Panoramica dei “sei atteggiamenti lungimiranti”: le sei perfezioni
Alexander Berzin, Riga, Lettonia, luglio 2004. Traduzione italiana a cura di Valentina Tamiazzo.
Prima sessione: la bodhicitta e i sei atteggiamenti lungimiranti nel contesto delle due reti
La bodhicitta
Ieri parlavamo della bodhicitta, e abbiamo visto come vi sia quella relativa e la bodhicitta più profonda. La bodhicitta relativa mira alla nostra illuminazione individuale futura, la quale non è ancora avvenuta, ma che sulla base della nostra natura di Buddha e di un gran quantitativo di impegno e di lavoro da parte nostra, è qualcosa che è sicuramente possibile realizzare. E siccome abbiamo la convinzione che sia possibile realizzarla e abbiamo un’idea accurata di cosa essa sia, allora con la bodhicitta relativa miriamo a quella che è effettivamente la futura illuminazione – a quella che sarà, le sue qualità, e così via – con due intenzioni: l’intenzione di raggiungere tale illuminazione attraverso i metodi realistici che ci condurranno realmente ad essa, e di portare il più possibile beneficio a tutti gli esseri, per mezzo di quest’ottenimento. Sappiamo bene che non diventeremo un dio onnipotente che soltanto schioccando le dita – non ha neanche bisogno di schioccare le dita – può far sparire i problemi di tutti. Questo è impossibile. Ma possiamo insegnare agli altri come ottenere l’illuminazione, attraverso effettive istruzioni e attraverso il nostro esempio. Sta poi a loro farlo davvero.
Gli stati mentali che accompagnano la bodhicitta
Questa bodhicitta è accompagnata da altri diversi stati mentali, simultanei ad essa, i quali fanno parte della nostra motivazione ad avere come scopo l’ottenimento dell’illuminazione. Tali stati mentali non si concentrano sulla nostra illuminazione futura; si concentrano su tutti gli esseri – il che significa su ogni essere senziente in assoluto (o essere con un corpo limitato, una mente limitata) in modo assolutamente equo, stiamo quindi parlando di ogni insetto, tutti – con amore, ovvero il desiderio che siano felici e posseggano le cause della felicità, e compassione, ossia il desiderio che siano liberi dalla sofferenza e dalle cause della sofferenza. L’amore è quindi rivolto alla felicità e al benessere di questi esseri senzienti, ed è il desiderio che questa felicità aumenti e cresca. E la compassione è rivolta alla loro sofferenza: è il desiderio che ne siano liberi.
Dobbiamo aver chiaro ciò su cui questi stati mentali si concentrano, e come si concentrano su queste cose, per essere in grado di generarle veramente. Altrimenti non abbiamo alcuna idea di cosa fare con la nostra mente e i nostri sentimenti quando stiamo meditando sull’amore, la compassione o la bodhicitta. E la compassione, come spiega Sua Santità, presenta al suo interno… non solamente desiderare che i problemi degli esseri se ne vadano, senza alcuna idea o convinzione che sia realmente possibile che possano liberarsi dai loro problemi; si basa sul capire che è possibile per loro liberarsene. Altrimenti è un desiderio inutile. È anche accompagnato dalla comprensione del modo in cui possono liberarsene. Non è che qualche salvatore, qualche salvatore onnipotente, li stia per salvare; [la compassione] ha il coraggio per aiutarli effettivamente a superare questi problemi. Vi è comprensione – vi è sempre comprensione – con queste emozioni, questi sentimenti positivi.
Abbiamo inoltre, ad accompagnare la nostra bodhicitta, un altro stato mentale, o emozione, o qualsiasi modo in cui lo si vuole chiamare, che viene detto l’ impegno eccezionale, o risoluzione(lhag-bsam, sct. adhyashaya). Quindi, concentrandosi su tutti gli esseri in maniera equa e sulle loro situazioni, questo è l’impegno eccezionale a cui Sua Santità si riferisce a volte. Questa è la responsabilità universale; non è soltanto il coraggio di provare ad aiutarli, ma una risoluzione assolutamente decisa: “Ho intenzione di provare il più possibile ad aiutarli, a beneficiarli. Mi assumo la responsabilità, un senso di responsabilità, di fare veramente qualcosa al riguardo.”
E quindi amore, compassione, responsabilità universale, bodhicitta. Sono tutti stati mentali abbastanza particolari, anche se vanno tutti assieme ovviamente, ma è importante non confonderli e avere un’idea chiara di ciascuno di essi – che cosa sono, su cosa si concentrano, come si concentrano sui propri oggetti – affinché al nostro stato mentale non manchi nulla, e sia quello giusto.
La bodhicitta più profonda è concentrata sul modo di esistere di tale illuminazione, la futura illuminazione alla quale miriamo. In altre parole, è concentrata sulla vacuità.
Una nota sulla bodhicitta rossa e bianca
Vorrei soltanto ricordare, visto che a volte ci si imbatte su questo nel tantra, e può essere abbastanza disorientante in quanto nella classe più alta del tantra, si parla di bodhicitta bianca e rossa. Ora, queste sono forme di fenomeni materiali molto sottili, fenomeni fisici. Non sono stati della mente. Sono molto sottili, è difficile trovare una parola, ma chiamiamole scintille di energia creativa che ognuno di noi ha. E nella classe più alta del tantra, nei suoi stadi più avanzati, quando abbiamo ottenuto l’abilità di far questo – abilità che è incredibilmente difficile da ottenere – possiamo spostare queste energie creative molto sottili all’interno del nostro corpo, e dissolverle nel chakra del cuore per essere in grado di raggiungere o accedere allo stato più sottile della mente. È chiamata la mente di chiara luce (‘od-gsal), che potremo poi utilizzare per concentrarci sulla vacuità e ottenere l’illuminazione, in quanto è il livello della mente più efficiente.
Queste sono le sostanze e i metodi con i quali lavoriamo, la bodhicitta bianca e rossa, per raggiungere effettivamente la bodhicitta più profonda, questa mente di chiara luce concentrata sulla vacuità. E molto spesso nel Buddhismo il nome del risultato viene dato alla sua causa, dicono, e per cui il nome del risultato – che è la bodhicitta più profonda – è dato come nome alternativo a questi due tipi di energia creativa sottile all’interno del corpo. Questa è la bodhicitta bianca e rossa – il motivo per cui sono chiamate bodhicitta.
Giusto perché non vi confondiate, perché so che può essere terribilmente disorientante quando ci si imbatte in questi nomi. Al nostro livello di pratica, questo è qualcosa con cui non siamo per nulla coinvolti. Molto, molto avanzato. Inoltre, così la gente non fa confusione, sia gli uomini che le donne hanno la bodhicitta bianca e rossa. Per cui, anche se vi sono diversi livelli di grossolanità, non dovremmo associarle alle loro rappresentazioni più grossolane e pensare che soltanto gli uomini abbiano la bianca e soltanto le donne la rossa; questo è incorretto.
Bodhicitta dell’aspirazione e bodhicitta dell’impegno
Ora nella bodhicitta relativa – continuiamo qui la nostra revisione – vi è lo stadio del desiderio (smon-sems, bodhicitta dell’aspirazione), con il quale desideriamo ottenere l’illuminazione per recare beneficio a tutti, e dopo lo stadio dell’impegno (‘jug-sems) con il quale ci impegniamo realmente nel comportamento e la condotta che ci conducono effettivamente a tale obiettivo. Per cui prima sviluppiamo lo stato del desiderio, poi quello dell’impegno.
E lo stadio del desiderio possiede la fase del mero desiderio (smon-sems smon-pa-tsam, stato della mera aspirazione della bodhicitta dell’aspirazione), quando desideriamo meramente di ottenere l’illuminazione, e dopo quella che è tradotta a volte come la fase della promessa o dell’impegno (smon-sems dam-bca’-can, promessa di bodhicitta dell’aspirazione), con la quale siamo molto fortemente risoluti e decidiamo di non tornare mai più indietro su questo. E quando raggiungiamo tale stadio della bodhicitta dell’impegno, della bodhicitta relativa, quello è lo stadio che comporta al suo interno la presa dei voti del bodhisattva. Vanno assieme. Non è che si possa sviluppare la bodhicitta dell’impegno senza aver preso i voti del bodhisattva. Significa prendere i voti del bodhisattva.
Un voto (sdom-pa, sct. samvara) è un modellare la mente, modellare la nostra condotta, il quale significa stabilire certi limiti che non trasgrediremo. “Ho intenzione di evitare di lodare me stesso e screditare gli altri perché sono attaccato al fatto di ottenere fama, di piacere alle persone, sono attaccato all’amore, al denaro e a tutte queste cose.” Ci impegniamo a non fare questo genere di cose perché, se le facessimo, ciò danneggerebbe molto la nostra capacità di aiutare gli altri. Stiamo solo sfruttando gli altri dicendo che “io sono il migliore,” come in generale diciamo di persone che si candidano per una carica al governo, e lo vogliono fare solamente per avere potere, e quindi fanno campagne elettorali del tipo: “Io sono il migliore e l’altro candidato è terribile, il diavolo.” Non ci si può fidare di persone così. Questo danneggia fortemente la loro capacità di aiutare gli altri, perché effettivamente stanno soltanto esaltando se stessi per ottenere il potere. Per questa ragione, l’intero processo delle elezioni e delle campagne elettorali è del tutto estraneo ai tibetani, ed è molto difficile per loro da concepire o parteciparvi, perché fare campagna elettorale nella maniera in cui viene fatta in molti paesi va totalmente contro ogni principio del bodhisattva. “Io sono il migliore. L’altro tizio non è buono.”
Shantideva, il grande maestro indiano autore del testo “ Impegnarsi nel comportamento dei bodhisattva” (Bodhicharyavatara), scrisse: “Nel caso di imprese che abbiamo condotto quasi all’improvviso, o che abbiamo fatto senza aver esaminato molto bene, è corretto in seguito riconsiderare: ‘Lo faccio? O ci rinuncio?’ Posso farlo, o è una cosa che non posso fare? Ma nel caso dei voti del bodhisattva e del lavoro per ottenere l’illuminazione, si tratta di qualcosa che è stato esaminato in maniera molto profonda dai Buddha, e l’ho esaminato io stesso molto, molto, bene; pertanto, come posso mai voltare le spalle ad esso?” E quindi questa è una riga molto importante, in due versi, la quale afferma che prima di prendere i voti del bodhisattva, la bodhicitta dell’impegno, è importante studiare questi voti, è corretto studiarli (si trovano sul mio sito web, con le spiegazioni complete, nella sezione dei voti su berzinarchives.com), capirli ed esaminarli. Il Buddha disse: “Bene, se vuoi raggiungere l’illuminazione, questo è quanto devi evitare se vuoi veramente essere di beneficio agli altri.” E quindi esaminare noi stessi molto bene: “Si tratta di qualcosa che posso o non posso seguire?” E dopo prendi il voto. Non si tratta di qualcosa che si fa all’improvviso perché tutti gli altri lo stanno facendo e c’è un lama lì che sta conferendo i voti, per cui lo si fa senza aver esaminato davvero molto bene. Shantideva sottolinea questo molto chiaramente. (Al momento è soltanto in inglese sul sito, ma col tempo sarà disponibile in altre lingue, incluso il russo [1]).
Gli atteggiamenti lungimiranti
Cosa comporta mantenere realmente i voti del bodhisattva? Comporta, in pratica, lo sviluppo delle sei… il termine sanscrito è paramita (pha-rol-tu phyin-pa); è tradotto di solito come perfezioni,ma io preferisco una traduzione più letterale, che è quella degli atteggiamenti lungimiranti. Questi ci portano molto, molto lontani, fino all’altra sponda, che è l’illuminazione.
Nel Buddhismo indiano vi è un certo numero di sistemi differenti, e secondo uno di questi (chiamato Svatantrika) è soltanto nello stato di un Buddha – voglio dire, è qui che la parola avrebbe più il senso di perfezione – che questi sarebbero gli effettivi atteggiamenti lungimiranti. Quello con cui lavoriamo da bodhisattva (e anche prima di diventare un bodhisattva, quando abbiamo preso i voti)… perché, come ho spiegato ieri, diventiamo davvero un bodhisattva soltanto quando abbiamo una bodhicitta spontanea, non dobbiamo passare attraverso il processo del “tutti sono stati mia madre” e via dicendo per provarla, ma ce l’abbiamo tutto il tempo, giorno e notte… ma il processo, gli stadi prima della Buddhità – ovvero questi atteggiamenti lungimiranti – sarebbero solamente un’approssimazione di quella che è la cosa reale.
Mentre nel sistema Prasanghika entrambi gli stadi – dai voti del bodhisattva fino allo stato di Buddha, così come nella Buddhità stessa – verrebbero chiamati gli “atteggiamenti lungimiranti.”
Quindi, indipendentemente dal sistema che seguiamo, stiamo parlando della stessa cosa. Ho ricordato questo perché alcune scuole tibetane seguono una e alcune l’altra.
Traduttore: E la seconda scuola è quella…?
Alex: Prasanghika.
Traduttore: Prasanghika e Svatantrika.
Alex: Si tratta di divisioni all’interno della scuola Madhyamaka. Se sono soltanto nomi per voi, non importa. O hanno un significato per voi oppure no. È soltanto per non confondervi, in quanto potreste sentirlo spiegato in maniera diversa da maestri di tradizioni tibetane differenti.
Dovrei inoltre ricordare che vi è anche un’altra spiegazione di dieci atteggiamenti, in cui i quattro ulteriori sono praticamente divisioni del sesto, la consapevolezza discriminante di vasta portata, o saggezza. Quindi che si parli di sei, oppure in una forma più completa di dieci atteggiamenti lungimiranti, si tratta di stati mentali – atteggiamenti – che non sono necessariamente forme di comportamento, sebbene modellino il nostro comportamento: li mettiamo in pratica il più possibile a seconda della situazione, delle capacità, e via dicendo. Ma quel che ci stiamo esercitando a sviluppare sono questi atteggiamenti, questi stati mentali. Shantideva chiarisce questo molto, molto bene.
Inoltre non dovremmo pensare che un sistema di dieci atteggiamenti lungimiranti sia esclusivo del Mahayana. Abbiamo lo stesso nell’Hinayana, nella scuola Theravada. Si tratta di una serie leggermente diversa di dieci: molti di essi sono gli stessi, ma ci sono alcuni che sono differenti. E nuovamente, come abbiamo accennato, la differenza tra la scuola Hinayana e Mahayana – in quanto praticano molte delle stesse cose – è se la forza positiva sia dedicata al raggiungimento della liberazione oppure al raggiungimento dell’illuminazione. Quindi ne praticano dieci che includono molti di questi, con la dedica che la forza positiva contribuisca alla loro liberazione.
Non dovremmo mai quindi pensare che i praticanti Hinayana non lavorino per recare beneficio agli altri, e che non siano generosi, pazienti e così via. Naturalmente lo sono. E hanno amore, sviluppano compassione, e tutte queste cose. Dunque nei testi Mahayana, la posizione Hinayana viene quasi portata all’estremo – ovvero che stai soltanto lavorando in maniera egoistica per il tuo beneficio personale, e gli altri non t’interessano – al fine di sottolineare l’estremo che dobbiamo evitare. Non dovremmo pensare che i veri praticanti Theravada, specialmente quelli attuali, siano così. Possiamo trovare praticanti Mahayana che sono così, proprio allo stesso modo in cui possiamo trovare praticanti Hinayana che sono così.
Questo è un metodo che viene usato nella scuola Prasanghika del Mahayana, Madhyamaka, con il quale si portano le cose alla conclusione assurda, estrema, con lo scopo di aiutare le persone ad evitare i pericoli che possono essere presenti in un certo modo di pensare. E così, proprio come la conclusione assurda, estrema, di lavorare per ottenere la liberazione sarebbe che si diventa completamente egoisti e non ci si preoccupa di nessun altro – non si fa nulla per aiutare gli altri, non si ha amore e compassione – allo stesso modo, uno potrebbe dire che la conclusione assurda ed estrema del Mahayana sarebbe che si va soltanto fuori ad aiutare tutti, e non si lavora mai sul provare a superare la propria rabbia, il proprio attaccamento e via dicendo, il quale sarebbe ugualmente un grande errore. Perciò, dobbiamo comprendere la metodologia che viene usata qui, e non cadere nella posizione assolutamente sbagliata del settarismo, pensando che la scuola Mahayana sia così fortemente critica dell’Hinayana. Per questo motivo tra i voti del bodhisattva ve ne sono parecchi che hanno a che fare con il fatto di non screditare l’Hinayana.
Quindi rimaniamo con il sistema di base dei sei atteggiamenti lungimiranti. Questi sei sono:
- generosità (sbyin-pa),
-
autodisciplina etica ( tshul-khrims),
-
pazienza ( bzod-pa),
-
perseveranza gioiosa ( brtson-‘grus),
-
costanza mentale ( bsam-gtan, stabilità mentale),
-
consapevolezza discriminante ( shes-rab). È spesso chiamata saggezza, ma la parola saggezza viene usata per tradurre così tanti termini tecnici diversi, i quali sono tutti differenti, che davvero, usando solamente questa parola, si perdono tutte le distinzioni fra questi vari termini; per questo utilizzo qui consapevolezza discriminante per questo termine particolare.
Arriveremo alle definizioni man mano che proseguiamo. Ed utilizzo costanza mentale, tra l’altro, invece di concentrazione, perché ha un significato più ampio della semplice concentrazione.
Le due reti
Abbiamo anche detto che per raggiungere l’illuminazione – per raggiungere qualsiasi obiettivo nel Buddhismo, obiettivi spirituali – è necessario rafforzare ed incrementare le due reti. Tutti possediamo queste due reti, in una certa misura, come parte della nostra natura di Buddha; non è come se partissimo da zero. Ma abbiamo bisogno di rafforzarle, di incrementarle sempre di più. E in base a ciò verso cui vengono dedicate, possono contribuire al samsara (in questo caso non facciamo alcun tipo di dedica, e vanno a migliorare solo la nostra condizione samsarica), alla liberazione (le dedichiamo alla liberazione), o all’illuminazione (le dedichiamo al raggiungimento dell’illuminazione). Dunque, nuovamente, la dedica qui è estremamente cruciale.
E queste due reti, reti in quanto qualsiasi cosa in loro si connette, si collega, e si rinforza a vicenda. E crescono; non sono come una collezione di francobolli. Quindi una rete di solito viene tradotta come la collezione di meriti (bsod-nams-kyi tshogs, sct. punyasambhara), la quale non è una collezione di punti; merito in realtà vuole dire forza positiva – per cui è la rete di forza positiva originata dal compiere azioni positive e così via. E dopo c’è la rete di profonda consapevolezza (ye-shes-kyi tshogs, sct. jnanasambhara), che viene chiamata a volte la rete della saggezza,ma si tratta di un termine diverso rispetto a consapevolezza discriminante. Per cui ad esempio aiutare gli altri senza che venga fatta alcuna dedica, naturalmente andrà a migliorare il nostro samsara. A meno che non lo si dedichi all’ottenimento della liberazione o dell’illuminazione, non contribuirà all’ottenimento di queste due.
Assegnare gli atteggiamenti lungimiranti alle due reti
Nella presentazione Mahayana generale in cui si dividono i sei atteggiamenti lungimiranti in queste due reti, vi è un sistema. E se lo facciamo secondo il Prasanghika, che sono una speciale divisione del Mahayana, avremo un altro modo di dividerle. Ora, capire questo ci aiuta a comprendere: “Qual è lo scopo di queste reti? Che cosa fanno?” Come ho spiegato anche all’inizio di questa settimana, con l’illuminazione si hanno quelli – si possono dividere in molte maniere – che vengono detti a volte Corpi di Buddha, in quanto sono effettivamente una rete di varie cose, e non solamente un corpo come questo corpo, ma una rete di molte, molte cose. E quindi si ha il Dharmakaya (chos-sku, Insieme Onnipervasivo), il quale è l’intera rete della mente onnisciente di un Buddha e la vacuità di tale mente, e così via. E poi vi è la rete delle forme illuminate (gzugs-sku, sct. Rupakaya, Corpus di Forme), e vi sono quindi forme sottili (longs-spyod rdzogs-pa’i sku,sct. Sambhogakaya, Corpus di Pieno Uso) e forme grossolane (sprul-sku, sct. Nirmanakaya, Corpus delle Emanazioni). Vi sono moltissime forme nelle quali un Buddha può apparire – milioni di forme – simultaneamente, è dunque per questo motivo che viene chiamata rete; non si tratta di un corpo soltanto. E un Buddha conosce qualsiasi cosa simultaneamente. Non si tratta quindi di una cosa soltanto. Ma di una rete.
Quindi queste due reti, le reti che costruiscono l’illuminazione… se parliamo in termini di Buddhità, sono come… Nel Buddhismo si parla di molti, molti tipi differenti di cause: sei diversi tipi di cause e molti diversi tipi di condizioni. È molto, molto complesso. Ma vi è un tipo di causa: se usiamo un esempio, sarebbe come l’impasto per fare il pane. È la sostanza che diventa il pane, ma non si ha più l’impasto nel momento in cui si ha il pane. L’impasto, in un certo senso, si trasforma in pane quando viene cotto.
Perciò queste reti che costruiscono l’illuminazione sono come l’impasto: si trasformano in, sono la sostanza da cui… La rete di forza positiva si trasforma nella rete di forme illuminate per aiutare gli altri. E la rete di profonda consapevolezza è l’impasto che si trasforma nella rete del Dharmakaya, la mente onnisciente di un Buddha. Ma dobbiamo avere entrambe per realizzare entrambe. Devono sostenersi a vicenda. Non si può ottenerne soltanto una e lavorare soltanto su una. Devono andare di pari passo.
Quindi, per ciascuna di esse, una funge da impasto. Per ciascuna di queste reti illuminanti di un Buddha, una delle reti che costruiscono l’illuminazione agirà come l’impasto, e l’altra sarà come il calore del forno. L’impasto non diventerà pane senza che vi sia il calore del forno. E quindi, a questo modo, si sostengono a vicenda. Dobbiamo avere entrambe per ottenere uno qualsiasi dei Corpi di un Buddha – ciascuno dei Corpi di un Buddha, le reti di un Buddha.
Per cui, come dicevo, vi sono due modi di dividere i sei atteggiamenti lungimiranti in queste due reti che costruiscono l’illuminazione. Secondo quella Mahayana generale, le reti lungimiranti… Ora dovremo vederle una alla volta, in modo tale che le comprendiate chiaramente e poi risponderò. Quindi ora darò la lista, secondo il Mahayana generale, ovvero quali delle sei contribuiscono a ciascuna delle due reti lungimiranti, reti che costruiscono l’illuminazione. Mahayana generale.
Secondo il Mahayana generale, per quanto riguarda la rete di forza positiva che costruisce l’illuminazione abbiamo innanzitutto la generosità, e poi la disciplina etica. La pazienza poi assume tre forme diverse, e quindi abbiamo due forme della pazienza: la pazienza di non arrabbiarsi di fronte alle difficoltà che si hanno con gli altri, e la pazienza di non arrabbiarsi di fronte ai problemi personali. Queste contribuiscono alla rete di forza positiva.
Ora, quali contribuiscono alla rete di profonda consapevolezza? Prima di tutto, l’atteggiamento lungimirante della consapevolezza discriminante, la lungimirante stabilità mentale, e il terzo tipo di pazienza, la pazienza di non diventare frustrati di fronte alle difficoltà del praticare il Dharma.
L’atteggiamento lungimirante dell’entusiasmo positivo, o perseveranza gioiosa, contribuisce e rafforza entrambe le reti.
Ora, nel Kalachakra (che potrebbe diventare familiare per alcuni di voi la prossima settimana, grazie alla visita di Kirti Tsenciab Rinpoche in Lituania) si parla di tre reti che costruiscono l’illuminazione. In questo caso la terza è la rete della disciplina etica. In questo schema di classificazione, la disciplina etica – che nel Mahayana generale contribuiva alla rete di forza positiva – è presa separatamente, costruendo pertanto una rete della disciplina etica.
Prendiamoci alcuni minuti di pausa ora.
Seconda sessione: generosità lungimirante
La differenza fra consapevolezza discriminante e consapevolezza profonda
È stata fatta una domanda, durante la pausa, riguardo a queste due differenti parole che vengono tradotte con saggezza. Queste due parole tibetane le traduco in modo differente – sono diverse anche in sanscrito – e vengono spesso tradotte, entrambe, con saggezza (e in questo modo si perde la differenza che esiste tra le due). Quindi, una è detta consapevolezza discriminante; sherab(shes-rab) in tibetano, o prajna in sanscrito. E l’altra è chiamata profonda consapevolezza; yeshey (ye-shes) in tibetano, o jnana in sanscrito. Queste due parole sono molto diverse. Ne spiegherò quindi la differenza.
Sebbene esistano molti utilizzi differenti per ciascuna di queste parole, se cerchiamo di essere un po’ più chiari su questo, la definizione della consapevolezza discriminante è che aggiunge certezza al discernimento. Il discernimento – tradotto spesso come riconoscimento – è distinguere il fatto che qualcosa sia questo e non quello. Aggiunge, dunque, un’assoluta certezza a ciò. Si tratta quindi del discriminare fra quanto è costruttivo e quanto è distruttivo; quanto è utile, quanto non lo è; quanto è opportuno, quanto è inopportuno; cosa è veritiero e cosa non lo è (in termini di cosa sia la realtà e cosa non lo sia). Quindi di solito è associato alla vacuità. È la comprensione della vacuità, la quale discrimina come le cose non esistono in maniere impossibili, ma esistono nella maniera in cui sono effettivamente possibili. Questa è la consapevolezza discriminante.
Anche un verme possiede questo. Un verme è in grado di distinguere, essere molto sicuro: cibo, non cibo. Una mucca è in grado di distinguere fra la porta aperta del fienile e la parete del fienile, e non andare a sbattere addosso al muro. Chiamare questo saggezza, quindi, non è il massimo qui.
Se parliamo in termini di vacuità, allora la consapevolezza discriminante è solo la verità più profonda delle cose, la vacuità.
Quest’altro termine, la profonda consapevolezza, è la consapevolezza delle due verità, sia delle due verità assieme, sia nel contesto di ognuna. Ma la profonda consapevolezza è anche parte della natura di Buddha, qualcosa di molto profondo che tutti possiedono, la quale si riferisce quindi alla [profonda consapevolezza] simile allo specchio (me-long lta-bu’i ye-shes, la capacità di raccogliere le informazioni), equiparante (mnyam-nyid ye-shes, notare gli schemi, mettere assieme le cose), personalizzante (sor-rtog ye-shes, essere consapevoli dell’individualità di questo o di quello), e così via.
Per cui, in termini di questi aspetti della natura di Buddha, il verme possiede anche questi. Quindi, nuovamente, chiamare questo saggezza risulta un poco inadatto.
Questo termine, profonda consapevolezza, può essere usato in maniere leggermente diverse nelle diverse tradizioni tibetane. Ma in ogni caso, non è la stessa cosa della consapevolezza discriminante. Nella scuola Ghelug, viene anche usato per designare quello che un arya (‘phags-pa) possiede – qualcuno cioè che ha una cognizione non-concettuale della vacuità – come un significato ulteriore della parola.
Assegnare gli atteggiamenti lungimiranti alle due reti (continua)
Come dicevo, per quanto riguarda questa classificazione generale dei sei atteggiamenti lungimiranti nelle due o tre reti, non è molto utile pensare solamente: “beh, è soltanto uno schema intellettuale. Non significa nulla,” ma possiamo invece pensare: “bene, cos’è che si trasforma nell’avere tutte queste forme e via dicendo, in modo da essere in grado aiutare gli altri come un Buddha?” Essere generosi nell’aiutare realmente, specificatamente, gli altri. Dobbiamo avere la disciplina di aiutarli e di non ferirli. E di essere pazienti, ossia non diventiamo frustrati nel cercare di aiutare gli altri, perché non è sempre facile, e siamo pazienti con i nostri stessi problemi e debolezze mentre stiamo cercando di aiutarli – lavorare su queste cose, su noi stessi naturalmente, ma senza arrendersi. Questa combinazione è dunque ciò che si trasforma nell’avere tutte le forme e le capacità di un Buddha di aiutare gli altri.
E che cosa si trasformerebbe nella mente di un Buddha? Beh, dobbiamo possedere, naturalmente, la consapevolezza discriminante. Dobbiamo avere stabilità mentale, che non significa soltanto concentrazione, ma il non andare su e giù con l’umore e le emozioni disturbanti e via dicendo. E dobbiamo avere la pazienza di non abbatterci di fronte alle difficoltà del praticare il Dharma, in particolare in termini di meditazione e di cercare di ottenere la cosiddetta saggezza. Questo è quindi ciò che si trasforma nell’avere la mente di un Buddha.
E la perseveranza gioiosa è necessaria ad entrambe. Se parliamo in termini molto generali: dobbiamo perseverare, non mollare, ed effettivamente provare gioia sia nell’aiutare gli altri che nel meditare. In questo modo si contribuisce ad entrambe le reti: aiutando gli altri si incrementa la forza positiva – se parliamo in termini molto, molto generali – e meditando si incrementa la profonda consapevolezza. Ovviamente aiutiamo e meditiamo in entrambe, sviluppando la forza positiva e la profonda consapevolezza. Sto soltanto facendo il punto generale qui, in modo che sia più facile da comprendere.
Non importa quello che stiamo facendo, dobbiamo perseverare su questo, senza mollare. Questa è la perseveranza. E gioire nel farlo, non pensare “uffa, è orribile. Odio farlo, ma lo farò comunque, perché mi sento obbligato o mi sentirei in colpa se non lo facessi.” Provarne piacere. “Amo meditare. Amo aiutare altre persone. Mi dà una grande gioia.” “Amo tradurre. È un grande piacere per me. Niente mi rende più felice.”
Non ricordo la citazione esatta, ma Shantideva diceva qualcosa come: “un bodhisattva è qualcuno che non è felice a meno che non stia realmente facendo qualcosa per il beneficio degli altri, per aiutare gli altri.” Se non provi gioia nel fare il tuo lavoro, allora sarai infelice. E non stiamo parlando di essere un maniaco del lavoro in ufficio, ma stiamo parlando di aiutare gli altri. A meno che non si stia realmente facendo qualcosa che è di beneficio per gli altri, non si è veramente felici. “Voglio sempre fare qualcosa per aiutare gli altri. Questo è quello che mi dà la gioia più grande nella vita.” Questo è ciò di cui stiamo parlando qui, a proposito della perseveranza gioiosa. Non importa quindi quello che stiamo facendo per aiutare gli altri: occuparci dei nostri figli, lavorare in qualche attività che è orientata ad aiutare gli altri in un modo o nell’altro, insegnare il Dharma. Non importa. Facciamo ciò che siamo capaci di fare.
Ora, Prasanghika… quando dico Prasanghika, si tratta della tradizione Ghelug Prasanghika. Tsongkhapa fu un incredibile rivoluzionario, incredibilmente coraggioso, ed esaminò molto, molto in profondità i testi indiani, e realizzò che quelli Prasanghika effettivamente avevano alcune spiegazioni piuttosto specifiche. Vi è quindi il sistema Prasanghika secondo la scuola Ghelug. I sistemi precedenti – Nyingma, Sakya e Kagyu – hanno una comprensione diversa della posizione Prasanghika. Secondo il Ghelug Prasanghika, qui Tsongkhapa presenta un altro modo di classificare questi sei atteggiamenti lungimiranti (dico questo perché le persone arrivano qui sia da un centro Drigung Kagyu che da un centro Ghelugpa). Qui Tsongkhapa fa una differenziazione in base alle due verità. E quindi la consapevolezza discriminante lungimirante non è in questo caso la consapevolezza discriminante rispetto a ciò che è costruttivo o distruttivo in termini di karma, ma soltanto in termini della verità più profonda, la vacuità. Questa è ciò che contribuisce alla rete di profonda consapevolezza, alla mente di un Buddha. E tutte le altre, inclusa la consapevolezza discriminante di ciò che è d’aiuto e ciò che è dannoso, contribuiscono alla rete di forza positiva, per l’ottenimento del Corpus di Forme di un Buddha. È quindi soltanto un altro modo di classificare in base alle due verità. Sentirete infatti le due diverse spiegazioni, ed entrambe sono effettivamente molto utili.
Generosità lungimirante
Guardiamo ora ai sei atteggiamenti lungimiranti, uno per uno. Il primo è la generosità. La generosità è definita come la volontà di dare. È un atteggiamento, uno stato della mente. Shantideva scrisse: “Se la perfezione della generosità significasse eliminare la povertà dell’intero universo, allora il Buddha non perfezionò la generosità, perché la gente è ancora povera.” La perfezione della generosità, dunque, è la totale disponibilità a dare assolutamente tutto.
E generosità non significa che dobbiamo noi stessi diventare poveri, dando via assolutamente tutto quello che abbiamo. Non si sta parlando della povertà come di una qualche virtù, cosa che si potrebbe avere in altre religioni. Significa volontà di dare senza esitazione, senza ostacoli – se è opportuno dare. Si deve usare la discriminazione. Non si dà una pistola a qualcuno per uscire a sparare: “Oh, sarò generoso. Ecco la pistola.” “Ecco qui i soldi per andare a comprare una pistola.” “Ecco qui i soldi per comprare la droga.”
E anche se siamo estremamente poveri e non possediamo nulla, possiamo comunque avere la volontà di dare. Se così non fosse, le persone povere non potrebbero sviluppare la generosità. Per questo motivo, quando vediamo un bel tramonto, siate generosi: “mi auguro che tutti possano godere di questo bellissimo tramonto. Mi auguro che tutti possano godere di questa bellissima vista. Mi auguro che tutti possano godere del bel tempo.” Essere generosi con cose che non possediamo così come con cose che ci appartengono. Ed è il contrario dell’avarizia; l’avarizia è: “non voglio condividerlo, non voglio condividere nulla con nessun altro. Voglio tenerlo per me. Se lo dessi a qualcun altro non ce ne sarebbe abbastanza per me.”
Ma, naturalmente, dobbiamo stare attenti a non diventare dei fanatici qui. Perché, anche se stiamo lavorando per aiutare gli altri, abbiamo bisogno di mangiare, abbiamo bisogno di dormire – abbiamo bisogno di questo tipo di cose. Qui stiamo parlando principalmente del condividere. Non si può dare tutto, fino al punto in cui si muore di fame. Ovviamente nel momento in cui siamo bodhisattva super, super avanzati, è un’altra cosa; ma non lo siamo. In quanto bodhisattva super avanzati potremo sacrificare le nostre vite per aiutare gli altri, ma non al nostro stadio. Possiamo aspirare a questo. Ma quando non siamo pronti a farlo, allora di solito sviluppiamo soltanto una mente molto negativa mentre lo facciamo, e questo non è la cosa più benefica. Non siamo pronti. Come l’esempio del Buddha in una vita precedente, in cui diede in pasto il suo corpo ad una tigre affamata. Non siamo pronti a far questo.
Dobbiamo tuttavia essere disposti, al nostro livello, a dare; essere disposti a donare il nostro corpo agli altri. Questo significherebbe, ad esempio, aiutarli in lavori difficili, utilizzare il nostro corpo per aiutare gli altri, senza aver paura di sporcarci le mani, questo genere di cose. Oppure, quando sarebbe pericoloso salvare qualcuno, farlo davvero. E, ovviamente, donare cose in nostro possesso se ce n’è bisogno e può essere d’aiuto a qualcuno, e condividere, inoltre, quelle che vengono chiamate le radici della virtù (dge-ba’i rtsa-ba), le quali sono praticamente le potenzialità positive della forza positiva che abbiamo incrementato. In altre parole, solo un esempio… Beh, lasciatemi usare un esempio preso dalla mia vita personale: se, come risultato della forza positiva accumulata in vite precedenti, ho costruito così tante connessioni in tutto il mondo con i grandi maestri del Dharma e grandi maestri in India, e via dicendo – le condivido con altre persone, non tenendole soltanto per me stesso. Se c’è una persona adatta, introdurla a questo, usando il potenziale che ho costruito per essere in grado di aiutare gli altri, senza tenerlo soltanto per me stesso. “Mi auguro che altre persone possano beneficiare di tutto il duro lavoro che ho intrapreso nella mia educazione e nei miei studi in India.” Questo è ciò di cui stiamo parlando. Aprire le porte agli altri.
La generosità di offrire aiuto materiale
Ora, vi sono tre o quattro diversi tipi di generosità. Abbiamo innanzitutto la generosità di dare aiuto materiale. Questo significa quindi dare cose di proprio possesso, cose che abbiamo, che si tratti di cibo, vestiario, qualsiasi cosa – denaro – qualsiasi cosa abbiamo. Ma nuovamente – voglio dire, ci arriveremo a questo – dare quando è opportuno. E possiamo anche dare cose che noi non possediamo, che possono essere pubbliche. Questo non significa che andiamo a rubare. Stiamo parlando di offrire cose pubbliche, come ripulire l’ambiente così che altre persone possano goderne. È un dono che si fa agli altri. E, come accennavo: “Mi auguro che tutti possano essere in grado di godere del bel tempo,” e così via.
E non dovremmo pensare qui solo in termini di effettive cose fisiche; diamo anche (come ho detto a proposito di offrire il nostro corpo) il nostro lavoro, diamo il nostro tempo, il nostro interesse, questo genere di cose, diamo energia, incoraggiamento, tutti questi tipi di cose. È essere generosi.
La generosità di offrire il Dharma
La seconda è quindi offrire il Dharma, la generosità di offrire il Dharma. Non ci si riferisce soltanto all’insegnamento, o alla traduzione o trascrizione di insegnamenti, o al fatto di rendere disponibili i libri, o alla costruzione di stupa, e tutte queste cose. È un aspetto di questa generosità. Costruire centri di Dharma, questo tipo di cose, lavorare in questi centri. Ma comporta anche il fatto di rispondere alle domande delle persone, dare loro informazioni quando hanno bisogno di informazioni. Tutti i tipi di cose come queste.
Ed inoltre ciò che abbiamo dalla tradizione Sakya, che viene chiamata offerte di samadhi (o concentrazione), e si riferisce al fatto di offrire o di dare agli altri tutti i diversi aspetti della nostra pratica, della nostra pratica del Dharma. Quindi, tutto quanto abbiamo letto o studiato – offriamo questo agli altri, lo utilizziamo per aiutare gli altri. E tutta la conoscenza che abbiamo acquisito – la offriamo a loro, la utilizziamo. E la convinzione nel Dharma, tutto questo genere di cose. Utilizziamo la nostra concentrazione. Vi è un’intera lista. Queste entrerebbero in tale categoria della generosità di offrire il Dharma, di offrire la nostra pratica.
La generosità di offrire protezione dalla paura
Quindi il terzo tipo di generosità è quella di offrire protezione dalla paura. Questa si può riferire, naturalmente, al fatto di salvare le vite degli altri, animali che stanno per essere macellati, o animali rinchiusi in gabbia – siano essi uccelli, o esseri umani, o qualsiasi altra cosa – e salvare mosche che stanno annegando nella piscina, questo tipo di cose. E salvare gli animali e così via da – non dev’essere specificatamente dalla morte, dalla macellazione, ma proteggerli dal freddo o dal troppo caldo. Se c’è uno scarafaggio in casa nostra, non lo buttiamo fuori dalla finestra, giù di cinque piani, perché “beh, non si fanno male se atterrano in quel modo.” Se non lo vogliamo in casa nostra, lo portiamo fuori; non lo gettiamo fuori dalla finestra, o giù dal water, augurandogli buona fortuna.
Inoltre includeremmo qui il fatto di confortare gli altri quando sono molto spaventati, siano essi i nostri bambini, qualcuno che sta per essere cacciato, o un animale che sta per essere cacciato. Cercate di proteggerlo. Una mosca è stata catturata nella rete di un ragno; se la vediamo, cerchiamo di toglierla di lì. Questa è una situazione complicata, perché allora potremmo dire: “non siamo crudeli con il ragno?” Ma dubito che staremo lì 24 ore al giorno a controllare che il ragno non mangi nulla. Per cui quando abbiamo l’opportunità di salvare queste creature, è bene farlo. Non dobbiamo essere il poliziotto che sorveglia il ragno. Se il gatto sta torturando il topo che ha trovato, glielo portiamo via, lo salviamo.
Questo conduce ad una questione molto difficile, che è quella dell’eutanasia, in particolare con gli animali. Il gatto o il cane sta veramente soffrendo: lo abbattiamo o no? O lo consegniamo a qualcun altro: di solito non siamo noi stessi ad abbatterlo. Non è per niente una questione facile. Da un punto di vista, se l’animale – o un essere umano, peraltro – se interrompiamo il processo naturale della morte e l’esperienza della sofferenza e così via, interrompiamo la maturazione di un certo karma negativo nella sofferenza. E se abbiamo interrotto questo – beh, quell’essere dovrà sperimentare lo stesso tipo di sofferenza in qualche altra vita futura. Perciò, da un punto di vista, questo non è così saggio. Tuttavia da un altro punto di vista, se possiamo in qualche modo minimizzare il dolore che prova, come dare ad una persona col cancro degli antidolorifici e cose del genere, ciò sembra più opportuno. Ma si tratta di una questione molto, molto complicata.
Perché anche Sua Santità, in risposta a questo genere di cose… Perché ci sono queste questioni, di persone che vengono tenute in vita dalle macchine; sono praticamente morte. Oppure, penso, incredibile – spendere un milione di dollari per salvare un bambino prematuro. Sua Santità dice che, nuovamente, se vi sono risorse illimitate, allora è una cosa; ma se ci sono risorse limitate, allora non si spende un milione di dollari per tenere vivo qualcuno che è praticamente cerebralmente morto e non si hanno abbastanza soldi per curare persone che possono riprendersi. Quindi, molto dipende dalle circostanze. La stessa questione con l’aborto e via dicendo.
Perché dobbiamo evitare l’estremo assurdo qui. Se portiamo all’estremo il fatto che “beh, l’animale deve vivere la sua sofferenza al fine di bruciare il karma negativo che è in maturazione” – lo portiamo alla sua conclusione assurda, ad un estremo – ciò significherebbe che non daremmo a nessuno alcuna medicina. “Devono esperire le conseguenze dolorose del loro karma negativo tramite l’essere malati.” Pertanto, ovviamente non è questo il senso, non è per niente questo il senso, in quanto diamo anche medicine e cerchiamo anche di aiutare gli altri a star meglio, e se hanno il karma di superare la malattia, dando loro le medicine e via dicendo, la supereranno. Quindi ovviamente lo facciamo.
Nel caso tuttavia di qualcuno che è cerebralmente morto, e non vi è assolutamente più nulla che… non vi è possibilità che si riprenda, si tratta di una situazione diversa. Ora, in termini di aborto: se, per qualsiasi motivo, una persona ha effettivamente un aborto, allora una cosa che può essere molto d’aiuto è quello che fa una sacerdotessa Zen giapponese in America. Non sono sicuro dove l’abbia appresa, se venisse fatta tradizionalmente in Giappone o no, ma quel che fa, che è estremamente utile, è incoraggiare i genitori (o soltanto la madre se il padre non è lì) a dare un nome al feto che è stato abortito, il quale era un essere vivente – riconoscere questo fatto – e condurre un rituale e un rito funebre che onorino tale persona che per un qualche motivo non hanno voluto sviluppare, e provare rimorso, e dedicarle molte molte preghiere per una rinascita meravigliosa in una situazione che possa essere davvero favorevole. E quindi, in tal modo, sviluppare un atteggiamento molto positivo nei confronti del feto che è stato abortito. E ciò sembra essere estremamente d’aiuto, in particolare per le donne coinvolte – anche gli uomini, ma specialmente le donne – dal momento che avere un aborto può portare in seguito a molti problemi mentali e sensi di colpa.
La generosità di offrire agli altri la nostra equanimità
Nel tantra la generosità di offrire protezione dalla paura ha un’ulteriore interpretazione, la quale si riferisce al fatto di offrire agli altri la nostra equanimità. In altre parole: gli altri non hanno nulla da temere da noi, in quanto non abbiamo intenzione di aggrapparci a loro con attaccamento, o di respingerli con rabbia ed ostilità, o di ignorarli con ingenuità, ma saremo aperti verso tutti. Per cui non hanno da temere che potremmo aggrapparci a loro, respingerli, o ignorarli. Davvero meraviglioso. Grande dono.
La generosità di dare amore
E il tantra parla inoltre di un quarto tipo di generosità, che è il dono dell’amore. E il dono dell’amore non significa andare in giro ad abbracciare chiunque, ma si riferisce al fatto di offrire a tutti il nostro desiderio che siano felici – la definizione di amore – il desiderio che siano felici e abbiano le cause della felicità.
Conclusione
Comunque, forse questo è sufficiente. In altri sistemi, vi sono altre maniere di suddividere e di discutere questa generosità, ma magari sarebbe un po’ troppo andare a vedere tutti i dettagli. Si dovrebbe soltanto essere consapevoli del fatto che in tradizioni tibetane differenti, vi sono autori diversi che fanno divisioni leggermente diverse, diversi schemi di classificazione. Sono tutti utili, in effetti.
Soltanto un esempio: ne Il Prezioso Ornamento di Liberazione di Gampopa, egli divide il fatto di donare cose materiali in cose interiori e cose esteriori. Quindi, cose interiori si riferiscono al nostro corpo, tempo, energia, ecc. E cose esteriori si riferiscono ad oggetti materiali e così via.
Donare la nostra famiglia agli altri. Che cosa significa? Invitarli per Natale nella nostra casa, in modo che possano godere del calore familiare. Questo genere di cose. È molto bello. Quando c’è un estraneo o uno straniero in città, che potrebbe essere molto solo durante le vacanze e gli potrebbe mancare la famiglia, condividiamo la nostra famiglia con lui. Molto bello.
Dunque, perché non ci fermiamo qui per la nostra sessione del mattino? E terminiamo quindi con una dedica. Qualunque forza positiva o energia sia stata generata da questo, auguriamoci che possa agire come causa per il raggiungimento dell’illuminazione per il beneficio di tutti.
Terza sessione: generosità lungimirante (continua) e autodisciplina lungimirante
Generosità: come dare correttamente
Discutevamo della generosità stamattina. E nel praticare ognuno di questi atteggiamenti lungimiranti, cerchiamo di includere la pratica di tutti. Quindi, nel praticare la generosità:
- la disciplina etica della generosità consiste nel liberarci da tutti i secondi fini errati o inopportuni.
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Con la pazienza, non c’importano le difficoltà implicate; possiamo tollerare le difficoltà.
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E proviamo gioia nel dare, non lo facciamo per dovere o per obbligo. Questa è la pratica della perseveranza gioiosa del dare, della generosità.
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La stabilità mentale è avere concentrazione nel dedicare la forza positiva che si incrementa con il dare.
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E, con la consapevolezza discriminante, realizziamo che il donatore (noi stessi), il destinatario (la persona che riceve ciò che diamo), e l’oggetto donato nell’atto di dare siano ognuno privi d’una vera esistenza intrinseca; tutti dipendono l’uno dall’altro. Non vi può essere un donatore senza qualcuno che riceve.
Vi sono dunque molte situazioni in cui la pratica del donare qualcosa non viene condotta in maniera corretta od opportuna. Dobbiamo perciò evitarle. La prima situazione sarebbe quella di dare con la speranza che gli altri rimangano colpiti da noi, o pensino che siamo così pii e religiosi, che siamo così meravigliosi. Quando si dà, non è opportuno aspettarsi qualcosa in cambio, nemmeno un grazie, per non parlare di un grande successo nel migliorare la situazione della controparte, la situazione dell’altra persona. Che migliori oppure no, questo dipende davvero dal loro karma personale. Possiamo aiutare, ma non dovremmo aspettarci un successo, men che meno un ringraziamento.
Ricordo che una volta a Dharamsala, in India, durante la stagione dei monsoni, c’era un topo che stava annegando in uno scarico d’acqua e lo tirai su, e lo misi a terra ad asciugare. E mentre era disteso lì, ad asciugarsi, un grosso falco se lo portò via. Tutto quindi dipende dal karma dell’individuo, anche se noi cerchiamo di aiutarlo. Possiamo dare ad una persona tutte le opportunità e aiutarla a cercare di farcela, ma ci possono essere comunque grandi fallimenti. Ho avuto questa esperienza. Ed è importante non vantarsi mai con l’altra persona, e ricordarle in seguito tutto quel che abbiamo fatto per lei, o tutto quello che le abbiamo dato, o aspettarci da lei qualcosa in cambio.
È inoltre una motivazione sbagliata quando si dà per obbligo, pensando che se qualcun altro ha fatto una donazione allora noi dobbiamo fare lo stesso, o addirittura surclassare la persona, e dare di più o fare di più. Dare perché ci si sente in colpa o per competizione: [queste sono anche motivazioni sbagliate.]
Il nostro unico pensiero, quindi, dovrebbe essere soltanto quello di recare beneficio al destinatario, sia temporaneamente che in maniera definitiva. E cerchiamo di fare del nostro meglio; che si abbia successo oppure no, almeno ci proviamo.
Ed è importante non pensare soltanto ad un livello astratto: “sì, voglio aiutare tutti gli esseri senzienti,” ma non aiutiamo a lavare i piatti. Inoltre è importante non sminuire le persone a cui diamo qualcosa, pensando che stiamo facendo loro un grande favore. Loro ci stanno facendo un favore, accettando e permettendoci di accumulare la forza positiva che ci condurrà all’illuminazione e ci renderà capaci di aiutare gli altri. Ci stanno facendo quindi il grande favore di accettare.
È molto importante anche quando altre persone fanno qualcosa per noi. Molte persone sono molto orgogliose e non vogliono accettare alcun aiuto, o non vogliono accettare un invito, o niente di simile: se qualcuno si offre di pagare qualcosa per noi ad esempio. Lo stiamo privando dell’opportunità di accumulare della forza positiva. Questo rientra nei voti del bodhisattva, tra l’altro, di accettare inviti, di accettare quando le persone si offrono di aiutarci, a meno che naturalmente non sia dannoso per loro.
Ricordo Serkong Rinpoche, una volta, quando ero in viaggio con lui – eravamo in Italia – e qualcuno entrò nella sua stanza e gli fece alcune domande e via dicendo, e quando se ne andò lasciò una busta con un’offerta sul tavolo vicino alla porta. E Rinpoche mi disse, in seguito, “questa è la maniera corretta di dare. Non come queste persone che vengono e fanno questa grande, grande sceneggiata di consegnare la donazione personalmente nelle mani del lama in modo che egli sappia chi l’ha data e davvero apprezzi e pensi bene di quella persona.” Meglio farlo in modo tranquillo, anonimo, non facendo una grande sceneggiata, e farlo con felicità, in un modo piacevole e rispettoso.
Ed inoltre non fare aspettare l’altra persona. “Te lo darò, ma aspetta più tardi. Ti aiuto, ma domani,” e poi la si fa aspettare, aspettare, e aspettare. È la stessa cosa. Rinpoche diceva che trovava molto sconsiderato quando… Era uno dei maestri di Sua Santità il Dalai Lama, e molte persone venivano a visitarlo; aspettavano fuori dalla porta. E diceva che ciò era ridicolo, perché quel che avrebbero fatto era di aspettare fino al momento in cui sarebbero giunte direttamente di fronte a lui, e quindi avrebbero fatto quell’elaborata prostrazione. Disse: “tutto quello che stanno facendo è sprecare il mio tempo. La maniera corretta è… Non è necessario che le veda prostrarsi; non è per il mio beneficio che stanno offrendo prostrazioni. Dovrebbero tutti prostrarsi prima di entrare nella stanza, in modo che poi entrino e facciano direttamente quello che vogliono fare.” Voglio dire, i tibetani di solito offrono le kata (sciarpe cerimoniali) o qualcosa di simile. Ma non fatene una sceneggiata. Non si sta cercando d’impressionare l’altra persona donandole qualcosa, anche una dimostrazione di rispetto come la prostrazione. Questo è importante quando i lama vengono in visita. Le prostrazioni sono per il nostro beneficio; non sono per il beneficio del maestro.
Inoltre, qualunque cosa abbiamo deciso di dare, è importante che la diamo noi stessi, personalmente. Atisha aveva un assistente, e l’assistente voleva fare tutte le offerte per il maestro – riempire le ciotole d’acqua e fare tutte queste cose – e il maestro disse: “è molto importante che faccia queste cose io stesso. Hai intenzione di mangiare anche per me?” Dobbiamo quindi farlo… se si ha intenzione di dare, se è possibile, farlo noi stessi, personalmente. E non cambiare idea o pentirsi. Una volta che abbiamo preso la decisione di dare qualcosa, è importante non cambiare la nostra idea o pentirci o riprenderci qualcosa indietro. Oppure insistere, quando abbiamo già dato qualcosa, che questa venga usata nel modo in cui noi vorremmo venisse usata, soprattutto quando diamo a qualcuno del denaro e poi insistiamo perché lo usi in questa o quella maniera. Oppure ancora, si dà qualcosa, e poi… doniamo una foto o qualcosa, e poi non la troviamo appesa al muro quando andiamo lì, e ci sentiamo molto feriti. Una volta che gliel’abbiamo data, è sua; non è nostra.
Ricordo una volta, a Dharamsala, c’era questo monastero dove la qualità del cibo era molto bassa e i monaci non stavano molto bene. E così, tra di noi occidentali, raccogliemmo del denaro e glielo offrimmo per comprare cibo migliore in modo tale che potessero mangiare meglio. E, naturalmente, una volta che consegnammo loro il denaro, venne usato solamente per acquistare più mattoni e costruire un tempio più grande e più bello. Questo infastidì davvero molti degli occidentali, che iniziarono a fare una grande sceneggiata: “dovete comprare cibo migliore,” e cose di questo tipo. Beh, la soluzione era: se volete che mangino meglio, comperate il cibo e dateglielo. Dategli il cibo, così lo debbono mangiare. Non si dà loro il denaro. E quindi si dev’essere un poco astuti. Ed inoltre, comprare quello che gli piace mangiare. E per i tibetani questo significa carne, sebbene alcuni occidentali possano pensare che non si tratti di una cosa tanto buona. Ma comprargli fagioli di soya o tofu, o qualcosa del genere, che non mangeranno mai e che non gli piace, non è appropriato, non è opportuno.
È come… Ero solito portare sempre qualcosa quando incontravo Serkong Rinpoche, e lo vedevo quasi ogni giorno, ma portavo sempre qualcosa. E dopo un po’ mi rimproverò dicendomi: “perché mi stai portando tutte queste kata e questo incenso? Non ho bisogno di questa spazzatura.” La chiamò spazzatura. “È terribile. Tutti portano questa spazzatura. Cosa me ne faccio di un migliaio di kata, di queste sciarpe?” e disse: “se hai intenzione di portarmi qualcosa, portami qualcosa che mi piace e che posso usare.” E quindi sapevo che gli piacevano le banane, e gli portai una banana. Portiamo qualcosa che piace, se vogliamo fare un’offerta.
È anche importante portare cose di buona qualità, e non qualcosa che: “beh, non mi piace questo, per cui, ecco, prendilo tu.” Sebbene a volte si debba essere abili con le persone che non vogliono accettare nulla, e si dice: “qualcuno mi ha dato questo, ma non lo userò mai. Per favore, non lo voglio gettare via. Se tu lo vuoi…” Bisogna quindi usare mezzi abili in termini di dare cose alle persone. Ma, credetemi, questi lama hanno già abbastanza incenso; non hanno bisogno di duecento scatole di incenso.
Ci sono anche alcune cose che non è opportuno dare. Come nel caso in cui qualcuno stia seguendo una certa dieta, certe regole alimentari, non gli si offre del cibo che non considera corretto mangiare. Non si dà un hamburger ad un vegetariano; e se qualcuno è a dieta, non gli si porta una torta.
E se qualcuno desidera discutere con noi motivato dalla rabbia o dall’attaccamento, o dall’orgoglio, o soltanto da banale curiosità, è inopportuno discutere od offrirgli i testi buddhisti e così via. Insegniamo e discutiamo di Dharma, e così via, soltanto con persone che sono ricettive. Se non sono ricettive e vogliono solamente litigare con noi e cercare di denigrarci, non è opportuno insegnare o discutere con loro. È una perdita di tempo, e non fa altro che contribuire al loro stato mentale negativo, alla loro ostilità. Si insegna a chi ha una mente aperta, a chi vuole imparare.
Ed inoltre, nel caso in cui insegnassimo, è importante insegnare considerando il livello dell’altra persona; non gli si scarica addosso l’intero oceano del proprio apprendimento e conoscenza soltanto per provare quanto si è intelligenti. È importante dunque non dare insegnamenti troppo avanzati, sebbene a volte sia utile dare insegnamenti un poco più avanzati rispetto al livello a cui si trovano le persone, in un certo senso per ispirarle a lavorare più duramente – rendendoli un poco più accessibili per provare a capirli. E anche nel caso in cui le persone siano un po’ arroganti. A volte Sua Santità il Dalai Lama insegna in un modo molto complesso a professori universitari e via dicendo, per dimostrare quanto gli insegnamenti buddhisti siano sofisticati, perché pensano “oh, questo è primitivo,” o cose del genere.
Ricordo una volta che andai con Serkong Rinpoche ad un centro di Dharma occidentale, e le persone lì volevano che Rinpoche insegnasse il capitolo sulla vacuità del testo di Shantideva, in due giorni. E questo è del tutto insensato; è veramente qualcosa che ci si impiega un anno o quasi per farla approfonditamente. Rinpoche insegnò per una parte del tempo, all’inizio, ad un livello così avanzato che nessuno poteva capire quello che stava dicendo, soltanto per sottolineare come fossero stati arroganti a pensare che fosse qualcosa di così semplice da poter essere concluso in due giorni. Non avevano richiesto un’introduzione oppure un sommario. “Insegnaci il capitolo.”
Quindi a volte è necessario, al fine di dare alle persone una sorta di lezione, insegnare ad un livello più avanzato. Ma in generale, a meno che non le si voglia ispirare o via dicendo, è importante insegnare ad un livello a cui le altre persone possano capire. Tuttavia in una grande folla, specialmente… Voglio dire, vedete quando Sua Santità il Dalai Lama insegna, lo fa un po’ a ciascun livello delle persone che sono presenti. E quel che è più importante… Il più delle volte, egli insegna ad un livello molto avanzato. Beh, insegna ad un livello molto avanzato perché sta insegnando in realtà ai grandi lama e ghesce e kenpo che si trovano lì. È l’unico ad essere più avanzato di tutti e che possa insegnargli, in modo tale che loro poi possano insegnare e spiegare ai loro studenti. Non insegna dunque al minimo comune denominatore, perché ci saranno altre persone che possono insegnare a questo livello. In una situazione come questa, si insegna al livello più avanzato, in modo tale che l’insegnamento scenda in basso, per così dire, attraverso i ranghi.
Questa storia di Serkong Rinpoche – egli spiegò ad un livello così elevato e complicato soltanto le prime due parole del capitolo (non si trattava di tutta la cosa), solo per dimostrare, parola per parola, quanto fosse complicato.
Inoltre, ovviamente, è inopportuno dare alle persone veleno e armi, e cose del genere, che potrebbero essere usate per ferire se stessi o gli altri. È anche importante dare agli altri solamente quelle cose di cui hanno bisogno. Se qualcuno non ha bisogno di una cosa, ma la vuole soltanto per avidità ed attaccamento, come quando i nostri figli vogliono tutto il giorno la cioccolata, non è opportuno dargliela. E non guardano tutto il giorno la TV. Quindi così, dobbiamo avere questa consapevolezza discriminante: cos’è opportuno, cos’è inopportuno, quando non è opportuno dare, quando lo è, a chi è opportuno dare, e così via. Non praticare quello che… Trungpa Rinpoche coniò questa meravigliosa parola: compassione idiota – non si pensa: “Waah! Devo aiutare tutti a fare tutto,” quando a volte questo è invece inopportuno o stupido.
Autodisciplina lungimirante
Il secondo atteggiamento lungimirante è quello dell’autodisciplina etica. Non stiamo parlando della disciplina del suonare uno strumento musicale o del colpire una palla, ma piuttosto ha a che vedere con il nostro comportamento etico. E non è che noi siamo il poliziotto che cerca di disciplinare qualcun altro, addestrare il cane o le persone nell’esercito, ma stiamo parlando della nostra disciplina personale.
L’autodisciplina etica di astenersi dal commettere azioni distruttive
Vi sono tre tipi di autodisciplina etica. La prima è l’autodisciplina etica di astenersi dal commettere azioni distruttive. Si riferisce sia al modo in cui agiamo sia al modo in cui parliamo o pensiamo. Si tratterebbe, quindi, di mantenere i vari voti che si sono presi per evitare certi tipi di comportamento distruttivo. E anche se non abbiamo preso dei voti, ci si astiene, in generale, dal mettere in pratica i dieci tipi di azioni distruttive: uccidere, rubare, mentire, ecc.
E quando parliamo di cose da evitare, vi sono tipi di comportamento naturalmente distruttivi, come uccidere o rubare, e poi vi sono quelli che non sono distruttivi di per sé, ma per i quali il Buddha disse che, per certe persone, oppure in certi momenti, sono da evitare. Ad esempio: per i monaci e le monache quello che devono evitare di fare è mangiare la sera. Ciò non si applica a tutti, ma se vogliamo avere una mente chiara la notte per essere in grado di meditare, e una mente chiara il mattino, allora è meglio non mangiare la sera. Per cui per queste persone specifiche, il Buddha raccomandò di evitare cose come queste. Oppure rasare la propria testa se si è un monaco o una monaca; non tutti lo debbono fare, ovviamente. Quindi questo è il primo tipo della disciplina etica di astenersi dal commettere azioni distruttive.
L’autodisciplina etica di impegnarsi in azioni costruttive
Il secondo tipo di autodisciplina etica è la disciplina d’impegnarsi in azioni positive, costruttive, che incrementeranno la forza positiva e così via per raggiungere l’illuminazione. Ci si riferisce pertanto alla disciplina etica dello studiare, del riflettere sugli insegnamenti, del meditare, del praticare il ngondro (sngon-‘gro, pratiche preliminari) – fare prostrazioni, fare offerte – andare agli insegnamenti, questo genere di cose, la disciplina che è implicata nel farle.
Quindi vedete l’autodisciplina etica è ancora uno stato mentale. Non ci stiamo riferendo all’effettivo comportamento. Si tratta dello stato della mente che si astiene dal commettere qualcosa che sarebbe inopportuno, come commettere queste cose distruttive in termini di voti, ma anche in termini di impegnarsi in cose positive, quando ci si astiene dal non farle. Quindi è la disciplina. È come se modellasse, partendo dalla nostra mente, il modo in cui agiremo. Per cui è uno stato della mente. Senza di esso, si è completamente fuori controllo e si cade solo sotto l’influenza delle emozioni disturbanti: “Non voglio farlo. Non ne ho voglia,” ecc.
Questa autodisciplina etica si basa su di una discriminazione e sulla consapevolezza discriminante. Con l’autodisciplina etica di astenerci dall’agire in modo distruttivo, distinguiamo gli svantaggi dell’agire in modo distruttivo. Siamo molto risoluti nel capire quali siano i suoi svantaggi, e pertanto evitiamo di agire in questo modo. Oppure, con la seconda (quella di impegnarsi in cose positive), distinguiamo i benefici del meditare, i benefici del fare le pratiche preliminari, e così via, e quindi ci impegniamo a fare queste cose.
L’autodisciplina etica di lavorare per il beneficio degli altri
Il terzo tipo di autodisciplina etica è la disciplina di lavorare effettivamente per beneficiare gli altri, per aiutarli realmente. E qui comprendiamo quel è il beneficio di aiutare gli altri. E ci asteniamo dal non aiutarli perché pensiamo: “non ne ho voglia” oppure “non mi piaci per cui non voglio aiutarti.”
I quattro modi di radunare discepoli
Ci sono molti aspetti coinvolti nell’aiutare gli altri. Se parliamo in generale, vi è la disciplina di impegnarsi nei quattro modi… in realtà è chiamata letteralmente: i quattro modi per radunare discepoli (bsdu-ba rnam-pa bzhi); in altre parole, agire in modo tale con gli altri da renderli ricettivi per essere in grado di insegnargli cose più avanzate, più profonde.
Essere generosi
E il primo di questi metodi è l’essere generoso. Qualcuno viene a trovarci – gli offriamo una tazza di tè. Solo cose molto semplici.
Parlare in un modo piacevole
Quindi il secondo è quello di parlare con loro in una maniera molto gentile e piacevole. Naturalmente questo richiede disciplina. E significa parlargli in una maniera che possano capire, utilizzando il tipo di linguaggio che possano comprendere, e parlare in base ai loro interessi – non in modo banale, ma in un modo che possa aiutarli. E insegnare loro in una maniera che… Come quando qualcuno è interessato alle partite di calcio, non gli si dice solamente “Oh, questo è stupido. È una perdita di tempo.” Si può parlare in un modo che possa farli sentire a proprio agio e rilassati con noi. Ciò è molto importante; altrimenti non saranno mai ricettivi, e potrebbero pensare che li stiamo trattando con superiorità. Non è necessario andare nel dettaglio, come: “Chi ha vinto la partita oggi?” Non ci interessa chi abbia vinto la partita, tuttavia questo farebbe in modo che l’altra persona si possa sentire accettata.
Se aspiriamo ad essere un bodhisattva, è importante che ci interessiamo a tutti e a ciò a cui ognuno è interessato, e che conosciamo almeno un poco di tutto quello che ci è possibile, in modo che possiamo effettivamente relazionarci agli altri. E parlare in modo piacevole e gentile significa anche, quando è opportuno, con umorismo.
Una volta – in effetti, conosco la persona – Sua Santità il Dalai Lama era in visita ad un’università molto prestigiosa negli Stati Uniti, e una persona lasciò, nella stanza di Sua Santità, la maschera di un comico americano di nome Groucho Marx, che aveva grandi sopracciglia ed occhiali, e un grande naso, e così via, e grandi baffi. E i grandi professori, queste persone molto pompose, vennero nella stanza di Sua Santità all’hotel per avere una discussione molto intellettuale con lui. E si sedettero lì, nei loro abiti, molto seri e composti, e Sua Santità entrò nella stanza indossando la maschera di Groucho Marx. Fu fantastico, perché queste persone erano così tese e così serie, e non poterono fare altro che ridere di fronte all’assurdità di tutta la faccenda, e Sua Santità rise moltissimo. E dopo questo furono in grado di avere una conversazione molto più rilassata; prima erano così tesi che sarebbe stato terribile per loro. Ciò è davvero incredibile in termini di qualcuno come Sua Santità. È difficile immaginare che il presidente di un paese faccia questo. Sua Santità non è preoccupato di ciò che gli altri pensano di lui, o cose del genere, ma vide questo fatto come un modo molto abile per rendere le persone più a proprio agio.
Agire in modo significativo
Quindi il terzo metodo è quello di agire in un modo che sia significativo. Un modo significativo significa che… non si sta soltanto a perdere tempo, ma si cerca di incoraggiare gli altri. Sua Santità non stava scherzando soltanto per dimostrare quanto fosse intelligente, ma in modo significativo stava aiutando le persone che erano lì a rilassarsi e a non prendersi così troppo sul serio. Non è che si debba essere in ogni istante profondi ed intensi: “facciamo una conversazione profonda e significativa.” Così è troppo.
Vivere secondo ciò che si insegna
Ed il quarto è quello di vivere in modo coerente. In altre parole, se insegniamo, la disciplina di essere noi stessi un buon esempio – non insegnare qualcosa e poi essere l’opposto. Questo è il modo per fare sì che le persone siano ricettive ad imparare da noi, e per essere noi in grado di aiutarle ad un livello più profondo. Essere così dunque richiede disciplina. Non soltanto agire stupidamente tutto il tempo o sprecare tempo con le persone.
Le undici tipologie di persone da aiutare
Inoltre poi, l’autodisciplina etica di aiutare gli altri, è la disciplina di lavorare per il beneficio… Vi è una lista che apparirà molte volte negli insegnamenti sui sei atteggiamenti lungimiranti: le undici tipologie di persone che, in modo particolare, dobbiamo cercare di aiutare e di beneficiare.
Coloro che stanno soffrendo
I primi sono coloro che stanno soffrendo, coloro che provano dolore. (Si tratta di una lista molto utile, tra l’altro. Non dovreste vederla soltanto come una lista; ci dà l’idea di come non dovremmo ignorare specialmente questo tipo di persone, quando le incontriamo.)
Coloro che sono confusi su come aiutare se stessi
La seconda tipologia sono le persone che sono confuse su come aiutare se stesse. Non sanno quindi davvero cosa fare, come aiutare se stesse, come affrontare una situazione difficile. Persone come queste hanno bisogno d’aiuto. Hanno bisogno di qualche consiglio, o almeno di un po’ di comprensione nel caso in cui non sappiamo cosa fare – qualcuno che le ascolti.
Coloro che ci hanno aiutato
E quindi lavorare per aiutare chi ci ha aiutato in precedenza. È importante apprezzare la gentilezza che altre persone ci hanno dimostrato, e non trascurare i nostri genitori o chiunque sia stato gentile con noi. Non per un senso d’obbligo, ma soltanto per un sentimento di apprezzamento.
Coloro che hanno paura
E poi lavorare per aiutare coloro che sono pieni di paura, aiutarli a superarla. Cercare di confortarli.
Coloro che sono sopraffatti dal dolore mentale
Aiutare coloro che sono sopraffatti dalla sofferenza mentale. Qualcuno che ha perso una persona cara – è morta, hanno divorziato, o qualcosa del genere – ed è molto depresso.
Coloro che sono poveri e bisognosi
Aiutare coloro che sono veramente poveri e bisognosi. Perché a volte abbiamo bisogno della disciplina per far questo realmente, soprattutto se le persone sono sporche e non molto attraenti, e a noi non piace stare in loro presenza o andare dove sono. Dobbiamo avere la disciplina di non allontanarci, ma di effettivamente aiutarli.
Coloro che sono attaccati a noi
Lavorare per aiutare coloro che sono attaccati a noi e che vogliono stare con noi tutto il tempo. Non si vuole renderli dipendenti da noi, ma se hanno una così forte connessione ed attaccamento – beh, si cerca di aiutarli insegnando loro il Dharma e cose di questo tipo, se sono interessati. In altre parole, si rende significativo questo rapporto. E non dev’essere fatto in una maniera pesante, missionaria, ma soltanto in generale. Vi è certamente del karma che ci lega.
Aiutare gli altri in base ai loro desideri
E lavorare per beneficiare le persone in base alle loro preferenze e desideri. Qualcuno chiede che gli venga insegnato un certo tipo… diciamo, se siamo un maestro, se abbiamo studiato Dharma, se ci viene chiesto di insegnare una certa pratica – beh, potrebbe non essere la nostra pratica o la nostra pratica preferita, ma nel caso in cui possa essere appropriata per queste persone, insegniamo loro in base a quello che vogliono. È come se andassimo fuori al ristorante con qualcuno: non dobbiamo insistere per avere sempre lo stesso tipo di cibo che piace a noi; assecondiamo quello che vogliono loro. Ovviamente in una relazione si devono fare dei compromessi e non fare sempre quello che vuole l’altra persona, ma è importante non insistere per fare sempre a modo proprio.
Coloro che conducono vite oneste
E quindi lavorare per beneficiare coloro che conducono vite oneste – questa è l’espressione – coloro che stanno seguendo un sentiero veramente positivo e facendo un buon lavoro. Aiutarli incoraggiandoli, lodandoli, e così via. Tuttavia, ancora, quando ciò sia opportuno e utile: se va solo ad incrementare il loro orgoglio ed arroganza, allora è meglio non farlo.
Ad esempio, ero molto orgoglioso ed arrogante quand’ero molto più giovane, e lavorai per il mio maestro Serkong Rinpoche per nove anni, facendo così tanto per lui – traducendo, organizzando tutti i suoi viaggi, e occupandomi di tutte le corrispondenze, e correndo in giro per tutti i visti, e cose del genere. E in nove anni, egli mi ringraziò dicendomi “hai fatto un buon lavoro,” due volte – in nove anni. E nel mio caso questo fu molto appropriato. Per altre persone, diciamo per chi ha una bassa autostima, sarebbe stato del tutto inappropriato. Ma per chi è molto arrogante, questo è estremamente d’aiuto. E lo fu. Come disse uno dei miei maestri – Ghesce Ngawang Dhargyey – “Cosa stai facendo? Sei in piedi come un cane in attesa di essere accarezzato sulla testa dopo che hai fatto un buon lavoro, così poi scodinzoli?”
Serkong Rinpoche mi stava quindi aiutando molto in realtà. Stavo facendo cose molto positive, e mi aiutò non ringraziandomi – è così che mi aiutò – in modo che le avrei fatte semplicemente perché volevo aiutare le altre persone a ricevere beneficio dai suoi insegnamenti e dai suoi viaggi. È come se non mi avesse insegnato mai nulla [privatamente] fino alla fine dei nostri giorni assieme. Non mi insegnò mai nulla per me stesso; dovevo sempre tradurre per qualcun altro. Mi avrebbe insegnato soltanto se stavo traducendo per qualcuno. Molto, molto d’aiuto.
E mi aiutò… stavo facendo un sacco di cose positive, ed egli mi aiutò non trattenendosi mai dal chiamarmi un idiota quando mi comportavo come un idiota. Fu molto utile. Per altre persone potrebbe non essere molto utile. È stato molto duro con me.
Ora, come maestro, o come qualcuno che sta aiutando gli altri, ciò è molto, molto difficile da fare. Richiede una disciplina tremenda. Perché? Perché quando ci troviamo in tale posizione, vogliamo piacere alle persone. Non vogliamo metterli in difficoltà, perché potrebbero non gradire e andarsene. Quindi questo richiede una tremenda disciplina, agire in un modo che sia davvero di beneficio all’altra persona e non soltanto quel che pensiamo possa essere di beneficio a noi.
A volte potremmo non voler punire i nostri figli per aver agito in modo incorretto, per essersi comportati male, ma dobbiamo avere quella disciplina di essere molto rigidi con loro, perché è per il loro bene. “Non ho intenzione di darti tutto. Devi lavorare tu stesso, e guadagnartelo, in modo che lo apprezzi.” Questo richiede molta disciplina da parte dei genitori, specialmente quando possiedono i mezzi per poter dare tutto al figlio.
Coloro che conducono vite distruttive
Quindi la prossima è di lavorare per il beneficio di coloro che conducono tipi di vita molto distruttivi e negativi. In altre parole, non li respingiamo e rigettiamo, o condanniamo, o cose di questo tipo, ma se esiste una qualche maniera per aiutarli a superare questo tipo di comportamento, allora cerchiamo di attuarla. Ci sono alcuni maestri di Dharma che vanno ad insegnare nelle prigioni, ad esempio, o ad aiutare le persone che sono dipendenti dall’eroina. Ovviamente devono essere ricettivi e non devono respingerli pensando: “Oh, un drogato. Sei una cattiva persona.”
Utilizzare i propri poteri extra-fisici per aiutare gli altri
Quindi l’ultima è lavorare per recare beneficio agli altri utilizzando i propri – se ne abbiamo – poteri extra-fisici o abilità extrasensoriali. Aiutare gli altri usando queste abilità quando tutti gli altri metodi falliscono – soltanto quando sia assolutamente necessario.
Il mio maestro Serkong Rinpoche aveva certamente capacità extrasensoriali. Lo notai più volte. Una volta mi trovavo con lui in una jeep. Stavamo guidando fino al Tushita Meditation Center a Dharamsala. Eravamo quasi giunti lì, e Serkong Rinpoche disse: “sbrigati. Guida più velocemente, guida più velocemente. C’è un incendio che sta iniziando nel gompa, nella stanza dell’altare.” Quindi corremmo lì, e come previsto, una candela era caduta ed una tenda aveva preso fuoco. Non fu dunque una situazione nella quale si sentì timido a nascondere le sue capacità extrasensoriali, ma le usò per il bene degli altri. Fu molto impressionante. Egli era uno per cui la maggior parte dei lama direbbero: “se volete vedere la vera cosa, non soltanto qualcuno con un nome, egli è l’esempio della vera cosa.” Lo era.
Shantideva sull’autodisciplina etica
Soltanto alcuni punti ulteriori sull’autodisciplina etica prima di fare la nostra pausa.
Shantideva ne discute in due capitoli nel suo testo Impegnarsi nel comportamento dei bodhisattva. Il primo capitolo è intitolato “ L’atteggiamento premuroso,” ed è la base dell’autodisciplina etica. In altre parole, ci importano gli effetti del nostro comportamento, e li prendiamo seriamente. Ci preoccupiamo di non cadere sotto l’influenza delle nostre emozioni disturbanti. Ci importa e prendiamo seriamente il fatto che le altre persone siano esseri umani e abbiano sentimenti, e che se agiamo in modo distruttivo, questo li ferisce. E ci preoccupiamo delle conseguenze del nostro comportamento su di noi nel futuro. Le prendiamo sul serio. Questa è la base per l’autodisciplina etica. Se non ce ne preoccupiamo – “beh, fa lo stesso per me. Non m’importa cosa succede. Non mi importa se rimani ferito per via del mio ritardo” – allora non agiamo in alcuna maniera etica di ogni sorta.
In molte lingue, questo atteggiamento premuroso (bag-yod, sct. apramada) è un termine molto difficile da tradurre. In tedesco e in spagnolo è molto difficile, ad esempio. Anche in russo? Non significa essere… Voglio dire, fare attenzione fa un po’ parte di questo, ma non significa essere preoccupati, oppure solamente stare attenti. È prendere sul serio l’effetto del nostro comportamento.
E il secondo capitolo che Shantideva dedica a questo tema, affronta la cosciente consapevolezza (dran-pa, sct. smrti) e la vigilanza (shes-bzhin, sct. samprajanya). E cosciente consapevolezza significa mantenere una presa mentale sulla disciplina, sul tipo di comportamento, e non cadere sotto l’influenza di un’emozione disturbante. Quindi è come una colla mentale, alla quale attaccarsi. È come essere a dieta, e passare per una pasticceria e vedere questa torta deliziosa, la nostra torta preferita, in vetrina, e semplicemente resistere – non lasciar perdere la nostra dieta – “non ho intenzione di entrare lì, comprare questa fetta di torta e cadere sotto l’influenza della mia avidità e attaccamento.” Questo è molto importante per la disciplina etica. E poi la vigilanza per controllare quando iniziamo a vacillare, e diciamo “beh, magari solo un piccolo pezzo,” o qualcosa del genere. O come dice mia sorella quando è a dieta: non prende una fetta di torta; ma le briciole, quelle non contano. Le briciole, i piccoli pezzi che vengono lasciati sul piatto – quelli non contano; quelli li puoi prendere. Dobbiamo quindi stare attenti a queste cose. Questi sono i supporti per la disciplina etica, gli strumenti con i quali siamo in grado di mantenere la nostra disciplina, e che poi possiamo utilizzare in seguito per la concentrazione.
Ed infine Shantideva sottolinea tre fattori che ci aiutano a sviluppare e a mantenere questa cosciente consapevolezza.
- Il primo, egli dice, è stare in compagnia dei propri maestri spirituali, oppure pensare sempre di essere in loro presenza. Se fossimo in loro presenza, non agiremmo stupidamente o in maniera distruttiva, in virtù del nostro rispetto per loro. Questo è molto utile. “Agirei in questo modo o parlerei così in presenza del mio maestro?” E se rispondiamo di no, allora Shantideva dice: “rimani come un pezzo di legno” – non agite. Questo ci aiuta a mantenerci coscientemente consapevoli. Rimpinzarsi con tutta la torta, o urlare contro qualcuno: ovviamente non lo faremmo se fossimo a cena con il nostro maestro.
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E il secondo è seguire le istruzioni e i consigli del nostro maestro, ricordare ciò che ha detto. Questo ci mantiene coscientemente consapevoli.
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Il terzo quindi è temere le conseguenze del non essere coscientemente consapevoli. Non significa paura, ma “temo davvero… non voglio provare quelli che sono gli effetti del non essere coscientemente consapevoli.” Ciò si basa su di un senso di dignità personale, di autostima. Penso abbastanza bene di me stesso, che non voglio andare sempre giù, sempre più giù, agendo sempre sotto l’influenza della rabbia, dell’avidità, e via dicendo.
E quel che va di pari passo con questo è, Shantideva dice, il timore reverenziale nei confronti dei nostri maestri spirituali. Si tratta di un termine difficile. Non significa che abbiamo paura dei nostri maestri spirituali, del fatto che ci rimproverino o qualcosa del genere, ma timore significa che rispettiamo i nostri maestri e rispettiamo il Buddhismo così tanto che ci sentiremmo molto male al pensiero di come il nostro comportamento negativo possa riflettersi su quello che le altre persone penserebbero: “è così che gli studenti di tale e tale maestro si comportano?” O penserebbero in maniera molto negativa del Buddhismo e dell’addestramento spirituale: “E tu dovresti essere un buddhista? T’ubriachi e distruggi le cose, e t’arrabbi così tanto, e via dicendo.” È quindi in virtù di questo senso di timore reverenziale e di rispetto che manterremmo la nostra cosciente consapevolezza e disciplina etica.
Prendiamoci cinque minuti di pausa.
Quarta sessione: i quattro atteggiamenti lungimiranti rimanenti
La pazienza lungimirante
L’atteggiamento lungimirante che segue è quello della pazienza, o tolleranza. Anche questo è un atteggiamento, uno stato mentale, in virtù del quale non ci si arrabbia, ma si è in grado di sopportare difficoltà e sofferenze. Non siamo turbati o infastiditi dalla sofferenza o da chi ci ferisce. Questa è la definizione. E il suo effetto – non significa che non abbiamo più nemici o persone che cercano di ferirci, ma che non ci arrabbiamo, o scoraggiamo, o diventiamo riluttanti ad aiutare; non ci sentiamo frustrati. Non possiamo davvero aiutare gli altri se perdiamo costantemente la calma.
La pazienza di non essere turbati da coloro che ci feriscono
La prima è dunque – ce ne sono di tre tipi – la pazienza di non essere turbato da chi ci ferisce. Si tratta quindi non solo di persone che si comportano negativamente – non arrabbiarsi con loro – ma, più specificatamente, di persone che ci feriscono o che sono cattive con noi, o che ci trattano male. E non significa soltanto che ci prendono a pugni – altri che ci colpiscono – ma potrebbero essere persone che non ci ringraziano, che non ci apprezzano, tutte queste cose. Persone a cui non piacciamo, e noi ci arrabbiamo: “Oh, non sono piaciuto a questa persona!”
E, specialmente quando stiamo aiutando gli altri, è molto importante non arrabbiarsi con loro se non ascoltano i nostri consigli – essere pazienti – oppure se questi non funzionano. Ci sono un sacco di persone che sono molto, molto difficili da aiutare. Dobbiamo cercare di non arrabbiarci con loro, di non perdere la nostra pazienza, ma di sopportare piuttosto tutte queste difficoltà.
È particolarmente importante per un insegnante non perdere la pazienza con gli studenti. Anche se qualcuno è estremamente lento, o molto stupido, resta a noi, come insegnanti – anche non necessariamente insegnanti di Dharma, ma di qualunque cosa – essere pazienti, non arrabbiarci, non sentirci frustrati, ma essere abili nell’insegnare. È come insegnare qualcosa ad un bambino. Non possiamo aspettarci che il bambino sia in grado di imparare velocemente quanto un adulto.
Shantideva sullo sviluppo della pazienza
Ci sono molti, molti modi diversi di sviluppare la pazienza. Shantideva, nel testo “ Impegnarsi nel comportamento dei bodhisattva,” spiega molti, molti modi diversi. Non abbiamo davvero tempo di vederli tutti, ma soltanto uno o due.
Se ci bruciamo la mano sul fuoco o sulla stufa – beh, non ci possiamo arrabbiare col fuoco perché è caldo; è la natura del fuoco. E pertanto, allo stesso modo, cosa ci aspettiamo dal samsara? Naturalmente le persone ci deluderanno, le persone ci feriranno, le cose saranno difficili – cosa ci aspettiamo? Se chiediamo a qualcuno di fare qualcosa per noi, ci dovremmo aspettare che non lo faccia correttamente. E se lo fa in modo sbagliato, alla maniera che non ci piaceva, di chi è la colpa? È colpa nostra, per essere stati pigri ed aver in primo luogo chiesto alla persona e non averlo fatto noi stessi. Se dovessimo perciò essere arrabbiati con qualcuno, dovremmo esserlo con la nostra stessa pigrizia. Perché cosa vi aspettate dal samsara?
Questo è un punto molto, molto utile da ricordare a proposito di tutti i diversi tipi di pazienza che dovremmo sviluppare, il quale è, fondamentalmente: cosa mi aspetto dal samsara? Cosa vi aspettate? Che sia facile, che tutto funzioni bene? Che cosa mi aspetto? La natura del samsara, il quale è ogni istante delle nostre vite, è sofferenza e problemi, e cose che non funzionano esattamente nel modo in cui vorremmo, e persone che sono molto difficili e che ci deludono, e così via. Per cui, cosa ci si aspetta? Non sorprendiamoci. È per questo che vogliamo uscirne.
È come lamentarsi, qui in Lettonia, perché l’inverno è freddo e buio. Beh, cosa ci si aspetta dall’inverno – che sia bello, caldo, che si possa passeggiare in giro, prendere il sole in costume? Cosa ci si aspetta? È come la natura del fuoco. La natura del fuoco è quella di essere rovente. Cosa ci si aspetta? Naturalmente ci bruceremo se ci mettiamo dentro la mano, se si prende la pentola rovente dal piano cottura con la mano. Cosa ci si aspetta? Quindi, non ha alcun senso arrabbiarsi.
E quindi solamente un’altra ancora: la pazienza che possiamo sviluppare considerando le altre persone come fossero dei pazzi, oppure dei bambini. Se una persona pazza, oppure ubriaca, ci urla contro, siamo ancora più pazzi noi ad urlarle contro a nostra volta. Oppure, se nostro figlio di due anni dice… quando diciamo ai nostri figli che è l’ora di andare a letto e spegniamo la televisione, e loro dicono: “ti odio!” Prendiamo veramente la cosa sul serio e ci arrabbiamo e ci agitiamo perché ci odiano? È un bimbo. Il bimbo è stanco; lo mettiamo a dormire, a letto. E così, allo stesso modo, vedendo le altre persone, quando si comportano così e sono troppo stanche, sono irritabili, pensare: “sono come dei bambini” oppure “si stanno comportano come persone pazze ora.” Questo ci aiuta a non arrabbiarci con loro.
E anche se qualcuno ci sta rendendo le cose molto difficili, è sempre molto utile vedere tale persona come il nostro maestro: “Questo è il mio maestro di pazienza. Se le persone non mi dessero problemi, non sarei mai in grado di imparare la pazienza o non verrei mai messo alla prova. Sono pertanto molto gentili a rendermi le cose difficili.” Sua Santità il Dalai Lama dice sempre che i cinesi, le autorità cinesi, sono… Mao Zedong è il suo miglior maestro, il suo maestro di pazienza. La persona fastidiosa in ufficio – maestra di pazienza.
La pazienza di sopportare la propria sofferenza
Quindi il secondo tipo di pazienza è quello di accettare e di sopportare le proprie sofferenze. Shantideva parla abbastanza di questo, e dice che nel caso in cui si provi sofferenza, ci si trovi in una situazione difficile, se vi è qualcosa che si possa fare, basta farla – senza arrabbiarsi o infastidirsi, perché questo non aiuterà. E se non vi è nulla che si possa fare, allora perché arrabbiarsi o infastidirsi? Anche questo non aiuterà. Per cui, se è freddo, e abbiamo dei vestiti caldi, perché arrabbiarsi e lamentarsi che è freddo? Indossiamo i vestiti caldi. E se non si hanno vestiti caldi, perché arrabbiarsi e infastidirsi? Ciò non ci farà sentire in ogni caso caldi.
Possiamo inoltre guardare alla nostra sofferenza come… Essere felici al riguardo, nel senso che sta bruciando ostacoli negativi – karma negativo che sta maturando – e ricordare che è positivo se ci si libera di questo ora, perché in futuro potrebbe essere anche peggiore. E pensare inoltre che è una cosa molto buona che questo karma negativo stia maturando ora in questa forma, perché non importa quanta sofferenza si provi, potrebbe sempre essere peggiore. Per cui, in un certo senso, ce la stiamo cavando con poco.
Se andiamo a sbattere al buio col piede contro il tavolo, e fa veramente male – bene, questo è molto positivo, perché avremmo potuto romperci la gamba. “È meglio che sia successo questo piuttosto che rompersi la gamba.” Questo ci aiuta a non arrabbiarci. Dopotutto, saltare su e giù e fare una grande sceneggiata quando ci fa male il piede perché lo abbiamo sbattuto – questo non aiuterà. Anche se la nostra mammina viene e ci dà un bacio, non aiuta; fa ancora male.
Inoltre, se stiamo cercando di fare qualcosa di molto positivo e costruttivo, se vi sono numerosi ostacoli e difficoltà all’inizio, questo è fantastico. Cercare di fare qualcosa di veramente molto positivo, come voler fare un lungo ritiro o qualche buon progetto di Dharma, o fare un viaggio per aiutare gli altri, e così via. Se all’inizio si comincia con grandi ostacoli e problemi – non necessariamente grandi cose (ci si rompe una gamba o qualcosa del genere), ma se vi sono difficoltà all’inizio – ciò è molto positivo perché si può guardare ad esso come: “Va bene, questo sta bruciando gli ostacoli in modo che il resto dell’impresa vada bene.” E si può quindi essere felici del fatto che stiamo bruciando [gli ostacoli] ora piuttosto che avere un grosso problema in seguito.
Partecipante: Anche all’inizio…
Alex: All’inizio, è un buon segno se le cose sono difficili.
Partecipante: E se all’inizio va tutto bene, poi gli ostacoli ce li hai davanti.
Alex: Esatto. Perché quando si cerca di fare qualcosa di positivo ci sono sempre ostacoli.
Come dice Shantideva, la sofferenza e i problemi hanno anche qualità positive. Ciò non significa che dobbiamo uscire a cercarli, perché il sentiero che dobbiamo intraprendere è quello di torturarci e provare sofferenza. Non significa questo. Ma se proviamo sofferenza, allora vi sono diverse buone qualità che possiamo apprezzare, in quanto la sofferenza diminuisce la nostra arroganza, tanto per cominciare; ci rende più umili. Ci aiuta inoltre a sviluppare compassione per gli altri che stanno soffrendo problemi di tipo simile. Ad esempio, se si ha una certa malattia, si possono apprezzare altre persone che hanno la stessa malattia; in caso contrario non si ha idea di cosa sia la loro sofferenza. Invecchiando e provando i dolori della vecchiaia: non si prova molto facilmente compassione per le persone anziane quando abbiamo sedici anni, ma quando ne abbiamo sessanta e si comincia a provare tutto questo sulla propria pelle, allora si prova una grande compassione e si ha comprensione verso gli anziani. Ed inoltre, se comprendiamo il karma (causa ed effetto comportamentali) se stiamo soffrendo, questo davvero ci porta ad evitare molto più fortemente di agire in modo distruttivo e negativo, il quale è la causa della nostra sofferenza, e ad impegnarci più fortemente in azioni positive, costruttive, che saranno la causa della nostra felicità. Ci incoraggia.
La pazienza di sopportare le avversità per il bene del Dharma
Il terzo tipo di pazienza è la pazienza di essere determinati a sopportare le avversità implicate nello studio e nella pratica del Dharma. Quando stiamo cercando di meditare, di lavorare per raggiungere l’illuminazione e via dicendo, questo richiede un periodo di tempo molto lungo, e una tremenda quantità di lavoro e di sforzo, e dobbiamo perciò essere molto realisti al riguardo e non scoraggiarci. Essere pazienti con questo. Essere pazienti con noi stessi. Non significa che dobbiamo trattare noi stessi come dei bambini, ma essere pazienti.
Credo sia molto importante comprendere ed accettare veramente il fatto che la natura del samsara è quella di avere alti e bassi. E questo non significa solamente che si hanno rinascite superiori e inferiori, ma che si hanno alti e bassi tutto il tempo. Per cui a volte abbiamo voglia di praticare; a volte non abbiamo voglia di praticare. A volte la nostra pratica procede bene; a volte non procede bene. Cosa ci aspettiamo? Questo è il samsara. Non migliorerà ogni giorno, pertanto dobbiamo essere pazienti e non essere frustrati, non arrabbiarci e non mollare. “Pensavo di essermi preso cura della mia rabbia e che non mi sarei mai più arrabbiato,” e poi, all’improvviso, succede qualcosa e ci arrabbiamo di nuovo. Succede. Non ci sbarazzeremo di questo fino a quando non diventeremo liberati, un arhat, per cui siate pazienti.
Perseveranza gioiosa lungimirante
Quindi il quarto atteggiamento lungimirante è chiamato perseveranza gioiosa o felice. È uno stato mentale, ancora una volta, con il quale si prova felicità nell’agire in modo positivo e costruttivo. E non si tratta di provare piacere giocando ai videogiochi o andando a caccia. Stiamo parlando di gioire per qualcosa che è positivo e costruttivo. E non stiamo parlando di avere semplicemente un atteggiamento da gran lavoratore, in cui odiamo il nostro lavoro ma lo facciamo comunque per un senso di dovere o di colpa, di obbligo, o qualcosa del genere, oppure soltanto in maniera meccanica. Sapete, un maniaco del lavoro. E non si tratta di quello che viene chiamato un “entusiasmo di breve durata,” che significa: siamo tutti eccitati nel fare qualcosa e ci mettiamo una tremenda quantità di sforzo in questo, come dei fanatici, e poi dopo una settimana ci viene l’esaurimento e molliamo. Non stiamo parlando di questo entusiasmo temporaneo. Quello di cui stiamo parlando è qualcosa di duraturo… È per questo che la chiamiamo perseveranza: è duratura; prosegue sempre avanti. E una delle ragioni per cui persiste è che ci piace quello che stiamo facendo, ed è positivo. Questa perseveranza gioiosa è l’avversaria della pigrizia, l’opposto della pigrizia.
Perseveranza gioiosa simile ad una corazza
Vi sono tre tipi di perseveranza gioiosa. La prima è la perseveranza gioiosa che è simile ad una corazza. Si tratta della volontà di continuare ad andare avanti senza fermarsi. Non importa quanto sia difficile, non importa quanto ci si impieghi, si va avanti senza scoraggiarsi e senza impigrirsi. Se ci si aspetta che il sentiero del Dharma (o qualsiasi cosa positiva si stia facendo) sia infinito, e si è disposti ad andare addirittura negli inferni per poter aiutare gli altri, e così via, allora non ci si farà impigrire o scoraggiare da qualche problema di minore importanza che può nascere. “Niente mi scuoterà.” È come una corazza; ci protegge da qualsiasi difficoltà che sorge. “Non m’importa quanto difficile sarà. Non mi importa quanto ci impiegherò. Io lo farò.”
Più tempo ci aspettiamo di impiegarci per raggiungere l’illuminazione, più rapidamente questa arriverà. Se ci aspettiamo che avvenga in modo immediato e veloce, ci potrebbe volere un tempo infinito. Se siamo ansiosi di ottenere un’illuminazione istantanea, veloce, e di trovare la via facile, veloce, e così via, questo è, in sostanza – come viene detto in alcuni grandi testi, e come spiegano grandi maestri – un segno di egoismo e di pigrizia, del fatto che non vogliamo davvero spendere molto tempo aiutando gli altri e via dicendo. “Basta che raggiungiamo l’illuminazione. Sarà fantastico.” E siamo fondamentalmente pigri. Non vogliamo dedicarci al duro lavoro che questo comporta. La vogliamo scontata, a buon mercato, la più economica possibile. Stiamo cercando un affare. Questo non funziona.
Per cui, se abbiamo questa compassione per la quale pensiamo: “lavorerò per tre zilioni (grangs-med, incalcolabili) di eoni per accumulare forza positiva aiutando gli altri,” questa portata enorme di compassione è ciò che ci porterà molto più velocemente all’illuminazione.
La perseveranza gioiosa applicata ad azioni costruttive
Il secondo tipo di perseveranza gioiosa è la perseveranza gioiosa del condurre azioni costruttive, positive, per accrescere la forza positiva che ci porterà all’illuminazione. In altre parole, gioire e non essere pigri nell’intraprendere le pratiche preliminari (le prostrazioni e via dicendo), nello studiare, nell’imparare, nel meditare, e tutte queste cose che abbiamo bisogno di fare, ed essere felici di farle.
La perseveranza gioiosa di lavorare per il beneficio degli esseri limitati
Il terzo tipo, poi, è la perseveranza gioiosa che è coinvolta nel lavorare per aiutare o recare beneficio agli altri. Questa perseveranza gioiosa nel lavorare per aiutare gli altri viene anche spiegata nei termini dei quattro modi di radunare [discepoli], o di rendere gli altri ricettivi ai nostri [insegnamenti], e delle undici maniere di aiutare gli altri (gli undici tipi di persone che vorremmo aiutare). Ricordate, avevamo l’autodisciplina etica di aiutare in questi undici tipi di situazioni. La pazienza coinvolta nella pratica del Dharma possiamo anche spiegarla nei termini di aiutare in queste undici maniere. E abbiamo poi la perseveranza gioiosa di aiutare in queste undici maniere. Dunque questo significa che le due cose non sono identiche. Quello a cui ci stiamo riferendo è che, quando stiamo realmente aiutando queste categorie di persone nei diversi modi che sono opportuni, allora, attraverso la perseveranza gioiosa siamo veramente felici di sforzarci per aiutarle. E, attraverso la pazienza, sopporteremo qualunque difficoltà che ciò comporta. E con l’autodisciplina etica eviteremo tutte le emozioni disturbanti che ci impedirebbero di aiutarle realmente. Si supportano a vicenda.
I tre tipi di pigrizia
Queste diverse tipologie di perseveranza gioiosa vengono interrotte dalla pigrizia; pertanto, per riuscire a praticarle e a svilupparle, dobbiamo superare la pigrizia. E ve ne sono di tre tipi.
La pigrizia della procrastinazione
La prima è la pigrizia della procrastinazione, rimandare le cose a domani. Per far fronte a questa è necessario meditare sulla morte e l’impermanenza – la morte può giungere in qualsiasi momento – e sulla difficoltà di ottenere una preziosa rinascita umana, la quale ci dà l’opportunità di attuare qualcosa di positivo.
Tuttavia, a proposito di questo, mi viene in mente uno dei miei koan Zen preferiti: “La morte può arrivare in qualsiasi momento, rilassati.” Fa molto bene pensare a questo. È vero che la morte può sopraggiungere in qualsiasi momento, ma se siamo molto tesi e nervosi al riguardo, non saremo mai in grado di realizzare niente – “devo fare tutto oggi” – e si diventa fanatici. Sì, la morte può arrivare in qualsiasi momento. Se vogliamo approfittarne e fare le cose adesso, dobbiamo essere rilassati rispetto a questo fatto, non pieni di questa intensa paura della morte: “non avremo abbastanza tempo.”
La pigrizia di essere attaccati a cose irrilevanti
Quindi il secondo tipo è la pigrizia di essere attaccati a cose irrilevanti. Giusto? Sprechiamo così tanto tempo a guardare la TV, o in chiacchiere con gli amici, a parlare di sport… Questo genere di cose spreca una tremenda quantità di tempo, e si tratta, in sostanza, di pigrizia. È molto più facile sedersi di fronte alla televisione che meditare. O essere attaccati solo a cose ordinarie, mondane, perché le troviamo divertenti, che si tratti di astrologia, qualsiasi cosa sia – questo genere di cose a cui, nuovamente, siamo attaccati perché si è pigri, c’è pigrizia, e non vogliamo cercare di fare qualcosa che è forse più difficile e più significativo.
Questo non significa che non ci fermiamo mai a divertirci o rilassarci. A volte abbiamo bisogno di questo per ravvivarci, ma il punto è quello di non attaccarci a tutto ciò, ed esagerare per via della pigrizia. Si fa una pausa, si va a fare una passeggiata o qualcosa del genere, ma non si rimane attaccati a questo. Quando ne abbiamo avuto abbastanza, si torna a ciò che si stava facendo e che è più positivo.
E il modo di superare questo tipo di pigrizia è quello di pensare a come i piaceri e la soddisfazione provenienti da queste cosiddette realizzazioni mondane ed attività mondane, non possano mai portarci una felicità duratura. Soltanto allenarci veramente ai metodi del Dharma è in grado di far ciò. Se siamo capaci di calciare un pallone tra due pali in una rete, e spendiamo tutto il nostro tempo a fare questo e ad allenarci a questo, ciò non ci conferirà nemmeno una rinascita migliore. Certamente l’essere in grado di calciare una palla dritta non ci conferirà la liberazione o l’illuminazione.
Il punto, quindi, è non attaccarsi. Se lo si fa per rilassarsi, o qualcosa del genere, è una cosa. Ma essere attaccati a questo, e sforzarsi totalmente solo su questo perché si è pigri per fare qualcosa di più costruttivo – questa è pigrizia; è un avversario, un ostacolo, al fatto di gioire veramente nel fare qualcosa di costruttivo.
Superare la pigrizia di non sostituire le batterie del registratore.
La pigrizia delle illusioni d’inadeguatezza
Il terzo tipo di pigrizia è la pigrizia delle illusioni d’inadeguatezza. “Questo è troppo difficile per me. Non lo posso fare. Come può una persona umile come me raggiungere mai l’illuminazione o fare una qualsiasi di queste cose?” Questa è una forma di pigrizia. Non ci proviamo nemmeno, perché pensiamo: “sono incapace.”
Per far fronte a questo, dunque, pensiamo alla natura di Buddha, alle varie qualità che possediamo, e così via. Ci sono molte cose che possiamo ricordare a noi stessi che sono in grado di aiutarci a contrastare ciò. “Se così tante persone sono capaci di trascorrere tutto il giorno lavorando soltanto per un poco di profitto vendendo gomme da masticare o cose del genere, e sono disposti a star seduti lì per ore e ore ogni giorno, allora io sarò capace di usare il tempo [che ho] per essere in grado di fare qualcosa di più significativo. Se sono capace di stare in coda per ore e ore per avere un biglietto per un concerto, o di stare in coda per molte ore per comprare il pane, non dovrei pensare di essere incapace di fare qualcosa di più costruttivo che mi permetta di raggiungere l’illuminazione.”
I quattro supporti per lo sviluppo della perseveranza gioiosa
Shantideva spiega quattro supporti che sono in grado di aiutarci a sviluppare la perseveranza gioiosa.
Convinzione nei benefici del Dharma
Il primo è una ferma convinzione nelle qualità positive e nei benefici del Dharma.
Stabilità basata sulla fiducia in se stessi e sulla natura di Buddha
Il secondo è una determinazione e una stabilità basate sulla fiducia in se stessi e sulla natura di Buddha. Se siamo davvero convinti della natura di Buddha – le capacità basilari sono lì – allora abbiamo fiducia in noi stessi; e se abbiamo fiducia in noi stessi, saremo costanti e stabili nel nostro sforzo. Questo è quindi un supporto.
Gioia in ciò che si sta facendo
Il terzo poi è la gioia in ciò che si sta facendo. Un sentimento di soddisfazione personale. È molto soddisfacente ed appagante lavorare allo sviluppo di se stessi e così via, lavorare per aiutare gli altri, per cui questo conferisce un senso di gioia.
Sapere quando riposarsi
Il quarto è sapere quando prendersi una pausa. Non forzare se stessi fino al punto in cui si cede, si rinuncia e non si vuole più tornare indietro. Non spingere se stessi troppo duramente. Ma, d’altra parte, non trattare se stessi come un bambino: ogni volta che ci si sente un po’ stanchi, stendersi a fare un pisolino.
E in realtà si tratta di un punto molto interessante. Trijang Rinpoche, il fu tutore giovane di Sua Santità, diede il seguente consiglio. Disse che quando si è veramente tanto di cattivo umore, e ci si sente molto negativi, e via dicendo, e nessuno degli altri metodi di Dharma sembra davvero funzionare o aiutarci, la cosa migliore è fare un pisolino. Fare un breve sonnellino, e quando ci si sveglia, il proprio umore sarà diverso, soltanto per la natura stessa del sonnellino. Molto pratico. Vi piace questo?
Partecipante: Sì.
Traduttore: L’ho provato molte volte.
Due ulteriori fattori per lo sviluppo della perseveranza gioiosa
Alex: Assieme a questi quattro supporti per la perseveranza gioiosa, Shantideva sottolinea altri due fattori che ci vengono in aiuto. Questi sono: (a) accettare quel che è necessario praticare, e accettare quel che è necessario smettere di fare; (b) accettare le difficoltà implicate – tutto questo sulla base di un’esame realistico dei tre, e delle nostre capacità di affrontarli. Di accettarli.
Traduttore: Accettare …
Alex: Accettare di dover fare questo e questo e questo per aiutare gli altri, o per raggiungere l’illuminazione, o per fare qualsiasi altra cosa costruttiva che voglio fare. Ed accettare il fatto che si dovrà smettere di fare questo e quello, ed il fatto che ci saranno avversità. E lo si accetta, prendendosene la responsabilità, dopo aver esaminato molto bene, realisticamente, cosa comporta fare ciò, e la propria capacità di farlo.
Non avere un atteggiamento irrealistico. Se si ha intenzione di fare prostrazioni, centomila prostrazioni, si considera la cosa in modo realistico. Ci saranno difficoltà – ci faranno male le gambe, ci stancheremo, tutte cose del genere – ma terremo a mente i benefici di tutto ciò. E cosa si dovrà smettere di fare? Si dovrà trovare il tempo per farlo, e sarà difficile. E quindi si esamina realisticamente, per capire: “Posso farlo? Ho l’artrite o i reumatismi che m’impediranno di farlo?” Questo genere di cose, accettando quindi la realtà di ciò che comporta. Se la si accetta, allora ci si può mettere il cuore in questo, con gioioso entusiasmo.
Il secondo è che, sulla base di questo atteggiamento realistico di accettare ciò che comporta, dobbiamo prendere il controllo di noi stessi per impegnarci. In altre parole con forza di volontà, questo genere di cose. Non permettersi d’agire in qualsiasi vecchio modo, in qualsiasi maniera, ma [pensare] realmente: “Va bene, ho intenzione di non cadere sotto il controllo della mia pigrizia, e così via.” Prendere il controllo e impegnarsi veramente in questa cosa positiva che vogliamo fare. “ Metterci l’anima,” come diremmo in inglese.
Stabilità mentale lungimirante
Ora è piuttosto tardi e non abbiamo molto tempo per gli ultimi due atteggiamenti lungimiranti. E ciascuno di essi, specialmente nella letteratura sul lam-rim, è trattato molto, molto brevemente. E quindi poi c’è l’enorme sezione che tratta il modo in cui si sviluppano la concentrazione e la meditazione, e il modo in cui si sviluppa la comprensione della vacuità. Per cui ovviamente non c’è tempo per affrontarle. Ci vorrebbero molti giorni per ognuno. Questo quindi può essere lasciato per un’altra volta.
Ma la stabilità mentale… In alcuni testi, si parla di questo come di uno stato della mente che è in grado di focalizzare la nostra attenzione in maniera univoca su qualsiasi oggetto adatto positivo, costruttivo, senza che l’attenzione vaghi, diventi offuscata, assonnata, e via dicendo. Questo sia che si stia facendo meditazione, sia che si stia aiutando qualcuno o ascoltando quel che sta dicendo.
E Shantideva spiega questo in termini di stabilità mentale. Ovvero che in aggiunta a ciò, per ottenere davvero questo tipo di concentrazione, è necessaria una stabilità mentale nella quale non si hanno più gli alti e bassi causati dalle emozioni disturbanti. In quanto sono le emozioni disturbanti che ci fanno diventare… Con la divagazione mentale ci lasciamo trasportare verso qualcosa che è attraente, oppure diventiamo offuscati e pesanti. E quindi egli descrive questo all’interno di una più ampia prospettiva di stabilità mentale ed emozionale. Ed esistono molte divisioni, molte maniere diverse di suddividere i diversi tipi di stabilità mentale. Quasi ciascun testo e tradizione la suddivide in modo differente, per cui non ha senso entrare in un’enorme lunga discussione su tutti i differenti modi in cui può essere divisa – in termini di ciò su cui ci stiamo concentrando, concentrazione in termini di fare questo, in termini di fare quello, e così via.
Consapevolezza discriminante lungimirante
E la consapevolezza discriminante, tradotta a volte come saggezza, è lo stato mentale con il quale siamo in grado di discernere correttamente e in modo definitivo tutti i fenomeni conoscibili, il modo effettivo in cui essi esistono. Possiamo distinguere fra ciò che è utile o dannoso, opportuno o inopportuno, e tutte queste cose. Quindi questo si può applicare alla discriminazione fra il modo in cui le cose realmente esistono, e il modo in cui non esistono (ciò che è impossibile). Ma può anche avere un campo d’applicazione molto più vasto, non solo riguardante la comprensione della vacuità.
Anche questa può essere suddivisa in molti modi diversi, e vari testi la suddividono in modi diversi a seconda della cosa verso cui questa consapevolezza discriminante è diretta, se è in termini di realtà o in termini di cose convenzionali – se si è un dottore, qual è la medicina appropriata da dare e quale quella inappropriata, e via dicendo. Vi sono molti schemi in cui suddividerla, per cui non è necessario trattarli tutti.
Vi sono molti altri punti che possono essere discussi su questi sei atteggiamenti lungimiranti – oppure, come dicevo, esiste una lista di dieci, in cui c’è un’altra serie di quattro, le quali sono in sostanza suddivisioni di questa consapevolezza discriminante – tuttavia per ora credo che questo sarà sufficiente per la nostra introduzione.
Domande e risposte
Quindi forse c’è un po’ di tempo per una o due domande, tuttavia è abbastanza tardi, lo so, per cui non proseguiremo troppo in questa direzione.
Domanda: Che cos’è la vacuità?
Alex: Vacuità non significa nullità; significa un’assenza, una totale assenza. Non vi è mai stata una tale cosa; non vi sarà mai. E quindi quel che è totalmente assente sono i modi impossibili di esistenza, modi di esistenza delle cose i quali non sono proprio possibili. Tali cose esistono con… Stavo per dare un esempio molto semplice: [cose che esistono] con una linea solida attorno a loro, incastonate in solida plastica, sedute lì fuori da sole, indipendenti da tutto il resto. Ciò è impossibile. Nulla di tutto questo. Questo è ciò che significa vacuità. Non esiste una cosa del genere – non è mai esistita; non ci sarà mai. Impossibile. E questo è quanto dobbiamo realizzare, perché noi immaginiamo che le cose esistano in questo modo, e la nostra mente fa apparire le cose in questo modo.
Bene, che cosa è impossibile? I diversi sistemi filosofici buddhisti indiani hanno affinato, in maniera sempre più sottile, ciò che è impossibile. Vi sono dunque molti differenti modi che sono impossibili. Il primo.
E il secondo punto è che alcune delle tradizioni tibetane operano una distinzione fra quella che viene chiamata vacuità di sé (rang-stong) e vacuità d’altro (gzhan-stong). La vacuità di sé è quanto ho appena spiegato. E la vacuità d’altro si riferisce alla natura di chiara luce della mente (‘od-gsal, consapevolezza di chiara luce), la quale è priva di – e non è mai stata macchiata da – questi livelli grossolani dove vi sono tutte le emozioni disturbanti e questi modi di apparire che la mente crea e che sono impossibili; non è mai stata macchiata da questo. È totalmente priva di questo. Per cui queste macchie passeggere (glo-bur-gyi dri-ma) non sono presenti nella natura della mente, la mente di chiara luce. Questo è un altro uso del termine vacuità. Lo trovate certamente nella scuola Karma Kagyu, in molti degli autori Nyingma e in diversi altri, alcuni della scuola Sakya.
Altre domande?
Domanda: Com’è possibile che la mente possa creare l’immagine impossibile? Il fatto che già abbia creato tale immagine significa che…
Alex: La domanda era: Come può sorgere un’apparenza di ciò che è impossibile? Ciò che sorge non è quello che è impossibile. Quel che sorge è un’apparizione, o una sensazione di essa, una sua rappresentazione quindi, ma non l’effettiva cosa impossibile.
La mente potrebbe dar luogo alla comparsa di un invasore dalla quinta dimensione, ma non può dar luogo all’effettivo invasore; tuttavia noi potremmo immaginare che vi sia. Oppure il bambino che pensa che vi sia un mostro sotto il suo letto. Egli ha la rappresentazione mentale, e la sensazione, così come naturalmente la paura che si presenta assieme a ciò, e la paranoia ecc. Non significa che crei il mostro sotto il letto.
Stiamo quindi parlando non soltanto del fatto di creare un’apparenza di una cosa impossibile – come il mostro sotto il letto – stiamo parlando dell’apparenza di una modalità di esistenza che è impossibile. La nostra mente dà origine all’apparenza che, per esempio, giusto un esempio molto semplice, le cose siano solide: questo corpo è solido, il tavolo è solido, il pavimento è solido. Bene, non sono solidi. Sono formati da atomi – e vi è un sacco di spazio tra ogni atomo – e campi di energia, e cose del genere. È impossibile che si tratti di qualcosa di solido, ma la mente li fa apparire così. Che li si guardi sotto ad un microscopio o no, sono comunque fatti di atomi – non fa differenza.
Sembra – la nostra mente fa sembrare – che il liquido all’interno di questa bottiglia sia rosa: da parte sua, è rosa. Bene, ciò è impossibile. Se lo si guarda al buio, non è per niente rosa. Se lo si guarda al di sotto di una luce bluastra, non è per niente rosa. Tutto dipende dalla luce. E se si è daltonici, non è per niente rosa. Non esiste, pertanto, come rosa da parte sua; dipende dall’illuminazione, dagli occhi e così via.
Partecipante: La tecnologia stessa della mente immagina cose.
Alex: La tecnologia. Beh, come abbiamo spiegato l’altro giorno, la mente… stiamo parlando dell’attività mentale. E attività mentale non significa che è una macchina chiamata la mente a fare questo. L’attività mentale è semplicemente il sorgere di apparenze, e questo è ciò che è la percezione. E dunque il sorgere di apparenze è dovuto alle nostre abitudini di ingenuità, alla nostra ignoranza, e così via. Questo dà luogo tutto il tempo ad apparenze ingannevoli. È ingannevole: sembra che esista in una data maniera, ma non è così.
Partecipante: La vacuità è il modo di esistenza naturale di tutte le cose.
Alex: Esatto.
Su questa nota molto felice, terminiamo qui con la dedica, prima di incappare in qualche altro problema. Dedica: pensiamo che qualsiasi comprensione abbiamo ottenuto, auguriamoci che possa andare sempre più in profondità, ed agire come causa per il raggiungimento dell’illuminazione per il beneficio di tutti.
Va bene, grazie mille.
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