ma in un certo senso può andare ancora meglio, voglio avere ancora più energia. Non credo che Tsongkhapa avesse un blocco e non riuscisse a capire nulla. Piuttosto, penso comprese che per provare qualcosa di davvero brillante, per ottenere la cognizione non concettuale della vacuità, avrebbe avuto bisogno di un’energia positiva ancora superiore.

L’accumulazione di potenziale positivo non richiede necessariamente di partire per un ritiro di bodhicitta, come faccio io quando lascio la scrittura per viaggiare ed insegnare. Meditare ed aiutare gli altri: le due cose possono essere unite insieme. Non vuol dire che siccome abbiamo un blocco smettiamo di meditare sulla vacuità; dobbiamo invece aggiungere dell’energia positiva. Possiamo farlo tra una meditazione e l’altra. Credo che questo sia davvero molto importante. Non è sufficiente stare solo seduti a meditare, davvero non lo è. Dobbiamo anche essere davvero attivi, accumulare davvero sempre più forza positiva e fare delle cose per aiutare effettivamente gli altri.

L’importanza d’avere un maestro spirituale

Questo ci porta al tema del maestro spirituale. Qual è il ruolo del maestro in questo processo? Naturalmente abbiamo l’esempio dei pratyekabuddha. Non dobbiamo dimenticarci dei pratyekabuddha. Questo è un tipo di sentiero che è stato insegnato dal Buddha. Li troviamo nell’albero del rifugio. I pratyekabuddha sono quei praticanti vissuti in epoche buie nelle quali non vi erano Buddha né maestri. Per poter meditare e progredire essi potevano fare affidamento unicamente sul loro istinto relativo al Dharma, istinto che avevano accumulato nelle vite precedenti quando erano stati a contatto con gli insegnamenti dei Buddha.

Se ci riflettiamo, i pratyekabuddha sono molto coraggiosi. Meritano rispetto. Non dobbiamo pensare: “Oh, questi orribili individui egoisti che se ne stanno da soli nelle caverne.” Ma ora che ci sono Buddha e maestri intorno a noi, la domanda è: “Abbiamo bisogno di fare affidamento su di loro o no, e cosa vuol dire in realtà affidarsi a loro?” Credo che l’argomento del maestro spirituale sia estremamente difficile da capire.

Si possono dire molte cose sulla relazione maestro-discepolo, da numerosi punti di vista; in questa occasione non sarà necessario esaminarle tutte. Credo che ad un livello molto pratico, parlando di un maestro propriamente qualificato e non di un buffone che va in giro raccontando di essere un maestro, una delle cose veramente importanti consista nel fatto che il maestro rende gli insegnamenti umani; “reali” è un termine un po’ troppo forte. Il maestro rende il Dharma umano. Se non avessimo un maestro e dovessimo imparare unicamente dai libri, allora l’immagine o idea di cosa voglia dire comprendere questi insegnamenti e tradurli nella vita sarebbe basata unicamente sulla nostra immaginazione. In altre parole, non avremmo un esempio vivente di ciò che voglia dire non solo comprendere gli insegnamenti, ma anche metterli in pratica nella vita. Avere un esempio vivente è per noi di grande ispirazione per cercare di capire ed interiorizzare noi stessi gli insegnamenti.

Due sono i fattori implicati nell’apprendimento degli insegnamenti. Uno consiste nel raggiungere un’accurata comprensione tecnica di uno specifico insegnamento, come la vacuità. Questo è uno, ed un maestro può rispondere alle domande, cosa che un libro non può fare. Ma, oltre ad avere un’accurata comprensione tecnica, il maestro ci fornisce l’esempio vivente di come questa comprensione venga tradotta nella vita. Credo che questo sia davvero molto, molto importante.

Se osserviamo qualcuno come Sua Santità il Dalai Lama, possiamo certamente affermare che ha una comprensione della vacuità e una realizzazione di bodhicitta altamente sviluppate. Da qualunque punto di vista, dovremmo essere d’accordo su questo. Domandare – “A quale stadio del bodhisattva si trova?” – come se stessimo parlando di una scheda a punti, è infantile. Che importanza ha? Ma quello che possiamo capire dal modo in cui agisce è che la sua comprensione del Dharma non si traduce in una sorta di persona fuori dal mondo con la testa tra le nuvole che non riesce a funzionare nella vita. Dall’esempio di Sua Santità appare molto chiaramente cosa voglia dire possedere quella combinazione di saggezza e compassione. Questo è certamente un aspetto di grande importanza quando parliamo d’essere introdotti al Dharma o, nello specifico, alla vacuità.

Essere introdotti al Dharma

Ci sono molti modi per essere introdotti al Dharma. Uno di essi è quando il maestro crea una situazione per la quale siamo emotivamente scossi in modo che lo shock ci smuova fuori dal nostro guscio e ci faccia ottenere una realizzazione. È una sorta di stile Zen caratteristico di alcuni maestri tibetani, ma non di molti. Ghesce Wangyal, un maestro mongolo calmucco che si trovava negli Stati Uniti, usava questo metodo con grande destrezza. Morì molti anni fa, e di solito faceva costruire ai suoi studenti cose quali una casa ed un tempio per lui stesso e per loro. Una volta, uno dei suoi studenti si stava impegnando molto duramente nella costruzione della casa per Ghesce-la e stava lavorando al tetto. Un giorno, Ghesce-la si arrampicò sul tetto, andò da lui e gli disse: “Cosa stai facendo?! Stai sbagliando tutto! Stai rovinando tutto! Vattene da qui!!” E lo studente disse: “Cosa vuol dire che sto sbagliando tutto?! Lo sto facendo esattamente nel modo in cui mi ha detto di farlo e sono mesi e mesi che faccio così!” Ghesce Wangyal rispose immediatamente: “A-ha! Ecco ‘l’io’ che va confutato.”

Il maestro può creare una situazione del genere per introdurci alla vacuità, nel senso che quella situazione, tramite l’emozione, ci fa capire ed ottenere un’intuizione. Richiede comunque una grande abilità per essere in grado di farla per bene. Questo è un modo in cui possiamo essere introdotti ad alcuni aspetti del Dharma. Un libro non lo può fare.

Un secondo modo è ricevere una spiegazione molto chiara. Un libro può farlo. Una chiara spiegazione di un maestro può essere messa per iscritto in un libro. Ma non importa quanto essa sia chiara, se abbiamo qualche blocco mentale non saremo in grado di capirla. E quindi c’è un altro metodo: quello per il quale il maestro lascia che siamo noi stessi a mettere insieme i pezzi del puzzle, dandoci un pezzo alla volta, invece d’imboccarci con il Dharma come se fossimo un bambino piccolo.

Un altro metodo per essere introdotti è osservare l’esempio di un maestro che comprende il Dharma. In ogni caso, anche se leggiamo una spiegazione chiara in un libro, qualcuno deve aver scritto quel libro. Quindi, è necessario che vi sia stato un maestro, sia che l’abbiamo incontrato oppure no. In un certo senso, è come se lo avessimo incontrato, anche se la persona è morta da lungo tempo, perché incontriamo le parole di quel maestro leggendole nel libro. A meno che non siamo dei pratyekabuddha, non dobbiamo inventare di nuovo la ruota; non dobbiamo ottenere da soli quella comprensione in quanto proviene da qualcuno, da un maestro.

Un maestro è quindi di grande importanza. In realtà, nel maestro, è necessario vi sia una combinazione di tutti questi aspetti. Abbiamo bisogno d’un maestro che ci dia informazioni chiare e corrette, che sia un esempio vivente di ciò che stiamo cercando d’imparare e che ci possa ispirare. Ed abbiamo anche bisogno d’un maestro che sappia creare delle circostanze che ci portino ad ottenere delle intuizioni e che ci dia un pezzo del puzzle alla volta, nel modo giusto.

Relazioni personali impersonali

Ci sono molti aspetti della relazione tra maestro spirituale e studente di cui si potrebbe parlare; un tema sempre presente tra gli occidentali è il desiderio di ricevere attenzione personale. Abbiamo un forte senso di individualità. Tutti pensano: “Sono speciale e dovrei ricevere un’attenzione speciale.” Il modello, naturalmente, è quello dello psicologo o qualcuno del genere che paghiamo e da cui riceviamo un trattamento personale. Questo però non è sempre disponibile in un contesto buddhista. È buffo. Cerchiamo “il MIO maestro che sarà speciale per ME,” ed abbiamo un’immagine holliwoodiana di come dovrebbe essere questa relazione. Non vogliamo che assomigli a quella tra Milarepa e Marpa: non vogliamo che il maestro ci faccia lavorare troppo duramente.

Voglio farvi l’esempio della mia relazione con Serkong Rinpoche. Ho avuto l’incredibile privilegio di stargli vicino e servirlo per circa nove anni come interprete, segretario inglese, organizzatore dei suoi viaggi all’estero, ecc., ed ero anche suo discepolo personale. Questa relazione è durata fino alla sua morte nel 1983. Devo comunque dire che questo rapporto è stato “personale impersonale.” Egli non mi ha mai chiesto nulla della mia vita personale, mai. Non mi ha mai domandato della famiglia o cose del genere. Ed io non ho mai sentito la necessità di dirgli nulla della mia vita personale. Ma, nonostante ciò, avevamo una relazione molto intima nel senso che in ogni istante affrontavamo il momento presente.

Lavoravamo insieme, ma in un modo molto speciale. Lo chiamerei “personale impersonale” nel senso che non si trattava di due grossi ego che dicevano: “Lavoriamo insieme, TU e IO.” E non era neppure il tipo di situazione personale in cui ci si scambia lo spazzolino da denti, nel quale io ti racconto tutto di me e tu mi dici tutto di te. Sarebbe come mostrare all’altro la propria biancheria sporca. In quel senso, la relazione era impersonale. Ma era anche personale nel senso che lui capiva il mio carattere e la mia personalità ed il nostro lavoro insieme si basava sul rispetto di questo. Io capivo la sua età, i suoi bisogni ed esigenze, ed in questo senso era personale, ma impersonale.

Credo che uno dei fattori principali per il successo di quella relazione fosse il grande rispetto reciproco ed il fatto che entrambi lavoravamo insieme da adulti maturi. Da adulto, non mi avvicinavo a lui in maniera infantile cercando la sua approvazione o cercando di renderlo responsabile per tutte le cose della mia vita, delegando a lui il controllo. Questo non voleva dire abbracciare l’estremo opposto: “Voglio avere io il controllo e tu non mi puoi dire cosa devo fare.” Lo consultavo per le scelte importanti della mia vita, ma poi prendevo le mie decisioni da solo, anche se l’avevo consultato. È come se, invece di comportarmi come un bambino che chiede: “Cosa dovrei fare?” – ecco che ritorna il tema del “dovrei” – gli domandavo se fosse di maggior beneficio fare una cosa oppure un’altra.

Ad esempio, al termine del secondo tour mondiale insieme, gli domandai: “Sarebbe meglio se restassi negli Stati Uniti per trascorrere un po’ di tempo con la mia famiglia, o sarebbe meglio tornare in India con lei per partecipare al primo festival di preghiera del Monlam che Sua Santità il Dalai Lama terrà nell’India del sud? Cos’è di maggior beneficio?” Gli domandavo questo tipo di cose quando non riuscivo a prendere da solo una decisione. Rinpoche mi consigliò di andare al festival di preghiera perché si trattava di un evento storico molto importante, ed io seguii il suo consiglio. Non è che m’impartisse ordini ed io da soldato rispondevo: “Sissignore!” Non gli stavo chiedendo degli ordini. Mi mostrava la situazione con maggiore chiarezza ed in una prospettiva più ampia, in modo che potessi decidere usando la mia saggezza. In altre situazioni, quando avevo già la mia idea su cosa fosse meglio fare, gli domandavo se egli prevedesse qualche problema nella mia decisione di fare quella cosa.

Credo che questo sia molto importante nella relazione con il maestro. Se c’aspettiamo una relazione molto personale e individuale, stiamo dando a noi stessi un po’ più importanza di quanta potremmo meritarci. Chiedere attenzione personale vuol dire dare grande importanza a noi stessi. Inoltre, con questo tipo di richiesta, si rischia di cadere nella trappola di vedere noi stessi come un bambino ed il maestro come il nostro genitore, oppure noi stessi come un adolescente ed il maestro come una pop-star. E potrebbero anche esserci fantasie di tipo romantico.

L’analogia dell’ape e dei fiori

Instaurare una relazione personale impersonale con un maestro spirituale non è una cosa così semplice. E l’importanza di riuscirci non è soltanto limitata alla relazione con il nostro maestro spirituale. Sarebbe utile se questo approccio fosse la caratteristica delle nostre relazioni con chiunque. Shantideva scrisse che sarebbe estremamente utile, nelle nostre relazioni con gli altri, comportarsi come l’ape che vola di fiore in fiore cercando soltanto l’essenza del fiore, ma senza attaccarsi a nessun fiore.

Prendo nuovamente ad esempio Serkong Rinpoche. Non aveva un migliore amico. Piuttosto, chiunque si trovasse davanti a lui in quel momento era il suo migliore amico. Questo comportamento rispecchia la sua apertura, quella di cui parlavamo nella prima sessione: considerare gli altri come se fossero tutti i nostri migliori amici. Quando siamo così con qualcuno, il nostro cuore è totalmente aperto verso quella persona. È un rapporto personale nel senso che stiamo comunicando a cuore aperto. Ma non è necessario mostrarsi reciprocamente i panni sporchi. Non è necessario addentrarsi in dettagli personali che, in un certo senso, speriamo che spingano l’altro a consolarci.

Entrare in tutti quei dettagli è un po’ come riversare i nostri guai sull’altra persona e fare in modo che anch’essa ne rimanga invischiata. Tutti noi abbiamo i nostri piccoli guai personali che dobbiamo affrontare nella vita, ma questi non dovrebbero diventare un peso per le altre persone e per la nostra relazione con esse. Possiamo relazionarci con gli altri in modo totalmente aperto, come se fossero i nostri migliori amici. Possiamo entrare in contatto con il cuore di ogni persona, ma senza attaccarci a lui o lei; in questo modo è possibile essere ugualmente aperti con tutti, come l’ape che va di fiore in fiore: coinvolti intimamente con il nostro cuore, ma non attaccati.

È questo il tipo di relazione che avremmo anche con il maestro. Quando ci troviamo con il maestro, c’è una forte apertura diretta nella comunicazione, ma dopo usciamo e l’altra persona entra. Se abbiamo un atteggiamento del tipo “VOGLIO IL MIO GURU!” diventiamo molto gelosi e possessivi ed è una tortura assoluta: “C’è quel gruppo di persone strette intorno al maestro ed io non ne faccio parte” e…ah, che sofferenza! Ma tutti noi dobbiamo lavare i nostri panni sporchi. Dobbiamo affrontare i nostri guai. Non bisogna aspettarsi che se ne occupi il maestro.

Evitare l’estremo di spersonalizzare gli altri

Quando ci rapportiamo a qualcuno in questo modo, in questo modo impersonale, che si tratti del maestro o di un amico, ci sono due livelli: il livello più profondo ed il livello convenzionale, relativo. Al livello più profondo tutti sono uguali e nessuno è speciale: questo si riferisce all’aspetto impersonale di qualsiasi relazione. Ma, a livello convenzionale, le persone sono individui e questo si riferisce all’aspetto personale.

È molto importante evitare l’estremo di relazionarsi con qualcuno solo al livello più profondo. Dobbiamo provare a non dimenticarci mai di vedere una persona come un individuo. In altre parole, se mi relaziono con voi in modo troppo impersonale, allora in un certo modo non sto avendo nessun rapporto con voi, anche se è una relazione a cuore aperto. Dobbiamo evitare di pensare: “Tu sei il flusso mentale numero 14762 e quest’altra persona è il flusso mentale numero 14763, e io sarò ugualmente aperto ed emotivamente amico di ogni flusso mentale di ogni numero seriale.” Questo sarebbe un errore. Vorrebbe dire portare – nel Dharma – il tema degli “esseri senzienti” all’estremo della spersonalizzazione di tutti. Dobbiamo sempre ricordarci che l’altra persona, dal suo punto di vista, guarda a se stessa in un modo molto personale. È una cosa da considerare.

Vorrei farvi l’esempio di quando mia madre morì l’anno scorso. All’inizio, quando morì, feci per lei varie pratiche e recitai delle preghiere, ma in modo impersonale; la consideravo come il flusso mentale tal dei tali. Per evitare il dolore dell’attaccamento la consideravo non solo mia madre, ma come qualcuno che stava passando da molte vite passate a molte vite future, come accade a chiunque altro. Dopotutto, il Buddhismo c’insegna che tutti in passato sono stati nostre madri. Quindi il mio modo di rapportarmi a lei nello stadio intermedio del bardo era piuttosto astratto.

Poi, dopo aver discusso di questa esperienza con un caro amico, capii che sarebbe stato molto più utile guardare alla situazione dal punto di vista di mia madre che si trovava nel bardo, piuttosto che dal mio punto di vista di praticante del Dharma che ha qualche comprensione delle vite passate e future, della mancanza di un’identità solida e così via. Dal punto di vista di mia madre nel bardo, lei era sempre aggrappata alla sua vecchia identità di Rose Berzin e lei guardava ancora a me come suo figlio.

Cambiai immediatamente la pratica che stavo svolgendo per aiutarla nel periodo del bardo e le parlai direttamente. In quei giorni stavo insegnando in Cile e poi a Tahiti e la invitai a venire con me in ciascuna sessione e a stare con me. Iniziai anche a recitare il tipo di preghiere e cose che le piacevano, che la facevano sentire a suo agio. In altre parole, cercavo di sentire la paura che lei avrebbe potuto provare e cercavo di calmarla con qualcosa di appropriato a lei.

Ad esempio, a mia madre piaceva il canto dei mantra buddhisti. Le dava molta calma. Quindi, anche se non era esattamente il tipo di cosa che avrei considerato utile per me stesso se mi fossi trovato nel bardo, iniziai a cantare in quel modo che le infondeva molta calma. E nel fare questo, sentii che mi mettevo in connessione con lei. Resi personale ciò che stavo facendo per lei. Presi seriamente la sua esperienza al livello relativo della sua realtà. Questo è il punto. Se fossero state le preghiere cristiane o ebraiche o altre cose a calmare mia madre, avrei fatto quelle. Ma a mia madre piaceva ascoltare i mantra cantati molto lentamente. Come ho detto, avvertii un grande cambiamento quando iniziai a fare questo.

In precedenza, quando dicevo in modo più astratto: “Mi auguro che tu possa essere felice, d’essere connesso a te in tutte le vite e mi auguro che tu abbia sempre una preziosa vita umana; e mi auguro di poterti condurre verso l’illuminazione in tutte le vite,” con tutte queste formule astratte e bei pensieri, non ero davvero in connessione con lei come persona. Ma quest’altro modo lo trovai molto più efficace. Sentii che stavo davvero agendo per il suo beneficio, anche se naturalmente mantenni le preghiere generali. In breve, quando ci relazioniamo a qualcuno in modo impersonale personale come ho descritto, ciò non vuol dire negare di avere un rapporto con lui o lei come persona, rispettandone la specifica esperienza individuale.

Per dirla in termini più specifici: “Sono totalmente aperto verso di te ad un livello molto personale, ma senza aggrapparmi, senza tirare in ballo i miei e i tuoi guai personali. Ma, in tale contesto generale, sono sensibile verso di te come persona e verso la visione che hai di te stesso, così da poter avere un rapporto di comunicazione con te.” Tutto ciò ci porta all’uso dei cinque tipi di profonda consapevolezza per relazionarsi ad una persona; ma lasciamo questo argomento per un’altra volta.

Parlo di tutto questo per evidenziare una particolare difficoltà che dobbiamo affrontare nella pratica buddhista Mahayana quando facciamo le meditazioni sulla bodhicitta, sulla compassione e tutte le altre al livello di: “Mi auguro che tutti gli esseri senzienti possano essere felici,” mentre si cerca in maniera astratta di pensare a tutti gli esseri senzienti. È molto difficile avere l’abilità di trasformare “tutti gli esseri senzienti” nel contesto individuale della persona che ci sta di fronte – tu o tu. Se pratichiamo unicamente al livello di “tutti gli esseri senzienti,” a volte potremmo usarlo come scusa per non coinvolgerci personalmente con nessuno.

Ora, se il coinvolgimento personale in un certo senso implica l’aggrapparsi, con tutta la spazzatura che l’accompagna, allora abbiamo bisogno di un metodo che ci aiuti ad evitarlo. Ma quando abbiamo prestato attenzione almeno al problema dell’attaccamento e della rabbia grossolana e di tutte queste altre cose – risultato che non è certo facile da ottenere – abbiamo bisogno di coinvolgerci personalmente, ma con quel tipo di coinvolgimento che è personale impersonale: in altre parole, individuale ma senza attaccamento.

Tutto ciò che abbiamo detto finora riguardo alla relazione con il maestro spirituale non dipende da tutta la questione del maestro che viene visto o meno come un Buddha. Anche se non vediamo il maestro come un Buddha, ciò che ho descritto è necessario per poter avere una relazione significativa e di successo con quel maestro. È certo che per quanto riguarda il contesto nel quale il maestro è visto come un Buddha, è comunque necessario impegnarsi nella relazione da adulto e vedere il maestro come un adulto, non come mio padre e neppure come una pop-star o come quelle strane cose che tendiamo ad attribuire a loro, come qualcuno che dovrebbe avere una speciale relazione con me perché Io sono così speciale.

Avete delle domande?

La paura d’una relazione profonda con un maestro

Partecipante: Cerco di guardare a me stesso come ad una persona anonima in un grande gruppo di studenti che hanno molti maestri. Preferisco pensare di avere molti maestri piuttosto che avere una relazione personale con uno di loro.

Alex: Qui possono esserci dei problemi. Uno di questi può essere la paura d’impegnarsi e la paura dell’intimità, quella che può farci pensare: “Non voglio aprirmi veramente con un maestro perché perderei il controllo.” Ovviamente, per riuscire a superare questa paura ci vuole una certa comprensione della vacuità. Non c’è niente di cui aver paura nell’aprirsi con un maestro. Perché nel momento in cui ci apriamo non è che resta quel povero “io” privo di difese che verrà ferito. Oppure: “Verrò abbandonato e deluso.” Inoltre non è che mi apro con il maestro e scopro che lì non c’è assolutamente nulla e così mi trovo perso e in preda al caos. Aprirsi nei confronti di un maestro richiede una certa delicatezza nel comprendere il modo in cui esistiamo. Affinché la relazione con il maestro abbia successo, dev’essere matura, con un senso dell’“io” convenzionale ben radicato, che sappia distinguere tra ciò che è di beneficio e ciò che è dannoso, e tra ciò che è opportuno e ciò che è inopportuno. Altrimenti, una relazione immatura può essere piuttosto disastrosa.

Stabilire la relazione con un maestro spirituale procedendo lentamente

Partecipante: [tradotto] [Questa persona dice che] prima di prendere rifugio con un determinato maestro, bisogna controllarlo o controllarla bene; ma con una mente impura com’è possibile controllare un maestro in modo appropriato? E come si fa a capire se il maestro è un Buddha o no?

Alex: Quando diciamo che dobbiamo essere maturi affinché la relazione con un maestro spirituale funzioni davvero, questo non vuol dire che quando siamo ancora immaturi non dobbiamo rivolgerci ad un maestro. Non vuol dire che per rivolgerci ad un maestro dobbiamo aspettare di essere davvero maturi. Se così fosse, dovremmo aspettare davvero a lungo. Un maestro abile può aiutarci a maturare. Un maestro non abile, d’altra parte, può approfittarsi ed abusare di noi e della nostra immaturità. Quando ci avviciniamo ad un maestro dobbiamo riconoscere il fatto che non sappiamo se questa persona sia davvero qualificata o meno. Dobbiamo procedere molto lentamente e con cautela.

La relazione con un maestro spirituale è qualcosa che normalmente deve svilupparsi lentamente nel tempo, ed attraversare vari stadi. Anche vedere il maestro come un Buddha, aspetto che non è mai presente negli stadi iniziali, attraversa vari passaggi nel suo sviluppo. Non voglio addentrarmi troppo a fondo in questo argomento adesso, perché ci vorrebbe un bel po’ di tempo per spiegarlo. Ma quel tipo di relazione in cui vediamo il nostro maestro come Buddha è davvero rilevante solo quando saremo ad uno stadio molto avanzato della più alta classe della pratica del tantra, l’anuttarayoga.

Nella sua Grande Presentazione degli Stadi Graduali del Sentiero, il Lam-rim chen-mo, Tsongkhapa scrisse che una relazione genuina con il maestro è la radice del sentiero, e delineò questa relazione nei termini di vedere il guru come un Buddha. Bisogna però capire il contesto nel quale egli scrisse ciò e perché lo disse. È chiaro che Tsongkhapa scrisse e presentò questo punto a dei monaci già impegnati nella pratica del tantra. Questo può essere dedotto dal fatto che nella sua presentazione del sentiero il rifugio viene più avanti. Com’è possibile avere una relazione con un maestro, vedere il maestro come un Buddha, se non abbiamo ancora preso rifugio e non sappiamo cosa sia un Buddha? È chiaro che quest’istruzione di vedere il guru come un Buddha fosse destinata a coloro che hanno già preso rifugio e che s’impegnano nel tantra. Questo perché tutte le citazioni che Tsongkhapa usa per supportare la visione del guru come un Buddha provengono dai tantra. Quindi risulta chiaro che questo è principalmente un argomento del tantra. Tutto ciò ci fa capire che coloro tra di noi che non provengono da questo contesto, non sono monaci o monache già impegnati nella pratica del tantra supremo, non possono dare per scontate cose come il rifugio. Dobbiamo iniziare da uno stadio precedente.

Quando iniziamo a studiare con un maestro, specialmente se siamo degli occidentali, il fatto che “è un Buddha o meno?” non ha davvero alcuna rilevanza. Prima di tutto, quello che dobbiamo osservare è se si tratta di un buon insegnante. Spiega in modo chiaro? Cosa spiega? Quello che spiega è pertinente con i testi classici? È rilevante per la mia vita? È come se dovessimo esaminare qualunque insegnante, ad esempio quando vogliamo imparare una nuova lingua: riesce ad insegnarci in modo efficace?

Possiamo notare la sensazione generale che abbiamo quando ci troviamo in presenza di questa persona. Tramite la sensazione che abbiamo quando siamo insieme a questa persona, possiamo avere una certa sensibilità per capire che tipo di relazione possiamo avere con lui o lei. È qualcuno che c’ispira o qualcuno che non ci dice nulla? È qualcuno che davvero comunica con noi o qualcuno verso il quale non riusciamo a relazionarci? È possibile avvertire queste cose. Non c’è bisogno di chiaroveggenza e neppure di un gran livello di maturità.

Poi possiamo iniziare ad esaminare in maniera più attenta cose quali l’etica di questa persona: è una persona etica? Si tratta di qualcuno che molto facilmente si arrabbia o che è molto possessivo con gli studenti e cerca di controllare le loro vite? Allora possiamo chiedere agli altri studenti per capire in che modo questo maestro si comporti con loro. Questi sono alcuni metodi per esaminare un maestro, anche solo per decidere se vogliamo studiare con lui o no.

Poi, se siamo disposti ad instaurare un rapporto con questa persona in cui la vediamo come un Buddha, si tratta di qualcosa di molto differente e molto avanzato, e davvero non così rilevante negli stadi iniziali. Se abbiamo già preso rifugio, abbiamo già attraversato gli stadi di base del sentiero, siamo già impegnati nel tantra supremo e abbiamo questa forte relazione con il maestro, allora, se siamo qualcuno del genere, possiamo vedere il maestro come un Buddha, nel contesto di ciò che questo significa. Poi, se attraversiamo di nuovo tutti gli stadi del sentiero fin dall’inizio, così come nel caso d’un monaco che ripassa l’intero sentiero graduale ascoltando il Lam-rim chen-mo di Tsongkhapa per prepararsi a ricevere un’iniziazione tantrica, allora la relazione con un maestro visto come un Buddha sarà la radice del successo nel percorrere l’intero sentiero. Allora farà una grande differenza.

Non perdere la nostra facoltà critica

Dobbiamo comprendere le cose all’interno del loro contesto appropriato. Non è facile. Ma, specialmente all’inizio, credo sia importante non perdere l’atteggiamento critico verso un maestro. Più tardi, quando ci relazioneremo al maestro come ad un Buddha, allora questo sarà uno speciale contratto con questo maestro, che richiede una tremenda maturità emotiva. Quello che diciamo fondamentalmente con questo tipo di contratto è: “Tu sei un Buddha e questo vuol dire che non importa ciò che fai, io ti vedrò comunque come un Buddha che sta cercando d’insegnarmi qualcosa.” Ricordate, l’esistenza delle cose non è stabilita dal loro lato, in modo indipendente da tutto il resto. Quindi l’esistenza di questo tipo di relazione con il maestro è stabilita in relazione alla situazione per la quale: “Tu mi stai aiutando a crescere.”

Fondamentalmente ciò che diciamo nella nostra mente al nostro maestro è: “Non m’importa quale sia la tua motivazione e non m’importa se tu sia oggettivamente illuminato o meno. Piuttosto, userò l’opportunità di questa relazione con te per crescere ed imparare costantemente. Se mi dici di fare qualcosa di stupido non mi rivolgerò a te dicendo ‘Sei stupido,’ arrabbiandomi con te. Invece vedrò la cosa in questi termini: ‘Mi hai detto di fare qualcosa di stupido in modo tale da imparare la lezione d’usare la mia discriminazione e la mia mente per non farlo.’” In altre parole, tutto quello che fanno lo considereremo un insegnamento e cercheremo d’imparare qualcosa. Non importa quello che stanno pensando dal lato loro.

È sicuramente questo che s’intende quando viene detto che abbiamo bisogno di vedere tutti come fossero un Buddha. Vediamo tutto come una lezione. Possiamo quindi imparare da un bambino. Quando un bambino si comporta male o in modo stupido, possiamo imparare a non comportarci così. Il bambino è il nostro insegnante. Un cane può insegnarci qualcosa. Chiunque può farlo. Questo comunque richiede un’alta dose di maturità emotiva per non arrabbiarsi e non giudicare. È una pratica molto avanzata. Non è qualcosa che possiamo fare da principianti.

Ovviamente è necessario esaminare a fondo se possiamo instaurare questo tipo di contratto con il maestro e relazionarci con lui a questo livello. Il maestro è qualificato, e lo siamo anche noi? Questo tipo di relazione potrebbe essere instaurata anche con un maestro con il quale non abbiamo grandi contatti personali. Quando partecipiamo a degli insegnamenti generali conferiti da grandi maestri ad ampie folle, possiamo fare la stessa cosa: “Qualunque cosa dirai e farai, imparerò da essa.” Ma ricordate, questa non è la relazione tra un soldato e un generale dell’esercito: “Sissignore! Cosa devo fare? Mi dica. Mi dia un ordine. Sissignore! Eseguo.” Non è assolutamente così.

Sesta sessione: due ulteriori argomenti – diventare buddhista e la felicità

La conversione al Buddhismo

Abbiamo parlato di alcune delle difficoltà che molte persone incontrano con il Buddhismo. Abbiamo visto come sia molto importante avere un atteggiamento realistico. A questo riguardo, uno dei consigli che Sua Santità il Dalai Lama dà ripetutamente agli occidentali è di essere molto cauti nel cambiare religione. Il suo consiglio solleva inoltre una domanda: quando seguiamo il sentiero buddhista, questo vuol dire che abbiamo cambiato la nostra religione, che ci siamo convertiti e che ora, invece di indossare una croce al collo abbiamo un cordino rosso?

Ritengo che sotto molti aspetti pensare al nostro impegno nel Buddhismo in termini di conversione non sia molto utile. Certamente, se dichiariamo di esserci convertiti al Buddhismo, questo rende fortemente estranei coloro che appartengono alla nostra religione di nascita, sia essa il Cristianesimo, l’Ebraismo e soprattutto l’Islam. La conversione ad una religione differente da quella della nostra tradizione di nascita non riscontra grande entusiasmo nella nostra famiglia o società, non è vero? Viene vista come un rifiuto personale di loro stessi. Quindi Sua Santità dice sempre che dobbiamo essere molto attenti e delicati riguardo a questo argomento, ed io credo che questa affermazione possa essere compresa anche da un punto di vista psicologico, oltre che dal punto di vista sociale della famiglia e della società.

È molto importante riuscire ad integrare tutti gli aspetti della nostra vita in modo armonioso. Così saremo a nostro agio con la storia di tutta la nostra vita. Avere una visione integrata di tutta la nostra vita ci consente di essere più equilibrati. A volte, quando le persone si convertono ad un’altra religione, accade che generano un atteggiamento molto negativo verso ciò che facevano in precedenza. C’è un meccanismo descritto dalla psicologia che è molto utile per capire quest’aspetto. Esso consiste nel bisogno primario delle persone di essere fedeli ai loro antenati o alla famiglia o al loro contesto per provare un senso di autostima. Questo bisogno o impulso d’essere fedeli per provare, in qualche modo, il nostro valore a noi stessi, è spesso inconscio. Ovvero, se neghiamo che il nostro passato abbia avuto aspetti positivi – ad esempio la religione o la famiglia o la nazionalità – allora inconsciamente continuiamo ad avere l’impulso d’essere fedeli a loro e quindi, inconsciamente, diventiamo fedeli ai loro aspetti negativi. Questa è una forma di lealtà distruttiva.

Forme di lealtà distruttiva

Un buon esempio di una forma di lealtà distruttiva è l’esperienza che alcune persone della vecchia Germania dell’est hanno provato. Quando la Germania dell’est fu integrata nella Germania occidentale, accadde che quasi tutti gli aspetti della sua cultura politica vennero rifiutati ed identificati come “sbagliati” e negativi. Tutto ciò che apparteneva al vecchio sistema fu buttato via nella spazzatura e le persone rimasero con la terribile sensazione di essere state stupide e di aver sprecato tutta la loro vita in qualcosa di negativo, soprattutto se erano state politicamente attive a supporto dello stato. Ovviamente questo creò una situazione psicologica molto difficile.

Accadde così che alcune persone provenienti dall’est, inconsciamente, sentirono l’impulso di essere fedeli al loro passato per provare il loro valore a se stessi, e la loro lealtà si rivolse ad aspetti negativi quali il totalitarismo. È da questo che nascono i fenomeni degli skinhead e dei neonazisti. Il neonazismo contiene un forte odio per gli stranieri e la glorificazione di se stessi e della propria razza. Questa fedeltà all’intolleranza verso gli stranieri era una caratteristica della società della Germania dell’est. D’altra parte, se le persone riescono ad identificare e riconoscere gli aspetti positivi del loro passato, riusciranno poi ad indirizzare la loro lealtà verso questi ultimi, con un’integrazione di gran lunga migliore nella loro vita. E nella società della Germania dell’est gli aspetti positivi erano molti. Un esempio lo troviamo nelle relazioni calorose e aperte tra le persone, basate su solidarietà e fiducia reciproca. Siccome il controllo esterno era molto severo, quando le persone si trovavano in un sicuro ambiente di amici, potevano stabilire questo tipo di relazioni calorose. Era un aspetto molto positivo.

Un analogo problema riguardante la lealtà distruttiva si presenta spesso quando si cambia religione. Se pensiamo: “La mia vecchia religione era stupida e terribile” e ci lanciamo in qualcosa di nuovo come il Buddhismo, accade che inconsciamente abbiamo l’impulso ad essere fedeli al nostro passato. In casi del genere, la nostra lealtà si rivolge ad aspetti negativi invece che positivi. Ad esempio, se il nostro contesto è quello cristiano, potremmo diventare alquanto dogmatici o sviluppare una forte paura per gli inferni ed una tendenza verso cosa dovrei o non dovrei fare, e a volte potremmo anche sviluppare tendenze settarie. Per evitare tutto questo, è molto importante riconoscere gli aspetti positivi della nostra religione di nascita, la religione della nostra famiglia, e anche gli aspetti positivi della nostra cultura – gli aspetti positivi dell’essere tedesco o italiano o americano o qualunque siano le nostre origini.

Naturalmente vi sono moltissime cose positive nel bagaglio culturale cristiano, nel quale si dà grande importanza all’amore e alla carità, in particolare all’aiuto dei poveri, dei malati e dei bisognosi. Questo è incredibilmente positivo. Non vi è alcuna contraddizione tra questo e la pratica buddhista. In un certo senso possiamo essere allo stesso tempo sia cristiani che buddhisti, perché non c’è alcun bisogno di gettare via questi aspetti positivi della cultura cristiana. Sia che ci consideriamo buddhisti o no, non credo che per il Buddhismo questo abbia importanza. Non l’ha mai avuta; non è come nell’Europa medievale in cui veniva chiesto “Qual è la tua religione” e bisognava dichiararla di fronte all’Inquisizione. Questo non è il modo buddhista.

La posizione dei buddhisti laici nella società tradizionale indiana

Questo risulta chiaro nell’esempio dell’India antica. Nell’India antica, nella quale si sviluppò il Buddhismo, non c’era una chiara distinzione tra buddhisti e induisti. Il fatto che il Buddhismo in India non avesse caste e che il Buddha fosse contrario ad esse, è una falsa credenza. In realtà questo era vero solo per quanto riguardava la comunità monastica. Tra i monaci e le monache non vi erano caste, ma questo non era il caso dei seguaci laici del Buddha. Sui muri delle rovine di antichi monasteri buddhisti si può leggere: “Questa somma di danaro è stata donata al monastero dal bramino tal dei tali.” Queste iscrizioni riportavano sempre la casta del donatore. Ciò ci indica chiaramente che i buddhisti laici non formavano una comunità separata dagli induisti; erano parte della società induista. E questo voleva dire che in India non si svolgevano cerimonie buddhiste per i matrimoni e cose del genere. I buddhisti laici seguivano gli usi induisti per queste cose.

Ciò portava vantaggi e svantaggi. Il vantaggio era che fondamentalmente in India tutti facevano parte di una società integrata e ciascuno seguiva la propria scuola e maestro spirituale. Quindi sia che uno seguisse una scuola buddhista oppure una o l’altra forma di Induismo, non faceva una grande differenza perché la società stessa includeva tutti armoniosamente senza che qualcuno si sentisse di dover affermare con risolutezza “Io sono induista” o “Io sono buddhista.” È naturale che se uno diventava monaco o monaca s’impegnasse fermamente ad unirsi ad una comunità separata. Questa era una cosa differente. Stiamo parlando della situazione dei laici nell’India tradizionale.

Lo svantaggio fu che in India, quando i monasteri buddhisti smisero di svolgere la loro funzione, la maggior parte dei buddhisti vennero facilmente assorbiti nell’Induismo, soprattutto grazie al fatto che l’Induismo riconosceva il Buddha come una forma di Vishnu, il loro Dio. Quindi era facile provare devozione verso il Buddha ed essere un perfetto induista.

Seguire il Buddhismo e continuare ad andare in chiesa

È ovvio che ci vuole un equilibrio per non cadere nei due estremi: da una parte banalizzare il Buddhismo e dall’altra “Mi sono convertito al Buddhismo e adesso mi è proibito di frequentare la chiesa.” La questione è: “Qual è il significato della cerimonia del rifugio? Vuol dire che ora sono diventato buddhista come quando ci si converte al Cristianesimo e si viene battezzati?” Non credo che sia equivalente al battesimo. E non credo sia utile considerarlo in quel modo.

Ritengo che il nostro sentiero spirituale debba rimanere una cosa privata. Andare in giro con dei cordini sporchi intorno al collo, soprattutto se ne abbiamo collezionati trenta, ci dà un aspetto piuttosto strano, un po’ come gli africani Ubangi con tutte quelle molle di metallo intorno al collo. Se vogliamo tenere quei cordini, li possiamo conservare in un posto privato, ad esempio nel portafogli o un posto del genere. Non è necessario fare pubblicità a ciò che facciamo. Non c’è ragione di pensare che ci sia proibito andare in chiesa e che questo possa costituire una minaccia verso il nostro impegno nei confronti del Buddhismo.

Spesso all’inizio, coloro che si avvicinano al Buddhismo tendono a mettersi sulla difensiva. Ciò è dovuto al fatto che sono ancora insicuri e non ancora a loro agio verso questa scelta. Quindi, per giustificare la nostra scelta di un sentiero spirituale, sentiamo a livello psicologico che “Non posso andare in chiesa e non posso valutare positivamente nulla del mio passato.” Questo è un grande errore. Ovviamente, se stiamo seguendo un sentiero spirituale buddhista in modo sincero, dobbiamo metterci tutta la nostra energia. D’altronde non è una contraddizione praticare l’amore cristiano e trarre ispirazione da grandi figure cristiane come Madre Teresa, cercando di servire i bisognosi nel suo stesso modo. Non c’è assolutamente contraddizione con il sentiero buddhista. Come potrebbe esserci?

Se nella nostra vita pratichiamo la meditazione ed altri tipi di formazione buddhista, non c’è ragione di non sentirsi a proprio agio se andiamo in chiesa, se si presenta un’occasione in cui sarebbe opportuno farlo. Non c’è alcun problema. E quando ci andiamo, non ha senso stare lì seduti sentendosi minacciati e recitando mantra tutto il tempo. Se andiamo in chiesa da praticanti buddhisti, non c’è nulla di sbagliato nel partecipare. La cosa importante è il nostro atteggiamento durante l’esperienza d’essere in chiesa.

È ovvio che in ogni forma di religione organizzata troveremo alcuni aspetti che ci attraggono e altri che ci attraggono di meno. Se ci troviamo nella situazione in cui la nostra famiglia ci dice: “È una ricorrenza speciale, è Natale, vieni con noi in chiesa,” o qualunque altra cosa, e noi rispondiamo “Non vengo in chiesa con voi, sono buddhista,” questo davvero li offenderà. Lo prenderanno come un rifiuto personale. Quindi è meglio partecipare alla messa di Natale con la nostra famiglia. Invece di fissarci su aspetti della Cristianità che potrebbero averci infastidito e che in passato potremmo aver criticato, concentriamoci sugli aspetti positivi, perché ci sono aspetti positivi. In questo modo il risultato interiore, psicologico, sarà quello di sentirsi una persona molto più integrata. Abbiamo fatto pace con la nostra storia personale. Questo è di grande aiuto.

La felicità

Fare pace con noi stessi ci porta al tema seguente: “Quale posto occupa la felicità nel Buddhismo?” Credo che per molte persone che si avvicinano per la prima volta al Buddhismo, soprattutto se provengono da una religione in cui è posta molta enfasi sul fatto che siamo tutti peccatori, questo sia un tema molto importante: “Sono autorizzato ad essere felice?” Negli insegnamenti buddhisti sentiamo che tutto è sofferenza, che potremmo morire in qualunque istante e che non dobbiamo perdere tempo. Quindi accade spesso di pensare che non si deve andare al cinema, non ci si deve rilassare o divertirsi. Questo è un grande equivoco. Prima di tutto dobbiamo analizzare la definizione di felicità e capire cosa sia. Alcune persone non sanno neppure di essere felici o cosa sia la felicità. Devono chiedere a qualcun altro: “Cosa pensi, ti sembro una persona felice?”

Nel Buddhismo ci sono varie definizioni per la felicità. La definizione principale è che la felicità è quella sensazione che matura in seguito ad un’azione costruttiva positiva. È la maturazione del karma positivo. Se questa è la definizione di felicità, allora è ovvio che nel Buddhismo si cerca di essere costruttivi in modo da poter provare il risultato della felicità. Nella pratica buddhista si pone molta attenzione ad essere costruttivi e positivi; quindi, ovviamente, proveremo il risultato della felicità e siamo “autorizzati” a provarla. Non è possibile che nel Buddhismo si dica che non si è autorizzati ad essere felici. Se la felicità non fosse ammessa nel Buddhismo, allora i buddhisti si darebbero da fare per essere distruttivi perché questo darebbe loro la certezza di non essere mai felici!

Inoltre, nel Buddhismo c’è un insegnamento fondamentale: tutti vogliono essere felici e nessuno vuol essere infelice. Se questo è il caso e, con l’amore, se ci auguriamo che tutti siano felici e ci diamo da fare per portare a tutti la felicità, è ovvio che anche noi stessi ci auguriamo d’essere felici e lavoriamo per portare la felicità a noi stessi.

La felicità è anche definita come quella sensazione che quando sorge, desideriamo che continui; e quando sparisce, desideriamo che torni, ma senza aggrapparsi ad essa. Fondamentalmente la felicità è piacevole.

Punti di confusione sulla felicità

Ci sono due punti di confusione che sembrano sorgere in relazione alla felicità. Uno è che spesso pensiamo che la felicità per essere tale, debba essere drammatica. L’altro punto è la confusione su quali forme debba assumere la felicità per essere considerata tale. Questo secondo punto riguarda la domanda: “Qual è la reale fonte della felicità?”

Prima di tutto non è vero che la felicità debba essere sensazionale per considerarla tale. Spesso pensiamo che un sentimento per esistere debba essere davvero forte. Abbiamo un atteggiamento hollywoodiano verso le cose. Se un’emozione positiva ha un’intensità bassa, questa non renderebbe bene in un film, non farebbe spettacolo. Quindi dev’essere molto intensa e magari accompagnata da una musica melodrammatica in sottofondo. Non è questo il caso. Come dicevo, la felicità è quella sensazione che appare piacevole e che desideriamo continui: è molto gradevole. La felicità non deve per forza farci esclamare, “Ohh! Fantastico!” – come avviene tipicamente in America latina o in Italia quando si vuole dimostrare entusiasmo per qualcosa. Può anche essere qualcosa di più smorzato, in stile britannico.

Riguardo al secondo punto, ricordate, quando parliamo di provare un livello di felicità o infelicità, questo è il modo in cui proviamo la maturazione del nostro karma – è il modo in cui proviamo le cose nella nostra vita. Quindi la domanda è: in quale forma viene provata quest’esperienza di felicità? La forma che prende la nostra felicità ha qualcosa a che vedere con i momenti di intrattenimento, quelli in cui ci divertiamo, siamo distratti dalla nostra vita monotona o quando ce la spassiamo? Affinché una sensazione sia definita di felicità, è necessario divertirsi? E, ad un livello ancora più elementare, il divertimento è fonte di felicità?

Il divertimento

Divertimento” è un termine molto interessante. È molto difficile definirlo. Una volta mi trovavo in Olanda con il mio maestro Serkong Rinpoche. Le persone presso le quali alloggiavamo erano proprietarie di una grande imbarcazione, uno yacht. Un giorno si offrirono di portarci a fare un giro in barca per “divertirci un po’.” La barca si trovava in un lago piccolissimo, una grande barca in un piccolo lago. C’erano molte altre barche grandi e piccole in questo laghetto. Iniziammo a girare intorno al lago con la barca, insieme alla altre barche e mi venne in mente un parco di divertimenti dove i bambini girano in tondo in quelle piccole auto. Era qualcosa di simile. Dopo un po’ Serkong Rinpoche si girò verso di me e mi chiese in tibetano: “È questo quello che chiamano divertimento?”

Il mio punto è che se osserviamo la felicità in termini di causa ed effetto, qual è la causa per essere felici? Dal punto di vista buddhista la causa della felicità è il comportamento costruttivo. Non è uscire e fare qualcosa di frivolo per “divertirsi,” che ci farà sentire felici. Possiamo uscire e fare quello che la società considera “divertimento,” come andare in barca o al cinema o ad una festa o cose del genere, e sentirci davvero tristi. D’altra parte è possibile essere seduti in ufficio al lavoro e sentirsi felici e contenti. Se abbiamo accumulato le cause per la felicità, che consistono nel comportamento costruttivo, allora proveremo la felicità in qualunque tipo di situazione e non solo necessariamente in situazioni comunemente definite di “divertimento.”

Quando abbiamo la possibilità di scegliere cosa fare e come trascorrere il nostro tempo, possiamo decidere di lavorare, o rilassarci, o praticare uno sport, andare a nuotare, o qualunque altra cosa. Credo però che sia importante avere ben chiaro in mente quale sarà la fonte di felicità in quell’attività. Possiamo decidere di andare a nuotare o a lavorare sulla base di: “Voglio farlo per sentirmi felice;” credo però ci siano altri criteri che potremmo adottare. L’altro criterio potrebbe essere: “Ho lavorato molto duramente. Sono molto stanco e, per poter essere d’aiuto a me stesso e agli altri, è molto più produttivo se ora mi rilasso. Non sarebbe produttivo continuare a lavorare.” Volendo usare una metafora, il cavallo deve andare al pascolo, non può correre all’infinito.

La vita è difficile, questa è la prima nobile verità. È difficile avere un corpo. Non può lavorare ventiquattro ore al giorno per sempre. Dobbiamo rilassarci, dobbiamo dormire, dobbiamo mangiare. Non bisogna sentirsi in colpa per questo. Abbiamo già affrontato il tema del senso di colpa quando abbiamo detto che bisogna accettare il fatto che la vita è difficile. La vita è piena di ogni tipo di problemi, questa è la realtà. Se accettiamo questa realtà non ci sentiremo in colpa. Ma se la nostra idea è “Ora mi devo divertire” e fate di tutto per divertirvi ed essere felici, di solito non funzionerà. Se invece non generiamo aspettative sul fatto che andare al cinema o a nuotare o al ristorante ci renderà felici, o aspettative sul fatto che ricercare il divertimento in questo tipo di cose ci renderà felici, non resteremo delusi. È possibile che queste attività ci aiutino a ricaricare le batterie, nel senso che ci faranno rilassare, dandoci maggiore energia. Possono fare questo, forse, ma senza alcuna garanzia. Se durante queste attività ci sentiamo felici o meno, è un’altra questione. Inoltre se durante queste attività proviamo qualche livello di felicità, non è che questa debba essere per forza super-intensa, come in una bollente esperienza latina.

Tutto questo non riguarda soltanto attività quali andare al cinema o a nuotare, ma è anche molto utile tenerlo a mente per quanto riguarda le nostre relazioni con le altre persone, con gli amici, il tempo che trascorriamo insieme agli altri per rilassarci. Alcune persone credono che quando si va a trovare un amico bisogna “fare qualcosa” insieme: uscire, divertirsi, fare qualcosa. Non riescono ad apprezzare un livello più basso di felicità e contentezza che può derivare semplicemente dal trovarsi insieme ad un amico, non importa affatto cosa si fa. Si potrebbe andare insieme a fare la spesa al supermercato o alla lavanderia. Ritengo questo punto molto utile, e penso in generale che sia molto d’aiuto tenerlo in considerazione per essere in grado d’abbandonare strane aspettative su cosa sia la felicità e i sensi di colpa ad essa associati.

Riconoscere il livello di felicità che stiamo provando

Facciamo un po’ di auto-osservazione. Sediamoci e semplicemente sentiamo di trovarci qui e proviamo a notare qual è la sensazione che abbiamo. Con “sensazione” qui ci si riferisce alla definizione buddhista: il secondo dei cinque aggregati. Ovvero la sensazione è il modo in cui abbiamo esperienza di ciò che vediamo, ascoltiamo, pensiamo, ecc., in relazione alle variabili di felicità, infelicità o neutralità. Cercate solo d’identificare e riconoscere questo. Non stiamo parlando del sentire caldo o freddo o di sensazioni fisiche come piacere o dolore. Si tratta del livello di felicità o infelicità che accompagna ciascuna attività fisica e mentale, ovvero nel senso di trovarla piacevole o non molto piacevole.

Ad esempio, io trovo piacevole guardare i fiori in questo vaso. Guardate i fiori. Come vi sentite? Qual è la vostra esperienza di questo? Cercate di identificare e riconoscere la sensazione d’un certo livello di felicità che provate quando guardate i fiori, o il quadro al muro, oppure quando vedete gli alberi fuori dalla finestra; qual è il livello di felicità che avvertite? Cerchiamo di riconoscere che, in effetti, abbiamo molta felicità. Non è un’esperienza super-brasiliana, ma c’è.

Per favore osservate in voi stessi che cos’è questa sensazione. E tenete a mente che la felicità è quella sensazione per cui, quando sorge, vorremmo che continui e se va via, vorremmo che ritorni. E l’infelicità è la sensazione che, quando la sentiamo, vogliamo che finisca, vogliamo che vada via.

[pausa]

Credo che questa pratica non abbia bisogno di essere un esercizio formale di meditazione. Possiamo farla in ogni momento per diventare sempre più consapevoli che siamo felici davvero spesso. Non è il caso che “non ho sensazioni,” come alcuni di noi potrebbero pensare.

Ci sono dei commenti?

Partecipante: [tradotto] [Questa persona] dice che è stato difficile passare dall’ascolto delle cose che dicevi, un processo piuttosto attivo, a doversi fermare per sentire cosa stava accadendo. Si è sentito gettato in questa osservazione un po’ repentinamente. Stamattina ha attraversato un parco ed ha avuto una sensazione di estrema apertura, una sensazione che gli ha fatto pensare “Sì, va tutto bene, sono piuttosto felice,” e questo è avvenuto in modo piuttosto naturale.

Alex: Credo che un aspetto molto importante sia essere in grado di riconoscere che abbiamo sensazioni costantemente, sia che stiamo facendo qualcosa di rilassante o di molto intenso. A volte pensiamo troppo con la testa e non riconosciamo che in effetti vi è una certa qualità nel nostro modo di provare le cose, e questa qualità è tale dimensione di felicità o infelicità. Accade in ogni momento. L’importanza di questo sta nel fatto che molto spesso cadiamo nell’estremo del “povero me” e del “non sono felice, mi voglio divertire. Non voglio stare in questo ufficio noioso,” ed esprimiamo le più svariate lamentele. Ma in realtà, anche se siamo intrappolati nel traffico possiamo provare una sensazione interiore di felicità e contentezza. Ricordate, la felicità non ha bisogno di essere plateale.

Partecipante: Non c’è una differenza tra quanto accade nella testa e nel cuore? I tibetani quando parlano di sensazioni indicano sempre qui al cuore.

Alex: I tibetani indicano quella zona anche per quanto riguarda i pensieri. Dal punto di vista tibetano, gli aspetti intellettuali, emotivi e sensitivi delle nostre esperienze delle cose provengono tutti dalla stessa zona e i tibetani localizzano questi aspetti nel cuore. In realtà non ha importanza dove siano localizzati. Questi aspetti sono visti come un tutto e non come una dicotomia o divisione tra corpo e mente, tra intelletto e sentimenti come spesso avviene in occidente. Così, mentre siamo intellettualmente molto coinvolti in qualcosa, allo stesso tempo possiamo essere felici. Come dicevo, è una cosa molto importante da riconoscere soprattutto nella relazione con gli altri. A volte pensiamo: “Per sentirmi davvero felice devo essere innamorato,” un’esperienza di tipo adolescenziale. In realtà quella sensazione di felicità di quando si è innamorati di qualcuno può avere un livello basso di intensità, ma essere allo stesso tempo molto soddisfacente.

Settima sessione: la pratica tantrica

Il tantra è una pratica avanzata

Per la nostra ultima sessione insieme, parleremo un po’ del tantra. Abbiamo bisogno anche d’affrontare il tantra con i piedi per terra.

Spesso, quando gli occidentali si avvicinano agli insegnamenti tantrici del Buddhismo tibetano, cadono in uno di questi due estremi. Un estremo consiste nell’averne paura e nel non volerci avere nulla a che fare. L’altro estremo consiste invece nel saltarci dentro all’istante. Entrambi questi estremi hanno i loro difetti.

Il tantra è una pratica estremamente avanzata. Non è né qualcosa di cui aver paura né qualcosa in cui impegnarsi prematuramente. Nelle pratiche buddhiste che svolgiamo al livello dei sutra, ai livelli iniziali, impariamo principalmente a sviluppare molte differenti qualità che ci aiuteranno sia a migliorare il samsara che ad ottenere la liberazione, o a diventare un Buddha per poter aiutare al meglio tutti gli esseri. Per raggiungere questi obiettivi bisogna sviluppare concentrazione, amore e compassione, una profonda comprensione dell’impermanenza, la vacuità, la rinuncia e così via. Questi sono tutti assolutamente necessari come cause per ottenere quegli scopi. Sebbene il tantra possa essere descritto in molti modi, un aspetto della pratica tantrica è l’essere un modo per mettere insieme tutti questi aspetti in modo tale da praticarli contemporaneamente.

Ovviamente non è possibile praticare tutte queste cose simultaneamente se non le abbiamo prima sviluppate una per una. Impegnarsi nella pratica tantrica senza aver prima sviluppato queste qualità, la farà degenerare in una semplice pratica rituale senza alcun contenuto o profondità. Affinché si possano trarre effettivamente dei benefici profondi da un rituale, questo va visto come una struttura che ci serve a mettere insieme tutte le qualità che stiamo sviluppando.

Ad esempio, abbiamo bisogno d’intraprendere una direzione sicura e positiva nella nostra vita. Cosa stiamo facendo con la pratica di un rituale tantrico? Proprio questo: andiamo in questa direzione sicura cercando di sviluppare noi stessi attraverso il rituale. Non svolgiamo il rituale per divertimento o come se andassimo a Disneyland, come un diversivo per evadere dalla nostra vita ordinaria. Piuttosto, usiamo la pratica rituale come metodo per favorire il nostro sviluppo personale al fine d’ottenere i vari obiettivi buddhisti. Questi obiettivi sono i Tre Gioielli del Rifugio: ciò che ha insegnato il Buddha, ciò che ha realizzato pienamente e ciò che il Sangha altamente realizzato ha ottenuto in parte.

La necessità di avere la rinuncia

La rinuncia è un altro aspetto estremamente necessario in qualunque pratica tantrica, quindi dobbiamo comprendere cosa sia. La rinuncia ha due aspetti. Uno è la forte determinazione a liberarci dai nostri problemi. Questo aspetto ci consente d’usare la pratica tantrica come metodo per liberarci dai nostri problemi grazie all’ottenimento dell’illuminazione. Se ci manca questo aspetto della rinuncia, questa determinazione ad essere liberi, non saremo in grado d’applicare a noi stessi le pratiche come parte integrante del nostro sentiero spirituale.

L’altro aspetto della rinuncia è il desiderio di liberarsi non solo dalla sofferenza, ma dalle cause della sofferenza. Questo è molto importante. Se non siamo disposti ad abbandonare le cause della nostra sofferenza, non vi sarà modo di liberarci da essa, a prescindere da quanto vogliamo esserne liberi. La causa della nostra sofferenza, purtroppo, non è per nulla insignificante come andare al cinema, mangiare cioccolata o addirittura fare sesso. Si tratta di qualcosa di onnicomprensivo nella nostra vita. Ad un primo livello si tratta degli aspetti negativi della nostra personalità: tutta la nostra rabbia, attaccamento, arroganza, gelosia e così via. Se andiamo un po’ più in profondità, include la nostra insicurezza, ansia e preoccupazione. E se andiamo ancor più in profondità, è la nostra confusione – la nostra concezione errata che abbiamo di noi stessi e di tutte le cose della vita.

Scavando ancora di più, ciò di cui dobbiamo liberarci è la mente ordinaria che ci fa apparire le cose in un modo che non corrisponde alla realtà. Sulla base di queste cosiddette “apparenze impure,” la nostra inconsapevolezza del fatto che esse sono ingannevoli e false ci fa credere che siano vere. Tutti i nostri problemi nascono da questo.

Il problema non è la mente in sé; è l’attività o funzione della mente che crea delle apparenze ingannevoli e la nostra convinzione erronea che queste apparenze siano vere. Quindi la causa dei nostri problemi non sta nemmeno nelle apparenze stesse prodotte dalla mente. È un grosso errore pensare che il problema stia nelle apparenze. Pensare in questo modo è uno sbaglio derivante dall’erronea comprensione del termine tibetano nangwa, che può significare “apparenze” o “creare l’apparenza.”

Quando si parla di liberarsi dalle “apparenze ordinarie” o dalle “apparenze duali,” non ci riferiamo ad un sostantivo; non stiamo parlando di apparenze “lì fuori.” Stiamo parlando di modi d’essere consapevoli di qualcosa; ci riferiamo ad un verbo. Nello specifico, stiamo parlando di quella funzione della mente che fa apparire le cose in un modo che non corrisponde alla realtà. È questo ciò di cui stiamo cercando di liberarci; stiamo cercando di raggiungere un vero arresto di questo. E, sfortunatamente, la vita è difficile; la nostra mente fa apparire costantemente le cose in modi assurdi, e ciò accade da tempo senza inizio.

Ad esempio, anche se abbiamo una certa comprensione dell’impermanenza e del fatto che non esista un io solido, quando ci alziamo al mattino e ci guardiamo allo specchio, la nostra mente ci fa ancora credere di essere la stessa persona della sera prima, identica. Ci sembra d’essere permanenti. Oppure ci siamo fatti male ad un piede e la mente fa sembrare che vi sia un “io” separato dal piede: “Il MIO piede è ferito.” La nostra mente concettuale, basata sul linguaggio, fa apparire le cose in questo modo.

Abbiamo bisogno d’essere disposti ad abbandonare questo intero processo mentale che fa apparire le cose in questo modo, un processo che sfortunatamente ci è davvero familiare, insieme alla confusione, i problemi, le preoccupazioni e così via, che derivano da esso. Se non siamo disposti ad abbandonarlo, come potremo attuare una trasformazione del nostro sé, dell’immagine del nostro sé e di tutte queste cose con il tantra?

Senza essere disposti ad abbandonare la nostra immagine ordinaria del sé, l’immagine cioè di un io solido, con una solida identità, allora generare noi stessi nell’aspetto di una divinità vuol dire intraprendere la strada verso la schizofrenia piuttosto che verso la liberazione. In questo modo avremmo ancora questa folle idea di noi stessi, piena di odio e attaccamento. E inoltre andremmo a gonfiare quest’idea con: “Io sono una divinità.” In questo modo potremmo arrivare a dire cose folli come: “Sono arrabbiato, questo è il mio aspetto irato della divinità.” Oppure andiamo in giro a fare sesso con chiunque perché “Sono una divinità con una consorte, e fare sesso con chiunque è una pratica tantrica avanzata.” Questi sono alcuni dei grandi pericoli in cui possiamo incappare se ci buttiamo nel tantra senza avere come base questa determinazione di essere liberi – questa rinuncia dell’immagine ordinaria del nostro sé.

E per rinunciare a questa immagine del sé, è assolutamente necessario avere una corretta comprensione della vacuità; altrimenti come possiamo trasformare la nostra concezione di noi stessi? Senza una comprensione corretta, potremmo diventare completamente pazzi fino a pensare in un modo alquanto bizzarro che “Tutto ciò che mi circonda è un mandala ed è perfetto, e tutti sono dei Buddha;” e poi attraversiamo la strada senza neanche fare attenzione, e veniamo colpiti da una macchina.

Inoltre l’amore, la compassione e la bodhicitta sono assolutamente necessari. Mossi dal voler prendersi cura degli altri, svolgiamo tutte queste pratiche per poter essere d’aiuto agli altri. La bodhicitta ci spinge ad usare tutto questo come metodo per affrontare il mondo e gli altri. Senza di essa è molto facile cadere in una sorta di Disneyland buddhista, e ritrovarci da soli in una bizzarra terra di fantasie.

Quando nel corso delle pratiche tantriche immaginiamo di avere tutte quelle braccia e gambe e di essere circondati da luci di cinque colori, ecc., ciascuno di questi aspetti rappresenta vari tipi di comprensione, varie qualità come l’amore, la compassione, i cinque tipi di profonda consapevolezza e così via. Immaginare questi aspetti in una forma grafica come quella delle braccia e gambe multiple, ci aiuta a generare simultaneamente tutte queste qualità. È in questo senso che il tantra è una pratica molto avanzata, che richiede una grande preparazione per poter essere svolta correttamente.

Il bisogno delle pratiche preliminari

Quando parliamo di altri tipi di preparazione come le prostrazioni e la ripetizione del mantra di Vajrasattva in cento sillabe, questo è in aggiunta a ciò di cui abbiamo appena parlato. Questi ci aiutano ad accumulare il potenziale positivo per avere successo nella nostra pratica tantrica e a purificarci dal potenziale negativo che impedirebbe tale successo. Ma svolgere queste pratiche unicamente di per sé, senza che siano presenti fattori come amore, compassione, concentrazione, vacuità, ecc., non sarà sufficiente per avere successo. Ad esempio, potremmo svolgere centomila prostrazioni e la nostra motivazione potrebbe essere una ragione puramente nevrotica. Potremmo farlo per compiacere il nostro maestro o per entrare nel club delle “persone speciali;” potrebbe essere una penitenza per essere stati “cattivi” o qualcosa del genere.

Queste pratiche preliminari vanno svolte non solo sulla base di questi vari aspetti del Dharma, come l’amore e la compassione, ma devono puntare ad incoraggiare il nostro sviluppo di questi aspetti. È simile a quanto abbiamo detto in precedenza: per ottenere dei progressi nella comprensione della vacuità o di altri aspetti, è necessario accumulare molto potenziale positivo e purificare alcuni blocchi mentali. Queste pratiche come le prostrazioni ci aiutano a generare energia positiva per essere in grado di mettere insieme tutti questi aspetti del Dharma. Se non abbiamo questi aspetti che abbiamo bisogno di mettere insieme, l’energia positiva stessa delle pratiche preliminari non sarà sufficiente.

L’accumulazione del potenziale positivo e la purificazione degli ostacoli possono essere svolti in forma tradizionale, ma questo non è indispensabile. Ad esempio potrebbe essere prendersi cura dei nostri figli; oppure lavorare in un ospedale; qualunque cosa costruttiva o positiva che venga svolta ripetutamente. Ecco un esempio tradizionale: il Buddha aveva un discepolo molto difficile, che non aveva grandi capacità intellettuali. Come pratica preliminare, il Buddha gli disse di spazzare il pavimento per molti anni recitando: “Che lo sporco se ne vada, che lo sporco se ne vada.” Questa era la pratica preliminare di quella persona. Il Buddha non gli fece fare prostrazioni. Abbiamo bisogno d’essere un po’ flessibili e capire che la cosa importante è il processo stesso di accumulazione e purificazione. La struttura di questo processo può essere fatta su misura per ciascun individuo.

Il maestro spirituale e prendere i voti

D’altra parte, non c’è motivo d’aver paura del tantra e pensare: “Non voglio assolutamente averci a che fare.” Allo stesso tempo dobbiamo stare attenti e svolgere le pratiche correttamente. A questo proposito, è fondamentale la relazione con il maestro spirituale perché, come dicevamo, vedere il maestro nell’aspetto di una di queste divinità, queste forme di Buddha, svolge anche la funzione contraria: ci consente di vedere le forme di Buddha come umane. In altre parole, impariamo cosa voglia dire tradurre tutta questa pratica tantrica nella vita umana. Questo è molto importante. Altrimenti potrebbero venirci in mente idee strane su cosa voglia dire visualizzare noi stessi tutto il giorno in quelle forme.

Un’altra cosa estremamente importante nel tantra è prendere i vari tipi di voti: i voti laici, i voti del bodhisattva e, nelle due più alte classi del tantra, i voti tantrici. Ciò che dobbiamo evitare però, è di prendere questi voti pensando di esistere come un “io” solido e pensare: “Dovrei fare questo, non dovrei fare quest’altro.” Quindi la comprensione della vacuità ha grande importanza per essere in grado di prendere i voti in un modo non nevrotico, così da non portarsi dietro sensi di colpa per quello che abbiamo fatto in passato o che potremmo fare in futuro, o la sensazione che a causa di questi voti stiamo perdendo il controllo, oppure “Ora ho ceduto il controllo a qualcun altro e sono diventato lo schiavo del mio maestro.” Se è questo il nostro pensiero riguardo al tema del controllo, potremmo avere così paura di prendere i voti da non iniziare mai a praticare il tantra.

Per superare tutto ciò e per prendere e mantenere i voti in un modo non nevrotico, abbiamo di nuovo bisogno di comprendere la vacuità. Lo ripeto ancora una volta: per poter praticare il tantra abbiamo bisogno della rinuncia, della bodhicitta e della comprensione della vacuità. Se siamo correttamente preparati, il tantra diventa estremamente importante perché ci consente di mettere insieme tutti questi aspetti. È opportuno essere molto prudenti e attenti ed evitare di saltarci dentro prima di essere preparati, ma dobbiamo anche evitare di pensare: “Non sarò mai pronto e quindi non intendo impegnarmi in queste cose.” Ci vuole una via di mezzo nel nostro approccio.

Quando la nostra comprensione è sufficiente?

Come facciamo a capire che “Ora la mia comprensione della vacuità, bodhicitta e rinuncia sono sufficienti per poter entrare nel tantra?” Non è facile. Prima di tutto conosciamo noi stessi meglio di chiunque altro. Affermare “Lo sa il guru” e così via, vuol dire voler dare un risvolto romantico alla situazione. Diviene un modo per sollevarsi dalle responsabilità della propria vita, un atteggiamento molto immaturo. Naturalmente, se abbiamo uno stretto rapporto con un maestro spirituale, parlare con lui potrà esserci di aiuto. Abbiamo bisogno d’evitare di pensare in modo molto arrogante: “Non c’è bisogno di consultare il mio maestro.” Ma non tutti hanno una stretta relazione personale con un maestro, quindi non è così facile. Credo che ciò che dobbiamo fare sia guardarci dentro in modo onesto senza ingannarci da soli pensando: “Sono così avanzato,” ecc.

Ritengo che la cosa più importante sia osservare noi stessi; penso inoltre che solo noi stessi possiamo giudicare quanto forte sia la nostra compassione, che di conseguenza determinerà la forza della nostra bodhicitta. In altre parole: quanto mi stanno a cuore le altre persone e quanto sono in grado di aiutarle? Se questo è molto forte, può portare ad avere una forte rinuncia e una forte bodhicitta. “Devo abbandonare tutte le cause che m’impediscono di aiutare gli altri, e devo sviluppare tutte le buone qualità in modo da poter aiutare gli altri nel miglior modo possibile.”

L’unico modo in cui possiamo abbandonare le cause dei nostri limiti e sviluppare tutte le nostre buone qualità, è tramite una corretta e piena comprensione della vacuità, senza aggrapparci al concetto di un “IO” solido: “Sono un disastro, non sono buono a niente,” oppure “Sono meraviglioso, sono un dono di Dio al mondo, non c’è nulla che io debba imparare.” Piuttosto, comprendiamo causa ed effetto.

Quando comprendiamo la vacuità, ci viene naturale rispettare causa ed effetto – il modo in cui sviluppiamo le qualità per essere d’aiuto agli altri. Con questa determinazione davvero forte di aiutare gli altri, “Devo abbandonare le cause della mia sofferenza. Voglio farlo. Non è che ‘ dovrei’ abbandonarle, lo voglio davvero e sento il bisogno di farlo,” siamo motivati o mossi, in un modo altruistico, a fare questo. E realizziamo che per essere in grado di aiutare gli altri veramente, abbiamo bisogno di seguire causa ed effetto. Abbiamo bisogno d’accumulare tutte le qualità che ci consentono di beneficiare gli altri al massimo, e questo può avvenire unicamente attraverso un processo di causa ed effetto, il quale può solo funzionare sulla base della vacuità.

Sulla base di quella motivazione e comprensione, abbiamo poi bisogno d’esaminare cosa sia la pratica tantrica, di cosa si tratta? Abbiamo bisogno di avere fiducia nel fatto che il tantra ci offra i metodi più potenti per liberarci da ciò che c’impedisce di aiutare gli altri e i metodi per sviluppare le qualità che ci consentono di aiutarli il più possibile. In altre parole, abbiamo bisogno di avere fiducia che praticare il tantra sia il modo più efficiente per conseguire gli obiettivi dell’illuminazione per essere in grado di aiutare gli altri al massimo.

Quando avremo la giusta motivazione ed una certa comprensione della vacuità, e quando saremo in grado di apprezzare e comprendere il processo della pratica tantrica, in modo da avere una certa fiducia in essa ed un’idea di come utilizzarla, saremo pronti ad impegnarci nel tantra. E allora saremo attratti dal tantra in una maniera molto positiva e costruttiva, e l’useremo in modo costruttivo e positivo.

Riassunto

In breve, credo che noi stessi siamo i nostri migliori giudici, quelli che possono comprendere se il nostro desiderio di aiutare gli altri è sincero o se sono solo parole vuote. Se pratichiamo il tantra prima di essere pronti, ci sono molti pericoli. Se pratichiamo solo dei vuoti rituali con una motivazione nevrotica, possono derivarne molti disordini psicologici. Una pratica scorretta di questo genere può portare ad un forte rigonfiamento del nostro io accompagnato da una parte da strane fantasie, da arroganza e così via, e dall’altra da delusione perché la pratica rituale di per sé non realizzerà alcun obiettivo. Se stiamo semplicemente mantenendo l’impegno di svolgere una certa pratica rituale ogni giorno, e diventiamo disillusi perché non sappiamo come applicarla nelle nostre vite, la nostra pratica quotidiana diventa un completo tormento e ci sembrerà un obbligo, un dovere: “ Devo farlo.” Presto ne saremo infastiditi e diventa molto sgradevole [farla]. Se siamo preparati correttamente ed abbiamo il giusto atteggiamento nei confronti del tantra, allora la pratica tantrica sarà di estremo beneficio. Ma questo richiede davvero mettere insieme tutti gli aspetti del Dharma.

Abbiamo anche bisogno di tenere a mente che quando ci impegniamo nel tantra, la nostra pratica evolverà. Dobbiamo evitare di circoscriverla con una solida linea attorno e pensare che essa consisterà per sempre nella stessa cosa uguale tutti i giorni, “Recito questo rituale e potrei recitarlo all’incontrario.” La pratica si evolve con il tempo. Si tratta di un processo, più che di un noioso impegno che consiste nel recitare la stessa cosa per l’eternità. Anche se etica, rinuncia, bodhicitta, concentrazione e comprensione della vacuità sono cose che desideriamo avere sempre, il livello della nostra realizzazione di esse si evolverà, man mano che useremo la pratica rituale per unirle insieme.

Ricordate però che proprio come qualunque altro aspetto del samsara, anche la nostra pratica tantrica tenderà ad andare su e giù. Non si evolverà mai in modo lineare, sempre meglio giorno dopo giorno. Dobbiamo avere pazienza e perseveranza.

Iniziazioni

Partecipante: [tradotto] In occidente, avviene spesso che si prendono iniziazioni e che si debbono poi svolgere dei rituali senza comprenderli; ed il fatto che sia necessario comprenderli non è spiegato prima di prendere l’iniziazione.

Alex: Sì, purtroppo questo accade troppo spesso. Vedete, uno dei problemi è che vengono date queste iniziazioni e gli occidentali le prendono in termini di “Ora dovreifare questo e non dovrei fare quest’altro.” Un tibetano non le tratta in questo modo. Quando vengono date queste iniziazioni, l’atteggiamento della maggior parte dei tibetani comuni è “Partecipo affinché nel mio continuum mentale vengano piantati semi o impronte per le vite future.” La maggior parte di loro non ha intenzione di praticare il tantra in questa vita.

Attenzione, sto parlando di tibetani comuni laici. Portano i bambini e perfino i loro cani alle iniziazioni. Hanno la sensazione che nel continuum mentale di chiunque partecipi all’i niziazione vengano piantati dei semi per le vite future. Ecco il modo in cui guardano alla cosa. Ma noi occidentali non pensiamo davvero in questo modo. Partecipiamo alle iniziazioni senza avere la minima idea di cosa accada durante la cerimonia e siamo totalmente inconsapevoli del processo che si svolge nel suo corso e dopo diciamo: “Oh mio Dio, Ho preso questo impegno e adesso DOVREI fare questo, e se non lo faccio andrò all’Inferno del Vajra!!”

Questo è davvero un fraintendimento della vacuità e del sorgere dipendente. Le cose non avvengono unilateralmente. Ricevere un’iniziazione dipende da quello che fa sia la persona che offre l’iniziazione, sia la persona che la riceve. Ad esempio, per ricevere effettivamente un’i niziazione dobbiamo prendere i voti in modo molto cosciente, con la piena consapevolezza di ciò che stiamo facendo. Se non lo facciamo, allora non saremo diversi dal cane di cui parlavo prima.

La domanda interessante è se al cane siano o no rimaste impresse delle impronte, grazie al fatto di trovarsi lì. La letteratura classica sembra affermare che ciò avviene, perché il cane ha fatto l’esperienza di trovarsi lì. Quindi, anche se molto deboli, nel suo continuum mentale sono rimaste impresse delle impronte. Anche noi possiamo essere presenti e per questo ricevere delle impronte. In occidente questo modo di prendere l’iniziazione è chiamato “benedizione.” Ma questo non vuol dire che abbiamo effettivamente ricevuto l’iniziazione e che ora abbiamo di conseguenza tutti gli impegni e i voti. A meno che gli impegni ed i voti non vengano accettati con grande consapevolezza, non li avremo presi.

Non c’è niente di male nel ricevere un’iniziazione come farebbe un tibetano comune, come una sorta di evento ispiratore che lascia un’impronta che a un certo punto in futuro sarà qualcosa da poter usare per il beneficio di noi stessi e degli altri. Dobbiamo evitare d’essere presuntuosi e pensare: “Ora sono una persona di grande levatura. Ora sono un vero praticante tantrico,” quando la nostra partecipazione ad un’iniziazione si è svolta ad un livello puramente superficiale e non ci siamo davvero impegnati consciamente in nulla. Abbiamo bisogno d’essere disposti ad accettare il fatto che “Ho partecipato allo stesso livello di un cane, e questo va bene.”

Nonostante ciò, aver partecipato ad un’iniziazione al livello di un cane può essere ugualmente fonte di grande ispirazione e aiuto – nessun problema. Ma è la nostra presunzione che ci rende riluttanti ad accettare che vi sia solo questo tipo di beneficio proveniente da essa. Ovviamente, possiamo confonderci e pensare: “Se vado in giro e prendo più iniziazioni possibili, diventerò una persona di grande levatura.” Anche questo è un po’ stupido, o no? Anche se collezioniamo iniziazioni in maniera impulsiva perché sentiamo di trarne ispirazione e aiuto, è importante non considerare noi stessi grandi praticanti tantrici. L’umiltà è sempre essenziale in tutti gli aspetti della pratica del Dharma.
Concludiamo qui. Auguriamoci che qualunque potenziale positivo e comprensione siano sorti dalla nostra discussione insieme, possa agire da causa per ottenere l’illuminazione per il beneficio di tutti.

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