6 – Ven. Geshe Gedun Tharchin: Commentario sul Sutra del Essenza della Saggezza

Ven. Geshe Gedun Tharchin: Il motivo per cui abbiamo tutti i problemi è che ci prendiamo cura di un’Io illusorio, lasciando senza cura il vero Io.

Ven. Geshe Gedun Tharchin: Il motivo per cui abbiamo tutti i problemi è che ci prendiamo cura di un’Io illusorio, lasciando senza cura il vero Io.

6 – Commentario sul Sutra del Essenza della Saggezza del Ven. Geshe Gedun Tharchin, Roma 2004.

Il sentiero della visione

Le cose si dividono in esistenti e non esistenti. Un esempio classico di cosa non esistente sono i peli di una tartaruga: le cose che sono inesistenti, che proprio non esistono, non possono neppure essere vacue. Quindi la vacuità non deve essere cercata in ciò che non esiste, ma deve essere trovata in ciò che esiste. Proprio perché quel fenomeno esiste, quel fenomeno ha una natura vacua. Proprio per via della sua natura vacua, quel fenomeno esiste. I peli della tartaruga non esistono e quindi non sono vacui. Esempi di cose che non esistono sono i fiori nel cielo, i già citati peli della tartaruga, il corno del coniglio, ecc… non si può meditare sulla vacuità dei peli della tartaruga.

Mentre si percorrono questi quattro sentieri volti alla realizzazione della vacuità occorre, parallelamente, realizzare i cinque poteri o cinque forze. Il primo di questi poteri è il potere della fede; poi il potere della perseveranza; il potere della consapevolezza; il potere della concentrazione; il potere della saggezza o realizzazione della realtà ultima. Il potere della fede significa potere della convinzione; la fede non è rivolta ai Buddha, ma alle quattro nobili verità ed alla legge di causa-effetto. Infatti nel sentiero dell’accumulazione, nella fase di sviluppo delle quattro contemplazioni, tale sviluppo si basa strettamente sulle quattro nobili verità. Le quattro contemplazioni aventi come oggetto le quattro nobili verità, danno una grande comprensione di esse. Nella pratica degli abbandoni, che segue la pratica delle contemplazioni, le prime due delle nobili verità vengono abbandonate e si cerca di raggiungere le ultime due nobili verità. La concentrazione è la grande forza che ci spinge nel percorso di abbandono e di ottenimento. Quando arriviamo al sentiero della preparazione otteniamo una ferma convinzione nelle quattro nobili verità e nella legge di causa-effetto. Come risultato di aver percorso il sentiero di accumulazione si otterrà il primo dei cinque poteri, cioè il potere della fede. Il secondo potere, quello della perseveranza ci dà la forza per portare avanti la pratica per raggiungere l’Illuminazione, affrontando qualsiasi difficoltà. Il terzo potere è il potere della consapevolezza che ci permette di vedere la forma esistente delle quattro nobili verità, ci dà una grande comprensione di esse, le cui caratteristiche sono sedici, quattro per ogni verità. Il potere della concentrazione è l’unione delle due pratiche meditative fondamentali, Shi Né e Lhak Thong, altrimenti note come Samatha e Vipassana. Il quinto potere, il potere della saggezza, è il potere di riuscire ad esaminare la natura vacua delle quattro nobili verità. Si dice che l’acquisizione di questi cinque poteri avvenga nel corso delle prime due fasi del sentiero della preparazione, cioè la saggezza come il calore e il picco.

Le cinque forze sono le stesse dei cinque poteri, ma si manifestano nella fase post-meditativa, nel periodo successivo alla meditazione. Nelle fasi successive alle prime due del percorso della preparazione questi poteri diventano forze, nel senso che non c’è possibilità che possano manifestarsi forze opposte neppure nella fase post-meditativa. I cinque poteri e le cinque forze sono il risultato di un’analisi approfondita della vacuità ottenuta tramite l’unione di Shi Nè e Lhak Thong. Parallelamente a queste pratiche vi è lo sviluppo di bodhicitta. Come menzionato precedentemente, la bodhicitta coltivata durante il percorso della preparazione viene definita come calore, fuoco.

Come tutti gli altri fenomeni, anche questi percorsi, dell’accumulazione e della preparazione, non sono indipendenti, non sono autonomi né dotati di un’esistenza inerente, ma esistono in quanto tutte queste caratteristiche vengono combinate e poste in essere.

Questo è tutto ciò che c’è da dire sul sentiero della preparazione. In questo sentiero la realizzazione della vacuità è il risultato della meditazione, si tratta di una realizzazione basata principalmente sull’esperienza fatta nel corso della meditazione, scaturita dall’unione di concentrazione su un singolo punto o calmo dimorare e l’analisi di speciale visione interiore. È appunto chiamato sentiero di preparazione perché ci prepara per il sentiero della visione.

Il percorso della visione profonda è caratterizzato dal fatto che in questo stadio si può percepire la vacuità in modo diretto.

Abbiamo visto che in un primo momento, nel sentiero dell’accumulazione, la realizzazione della vacuità è affidata maggiormente ad un’analisi, un’osservazione intellettuale; poi, nel sentiero della preparazione, la realizzazione della vacuità è basata principalmente sull’esperienza della meditazione, ma permangono ancora delle oscurazioni. Esse consistono nelle immagini che ci creiamo della vacuità stessa e costituiscono un ostacolo alla percezione diretta della vacuità. In questo sentiero, quando meditiamo sulla vacuità, andiamo a meditare su un’immagine che abbiamo di essa. È come se prendessimo molte informazioni su una data persona senza però averla mai vista, poi ne vedessimo la foto senza tuttavia vedere la persona direttamente. Anzi, ogni volta che penseremo a questa persona avremo in mente l’immagine che abbiamo visto in foto e questa è un’illusione: quella persona non è sempre così come è nella foto, che ne rappresenta solo un aspetto. Poi quando vedremo la persona direttamente, ne avremo un’idea molto più chiara e ci accorgeremo di quanto sia differente dall’immagine che ce ne eravamo fatti. Similmente la realizzazione della vacuità possiede un percorso simile: prima cerchiamo di conoscere la vacuità solo attraverso le informazioni che riusciamo ad averne; poi l’osserviamo in una foto tramite la meditazione e l’idea che abbiamo della vacuità diventa molto più chiara dell’idea che ne avevamo attraverso le sole informazioni; quando, infine, riusciamo a vedere direttamente la vacuità, allora è molto diversa.

In questo caso non stiamo parlando di qualcosa di diverso dal nostro sé, parliamo del nostro vero sé. Il problema è infatti che non conosciamo chiaramente il nostro sé. Non abbiamo neppure delle informazioni chiare su di esso, non abbiamo ancora visto le foto del sé, non l’abbiamo incontrato direttamente. Vaghiamo con un’idea del sé molto diversa da ciò che esso è veramente, questo è un problema di tutti noi esseri samsarici. Il sé non è diverso dall’assenza di sé: riconoscere l’assenza del sé significa conoscere veramente il sé.

L’interdipendenza non è qualcosa di semplice da percepire, dal momento che possiede due livelli, uno grossolano ed uno sottile. Il livello grossolano dovrebbe essere realizzato prima della realizzazione della vacuità, mentre l’interdipendenza a livello sottile viene realizzata solo dopo la realizzazione della vacuità, perché per via della vacuità un fenomeno è interdipendente ed esiste. L’esistenza convenzionale è determinata dalla conoscenza della vacuità: questa è la sottile esistenza convenzionale, che è la sottile natura interdipendente. Quindi la sottile esistenza convenzionale deriva dalla comprensione della vacuità e la comprensione del livello grossolano dell’interdipendenza dovrebbe essere la ragione per realizzare la vacuità.

Tutto viene dalla vacuità. Dalla realizzazione della vacuità derivano tutte le esistenze, funzioni convenzionali. Come un pesce nell’acqua: il pesce si muove ma l’acqua no. La vacuità è sempre qui presente, ma l’esistenza convenzionale si muove senza problemi. Non c’è contraddizione.

IV Parte Dare un senso al tempo (9 Maggio 2004)

Prima di tutto, dobbiamo ricordarci che dovremmo tentare di dare un senso al tempo che stiamo trascorrendo. Questo è il pricipale obbiettivo del nostro incontro. Il senso che conferiamo al tempo dipende dal modo in cui lo trascorriamo. È sempre bello passare del tempo con amici spirituali, perché il semplice stare loro conferisce senso al tempo, influenzandoci positivamente ed aiutandoci ad essere più contemplativi. Spesso si parla di consapevolezza, presenza mentale ed un altro modo per definirla è tempo contemplativo. Finché trascorriamo un tempo di tipo contemplativo, caratterizzato cioè da consapevolezza e presenza mentale, diamo significato a questo tempo. Ci sono molti modi per essere contemplativi, uno dei quali è dedicarsi al Sutra del Cuore, come ci accingiamo a fare adesso.

Per cominciare questo genere di incontri è utile lo sviluppo di una motivazione appropriata. La motivazione che dovremmo sviluppare per queste pratiche consiste in un atteggiamento diverso da quello abituale. Nella nostra vita di tutti i giorni tendiamo spontaneamente a porre l’Io prima degli altri: ogni cosa per me, e il mio, l’Io vengono sempre per primi. Anche quando non crediamo che l’Io sia più importante degli altri, vi è questa costante inclinazione naturale, spontanea a pensare che la cosa più importante sia l’Io. Tutto ciò deriva dall’abitudine di considerare l’Io sempre al primo posto. Questa nostra tendenza, questa spinta naturale a mettere il nostro Io davanti a tutto è la causa prima della nostra stanchezza, della nostra confusione; infatti questa tendenza non è qualcosa di vero, ma è qualcosa che contraddice la realtà: in verità l’Io non è più importante di tutto il resto degli esseri. Quindi noi abbiamo questa abitudine che va contro le leggi naturali causando emozioni conflittuali all’interno di noi stessi e ciò comporta stanchezza e prostrazioni non necessarie. Per trovare una soluzione a questi conflitti interiori esistono diversi metodi, il primo dei quali è l’atteggiamento altruistico. Poi viene il concetto di assenza di sé, perché noi non solo mettiamo il sé sempre al primo posto, ma abbiamo anche una concezione errata, una comprensione inesatta, un’idea sbagliata del Sé. Quindi abbiamo due modi per gestire l’Io, il sé: da un lato lo sviluppo della compassione, della gentilezza amorevole, dell’altruismo, dall’altro lato una corretta visione dell’Io. Per sviluppare la motivazione dobbiamo usare il primo metodo che è l’altruismo, poi dobbiamo usare il secondo metodo, cioè la retta visione del sé, esposta nel Sutra del Cuore. La nostra motivazione non consiste nell’ottenere dei poteri straordinari per noi stessi, ma nel dedicare noi stessi al bene degli altri. Dedicare noi stessi significa che l’Io si cura degli altri prima che di se stesso, si trova qui non perché è importante ma per poter recare un qualche beneficio agli altri esseri. Se facciamo anche la più piccola buona cosa con la motivazione di recare beneficio agli altri piuttosto che pensando solo a noi stessi questa avrà una grande forza. Questa dovrebbe essere la motivazione con cui vivere il nostro incontro: generalmente mi occupo del mio Io giorno e notte, e questo mi causa grande stanchezza e prostrazioni, ma oggi abbandono questa attitudine, sono libero da questo dominatore. Finora mi sono sempre preoccupato del mio Io: ogni cosa a me, ogni cosa per me, ma in realtà questo Io come lo immaginiamo non è vero, è qualcosa di diverso dalla realtà.

Non è facile mantenere un atteggiamento altruistico, richiede forza, sforzo entusiastico, perché solitamente noi ci atteniamo ad una attitudine totalmente diversa da quella che stiamo cerchiamo di sviluppare. Naturalmente soffriamo, essendo schiavi di questa abitudine mentale, l’attaccamento al sé, che non significa semplicemente prendersi cura di sé, ma significa porre il proprio sé al primo posto rispetto a tutti gli altri e percepirlo in maniera totalmente errata, molto diversa da come è realmente. Inoltre pensiamo che il nostro Io dovrebbe essere in un dato modo e se poi qualcosa cambia rispetto all’idea di come dovremmo essere, diveniamo molto agitati, molto depressi, pensando “adesso sto diventando meno importante, ecc…”. Solitamente tutto ciò non ci appare molto chiaramente, ma anzi ci risulta piuttosto nascosto; ma in certi momenti, come quando siamo molto felici o molto depressi, questa presenza dell’Io ci diviene manifesta. Tuttavia, se in questi momenti in cui l’Io appare più evidente cerchiamo di individuarlo, di afferrarlo, non troviamo nulla. Generalmente non stiamo ad analizzare dove sia questo Io, ma semplicemente sentiamo che siamo felici o che siamo depressi o che ci sta succedendo questo o quello e ciò comporta momenti di felicità o depressione… la semplicità è molto connessa al concetto di porre l’Io in una posizione di mezzo: non dovremmo porlo all’ultimo posto, ma non è neppure tanto importante da stare al primo. Dovremmo essere in grado di essere soddisfatti nello stare nel mezzo perché questo porta tranquillità e un modo di vivere rilassato. Anche questo è altruismo, non altruismo totale, ma comunque altruismo: porre l’Io in una posizione mediana comporta più serenità e pace. Solitamente abbiamo molti disturbi ed emozioni conflittuali all’interno di noi stessi perché ci preoccupiamo sempre di porre il nostro Io al primo posto e questo è impossibile ed è la causa di tutte queste emozioni conflittuali che causano dolori, sofferenze, insoddisfazioni.

Sviluppare un’attitudine altruistica significa capovolgere il nostro atteggiamento abituale e non è una pratica facile. Ma è molto meglio sforzarsi nell’acquisirla, perché ci porterà comunque ad essere più rilassati di quanto non lo siamo nella nostra posizione abituale, nel nostro cattivo atteggiamento usuale. Praticare significa capovolgere il nostro atteggiamento abituale, perché continuare a mantenere tale atteggiamento significa stare nel samsara, mentre assumere un’attitudine altruistica è come stare nella terra pura, nel paradiso o comunque vogliamo chiamarlo. A volte abbiamo problemi, confusioni, difficoltà, situazioni problematiche nella nostra mente e cosa facciamo allora? Continuiamo a mantenere il nostro atteggiamento usuale pensando: “Io soffro, i miei problemi, non ce la faccio, ecc…” : l’Io e il mio sono sempre presenti e quindi i problemi non saranno mai risolti; l’unica soluzione sono allora gli antidepressivi: un giorno se ne prende uno, il giorno dopo si raddoppia fino ad arrivare a prendere l’intera scatola… in quel momento, invece, bisogna riflettere e comprendere che l’origine di tutti questi conflitti è l’esagerato attaccamento all’Io e bisogna decidere semplicemente di capovolgere questo atteggiamento e sono sicuro che poi sarete molto rilassati. Invece di stare legati a questo Io bisogna liberarsi, affrancarsi da esso. L’altruismo non è qualcosa di teorico ma è qualcosa di pratico: semplicemente capovolgere il nostro atteggiamento abituale; all’inizio è difficile, ma provando lentamente diventa sempre più facile. Se abbiamo un dolore, anche se cambiamo atteggiamento il dolore resta, ma perlomeno ci sentiamo alleggeriti dal dolore stesso, più rilassati. Anzi possiamo trasformare il dolore in un mezzo per sviluppare qualche realizzazione o aumentare il nostro accumulo di meriti, insomma possiamo ottenere molti benefici da questo dolore. Assumere un atteggiamento altruistico non è un trucco per poter sfuggire dalla sofferenza, ma è un modo per avvicinarsi alla realtà delle cose. Avvicinarsi a questo stato di cose comporta automaticamente il sorgere di una felicità duratura. Questo è un modo molto pratico di presentare l’altruismo, che possiamo chiamare anche compassione, amore o come preferiamo.

La compassione, l’amore, la gentilezza amorevole, l’altruismo non costituiscono una soluzione completa ai nostri problemi. C’è un altro passo che deve essere fatto: quello della saggezza che ci permette di tagliare la radice di tutta la confusione. L’altruismo, pur dinanzi a situazioni di dolore, ci aiuta a non soffrire, anzi a trasformare queste situazioni in un mezzo per sviluppare delle realizzazioni. Quindi è evidente l’immenso beneficio che l’altruismo reca. Per non avere ulteriori problemi e confusione dobbiamo sviluppare la saggezza. Mentre l’altruismo è l’atteggiamento che ci spinge a prenderci cura degli altri più di noi stessi, la saggezza o visione speciale ci porta ad una realizzazione che va oltre il considerare gli altri più importanti di noi.

Per quanto riguarda la saggezza, anche se consideriamo gli altri più importanti di noi, questa si occupa dell’Io, di come questo esiste, di come esistono gli altri, di come esistono tutte le cose. Finché non abbiamo una chiara conoscenza di questa nozione, cioè di come esiste l’Io, gli altri e ogni cosa, non possiamo avvicinarci all’eliminazione della sofferenza, della confusione. Per questo abbiamo bisogno del Sutra del Cuore della Saggezza, perché questo sutra spiega qual è la verità ultima del sé, degli altri e delle cose. Si dice che per prima cosa bisogna analizzare cosa sia il sé, l’Io. Nella nostra società siamo abituati invece ad analizzare gli altri, le cose, analizziamo qualsiasi cosa, ma non analizziamo noi stessi. Invece la prima cosa da analizzare è il proprio l’Io, la realtà ultima del proprio sé, perché è l’oggetto più semplice da analizzare per comprendere la realtà ultima dei fenomeni. Il concetto di Io, di mio è relativo all’atteggiamento di attaccamento al sé. Questo atteggiamento di attaccamento al sé è volto ad afferrare il sé. Noi abbiamo questo atteggiamento, lo sentiamo, ne facciamo esperienza, permea tutte le nostre azioni, le nostre attività, i nostri movimenti; è sempre preposto a tutte le nostre azioni, i nostri pensieri lo seguono continuamente. Ma come e perché appare questo atteggiamento? Per questo si dice che per prima cosa uno debba riconoscere, identificare questo sé, che è l’oggetto dell’attaccamento al sé. Noi ci attacchiamo sempre al sé, ma prima dovremmo identificare questo sé chiaramente, e finché non lo avremo identificato non ce ne libereremo mai, come se non vedessimo il bersaglio cui dobbiamo sparare. Dunque bisogna comprendere come appare, che caratteristiche ha questo sé che l’attaccamento al sé ci procura. Il motivo per cui abbiamo tutti i problemi è che ci prendiamo cura di un’Io illusorio, lasciando senza cura il vero Io.

Bisogna identificare l’oggetto della negazione, noi dobbiamo negare l’Io che è percepito dall’attaccamento all’Io. Poi dobbiamo trovare l’Io convenzionale, che è una semplice designazione. È molto difficile mantenere una via di mezzo, negando il concetto di Io che viene percepito dall’attaccamento al sé e mantenere un Io convenzionale, funzionale. Il primo Io, quello oggetto dell’atteggiamento di attaccamento al sé, non esiste, quindi stiamo negando qualcosa che non esiste, poiché non potremmo negare ciò che esiste. Da un lato dobbiamo negare questo Io (oggetto dell’attaccamento al sé), dall’altro dobbiamo accettare l’Io convenzionale. Quindi il punto importante è identificare l’oggetto della negazione, non analizzare gli altri, ma analizzare il sé. L’oggetto della negazione, come si è detto, è il sé concepito dall’attaccamento al sé. Come l’attaccamento all’Io percepisce questo Io? Che immagine dell’Io ha? Questo è importante. Dato che questo Io non esiste, non è rintracciabile, dobbiamo capire che immagine ne ha questo attaccamento al sé. Una caratteristica che possiede questa immagine dell’Io è quella di essere indipendente, l’Io sembra essere indipendente dalla testa, dalle braccia, dalle gambe, dal corpo, dalla mente, dalle sensazioni, dalle percezioni. Abbiamo naturalmente l’idea che il nostro Io sia separato dalla testa o da qualsiasi altro elemento. Infatti si dice “la mia testa, la mia mano, il mio libro, la mia mente”, il che significa che la testa, la mano, il libro, la mente sono qualcosa di diverso, di altro, di esterno rispetto all’Io che le possiede. Quindi questo Io appare completamente indipendente dai cinque aggregati. Ma se è indipendente dai cinque aggregati, allora dov’è? Stiamo cercando di individuare l’oggetto della negazione ad un livello intellettuale. Tuttavia non esiste un Io completamente indipendente dai cinque aggregati, completamente estraneo ad essi. Ed ecco come si comprende chiaramente che un Io così come appare all’attaccamento al sé non esiste, in quanto non può sussistere un Io svincolato dai cinque aggregati. Ma noi costantemente e fermamente facciamo tutto per questo Io, che in realtà non esiste! Quindi se c’è un Io deve trovarsi all’interno dei cinque aggregati, non è possibile che si trovi fuori di essi . Ma nel momento in cui andiamo ad analizzare i cinque aggregati, uno per uno, non riusciamo ugualmente a trovarlo. Un esempio classico è il settuplice ragionamento sul carro. Due punti in particolare sono più importanti: il carro non è altro rispetto ai suoi componenti, il carro non è la stessa cosa dei suoi componenti. Se il carro fosse la stessa cosa dei suoi componenti ci sarebbero molti carri, tanti quanti sono i componenti. Ma allo stesso tempo il carro non è altro rispetto ai suoi componenti, perché non possiamo individuarlo all’infuori di essi. Similmente l’Io non è altro rispetto ai suoi aggregati, ma non è neppure la stessa cosa dei suoi aggregati.

Nel Sutra è scritto: “Dovrebbe vedere chiaramente nel seguente modo: dovrebbe vedere distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca. Abbiamo analizzato il sé e non solo il sé è vacuo, ma anche i cinque aggregati sono vacui. Poi segue l’analisi dei cinque aggregati, uno per uno, a partire dalla forma. La forma è vacua, priva di un’esistenza intrinseca. La vacuità della forma non è differente dalla forma stessa, il che significa che la vacuità va trovata nella forma stessa. La forma è vuota, la vacuità è forma; la vacuità non è altro che forma, la forma non è altro che vacuità. L’esistenza convenzionale della forma non significa che la forma esiste in modo indipendente. Allo stesso modo sono vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza. Poi il Sutra prosegue: Quindi, Shariputra, tutti i fenomeni sono vacuità – I fenomeni sono vacui nella loro nozione, sono senza caratteristiche che li definiscano, non nascono e non muoiono – essi sono privi di caratteristiche peculiari; non sono nati, non cessano; non sono contaminati, non sono incontaminati; non sono incompleti e non sono completi”.

Fino a questo punto sono stati affrontati tre livelli di analisi della vacuità, il che corrisponde a percorrere il primo dei cinque sentieri, quello dell’accumulazione. Segue la quadruplice analisi della vacuità, che è maggiormente approfondita e corrisponde al secondo dei sentieri, quello della preparazione. Poi vi è l’ottuplice analisi della vacuità corrispondente al terzo dei sentieri, il sentiero della visione.Quest’ottuplice analisi è a sua volta suddivisibile in tre categorie di analisi della vacuità, la prima della quali è l’analisi della vacuità come nozione, la seconda è l’analisi della vacuità dei segni, cioè anche le cause sono vacue, la terza è la vacuità dell’aspettativa, l’assenza di desideri, non ci deve essere desiderio dei risultati, in quanto anche questi sono vacui. Quindi secondo la prima categoria ogni fenomeno è vacuo nella sua stessa nozione, per la seconda categoria è vacuo anche relativamente alla cause, secondo la terza anche i risultati del fenomeno sono vacui. Queste tre categorie della vacuità vengono anche dette le tre porte che conducono alla liberazione, il che significa che la prima categoria già include le altre due: dal momento che essa afferma che tutti i fenomeni sono vacui, dunque saranno vacui anche i risultati e le cause. Vengono chiamate le tre porte che conducono alla liberazione perché l’attraversamento di queste porte conduce alla verità ultima e quindi alla liberazione.

La spiegazione dettagliata di ognuna di queste otto vacuità come anche la spiegazione delle cinque vacuità si trova nel libro di Nagarjuna, “Versi sulla saggezza fondamentale”.

Il sentiero della meditazione

Nel Sutra del Cuore si dice: Quindi, Shariputra, nella vacuità non c’è forma, né sensazione, né percezioni, né formazioni mentali, né coscienza. Non c’è occhio, né orecchio, né naso, né lingua, né corpo, né mente. Non c’è forma, né suono, né odore, né gusto, né oggetti concreti, né oggetti mentali. Non c’è nessun elemento visivo, così fino a nessun elemento mentale fino ad includere nessun elemento della coscienza mentale. Non c’è ignoranza, non c’è estinzione dell’ignoranza, e così fino a nessun invecchiamento e morte, e nessuna estinzione dell’invecchiamento e della morte. Allo stesso modo, non c’è sofferenza, origine, cessazione o sentiero; non c’è saggezza, né ottenimento e neppure mancanza di ottenimento”.

Dal punto di vista della filosofia buddista, qui è descritto il modo in cui vengono suddivisi in categorie i fenomeni: i diciotto elementi sono i sei sensi, le sei coscienze dei sensi e i sei oggetti dei sensi. Poi si parla delle quattro Nobili Verità e dei dodici anelli dell’origine interdipendente, si parla tratta dunque del samsara. In questa parte ci troviamo nel sentiero della meditazione, il quarto dei sentieri. I due sentieri, quello della visione e quello della meditazione vengono divisi in dieci livelli o bumi. L’inizio del primo livello appartiene al sentiero della visione, cui appartengono anche le sedici vedute. Durante il sentiero della meditazione si dovrebbe osservare e meditare, concentrandosi su un solo punto, la vacuità di queste categorie. Queste categorie mostrano l’abilità, la capacità che si ha nel sentiero della meditazione. Infatti, come si può vedere, il sentiero della meditazione possiede la realizzazione della vacuità, così come il sentiero della visione, allo stesso modo anche il sentiero della preparazione e il sentiero dell’accumulazione posseggono la realizzazione della vacuità, ma ogni sentiero ad un livello diverso che dipende dall’abilità, dal grado di esperienza nella realizzazione della vacuità.

Prima, l’affermazione che tutti i fenomeni sono vacui offre una visione panoramica della vacuità: si tratta sempre della stessa vacuità ma in modi diversi. Poi, la realizzazione della vacuità diventa più dettagliata, perché si ha più familiarità con la vacuità e si è più esperti. È come la luna crescente che illumina sempre lo stesso mondo e le stesse cose, ma l’aumentare dell’intensità del suo chiarore rende più evidenti gli elementi del modo che illumina.

Il libro di Nagarjuna è composto da ventisei capitoli, ognuno dei quali esamina la vacuità di una diversa categoria di fenomeni. Ad esempio, il capitolo XXIV analizza la vacuità delle quattro nobili verità, il capitolo XXVI analizza la vacuità dei dodici anelli dell’origine interdipendente, il capitolo XVIII analizza la vacuità dell’Io, il capitolo XIV la vacuità delle correlazione, il capitolo III la vacuità dei sensi, il capitolo IV la vacuità degli aggregati, il V la vacuità dei diciotto elementi. L’analisi approfondita della vacuità, prendendo in considerazione le diverse categorie dei fenomeni, è rintracciabile quindi nei “Versi sulla saggezza fondamentale” di Nagarjuna.

Per quanto riguarda i dieci livelli di cui si stava parlando, dalla parte centrale del primo livello fino al decimo livello, tutto questo appartiene al sentiero della meditazione. I dieci livelli sono descritti molto dettagliatamente nel Madhyamakavatara di Chandrakirti.

Continuando con il Sutra: Quindi, Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e dimorano nella perfezione della saggezza”. I Bodhisattva non hanno nulla da ottenere e nulla da raggiungere, pertanto permangono nella meditazione sulla natura della perfezione della saggezza. Si dice che in questo passo venga indicata la meditazione sui dieci livelli, che conducono direttamente allo stato d’Illuminazione. Questa è la meditazione come vajra, è lo stato dell’osservazione singola concentrata sulla vacuità, simile allo stato d’Illuminazione: si è dunque liberi da tutti i pensieri concettuali.

Fonte http://geshetharchin.blogspot.it/2013/11/commentario-sul-sutra-del-essenza-della.html che si ringrazia di cuore per la sua infinita gentilezza.