Pratityasamutpada di Nagarjuna

La dottrina fondamentale del ’Pratityasamutpada’ di Nagarjuna; di Ewing Chinn  (Trinity University, Dipartimento di Filosofia Orientale) Gennaio 2001. Vol. 51, Iss. 1;  pg. 54, 19 pgs.

Nagarjuna contende che la dottrina del Pratityasamutpada (originazione dipendente), propriamente compresa, costituisca la base filosofica per il rifiutare ed evitare tutte le teorie e concetti metafisici (incluso quello della causalità). La similare dottrina di ‘shunyata’ costituisce il rifiuto di un metafisico realismo (o “essenzialismo”), anche se essa non implica una convenzionale prospettiva anti-realistica della realtà (come Jay Garfield sostiene).

Sembra proprio che lo stesso ultimo verso del Mulamadhyamakakarika (Versi Fondamentali della Via di Mezzo), la provocatoria opera di Nagarjuna, presenterebbe al lettore quello che sembra essere un indovinello: “Io mi prostro a Gautama, che tramite la compassione, insegnò la vera dottrina che conduce all’abbandono di tutte le visioni” (27:30). Questo dovrebbe essere letto con un precedente verso (13:8): “I Vittoriosi dissero che la ‘vacuità’ è l’abbandono di tutte le visioni. Per chiunque la vacuità sia una visione, costui non realizzerà mai niente”(1). Poiché l’ultimo capitolo riguarda una serie di domande circa il ‘sé’ ed il mondo, si capisce così che molti commentatori presumerebbero che la “vera dottrina” di cui parla Nagarjuna sia la dottrina di ‘shunyata’, ma questo dà a questi versi un carattere paradossale. Gautama raccomanda una dottrina per noi (noi e tutti quelli che sperimentano il mondo) in cui tutto è shunya , cioè vuoto di essenza e quindi di esistenza inerente, indipendente. E questa visione anti-realista, anti-essenzialista delle cose (che è come alcuni interpretano la shunyata) rende possibile e perfino costituisce l’abbandono di tutte le visioni, incluse le sue? Non può essere una semplice e banale affermazione che per accettare la verità di shunyata bisogna abbandonare tutte le altre visioni errate. Quindi Nagarjuna sta misteriosamente confutando se stesso? Oppure sta dicendo un paradosso?

Io disputerò che non c’è alcun paradosso o problema di auto-confutazione, perché la vera dottrina a cui Nagarjuna si riferisce non è shunyata, ma la dottrina delpratityasamutpada (sorgere dipendente, o originazione). E ciò che i versi asseriscono è che se capiamo ed accettiamo questa dottrina, noi non avremo più il bisogno o la tendenza a mantenere una qualche visione sulla natura delle cose, inclusa la tendenza a creare una visione con la dichiarazione che “tutto ciò è shunya”. Come ciò sia possibile, che accettare la dottrina rende possibile “abbandonare tutte le visioni”, certamente dipende da quale tipo di dottrina sia questa e come essa sarà distinta da una “visione”. Parte del mio argomento è, chiaramente, che né il pratityasamutpada, né l’asserzione che “tutto ciò è shunya”, non dovrebbero esser presi come se implicassero anche una qualche visione metafisica – nichilismo, assolutismo, o anti-realismo (le più comuni interpretazioni metafisiche). Non c’è dubbio che il maggior obiettivo della critica filosofica di Nagarjuna sia il realismo metafisico. Ma questo non significa che la critica debba sostenere una visione metafisica alternativa.

Il punto logico per cominciare è il capitolo 1, “Esame delle Condizioni” in cui il soggetto di discussione è il concetto di pratityasamutpada, ma non è del tutto chiaro ciò che Nagarjuna sta cercando di stabilire con questo concetto. Jay Garfield, nella sua recente traduzione del Mulamadhyamakakarika e commentario intitolato La Saggezza Fondamentale della Via di Mezzo, offre un’interpretazione unica del punto di questo capitolo, che io seguirò in qualche misura anche nella sua analisi del testo (2). Tuttavia, noi divideremo i punti cruciali del capitolo, con riguardo a quello in cui si trova Nagarjuna.

Sulla Natura e Significato del Pratityasamutpada

In questo primo capitolo, Garfield nota che “Nagarjuna distingue due possibili visioni di originazione dipendente o processo causale – una secondo cui le cause provocano i loro effetti in virtù dei poteri causali, e una seconda in cui le relazioni causali semplicemente si sommano a regole esplicative ed utili – e lui sembra difendere quest’ultima”(3). Il che significa, secondo Garfield, che Nagarjuna difende il pratityasamutpada come una regola, o come la teoria della causalità di Hume, contro una interpretazione essenzialista o realista. Quest’ultimo contende che mentre noi possiamo citare uno o più fattori o eventi come la condizione causale di un qualche effetto, è la forza o il potere in queste condizioni che è realmente causa dell’effetto. La critica fondamentale di Nagarjuna di questa visione realista è compendiata nel quarto verso:

Il potere di agire non ha condizioni. Non c’è alcun potere per agire senza le condizioni. Non ci sono condizioni senza il potere di agire. Né alcuno che abbia il potere per agire’.

Nagarjuna nel secondo verso aveva notato che dispiegamenti causali senza eccezione richiamavano una o più dei quattro tipi di condizioni:

Ci sono soltanto quattro condizioni, vale a dire, la condizione primaria, la condizione che si sostiene oggettivamente, la condizione immediatamente contigua e la condizione dominante. Una quinta condizione non esiste’(4).

Così, per esempio, per spiegare l’accensione di un fiammifero, citiamo lo sfregamento del fiammifero come la condizione primaria o causa efficiente di quell’evento. Quindi, “Non c’è nessun potere che può agire senza le condizioni”. Cioè, parlare di poteri causali sorge soltanto nel contesto dell’efficacia causale di una o più di queste condizioni. Noi diciamo, “il fiammifero si accenderà se è sfregato”, o “ogni qualvolta un fiammifero è sfregato si accenderà”. In altre parole, Nagarjuna non ha nessun problema a parlare di condizioni che hanno il potere di provocare un effetto, se questo è inteso solo come un altro modo di esprimere la formula buddista “ogni qualvolta accade questo, accadrà quello”. Ciò da cui il verso 4 mette in guardia, confonde una proprietà funzionale delle condizioni causali con un’esistente proprietà essenziale, chiamata il “potere di agire”. Non soltanto tale indescrivibile forza occulta o potere non è evidente né riscontrabile ma, assai più importante, postulare la sua esistenza, viola il dogma fondamentale che nulla può esistere senza una causa. E cioè, un “essenziale, inerente potere, per agire non ha condizioni”. Perciò, mentre “non ci sono condizioni senza il potere di agire”, stiamo commettendo l’errore di reificazione, se noi sosteniamo che le condizioni hanno il potere di agire. Dove troveremmo le condizioni necessarie per spiegare perché certe cose hanno tali poteri occulti ed altre non lo hanno? Non ci può essere dispiegamento causale per tali poteri. la causalità, così è semplicemente ‘sorgere-dipendente’: un certo tipo di effetto invariabilmente entra in esistenza a seguire, o come il risultato dell’esistenza di un certo ‘stato’ di attinenti relative condizioni.

Ma ci sono anche problemi comunemente riconosciuti con ogni teoria di regolarità della causalità. Noi sappiamo che in natura ci sono regolarità che comportano causalmente eventi o oggetti tra loro non correlati, riportati eventualmente come vere generalizzazioni opposte a necessariamente vere leggi causali. Causalità, in breve, non può significare solo regolarità, costante congiunzione o successione di eventi. Infatti, noi distinguiamo piuttosto comunemente l’una dall’altra spiegando che, nel caso delle regolarità causali, l’effetto è prodotto dalle condizioni causali o che necessariamente esso entra in esistenza ogni qualvolta esiste la causa. Nel secondo caso, la causalità è considerata un necessario collegamento tra due eventi o cose.

I versi 11 e 12 sembrano attaccare entrambe queste esplicazioni di senso-comune della causalità:

L’effetto non esiste nelle condizioni che sono separate o combinate [.]

Perciò, come può ciò che non è trovato nelle condizioni, venire ad essere ‘dalle’ condizioni?

Se quell’effetto, essendo non-esistente [nelle condizioni,] viene ad essere dalle condizioni,

Perché, allora, esso non viene ad essere dalle non-condizioni?”

Riguardo a spiegare la causalità come il prodotto di un effetto, Nagarjuna sostenne, che “l’essenza delle entità non è presente nelle condizioni”, così non c’è nessun concepibile senso in cui l’effetto potrebbe esistere nelle condizioni. Se fosse così, asserisce il verso 11, allora le condizioni causali non possono produrre il loro effetto, a meno che noi non siamo disposti ad accettarlo come miracoloso.

Quanto alla seconda opzione, cos’è questa “condizione necessaria”, questa terza cosa che si suppone esistere tra causa ed effetto, e che è assente nei casi di fortuita regolarità? Qualsiasi cosa è proposta deve certamente essere ‘ad-hoc’, come nozione di un potere di agire, sostenuto dagli oppositori di Nagarjuna. Così egli si trova di fronte al dilemma o di andare sulla via dei suoi oppositori essenzialisti e realisti (dichiarando l’esistenza di qualcosa non verificabile) o ammettendo di non aver risposte da dare alla questione di ciò che costituisce una relazione causale, e forse è perfino costretto a negare la causalità.

Garfield continua la sua disputa dicendo che Nagarjuna evita questi due estremi con un argomento che rivolta la tavola sui suoi critici causal-realisti. Tuttavia, io mostrerò che ci sono dei seri problemi con questa disputa e con l’argomento che lui attribuisce a Nagarjuna. L’argomento, egli sostiene, si basa sul verso 10:

Se le cose non esistessero senza essenza, la frase “Quando questo esiste, allora questo sarà”, non sarebbe accettabile”.

Come primo passo, io stenderò un argomento basato su una lettura diretta di questo verso. Ciò non risulterà essere l’argomento che Garfield attribuisce a Nagarjuna, ma è istruttivo che lo si inizi da lì.

Il verso 10 sembra stia dicendo correttamente che la causalità esiste o è accettata solamente perché le cose esistenti sono prive di un’essenza. Sembra anche ragionevole presumere che ad “essere priva di un’essenza” non è una sostanza esistente in modo indipendente, né che ha una identificabile auto-natura o essenza. E così, l’ “esser privo di un’essenza o auto-natura” deve essere shunya. Inoltre, è chiaro che il verso stia riferendosi a cose fenomeniche, le cose della nostra esperienza ordinaria di tutti i giorni, perchè Garfield ritiene che Nagarjuna sostiene che tutto ciò che ci può essere, sono le cose fenomeniche. Se noi accettiamo tutto ciò, la visione che tutto quello che esiste è shunya è già implicita in questo primo capitolo. Perciò, il verso 10  ci offre la premessa che:

(a) La causalità (o causazione) esiste soltanto perché le cose nel mondo fenomenico sono prive di un’essenza (o non sono sostanze indipendenti)”.

Come per l’altra premessa-chiave, ricordiamo che l’obiezione principale del realista-causale alla teoria della regolarità è che ‘è totalmente inesplicabile come un effetto segue o è causalmente dipendente da certe condizioni, se l’effetto non è presente in qualche forma nelle condizioni né necessariamente connesso alle condizioni’. Ma, Garfield disputa che questa obiezione (così come la teoria del potere causale) presuppone che le condizioni e l’effetto, non siano shunya, che essi debbano avere una ‘essenza’. Cioè, secondo Garfield, Nagarjuna risponde “portando l’attenzione al collegamento tra una visione di potere causale della causalità ed una visione essenzialista dei fenomeni”. In altre parole, “se uno vede i fenomeni come aventi e come emergenti dal potere causale, uno li vede come aventi un’essenza e come essendo connessi all’essenza di altri fenomeni”(5). Ma ora, il realista-causale ha un problema, perché la premessa (a) nel verso 10, nega precisamente quello su cui il realista-causale sta insistendo. Nega il presupposto che la causalità sia una relazione tra sostanze indipendenti con essenziali nature. La premessa (a) afferma che non può esserci relazione causale, effettiva o meno, tra cose che non sono ‘shunya’ (vuote). Perciò, confuta Garfield, Nagarjuna sta dibattendo che quello [il realismo causale] è ultimamente incoerente poichè costringe uno ad asserire l’esistenza inerente di queste cose, in virtù della loro identità essenziale e, allo stesso tempo, ad asserire la loro dipendenza e carattere produttivo, in virtù della loro storia e potere causale. Ma [Nagarjuna] suggerisce che tale dipendenza e carattere relazionale è incompatibile con la loro esistenza inerente (6).

Di conseguenza, l’obiezione di sostenere una teoria della regolarità del pratityasamutpada decade, poichè è precisamente per questo che non c’è nessuna tale realtà nelle cose – e quindi, nessuna entità che serva a sostenere i poteri causali che il realista vuole postulare – e così la formula buddista che esprime la verità del sorgere dipendente può essere asserita. Infatti non potrebbe essere asserita se vi fossero [tali] entità reali. Perché, se fossero vere, nel senso più importante per il realista, esse sarebbero indipendenti. Quindi se in questo contesto la formula fosse interpretata come se indicasse un qualche potere causale, sarebbe falsa. Ne seguirebbe, che potrebbe essere interpretata solo come una formula che esprime la regolarità della natura (7).

Il problema, con questa replica fatta al realista-causale, è che la premessa (a) è falsa e non è quella che sosteneva Nagarjuna. In effetti, col realista-causale, egli sosteneva l’esatto opposto: vedere nel mondo fenomenico le cose come causalmente dipendenti o come sorgere dipendentemente significa vedere le cose con una ‘essenza’. Inoltre, Garfield lo ammette ancor più quando riconosce che nel mondo fenomenico delle cose che originano dipendentemente, nel reame del samv’rti satya (verità e conoscenza empirica), “noi di fatto percepiamo e concepiamo i fenomeni esterni, noi stessi, poteri causali, verità morali e così via, come esistenti in modo indipendente, sostanziali e intrinsecamente identificabili”. Sembra, quindi, che Nagarjuna sostenesse, alquanto correttamente e contrariamente alla premessa (a), che ciò che noi sperimentiamo sorgere dipendentemente sono le cose identificabili, sostanze indipendenti, o cose con un’essenza. Dopo tutto, queste sostanze ordinarie della nostra esperienza non sono sostanze auto-causate (come quelle di Spinoza)(8).

Ma io ho di proposito travisato l’analisi di Garfield della replica di Nagarjuna, perché l’ulteriore esame rivela che la premessa (a) non interpreta il verso 10 come vuole Garfield. La premessa (a) presenta il verso parlando di oggetti fenomenici come oggetti fenomenici (come le cose che noi sperimentiamo e descriviamo), e facendo la falsa affermazione (falsa dal punto di vista del ‘samvrti satya’) che tali oggetti sono senza essenza. Tuttavia, sembra Garfield che stia leggendo il verso come se parlasse di oggetti fenomenici dal punto di vista ‘ultimo’. Ed è dalla parte della verità ‘ultima’ (paramartha satya) che questi oggetti fenomenici sono “senza essenza”. Ma con “senza essenza”, Garfield non intende ciò che normalmente vogliamo dire noi con quella frase. Ciò che vuole dire Garfield è che gli oggetti che noi percepiamo come cose identificabili e sostanziali non sono cose in ‘se-stesse’. Garfield sta usando particolarmente il termine “senza essenza” per riferirsi alla modalità di esistenza di un oggetto, e non alla natura dell’oggetto. Questo è indicato dal fatto che lui avvicenda “con essenza” e “inerentemente esistente”, o “senza essenza” e “privo di esistenza inerente”

Ancor più importante, se nel mondo fenomenico nulla esiste inerentemente, se non ci sono ‘cose’ in se-stesse, questo deve voler dire che tutto esiste come una forma di convenzione. Ed è questo che Garfield ritiene essere l’importante significato di “tutto è shunya”. Per Garfield, il significato essenziale di shunyata, ciò che si intende col dire che gli oggetti fenomenici sono shunya, è che al di fuori della nostra esperienza, indipendentemente dalla nostra struttura concettuale e linguistica, queste cose sono ‘nulla’. Esse, semplicemente non esistono. Fondamentalmente, un “oggetto convenzionale” è qualcosa che è privo di “esistenza inerente”. Quindi, deve essere shunya. L’essenza della filosofia di Nagarjuna, come sottolinea Garfield, è la “duplice tesi della realtà convenzionale dei fenomeni unita alla loro assenza di esistenza inerente”(9). Perciò, è importante ricordare che, secondo Garfield, ciò che Nagarjuna intende dire di una cosa che è shunya, non è che quella cosa sia senza una ‘essenza’ o auto-natura, ma solo che possiede quell’essenza o auto-natura in virtù di convenzioni.

Chiaramente, affermare la “realtà convenzionale dei fenomeni” significa rifiutare il realismo metafisico ed approvare l’anti-realismo. Possiamo presumere che nel caratterizzare le designazioni e descrizioni di oggetti come “convenzionali”, Garfield intende rifiutare il dogma ‘realista’, in cui c’è soltanto una unica sola vera teoria o descrizione della realtà. E affermare che non c’è nulla di esistente che esiste “dal suo proprio lato”, indipendente dal conoscitore, significa opporsi al dogma che la realtà sia del tutto indipendente dalla mente (10). Significa negare la teoria che ci sono le ‘cose-in-se-stesse’, negare che il realismo metafisico abbia un qualche senso.

Questo spiega che finalmente possiamo vedere come Garfield interpreta il verso 10. Egli lo intende nel suo asserire che:

(b) La causalità esiste solo perché le cose fenomeniche (le cose che noi sperimentiamo) esistono per convenzione e non sono ‘cose’ in se-stesse.

E così, sostituendo la premessa (a) con la (b), noi ora comprenderemo che ciò che Garfield intende con “portando l’attenzione al collegamento tra una visione di potere causale della causalità ed una visione essenzialista dei fenomeni” si sta dimostrando il fatto che il realista-causale sta cercando un obiettivo, un collegamento causale “inerentemente esistente”, o una forza tra cose che “esistono in modo inerente”, cioè, una ‘cosa-in-se-stessa’. Perciò, Garfield concepisce l’argomento come segue:

1. I causal-realisti sostengono che la causalità esiste solamente se c’è un qualche potere causale indipendente o il collegamento causale (una terza cosa) tra le condizioni causali e l’effetto.

2. Essi presumono che tali forze e collegamenti esistono solamente in e tra cose che esistono in se-stesse (cioè, cose che esistono inerentemente).

3. Ma, secondo la premessa(b), questo assunto è falso, ed il contrario è vero.

4. Perciò, la causalità può essere solamente la regolarità di “quando questo esiste, quello esisterà”, ovvero, il ‘pratityasamutpada’.

Questo è un argomento migliore, ma non ancora totalmente persuasivo. Anche se noi accettiamo il cuore dell’argomento, il passo 3, questo non risponde alla sfida dei causal-realisti nel passo 1. Che le cose che noi sperimentiamo siano ‘cose-in-se-stesse’ o che siano soltanto convenzionali, sembra legittimo chiederci come la causalità sia possibile. Il realista causale sta chiedendo un chiarimento del perché si dovrebbe prendere una cosa come la causa di un altra, perché una qualsiasi cosa dovrebbe essere considerata una condizione causale. Che i poteri causali o i necessari collegamenti (o qualsiasi cosa, per lo stesso motivo) esistano in se-stessi è un problema separato dal fatto se è legittimo poter concepire la causalità senza concepire i poteri causali o i collegamenti necessari. In altre parole, la conclusione non segue così semplicemente.

Inoltre, la premessa (b) è problematica. Mentre è evidente che (a) sbaglia nel negare che gli oggetti fenomenici che noi sperimentiamo siano causalmente dipendenti, non è chiaro cosa fare della nostra affermazione che la causalità non può applicarsi alle ‘cose-in-sé-stesse’. Sembrerebbe ovvio che se è legittimo concepire causalmente oggetti fenomenici come dipendenti, sarebbe ugualmente legittimo attribuire la causalità ad oggetti che esistono fuori della nostra esperienza, se tali oggetti ci sono.

Inoltre, dall’argomento di cui sopra, Garfield evidentemente pensa che la premessa (b) implichi che il ‘pratityasamutpada’ sia vuota, che sia solo un convenzionale ed utile modo (e quindi opzionale?) di trattare e concepire le cose nel mondo fenomenico. Alla fine della sua analisi del capitolo 1, come un modo di riassumere, Garfield afferma:

Asserire la vacuità della causalità significa accettare l’utilità della nostra dissertazione causale e pratiche esplicative, ma [significa anche] resistere alla tentazione di vedere questi come radicati in riferimento ai poteri causale o come esigenti un tale radicamento(11)”.

Nell’ultima sezione noi disputeremo che questo è assai simile a ciò alla fine Nagarjuna raccomanda, però, “accettare l’utilità del nostro discorso causale e delle pratiche esplicative” non necessariamente significa che la causalità sia vuota o che sia una questione di convenzione. Inoltre, ancora una volta, perché non sarebbe così utile applicare proprio la causalità alle cose-in-se-stesse? Infine, se lo scopo  maggiore del capitolo 1 è di difendere la vacuità della causalità, è strano che il termine non sia mai menzionato. Come potrebbe Nagarjuna aspettarsi che il lettore sappia che “senza essenza” sia un sinonimo di ‘shunyata’ e, più importante, che esso intenda dire “esistere per convenzione”? In effetti, io credo che nel capitolo 1 non vi sia la sua preoccupazione di difendere una teoria della regolarità di un pratityasamutpada, più o meno vuoto, contro le teorie dei causal-realisti.

Per trovare un’interpretazione diversa del punto del capitolo 1, che non è certo problema di Garfield, siamo noi a dover di nuovo riesaminare il verso 10. Garfield in una nota in calce indica l’interessante fatto che la sua traduzione di questo verso è minoritario, e lui stesso menziona un certo numero di traduzioni più valide (da Inada, Streng, Sprung e Kalupahana) che sono “diametralmente opposte” alla sua (12). Egli, per esempio, cita la traduzione seguente (senza dare la fonte):

“Poiché le cose esistono senza essenza, l’asserzione

“Quando questo esiste, così questo sarà” non è accettabile”.

Vediamo che questa è davvero diametralmente opposta a quella di Garfield:

“Se le cose non esistessero senza essenza, la frase

“Quando questo esiste, così questo sarà”, non sarebbe accettabile”.

Abbiamo visto che quello che la versione di Garfield asserisce è:

“Non c’è sorgere dipendente (alcuna causalità), a meno che le cose (che noi sperimentiamo) esistano per convenzione.

O, in modo equivalente:

“Non c’è sorgere dipendente (alcuna causalità) tra le ‘cose-in-se-stesse’”.

Ma, se seguiamo Garfield, che prende “esistere senza essenza”, per intendere una “esistenza conven-zionale”, l’altra versione, al contrario, asserisce che:

“Non c’è sorgere dipendente, perché le cose esistono solamente per convenzione”.

E questo implica che:

“Non c’è sorgere dipendente, a meno che non vi siano cose che esistono in se-stesse”.

Chiaramente, mentre la versione di Garfield è un’asserzione della posizione di Nagarjuna, le altre versioni devono essere un’asserzione della posizione dei causal-realisti (alla luce dell’interpretazione “convenzionalistica” della shunyata di Garfield). Mentre quest’ultimi intenderebbero il verso 10 come l’inizio dell’attacco a Nagarjuna dai causal-realisti, che arriva alla fine del capitolo, Garfield disputa che il verso 10 sia il cuore della risposta di Nagarjuna all’attacco, una risposta che è compendiata nel verso 14, l’ultimo verso del capitolo(13). Perché mai, allora, ci sono tali discrepanze tra traduzioni ed interpretazioni?

I commentatori hanno da tempo compreso che è impossibile dare una coerente lettura del capitolo 1, o di qualunque altro difficile testo, senza fare delle supposizioni. La lettura di Garfield è governata dall’assunto che Nagarjuna avesse in mente qualcosa di più che difendere solamente una visione di regolarità della causalità contro i causal-realisti. Quello che lui cercò di mostrare nel capitolo 1, come suo scopo centrale, è la vacuità della causalità. Inoltre, Garfield sostiene che, “mostrando la vacuità della stessa causalità, noi comprendiamo la natura della vacuità stessa… [e ancora] mostrando che la causalità è vuota, dimostriamo che tutte le cose sono vuote, perfino la stessa vacuità”(14). Con la “vacuità della causalità” egli intende chiaramente dire che vi è soltanto una realtà convenzionale, che è qualcosa che noi introduciamo come un modo di concepire il mondo. Perciò, anche il significato di mostrare che la causalità è vuota fin dall’inizio, vuol dire stabilire ciò che la vacuità significa, e questo è un passo enorme per arrivare finalmente alla sua maggiore tesi filosofica, la realtà convenzionale di tutte le cose. Ciò è basato su questo assunto che Garfield interpreta il verso 10 come lui fa, e questa è la ragione per cui lui prende “esistenza inerente” ed “esistere con un’essenza” per intendere “esiste come una cosa-in-se-stessa, indipendente da tutte le convenzioni”.

Tutto ciò si presume perché nel capitolo non c’è un’esplicita evidenza testuale, quindi l’unica prova o giustificazione che questo sia il vero scopo di Nagarjuna è che esso dà una coerente interpretazione del testo. Questo è un po’ un’interrogativo, ma io dubito che qualunque commentatore possa evitarlo rispetto ad un testo così difficile, se non proprio oscuro. Tuttavia, con l’interpretazione di Garfield, il problema che ho, è che essa dipinge l’argomento di Nagarjuna come un pò debole e problematico, e che esige una ripetuta lettura del testo. È solo più avanti nel testo che appaiono i termini ‘shunya’ e ‘shunyata’, ed è soltanto allora che Nagarjuna dice che ‘tutto è shunya’. Si sta prendendo la libertà di leggere “senza-essenza” come “shunya”, e di prendere quest’ultima col significato di “esistenza per convenzione”.

D’altra parte, l’opposta traduzione del verso 10 ci dà una più semplice e più pulita lettura del testo. Quel verso è solo un’introduzione alle obiezioni dei realisti alla teoria della regolarità nei versi da 11 a 13, e l’ultimo verso, il 14, conclude che entrambi gli approcci, il realista e la regolarità, hanno i loro problemi e sono quindi insoddisfacenti. Ma io penso che c’è più da seguire che non solo presentare i due lati di un dibattito. Perché Nagarjuna inizierebbe il suo importante trattato con un tale capitolo debole ed inconsistente? L’interpretazione di Garfield ha almeno il merito di dare un significato al capitolo. Poiché sto affermando che il verso 10 è la chiave per comprendere tutto il capitolo 1, c’è un’ultima versione che voglio esaminare e vedere dove conduce, la traduzione di David Kalupahana:

“Poiché l’esistenza di cose esistenti prive di auto-natura non è evidente, l’asserzione: “Quando quello esiste, questo viene ad essere”, non sarà appropriata”(15)

Kalupahana normalmente ritiene che “non evidente”(na vidyate) abbia il significato ‘epistemologico’ di “non fondato sulla nostra esperienza”, ed usa le parole “esistenza” ed “esistere” nel senso realista di “esistere in-se-stesso”. Quindi, la prima la metà del verso dice, la “nostra esperienza non rivela ciò che ‘esiste in se stesso’, o come sono realmente le cose esistenti prive di auto-natura”. E se di nuovo seguiamo Garfield quando prende gli “esistenti privi di auto-natura (i.e., essenza)” come riferendosi a “cose che esistono convenzionalmente” o “oggetti convenzionali”, noi possiamo costruire la versione di Kalupahana come se essenzialmente asserisse la stessa cosa che Garfield cita in quella nota in calce. Infatti, egli sta asserendo che:

“La causalità non è possibile (nulla sorge dipendentemente), poiché nella nostra esperienza di questi oggetti convenzionali non c’è niente che riveli o provi che essi siano esistenti in-se-stessi”.

E questo implica di nuovo che:

“Non c’è sorgere dipendente, a meno che non vi siano cose che esistono in-se-stesse”.

Ma c’è una più semplice lettura alternativa, che è fedele all’uso di tutti i termini attinenti, da parte di Kalupahana. Egli prende “senza-essenza, o auto-natura (svabhava)” per intendere precisamente ciò che dice: “che le relative cose sono prive di ‘essenza o auto-natura”. E poiché io preferisco la traduzione di Kalupahana e sono d’accordo col suo uso di questi importanti termini, “senza essenza” “esistere”, e “evidente”, sostengo che ciò che il verso 10 asserisce è:

“(c) La causalità non è possibile, se (o) poiché, nella nostra esperienza non c’è niente che rivela o prova l’esistenza di cose che sono prive di un’essenza o di auto-natura”.

Di cosa sta parlando Nagarjuna? Queste cose che sono prive di un’essenza o di auto-natura non sono certamente le comuni cose che noi sperimentiamo – non gli oggetti fenomenici – dato che io sono ben d’accordo con Garfield che Nagarjuna osserva le cose che noi sperimentiamo come cose identificabili per la loro essenza. Per risolvere questa questione e vedere ciò che realmente si intende nel capitolo 1, dovrei presumere qualcosa che sia apparentemente innocuo, ma certamente sano, perché esso è appoggiato da un’indipendente evidenza storica. E presumerò che la motivazione di fondo per questo capitolo fu una preoccupazione per il dibattito filosofico all’interno del Buddismo sulla metafisica dottrina dei ‘dharma’. Questa era la teoria che elementi impercettibili risiedono sotto al nostro mondo esperienziale dei fenomeni, e sono questi elementi ad essere ‘reali’ in modo ‘ultimo’, e che esistono in modo ultimo. Ed io presumerò che il capitolo 1 discute il problema della causalità riguardo ai dharma – cioè entità e oggetti non fenomenici. Di conseguenza, il termine “cose-che-esistono”, o “esistenti”, che appare in questo verso ed altrove nel capitolo, si riferisce alle entità teoretiche e metafisiche, come appunto i dharma.

I principali antagonisti erano due scuole di Realismo Buddista. Una era la Scuola Sautrantika la quale sosteneva che questi elementi, questi “esistenti”, sono “senza-durata”, esistenti per neanche un attimo di tempo misurabile – la teoria della “momentarietà” (kshanika-vida). Quindi, un dharma deve essere senza un’essenza permanente, perchè i suoi elementi non sono permanenti. L’altra è la scuola Sarvastivada, che Kalupahana chiama “una delle più esplicite ‘essenzialiste’ e priva dei necessari requisiti, mai vista apparire nella tradizione filosofica buddista”(16). I Sarvastivadin criticavano i Sautrantika per la loro incapacità a dare un senso alla formula del pratityasamutpada, e perchè essi riducevano la causalità alla mera successione di eventi ‘senza-durata’. Per risolvere il problema che il Sautrantika non poteva risolvere, questi filosofi essenzialisti svilupparono una sofisticata teoria dell’ “auto-natura” (svabhava) dei dharma. E così, quindi, ogni dharma possiede un’essenza immutabile, inerente, la ‘base’ per i cambiamenti che si osservano nel mondo fenomenico.

Le critiche della teoria del potere-causale si applicherebbero certamente al realismo del Sarvastivada, ai loro sforzi di concepire una teoria del pratityasamutpada che sia basata sulla presunzione che i dharma possiedano una auto-natura, o essenza. Ma Nagarjuna sta attaccando tutte le visioni dei realisti di una causalità basata sull’assunto che vi siano ‘cose-in-se-stesse’ o sostanze con una auto-natura (svabhava) che risieda sotto ai fenomeni. Nella seconda metà del capitolo, cominciando con il verso 10, Nagarjuna non sta facendo proprio un favore ai Sarvastivadin cedendo le loro critiche di questi rivali non-essenzialisti. Né il verso 10, né alcun altro verso nel capitolo, contiene quella che noi ci aspetteremmo essere la critica di un essenzialista. Il problema dei Sarvastivadin nell’applicare il pratityasamutpada ai dharma ‘senza-durata’ e ‘senza-essenza’, è che così non funziona. La critica del verso 10, nella traduzione di Kalupahana, è una critica ‘tipo-Nagarjuna’ che non ha senso parlare del ‘sorgere-dipendente’ di entità la cui esistenza non è evidente. In altre parole, non c’è una evidenza empirica per l’esistenza di elementi ‘senza-essenza’, perchè tutto ciò che l’esperienza rivela sono cose identificate per la loro essenza (17). Infine, l’ultimo verso, il 14, non sta proprio concludendo che entrambe le visioni dei realisti siano teorie inaccettabili della causalità. L’essenza di quel verso è che il fatto del pratityasamutpada non si può spiegare. Nella traduzione di Kalupahana, il verso dice:

“Un effetto fatto sia di condizioni che di non-condizioni è, perciò, non evidente. A causa dell’assenza dell’effetto, dove potrebbero essere evidenti le condizioni o le non-condizioni?”

Nagarjuna concepisce queste scuole buddiste rivali, Sarvastivada e Sautrantika, come rappresentanti, rispettivamente, gli approcci di identità e non-identità al dispiegamento della causalità. Egli afferma di aver mostrato che queste teorie renderebbero realmente impossibile accettare quello che è così evidente alla nostra esperienza, il fatto del ‘sorgere-dipendente’. In modi alquanto diversi, entrambe introdurrebbero interrogativi o renderebbero problematico qualunque tentativo di considerare certe condizioni come le cause di un effetto esistente, quando queste stesse cose sono fatti di esperienza comune. Perciò, Nagarjuna avverte, “se non ci sono tali effetti [dovuti all’impossibilità dei realisti di spiegare come, secondo le loro teorie, si suppone che operi la causalità], come potrebbero condizioni o non-condizioni essere evidenti?”. In breve, la sua disputa è che il realismo Buddista (o qualunque altro approccio realista alla causalità) si arenerà quando tenterà di spiegare la causalità ad un livello metafisico.

In questo primo capitolo, Nagarjuna, anzichè difendere una particolare teoria del pratityasamutpada, sta cercando di convincere il lettore della futilità di speculare sulla vera natura della causalità, con anche l’implicazione che noi dovremmo abbandonare qualunque teoria filosofica della causalità. Nella prossima sezione, mostrerò che questo includel’anti-realismo, o “teoria del pratityasamutpada convenzionale” che Garfield attribuisce a Nagarjuna.

Oltre a preparare il terreno per simili dimostrazioni della futilità di speculazioni astratte e dei dibattiti teorici, i vari temi filosofici ripresi nei capitoli successivi, l’ulteriore importanza del capitolo 1 è che esso indica la via alla sua posizione positiva sulla causalità e le altre categorie di base dell’esperienza umana. Vedremo poi che la nozione delpratityasamutpada è molto più ricca della semplice nozione della causalità. Ancor più importante, vedremo poi che per capire pienamente questa nozione e le sue implicazioni bisogna capire l’orientamento filosofico di Nagarjuna. E infine, noi avremo la risposta su come la vera dottrina del pratityasamutpada ci rende capaci di abbandonare tutte le visioni.

Pratityasamutpada e Shunyata

Noi siamo abituati a trattare con ogni tipo di questioni causali, come, ad esempio, “Perché pensate che un corto-circuito nel sistema elettrico provochi un incendio?” oppure “Cos’è che ha procurato il tuo scatto di nervi?” La risposta che chiaramente noi diamo a qualsiasi domanda causale dipende dalla nostra conoscenza dei particolari della situazione e dalla nostra generale conoscenza di cose, come sistemi elettrici e sintomi e cause di un esaurimento nervoso. Mi vien da pensare che molti di noi non abbiano idea di come rispondere a una o l’altra, o a entrambe, di queste domande. Chiunque non abbia la comprensione concettuale o teorica di base di un dato fenomeno non saprebbe dove cercare, o perfino da dove cominciare. Tuttavia, come risultato dell’esperienza passata, noi siamo più che sicuri che, in ogni situazione, ci deve essere qualche effettivo stato delle condizioni che ci spiega meglio l’esistenza di qualunque fenomeno. A livello più semplice e rudimentale, il pratityasamutpada può esser preso per riferirsi a questa pratica credenza universalmente accettata che tutto ha sempre una causa e che ogni fenomeno è originato dipendentemente. Noi lo potremmo chiamare il principio scientifico del pratityasamutpada.

Ovviamente i filosofi non hanno interesse per problemi così mondani e “che riguardano i fatti” come la particolare causa della condizione mentale di qualcuno. La loro curiosità è per questioni serie circa le origini delle cose, credendo che noi non si possa dare per scontato perfino le cose più familiari o al loro valore di facciata. In questo caso, essi sarebbero più interessati alla stessa idea della causalità, o causa ed effetto, con la generale questione filosofica di “cos’è che fa di qualcosa la causa di qualsiasi altra cosa”. Essi si preoccuperebbero della possibilità che non vi sia realmente una tale cosa come una relazione di causa-ed-effetto, nessun fatto materiale oggettivo dietro al nostro discorso causale.

Gautama, il Buddha, scelse di rimanere in silenzio su questa e su tutte le domande filosofiche, di non prendere posizione in qualunque disputa. C’è stata molta speculazione circa il fatto se il suo silenzio rappresentava il suo essere scettico o disinteressato, o qualcosa di più esoterico. Nagarjuna, d’altra parte, va ben più avanti nell’esortare che nessuno dovrebbe sostenere qualunque visione su queste questioni. Egli dice che il Buddha ha insegnato il tattva, la vera dottrina o, più letteralmente, “l’esatta o vera natura del caso” così che noi si possa abbandonare tutte le visioni ed i punti-di-vista (dristi). E allora, il filosofo Nagarjuna ci sta forse dicendo che noi non dobbiamo filosofizzare? Forse, come Wittgenstein, ci sta dicendo che c’è una cura per questa malattia?

Per rispondere a queste e altre domande, occorre che noi si abbia una comprensione più profonda di questa vera dottrina del pratityasamutpada, questa dottrina che insegna che tutto quanto è sorto ed ha avuto origine dipendentemente. Ciò che si sta insegnando, dico io, è un duplice principio, di cui il primo aspetto è il regolante principio scientifico che letteralmente stabilisce che tutti i fenomeni sono originati dipendentemente. Questo non riguarda solo gli oggetti del nostro mondo, le cose fisiche o le forme materiali, ma qualunque nostra esperienza, nel senso più ampio del termine. Esso contiene tutte le più importanti idee e credenze del nostro mondo, anche se una qualche idea o credenza non sembra essere derivata dall’esperienza – per esempio, le credenze che il mondo sia eterno o non eterno, creato o non creato, che vi sia o meno un ‘sé’ indistruttibile, e così via. Sembra essere questo ciò che Nagarjuna annuncia nel 4:7: “Il metodo di trattamento di tutti gli esistenti, come sensazioni, pensieri, percezioni e tendenze, è in ogni modo simile a quello delle forme materiali”.

Io credo che la cruciale implicazione del principio è il fatto che non vi siano categorie trascendentali di esperienze nel senso ‘Kantiano’ di idee innate, con la possibile eccezione del pratityasamutpada stesso. Ma anche in questo caso, come vedremo, Nagarjuna non fa distinzione tra le contingenti idee empiriche e le necessarie idee razionali. E non vi sono idee o credenze che siano inerenti nella natura della mente o nel modo in cui noi pensiamo, non importa se astratto o universale. Qualunque idea o credenza che noi si abbia, deve avere un dispiegamento causale in un set di condizioni che possono includere le circostanze e il contenuto della nostra esperienza, il background delle idee e credenze, qualunque influenza noi si possa avere, ed altri fattori psicologici.

Per esempio, noi non potremmo avere una rudimentale nozione di causa ed effetto, se potessimo sperimentare non soltanto la regolarità con la quale accadono le sequenze di eventi, ma anche i tipi particolari di effetti associati coi particolari tipi di cose. Noi sperimentiamo il calore o il bruciore del fuoco, i suoni degli animali, la rottura del vetro con oggetti duri, e così via. La nostra concezione della causalità, in termini della sua origine, è connessa non solo alla successione temporale ma anche alle proprietà osservabili dei vari tipi di oggetti e delle nostre idee sulla natura e proprietà di questi oggetti. L’implicazione cruciale dell’eventuale origine delle nostre idee e credenze sulla causalità, è che il vero significato del termine, invero di qualunque termine, è costituito dal suo posto in una rete di altri concetti e credenze.

Questo è il lato semantico della dottrina del pratityasamutpada, la dottrina della reciproca dipendenza di concetti e credenze nel senso storicamente sistematico e contingente (18). Ma questa non è solo un’olistica o coerente visione del significato. Essa è, più propriamente, una sorta di comprensione pragmatica del significato. “Possedere” un’idea o comprendere un termine significa avere l’abilità di usare adeguatamente quel termine. Significa saper navigare all’interno di un oceano intellettuale di idee e credenze. Chiedere il “significato” di un termine, significa chiedere istruzioni circa il che cosa fare con quel termine, ad esempio per riferirsi a che tipo di oggetti o caratteristiche dovrebbe essere usato il termine, o in quali occasioni o circostanze il termine dovrebbe essere usato e in che modo si dovrebbe usare in quelle occasioni. E’ anche utile dare un sinonimo o definizione per un termine, ma questi o sono compatte serie di istruzioni o si interpongono tra il ‘definendum’ ed il suo “significato”, cioè, la conoscenza di come usare quel termine. Il significato, allora, può cambiare e variare secondo il tempo, secondo il luogo, e da persona a persona. È una teoria dinamica di significati.

Io credo che Nagarjuna stia opponendosi all’idea che vi sia un qualcosa chiamato il “significato” di un termine, qualcosa denotato da quel termine, senza che possa esservi variazione attraverso il tempo. Secondo questo tipo di denotativa teoria essenzialista, il “significato” di un termine serve come un modello o criterio, il cui scopo è di rappresentare la natura o essenza delle cose alle quali il termine si applica. Questo non significa che per la contestuale teoria funzionale di Nagarjuna non possa esservi un criterio definitivo per alcuni termini. Ma, in questo caso, il criterio deve essere libero di credenze e idee sul carattere e comportamento degli oggetti che cadano sotto quel termine, ed è una questione di consenso storico che appartiene a quel tipo di criterio. Tuttavia, le teorie essenzialiste che hanno a che fare col significato possono essere molto seducenti.

Per esempio, quando le persone meditabonde riflettono sulla loro esperienza con la causalità, cioè, riflettono sulla registrazione estesa dell’uso riuscito di quell’idea nella loro vita intellettuale e pratica, sorge il desiderio di capire più in profondità perché tutto abbia una causa. Diventiamo ossessionati dalla domanda “Ma cos’è questa causa ed effetto?”, oppure “Qual’è il vero significato del fatto che una cosa ne causa un’altra?” È il desiderio di capire ciò che il termine “causazione” è realmente o che rappresenta in sé-stesso. È così che diventiamo prigionieri di una visione essenzialista o denotativa di significato. Vogliamo conoscere la natura essenziale (svabhava) della causalità, la “cosa-in-sé” che è denotata da quel termine.

Il termine drs.ti’ (visione) è usato per riferirsi alla risposta che noi diamo a questo tipo di domanda, e s’intende che la risposta che viene data, la visione, dev’essere imposta razionalmente, o logicamente dimostrabile ed ovvia. Questo è perché, secondo la visione essenzialista del significato, la relazione tra un termine e i suoi ‘designata’ dev’essere necessaria ed eterna. Nagarjuna comprende che nessun drs.ti può soddisfare questa condizione, ma nondimeno essa rimane un’ossessione. Frederick Streng ha visto giusto quando spiega drs.ti’ come uno “sforzo mentale illusorio – una visione, o dottrina, che afferma totalmente la validità per il fatto che asserisce una verità evidente ed ovvia”(19). Streng potrebbe star parlando di trattare la causalità come necessaria connessione o potere causale quando rimarca sulla “inadeguatezza del nostro agire come se potessimo discernere una auto-evidente realtà sia nella ‘cosa’ condizionata o in un identificabile ‘elemento’ della nostra esperienza (‘originazione’, ‘durata’, o ‘cessazione’)”. Il problema, egli nota, è che “cogliendo un aspetto e avendo la decisione… sull’assunto che esso sia una realtà ultima (auto-esistente), gli esseri umani sbagliano i loro giudizi sulla natura dell’esistenza”(20).

Il problema con questa forte tendenza psicologica a coinvolgersi in speculazioni metafisiche, questo bisogno di scoprire la natura della cosa-stessa, è eloquentemente ed acutamente espresso da Kant nella stessa prima frase della prima prefazione alla sua ‘Critica della Ragion Pura’:

La ragione umana ha questo particolare destino che in una specie della sua conoscenza è carica di domande che, prescritte dalla vera natura stessa della ragione, non è in grado di ignorare, ma che, trascendendo tutti i suoi poteri, non è neanche capace di dare una risposta(21)”.

Nagarjuna capì questo naturale desiderio della mente umana ad essere contingente (cioè, originata dipendentemente) e non inerente nella natura della ragione, come la pensò Kant. Questo desiderio di possedere una comprensione assoluta dei contorni di base dell’esperienza crea l’ossessivo inganno di pensare che stiamo trattando con una sostanza auto-esistente (svabhava), mentre ciò che realmente abbiamo è una costruzione delle nostre menti. L’idea del filosofo sulla causalità, come un “potere” o una “necessaria connessione tra eventi” è correlata a, ma distinta da, la nostra nozione ordinaria della causalità o ‘causa ed effetto’. Tutto ciò che noi possiamo dire, se obbligati ad una definizione, è che “causa ed effetto” significa proprio “causa ed effetto”. È proprio il conoscere che “quando questo esiste, quello esiste”. La precedente idea filosofica o credenza nella causalità come un tipo di potere o connessione realmente esistente, sostiene Nagarjuna, è un ‘samkalpa’ (“fabbricazione mentale”) ed un ‘prapancha’ (“ossessione” secondo Kalupahana, ed “estensione fenomenica” secondo Streng). Mentre samkalpa indica che non c’è alcun appoggio empirico, nulla nella nostra esperienza, che possa suggerire una qualsiasi cosa come un “potere causale”, prapancha localizza la fonte dell’idea nel nostro desiderio di “andare oltre” l’uso ordinario del termine, di lasciare la “casa” della nozione in un mondo dell’esperienza, di dimenticare che il suo significato reale è la sua funzione. Veniamo poi guidati dall’ossessivo desiderio di capire la realtà oggettiva o il vero designatum di un’idea; ma in realtà, come dice ancora Streng, noi stiamo erroneamente prendendo il “nostro [illusorio] giudizio, come la vera natura dell’esistenza”.

È in questo contesto che Nagarjuna invoca le nozioni di shunyashunyata. A volte sembra che egli stia usando l’idea della “vacuità” come uno strumento per liberare noi da un disegno che ci ha tenuti prigionieri (per usare una frase di Wittgenstein), per renderci liberi dall’intrappolamento di una teoria deviante e perversa di significati. Egli infatti dichiara che “I Vittoriosi hanno annunciato che la vacuità è l’abbandono di tutti i punti di vista”, ma però avverte che “coloro che si impossessano della visione [drsti] della vacuità come verità assoluta, si dice che siano incorreggibili”. E si aspettava in pieno che i suoi commenti su shunyashunyata sarebbero stati mal interpretati, così da esprimere una visione metafisica della realtà, giocando sul loro metafisico linguaggio. Ed a queste persone che si mostrano così innamorate da questo gioco lui ammonisce, “Voi non comprendete lo scopo della vacuità. E così poi, siete tormentati dalla vacuità e dal significato di vacuità”(22). Chiedersi se lui è un assolutista, nichilista o convenzionalista, vuol dire presumere erroneamente che lui stia mantenendo una visione che riguarda ciò che è reale, col suo parlare di ‘shunyata’.

Al contrario, egli non è interessato nel formulare teorie metafisiche o speculazioni, ma sta esortando noi a disimpegnarci da questo modo di pensare. Sta cercando di liberarci dall’essere prigionieri di una “rappresentazione della realtà” per cui il nostro linguaggio è costretto ad assumersi un grande carico di responsabilità. Per esempio, l’affermazione che “la natura delle donne le rende diverse dall’uomo” ha perfettamente senso in un discorso ordinario, quando noi lo prendiamo per significare che “Nelle donne vi è qualcosa che le rende diverse dagli uomini, cioè, (alcune osservabili caratteristiche delle donne)”. E possiamo continuare la conversazione indicando quali queste potrebbero essere. Però, sfortunatamente, è stata anche presa per significare che “l’essenziale natura auto-esistente di tutte le donne è ciò che causa che vi siano differenze osservabili tra donne ed uomini”. Nagarjuna ci direbbe, nell’illusione espressa in questa ultima dichiarazione, che il soggetto stesso dell’affermazione è vuoto. Inoltre, attribuire una natura a tutte le donne, non ci dice nulla riguardo a ciò che rende differente gli uomini dalle donne, quindi non c’è nessun modo naturale di poter continuare la conversazione. Un altro esempio è “il potere di X che causa Y”, che porta una persona a pensare che si stia parlando di qualcosa che X abbia, piuttosto che di ciò che X fa, o di quello che X ha l’abilità di fare.

Nagarjuna dichiara che queste inosservabili entità metafisiche, queste vere e proprie costruzioni mentali, sono inesistenti, asserendo che il mondo che noi sperimentiamo è privo di simili entità. Tutto questo è vacuità. Perciò, nulla di ciò che noi diciamo riguardo al ‘non-esistente’, shunyata, ha un senso, e peggio, può condurre a “defilarsi dall’azione” od a fuorviati modi di agire. Perciò, Nagarjuna dice, “[quando] è vuoto di auto-natura, il pensiero che il Buddha esista o non esista dopo la morte, non è appropriato” (22:14). E, “[il] defilarsi dall’azione appartiene a colui che discrimina, e questo a sua volta, risulta dall’ossessione. A sua volta, l’ossessione cessa all’interno del contesto della vacuità” (18:5).

Non è difficile vedere che la frase “tutto questo è shunya” dichiara che noi dovremmo abbandonare ogni visione di metafisico ‘realismo’. Noi dovremmo resistere alla tentazione di avere una visione in cui tutto ciò che nel nostro mondo sperimentiamo e crediamo, siano mere rappresentazioni che possono, o non possono, corrispondere a (o siano “fatti reali da”) qualcosa che esiste realmente, da cose “esistenti inerentemente” che esistano indipendentemente, e aldilà della nostra esperienza. Per di più, Nagarjuna ci avverte, il pericolo di operare con questa visione, è che “Se si percepisce l’esistenza di tutte le cose in termini di una loro essenza [inerente], poi questa percezione di tutte le cose sarà senza la percezione delle cause e condizioni (il karma, n.d.T.)” (24:16). La conseguenza del cercare la reale essenza indipendente delle cose, del pensare che noi sperimentiamo proprio l’aspetto di ciò che realmente esiste, è di trascurare o confinare sullo sfondo le relazioni causali e semantiche che sono realmente all’opera per darci il mondo che noi abbiamo, il che è tutto ciò che dovrebbe veramente contare.

Non dovremmo dimenticare che Nagarjuna dichiarò che “shunyata è l’abbandono di tutte le visioni”. E perciò, lui non vorrebbe affatto entrare nel dibattito tra realisti ed anti-realisti. Egli non sosterrebbe neanche l’opposta visione che il mondo oggettivo sia una vuota nozione, che tutto “ciò che c’è” sia determinato da convenzioni del nostro linguaggio. Jay Garfield esemplifica questa interpretazione, quando dice che Nagarjuna sostiene che, al livello di conoscenza ordinaria e verità convenzionale (samvrti-satya), tutti i fenomeni convenzionali sono tipicamente rappresentati come esistenti ineren-temente. Noi stessi percepiamo in questo modo i fenomeni esterni, i poteri causali, le verità morali e così via, come esistenti in un modo indipendente, intrinsecamente identificabile e sostanziale…. Così, vederli in questo modo, significa precisamente non considerarli convenzionali(23).

Ma a livello di verità ultima e conoscenza assoluta (paramartha satya), quelli che noi sperimentiamo come vere entità e reali processi sono, in realtà, esistenti solo convenzionalmente. “Vacuità”, ha più che un significato negativo nel rifiuto del realismo metafisico. Infatti, per Garfield, essa ha il positivo significato di indicare che “il fatto che i fenomeni dipendenti e convenzionali sono convenzionali e dipendenti… è semplicemente l’unico modo in cui qualsiasi cosa può esistere”. Lui prende l’asserzione nel 24:18, “che [il sorgere dipendente], essendo una designazione dipendente, è essa-stessa la Via di Mezzo”, e la fa significare come “l’esistenza dipende dalla designazione” o convenzione verbale. E, ancor più importante, Garfield sostiene che le “nostre convenzioni e la nostra struttura concettuale non possono mai essere giustificate dalla dimostrazione della loro corrispondenza ad una realtà indipendente…. [Perciò, Nagarjuna] suggerisce, ciò che conta come reale dipende precisamente dalle nostre convenzioni”. L’articolazione di Garfield di questa visione anti-realista di Nagarjuna svaria a volte sul nichilismo. Per esempio, in riferimento alle cose ordinarie lui dice, “la loro inesistenza ultima e la loro esistenza convenzionale sono la stessa cosa”. Ma, per Nagarjuna, “una persona saggia non dice che qualcosa ‘esiste’ o ‘non esiste’.”

La vera dottrina del pratityasamutpada, come duplice principio semantico e causale, ci rende liberi dagli estremi di realismo ed anti-realismo, assolutismo e nichilismo. Richard Rorty parla proprio del fallimento degli estremi di realismo ed anti-realismo, quando lui dice:

“Il ‘determinare’ non è ciò che è in questione – ciò che fa sì che il pensiero determini la realtà né, nel senso inteso dal realista, ciò che fa sì che la realtà determini il pensiero. E più precisamente, non è tanto più vero che “gli atomi sono quelli che sono, perchè noi usiamo ‘l’atomo’-“, quanto che “noi usiamo ‘l’atomo’, perché gli atomi sono quello che sono”. Così, entrambe queste affermazioni… sono totalmente vuote. Entrambe sono delle pseudo-spiegazioni(24).

La verità, spiega Rorty (e questo è il lato causale della dottrina del pratityasamutpada), è che il nostro linguaggio, così come i nostri corpi, è stato plasmato dall’ambiente in cui viviamo. In realtà, lui insiste su questo punto – il punto in cui la nostra mente o il nostro linguaggio potrebbero (come teme lo scettico rappresentazionalista) non essere “fuori dalla realtà” non più di quanto lo possa il nostro stesso corpo(25)”.

Nagarjuna approverebbe il commento metaforico di Hilary Putnam che, “congiuntamente la mente ed il mondo costituiscono la mente ed il mondo”(26). Cioè, l’esistenza del mondo è proprio dipendente dal linguaggio, così come il linguaggio che noi usiamo è dipendente dal mondo. O, come asserisce Nagarjuna, “se le caratteristiche non appaiono, allora non è sostenibile postulare l’oggetto caratte-rizzato. Se l’oggetto caratterizzato non è postulato, allora non ci sarebbero le caratteristiche”(5:4).

La sua disputa nel 24:18 che “qualunque cosa è originata dipendentemente, ciò è spiegato essere la vacuità”, è semplicemente il rifiuto del realismo metafisico, con la dichiarazione che non c’è nulla che non sorga in modo dipendente. Ed il suo ulteriore commento “che [il mondo come noi lo conosciamo] è dipendente da convenzioni [e] questa è essa stessa la Via di Mezzo” è un ammonimento contro il trasgredire i limiti dell’ordinaria discussione, i limiti del nostro naturale linguaggio e, quindi a causa di ciò, “perdere il mondo.”

Noi staremmo trasgredendo i limiti di un normale discorso se ci preoccupiamo della corrispondenza delle nostre designazioni ad una qualche realtà che rimane non specificata, o se prendiamo la visione opposta, che la realtà è quella che specifichiamo noi, e che vi sono sistemi alternativi e naturali di concepire ciò che è reale. L’implicazione delpratityasamutpada è che il nostro linguaggio, come qualsiasi altra cosa nel mondo, è plasmato dall’ambiente in cui viviamo, e che esso non può essere “fuori contatto” dalla realtà, non più di quanto possiamo esserlo noi stessi.

Gli esseri umani non possono vivere senza ideali, senza qualcosa per cui sforzarsi, che dà autenticità alla loro esistenza. Molti hanno cercato il significato ‘ultimo’ della loro esistenza, un qualche punto fermo alle esigenze della loro vita mondana, in una realtà che trascenda questa vita. Nagarjuna cerca di scoraggiare questo tipo astratto di ricerca, assicurandoci che qualunque verità e significato vi sia nella nostra esistenza può e deve essere trovato all’interno dei confini del nostro mondo umano.

Nagarjuna nel 24:10, asserisce: “Senza contare sulle convenzioni, la verità ultima (paramartha satya) non è insegnata. Senza capire il risultato ultimo, la libertà non è raggiunta”. Appena ho letto questo verso, la vera distinzione tra samvrti-satya (verità convenzionale ordinaria) e paramartha-satya non è più stata una distinzione ontologica, in cui la seconda è la conoscenza e la verità sulla realtà ultima. È una distinzione tra la coscienza ordinaria, che è carica coi pericoli di equivoci, influenzata da questo tipo di desideri (il desiderio per la certezza, per l’esistenza eterna, ecc.), ed una coscienza illuminata, purificata da tutti i bisogni e timori che causano la sofferenza. L’insegnamento delpratityasamutpada e di shunyata sono il modo in cui Nagarjuna ci mette sul Sentiero del nirvana, in grado di nutrire una coscienza illuminata ed un modo di vivere saggio. Per Nagarjuna, questa è la base filosofica della Via di Mezzo del Buddismo.

Note in calce

1 – Poichè io nella prima parte di questo articolo indicherò l’interpretazione di Garfield su Nagarjuna, userò la traduzione di Garfield dei Versi Fondamentali della Via di Mezzo (Oxford University Press, N. York, 1995), se non citato altrimenti.

2 – In essenza è la stessa analisi di un precedente saggio: Jay Garfield, “Il Sorgere Dipendente e la Vacuità della Vacuità: Perché Nagarjuna Cominciò con la Causalità?” Philosophy East and West 44, no. 2 (April 1994). L’analisi e l’argomento è presentato in dettaglio in Garfield, La Saggezza Fondamentale della Via di Mezzo.

3 – Garfield, “Sorgere Dipendente” p. 222.

4 – Nagarjuna sta seguendo la classificazione standard dei tipi di condizioni causali o cause, nella tradizione filosofica Indiana.

5 – Garfield, Saggezza Fondamentale, p. 118.

6 – Ibid.

7 – Ibid., p. 119.

8 – Garfield, “Sorgere Dipendente”, pp. 232-233. Garfield sembra tuttavia essere convinto dell’assunto che le cose con essenza non derivino causalmente. Egli sostiene che “le essenze sono per definizione eterne e fisse. Esse sono indipendenti. E per un fenomeno avere un’essenza significa avere un qualche centro indipendente e permanente. Quindi, né essenze e né fenomeni con essenze, possono emergere dalle condizioni” (Garfield, Saggezza Fondamentale p. 111). Ma certamente, ciò dipende dall’essenza. Alcune essenze, per esempio l’essenza di un tipo di pianta o animale, sono tali che le cose con quell’essenza sono sorte dipendentemente, ma non è così con l’essenza di essere il più grande di tutti gli esseri.

9 – I versi 18 e 19 del capitolo 24 sono cruciali nell’interpretazione convenzionalistica di shunyata di Garfield:

Qualunque cosa sia co-sorta dipendentemente, ciò è spiegato essere vuota. Quella che è una designazione dipendente, è essa stessa la Via di Mezzo. Qualcosa che non sia sorta dipendentemente, tale cosa non esiste. Perciò, una cosa che non sia vuota non esiste. Poichè Garfield legge questi versi, asserire che un oggetto nel mondo fenomenico, un oggetto causalmente dipendente come una tavola, è shunya, “significa dire… che esso non esiste dalla sua propria parte”- che la sua esistenza come l’oggetto che esso è – cioè una tavola – non dipende da esso, né da qualunque caratteristica puramente relazionale, ma dipende proprio da noi” (Garfield, Saggezza Fondamentale, p. 89). E dire questo, significa dire che è una designazione dipendente, cioè, che “qualunque cosa sia co-sorta dipendentemente è verbalmente stabilita… che la sua identità come singola entità non è nient’altro che il suo essere riferibile ad una parola” (Garfield, “Sorgere Dipendente” p. 229). In breve, tutto ciò che esiste è determinato dal nostro apparato teorico e concettuale; ovvero, “dipende da noi”. Senza quell’apparato, indipendente da noi, nessuna cosa può esistere.

10 – Garfield è attento ad evitare di essere frainteso come uno che sottoscriva entrambi i due estremi, nichilismo e assolutismo. Lui insiste così che vedere il mondo dipendentemente originato [come convenzionalmente reale] significa non considerarlo non-vuoto né completamente inesistente”. In particolare lui vede il 24:11 come se esprimesse la preoccupazione di un errore di interpretazione assolutistica della shunyata: “Da una errata comprensione della vacuità una persona di poca intelligenza è distrutta, come un serpente afferrato nel modo sbagliato o come cadere sotto un incantesimo maligno”. Così lui segue Chandrakirti nel difendere la vacuità della vacuità, un modo di esprimere la tesi convenzionalistica negando che la “vacuità” si riferisca a qualche cosa oltre la descrizione e convenzione.

11 – Garfield, Saggezza Fondamentale, p. 122.

12 – Ibid., p. 119. In questa nota 33, Garfield annuncia che queste opposte traduzioni del testo si stanno prendendo la libertà di rimarcare che “[si può suggerire dai commenti di Chandrakirti l’effetto che questa frase [“Quando questo esiste, questo sarà”] non avrebbe alcun senso se asserìta dal realista”. Garfield qui non ha problemi con la sua presumibile traduzione letterale, perché lui vede il verso come se esprimesse la posizione di Nagarjuna e non del reali sta.

13 – Il verso 14, si legge: “Perciò, né con condizioni come loro essenza, né con non-condizioni come loro essenza, vi sono effetti. Se non ci sono tali effetti, come potrebbero essere evidenti le condizioni o le non-condizioni?” È difficile vedere che compendiando la risposta di Nagarjuna al realista causale, la spiegazione di Garfield  tende a confondere piuttosto che chiarificare. Vedi pp. 121-122, Saggezza Fondamentale di Garfield.

14 – Garfield, “Sorgere Dipendente”, pp. 237-238.

15 – Nagarjuna: La Filosofia della Via di Mezzo, introd., il testo Sanskrito, trad inglese., ed annot. di David J. Kalupahana (Albany: State University of New York Press, 1986), p. 113.

16 – David Kalupahana, Storia della Filosofia Buddista (Honolulu: University of Hawaii Press, 1992), p. 128.

17 – Forse c’è un motivo secondario per come Nagarjuna disputa. È possibile che i realisti Sarvastivadin interpretassero la critica di Nagarjuna della loro posizione, implicando che lui sosteneva una visione metafisica simile ai Sautrantika, anziché che egli fosse stato un portavoce di quella scuola Buddista. Perciò, Nagarjuna volle correggere quel malinteso, attaccando i secondi con uguale forza.

18 – Un precursore di questa interpretazione può essere Chandrakirti. Vedi la discussione di Mervyn Sprung del commentario di Chandrakirti sul capitolo 1 nella Chara Esposizione della Via di Mezzo: I Capitoli Essenziali dal Prasannapada, trad. dal Sanskrito di Mervyn Sprung, in collaborazione con T.R.V. Murti ed U. S. Vyas (Londra: Routledge e K. Paul; Boulder: Prajna Press, 1979), pp. 32-52.

19 – Frederick Streng, “Il Significato del Pratityasamutpada”, in Mervyn Sprung ed., Il Problema delle Due Verità nel Buddismo e nel Vedanta (Dordrecht e Boston: D. Reidel, 1973), p. 32.

20 – Ibid., p. 30.

21 – Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, trad. Norman Kemp Smith (New York: St.Martin’s Press, 1963), p. 7.

22 – Questa è la traduzione di Kalupahana del 24: 7, così come del 13:8 sopra; in futuro tutte le traduzioni sono di Kalupahana.

23 – Garfield, “Sorgere Dipendente”, pp. 232-233.

24 – Richard Rorty, ‘Objectivity, Relativism, and Truth (Cambridge, New York: Cambridge University Press, 1991), p. 5.

25 – Ibid.

26 – Hilary Putnam, Le Molte Facce del Realismo (La Salle: Open Court, 1987), p. 1.

Tratto da: http://www.thezensite.com/ZenEssays/Nagarjuna/Chinn.htm ;

Tradotto in Italiano da Aliberth Meng, per il Centro Nirvana di Roma –  Febbraio 2008. Fonte http://www.centronirvana.it/la_dottrina_fondamentale.htm che profondamente si ringrazia per la sua grande gentilezza.