La pratica della mindfulness nella gestione dello stress.

La pratica della mindfulness nella gestione dello stress.

Anche i più grandi musicisti, nelle più grandi orchestre del mondo, con i migliori strumenti del mondo, prima di suonare, accordano il proprio strumento e lo accordano con quello degli altri. Jon Kabat-Zinn

I livelli di stress delle persone oggi, confrontati con quelli di vent’anni fa, sono semplicemente incredibili. Oltre alle tradizionali fonti di stress (lavoro, persone, malattie, ruoli da ricoprire, eventi del mondo,…), con l’era digitale abbiamo introdotto fonti di stress interamente nuove nella nostra vita: lo stress dell’information processing e della velocità a cui fa viaggiare le cose. E abbiamo reso sempre più sfumata la distinzione fra la vita lavorativa e quella domestica, fra la settimana lavorativa e il weekend, fra il giorno lavorativo e la notte. Si può quindi arrivare al punto in cui si è sempre al telefono, sempre a leggere e inviare e-mail, il punto in cui stai sempre reagendo a qualche stimolo e tutto il tempo è dedicato al fare e non all’essere. Il punto in cui siamo sempre di corsa e diventiamo isolati, non solo rispetto agli altri, ma anche rispetto a noi stessi, alla dimensione corporea.” (J. Kabat-Zinn, 1989).

Questo modo di affrontare le situazioni porta alla mindlessness, cioè il reagire in modo inconsapevole agli stimoli e agli eventi, come se fossimo guidati da un “pilota automatico”. Ad essa si contrappone la mindfulness, la capacità di essere pienamente consapevoli nelle situazioni che affrontiamo: “mentre può essere difficile agire sulle forze esterne che creano pressioni su di noi, abbiamo un ampio spazio di manovra nel modo in cui rispondiamo a questi stimoli. Ma per far ciò dobbiamo essere in contatto con quello che accade. La mindfulness si focalizza sul momento presente, che è diventato quasi una dimensione nascosta nella nostra vita: siamo fisicamente qui, ma se verifichiamo cosa passa nella nostra mente ci accorgiamo che è da altre parti e che siamo alienati dal corpo”.

Se riusciamo ad accorgerci di avere un’emozione o un pensiero depressivo o ansioso, sarà più facile riuscire ad evitare di entrare, in modo automatico, nella modalità dell’agire, cadendo così in circoli viziosi sempre più stretti e soffocanti. A quel punto, porsi in un’ottica di semplice osservazione di quello che sta accadendo dentro e fuori di noi, può permetterci di scegliere cosa fare; è la libertà di scelta il vero obiettivo che si pone il training della mindfulness.

Diventare capaci di prendersi quello che viene definito “spazio di respiro” significa utilizzare il tempo per diventare pienamente consapevoli di un particolare pensiero o sentimento, osservando semplicemente quello che accade. A volte ciò sarà sufficiente perché quei pensieri o emozioni si dissolvano; altre volte si potrà decidere di affrontarli immediatamente o in seguito attraverso azioni maggiormente specifiche ed adeguate alla situazione.

La gestione dello stress. Che cos’è la mindfulness ?

Negli ultimi quindici-venti anni, la comunità scientifica ha dedicato sempre più spazio e attenzione ad una antica pratica meditativa, la meditazione vipassana, in quanto mostra di possedere virtù benefiche per la salute, o, come diciamo noi occidentali, una notevole efficacia terapeutica per molti disturbi e problemi psicologici e fisici. Per cui la mindfulness si trova nella paradossale posizione di essere una delle tecniche psicologiche più antiche (oltre duemilacinquecento anni) e allo stesso tempo più avanzate.

Il termine “Mindfulness” è la traduzione inglese della parola “sati” che, in lingua pali, significa qualcosa come “ricordarsi”, nel senso di “tenere bene a mente. Un po’ come: “devo ricordarmi di fare la spesa”, oppure “devo tenere a mente di dirlo a Giovanni”. Ma, nel caso della mindfulness, si tratta di tenere a mente cosa? La risposta è precisa ed inequivocabile: bisogna tenere a mente di portare l’attenzione al momento presente. Al qui ed ora. A ciò che sperimentiamo in questo momento. Questo concetto è particolarmente importante nella tradizione buddista ed è collegato, come dicevamo ad un’antica disciplina meditativa chiamata “vipassana”.

Da molti anni è oggetto di rigorose ricerche cliniche ed oggi viene inserita nei protocolli terapeutici ufficiali per molti disturbi e problemi, in particolare per la depressione, i disturbi di ansia e le sindromi dolorose. Sono stati dunque elaborati dei protocolli e delle modalità di intervento terapeutico che si basano sulla pratica della mindfulness.

I più noti sono la MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction), la MBCT (Mindfulness Based Cognitive Therapy) e una ulteriore evoluzione che è l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy). Numerosi ricercatori, clinici e studiosi stanno sperimentando nuove formule che integrino la mindfulness all’interno di un percorso con finalità terapeutiche. Qual è la formula del successo che la mindfulness sta ottenendo nella comunità scientifica?

Il programma MBSR è percorso per la riduzione della sofferenza psico-fisica (stress) basato sulla consapevolezza. È un programma che ha rappresentato negli ultimi venti anni una delle frontiere di quell’area di ricerca medica e psicoterapeutica chiamata nel mondo anglosassone integrative medicine o mind-body medicine, la quale vede corpo e mente come un unità che chiede di essere compresa senza rigide divisioni.

Il programma consiste di 8 sessioni di gruppo settimanali della durata di 2.5 h circa, più una sabato di “full-immersion” (h 10-17) e di una serie di esercizi guidati quotidiani da svolgere tra una sessione e l’altra che richiedono l’impegno di circa 45 minuti.

Un aspetto centrale del programma è l’insegnamento di un metodo “gentile” ma efficace che incoraggia il partecipante a sviluppare un profondo livello di ricerca e sperimentazione nell’applicare alla vita quotidiana la mindfulness (consapevolezza non giudicante, portata momento per momento) e strategie di gestione della fatica e della sofferenza (stress) basate sulla mindfulness. Ai partecipanti al programma viene insegnato come diventare più coscienti delle risorse in loro disponibili per mobilitarle in sostegno alla propria salute e benessere e per affrontare in modo diverso le condizioni di sofferenza (psichica e fisica).

Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR)

Il programma è una via per scoprire un modo di essere e non solo una tecnica. Intende aiutare il partecipante a diventare più vividamente cosciente del respiro, del corpo, della mente, di tutti gli aspetti presenti nell’esperienza quotidiana della vita in modo da poter cominciare a prendersi più consapevole e profonda cura di sé.

Questo richiede da parte di chi partecipa una certa capacità di dedizione e di perseveranza allo scopo di sostenere l’auto-disciplina necessaria a una pratica quotidiana di esercizi di mindfulness. Se ciò può sembrare un impegno anche troppo gravoso, potrete probabilmente scoprire che si traduce anche in un momento che da piacere ed energia.

Il programma MBSR, è un programma scientifico, sviluppato nell’ambito della medicina comportamentale dal prof. Jon Kabat- Zinn e i suoi collaboratori presso il Massachussets Institute of Technology. Sviluppato da oltre 20 anni (1979), è stato completato ad oggi da oltre 18.000 persone e viene proposto in più di 400 ospedali negli Stati Uniti e in Europa nel contesto della medicina integrativa.

Oltre ad essere l’esperienza pionieristica riconosciuta delle applicazioni cliniche e psicosociali della mindfulness, è il programma più studiato e validato dalla letteratura di ricerca e il più ricco di nuovi sviluppi. È stato inoltre inserito, per le sue

potenzialità cliniche preventive e riabilitative , in programmi di intervento nelle carceri e nelle scuole, nelle organizzazioni al fine di affrontare molte delle problematiche legate allo stress, ossia alla sofferenza, sia fisiche che psicologiche.

L’MBSR e gli altri interventi mindfulness-based da questo derivati, tra cui in particolare l’MBCT (Mindfulness-Based Cognitive Theraphy), stanno inoltre incontrando un sempre maggiore interesse in ambito psicoterapeutico, sia di formazione cognitiva che analitica. L’MBCT è stato dimostrato efficace nel ridurre i rischi di ricaduta depressiva nei casi di Depressione Maggiore ricorrente attraverso diversi studi clinici scientificamente molto rigorosi.

Il termine “meditazione” è piuttosto ambiguo e pertanto in genere non viene utilizzato nell’insegnamento della mindfulness per scopi sanitari o psicoterapeutici. Tuttavia è importante ricordare che, come abbiamo già detto, la pratica della mindfulness deriva da una particolare forma di meditazione, la meditazione vipassana, che ha cambiato in modo profondo la cultura della meditazione orientale più di duemilacinquecento anni fa.

Prima dell’avvento della meditazione vipassana, la meditazione era concepita soprattutto come una forma di assorbimento. Ancora oggi, molte persone concepiscono la meditazione come un assorbimento in qualcosa. Nella preghiera, ad esempio, oppure in fantasie positive, come nella trance ipnotica.

Che cos’è la mindfulness ?

La meditazione vipassana, invece, ha superato il concetto puro e semplice di assorbimento in qualcosa. L’idea di fondo fu introdotta da Buddha più di due millenni orsono. Buddha diceva che se sono assorbito da un punto, è vero che nel tempo in cui sono assorbito svaniscono le sofferenze. Posso non sentire persino il dolore, o la fame, o il desiderio irrefrenabile di qualcosa. Ma quando smetto di “meditare”, tutte le sofferenze, i dolori, gli impulsi, ritornano esattamente come prima.

Dunque come posso affrontare la sofferenza nella mia vita e non soltanto nel momento in cui medito? Ecco che fu introdotto un altro tipo di meditazione, molto simile alla mindfulness, il cui proposito non era di sfuggire alla sofferenza, ma di riconoscerla, accettarla, persino esplorarla, conoscerla per quello che è. La mindfulness è chiamata appunto, meditazione di consapevolezza.

La caratteristica fondamentale degli esercizi di meditazione qui proposti è la vigile consapevolezza del momento presente, momento dopo momento, di ciò che entra nel campo della consapevolezza, senza lasciarsi andare in ragionamenti, giudizi, tentativi di spiegazione. Senza respingere, ma allo stesso tempo senza essere catturati. La bontà di una meditazione non si misura con il grado di benessere o rilassamento raggiunto. Ma dalla qualità non giudicante della nostra attenzione. Persino la tendenza a giudicare, respingere, lottare, cedere agli impulsi, può essere oggetto della meditazione.

  • Se sono consapevole di giudicare, sto facendo una buona meditazione.

  • Se sono consapevole di respingere, sto facendo una buona meditazione.

  • Se sono consapevole di lottare contro i miei pensieri, le mie emozioni, le mie sensazioni o i

    miei impulsi, sto facendo una buona meditazione.

    La qualità non giudicante dell’attenzione non significa “assenza” di giudizi. L’attenzione non giudicante è anch’essa una forma di consapevolezza unita alla scelta di non seguire i pensieri giudicanti. Con il tempo si allena una sorta di funzione osservante e non giudicante, in grado di vedere le cose per quello che sono, nel momento in cui sono, e di distinguerle dai pensieri che concettualizzano, etichettano, giudicano.

    Il fulcro dell’insegnamento della mindfulness è l’attenzione al momento presente, ma si tratta un’attenzione speciale, che viene classicamente definita come attenzione non giudicante.

    Noi siamo abituati ad applicare giudizi ed etichette ad ogni cosa: questo è bello, questo è brutto, questo è giusto, questo è sbagliato, questo è buono questo è cattivo, questo si può fare, questo no.

    L’attenzione non giudicante è, appunto, un’attenzione in cui si rinuncia deliberatamente ad applicare etichette e giudizi all’oggetto della nostra attenzione. Con la mindfulness ci si “allena” ad applicare un’attenzione pura, diretta, senza filtri, a ciò che è, nel momento in cui è, esattamente come viene percepito.

    Ma perché è così importante l’attenzione non giudicante al momento presente? E perché questo tipo di allenamento ha degli effetti così benefici sulla salute?

    Per tre fondamentali ragioni:

    Innanzitutto sappiamo che molto spesso rimaniamo ingolfati e bloccati dal passato, oppure travolti e spaventati da anticipazioni catastrofiche del futuro. Saper tornare al presente

Il momento presente è dunque un modo molto semplice, diretto ed efficace per uscire dal coinvolgimento del passato e del futuro.

  • In secondo luogo, la pratica costante della mindfulness insegna a riconoscere la propria esperienza mentale in quanto tale, i pensieri, in quanto pensieri, le emozioni in quanto emozioni, le sensazioni fisiche in quanto sensazioni fisiche. Questo aspetto è particolarmente importante per la cura della depressione, dell’ansia e di altre manifestazioni psicopatologiche. Chi soffre di un problema psicologico, immancabilmente, tende a confondere la propria esperienza interiore con la propria realtà. Ad esempio, se ho il pensiero di essere incapace, posso convincermi che “sono incapace”. Se penso di essere cattivo, posso convincermi di essere cattivo. Come si vede, in questi esempi scambio un mio pensiero con me stesso. In realtà i pensieri sono dei pensieri e la mia realtà è molto più grande dei miei pensieri.

  • In terzo luogo, essere ancorati al momento presente ci consente di aprirci alla nostra esperienza, e dunque anche all’esperienza del funzionamento della nostra mente, e del suo modo di interpretare, predire, concettualizzare, giudicare, del suo modo di legarsi alle cose o di cercare di fuggire, e quindi persino, del suo modo di creare sofferenza, con curiosità e consapevolezza. Ciò implica una conoscenza più estesa profonda di parti di noi stessi.

    La pratica costante della mindfulness consente dunque di conoscere con precisione l’origine mentale della nostra sofferenza, di riconoscere l’attività mentale in quanto tale, apprendere a non dare tanto credito alle sue conclusioni, e di incrementare la libertà di azione e di scelta.

    Senza rendercene ben conto, a volte svolgiamo alcune attività in modo assolutamente automatico, senza prestarvi alcuna attenzione. Ad esempio, ti è mai capitato di guidare e di sobbalzare perché ti trovi in una strada diversa da quella dove volevi andare?

    In questi casi è come se tu avessi guidato con il “pilota automatico. Il tuo pilota automatico ha preso il posto della tua guida consapevole e ti ha portato dove era stato programmato in precedenza per farlo. Ma la tua mente era altrove. Allo stesso modo, ti è mai capitato di entrare in una stanza e di non ricordarti perché? E di chiederti: cosa ci faccio qui? E poi di ricordarti che eri entrato per prendere qualcosa? Questo accade spesso quando si è presi da altri pensieri, e si delegano alcune attività al proprio pilota automatico. Alcuni lo chiamano “inconscio”, altri “modelli appresi”, noi usiamo una parola molto più semplice e sperimentale: automatismo.

    A volte dobbiamo fare un piccolo sforzo per ricordarci, come nel nostro esempio, a che scopo siamo entrati in quella stanza o, comunque, perché abbiamo fatto quella certa cosa. Lo stesso accade a volte quando parliamo con qualcuno. La persona parla e noi pensiamo ad altro. E poi rispondiamo “in automatico”, senza attenzione, giusto per non apparire distanti o maleducati. Siamo generalmente distratti e distanti quando svolgiamo alcune semplici attività quotidiane, come lavarsi (quante volte ti è capitato di pensare alle cose da fare, mentre fai la doccia o ti lavi i denti?), mangiare (quante volte ti è capitato di ingoiare un boccone senza sentire neanche il sapore?), o addirittura fare l’amore.

    Ma i problemi cominciano sul serio quando il pilota automatico ci fa fare delle cose di cui dopo ci pentiamo o che proprio non vorremmo fare. Ad esempio quando siamo imprigionati da rituali ossessivi, quando siamo bloccati da sensi di colpa, da autorecriminazioni, da anticipazioni catastrofiche del futuro, da paure incomprensibili, impulsi “irrefrenabili”, ma anche quanto ci troviamo a vivere relazioni che mai avremmo detto possibili per noi. In queste circostanze diventa

Le attività automatiche

particolarmente importante ed urgente riprendere in mano la “guida” della nostra vita, sottraendola al pilota automatico che ci porta a fare esattamente, sempre, le stesse, identiche cose negative o distruttive.

Abbiamo visto come l’elemento centrale della mindfulness è l’attenzione non giudicante al presente. Momento dopo momento. Ed hai appreso che puoi focalizzare o estendere il campo dell’attenzione ponendo al centro della scena qualsiasi
oggetto della tua esperienza presente. Hai anche appreso

che per quanto tu voglia tenere l’attenzione fissa su qualcosa, questa invece tende a divagare e ad essere catturata di volta in volta da pensieri, considerazioni, valutazioni, giudizi, ragionamenti, ricordi, anticipazioni del futuro, impulsi, emozioni e sensazioni di ogni genere.

Queste “divagazioni” lungi dall’essere negative, o patologiche, sono la norma. Ciò che fa la differenza è il modo di intenderle, l’atteggiamento che si assume rispetto
ad esse. Ad esempio, quando durante l’esercizio del respiro la mente divaga e ci presenta un pensiero, la cosa più saggia da fare è semplicemente notarlo. Notare la divagazione della mente verso questo pensiero. Si tratta di un’annotazione immediata, intuitiva, non di un’analisi o di un ragionamento o di una ricerca di cause o spiegazioni.
Si tratta di osservare semplicemente che la mente non è sul respiro, ma su un pensiero, questo pensiero. Per poi tornare all’oggetto prefissato dell’attenzione, il respiro.

Allo stesso modo, in tutte le meditazioni che hanno un oggetto prefissato, come la meditazione del respiro e la meditazione del corpo, ogni qual volta la mente si allontana dall’oggetto predefinito o l’attenzione viene catturata da una divagazione della mente e perde il suo stato di osservazione non giudicante, è importante tornare all’oggetto dell’attenzione predefinito.

Quando torniamo all’oggetto predefinito della nostra attenzione, accade che la divagazione stessa diventa oggetto della nostra esperienza presente. Si tratta di un passaggio chiave, di un aspetto fondamentale della mindfulness. Può capitare di pensare che una buona meditazione sia una meditazione senza fastidi, senza deviazioni, ben concentrata su qualcosa.

Semplicemente non è così. Ciò che conta è la consapevolezza della nostra esperienza presente, e se la nostra esperienza è intrisa di frequenti divagazioni, oppure se veniamo catturati da pensieri ed emozioni intense, intrusive, seduttive, questa è la nostra esperienza. Ciò che conta è la consapevolezza di dove sta la mente e la propria libertà di scelta. La libertà di non seguire questi pensieri, di non tessere un dialogo con essi, ma di accoglierli così come sono, nel momento in cui sono. Può accadere a volte, dicevamo, che i pensieri siano molto intensi, molto intrusivi e così tendono a catturare l’attenzione. Può accadere che ci si perda nei pensieri. In questi casi si possono fare due cose.

  • La prima possibilità è accorgersi di questo e tornare semplicemente al respiro o al corpo che respira tutte le volte che accade.

  • L’altra possibilità è di mettere al centro dell’attenzione proprio l’oggetto della divagazione.

Le abilità fondamentali della mindfulness

Ad esempio, se durante l’esercizio del respiro, l’attenzione viene catturata da un suono irritante, può succedere che ci si perda in questa irritazione, considerandola semplicemente un fastidio rispetto ad una buona meditazione. Può accadere che ci si metta a pensare intensamente alla fonte del suono, al mancato rispetto della quiete pubblica, alle possibili strategie per far interrompere il suono. È possibile, invece, cogliere l’opportunità di questo evento per portare al centro dell’attenzione proprio il fastidio, esplorandone la risonanza nel corpo, le emozioni, i pensieri, gli impulsi che ne conseguono automaticamente. Tuttavia questo passaggio non è facile e non è sempre chiaro.

È importante distinguere tra attenzione consapevole dei nostri pensieri e “perdersi” nei pensieri.

Ci si perde nei pensieri quando non si vedono più i pensieri, ma si vede il mondo attraverso questi pensieri. Nel gergo della mindfulness questo comportamento si chiama “seguire” o “perdersi” nei pensieri. Quando ci si perde nei pensieri si perde la consapevolezza del momento presente. Non si è più consapevoli dei pensieri, ma, appunto, persi nei pensieri. Uno degli scopi più importanti e utili della mindfulness è di accorgersi di essere persi nei pensieri, di ritornare al momento presente, disingaggiarsi dai pensieri, e osservarli per ciò che sono: pensieri ed emozioni.

Dunque ciò che conta non è la presenza o l’assenza di pensieri, ma il nostro atteggiamento rispetto ad essi. È tanto difficile spiegare questo concetto con le parole, quanto invece è facile capirlo con la pratica. Nella meditazione sul pensiero metteremo al centro dell’attenzione proprio i pensieri con un atteggiamento non giudicante, aperto, curioso. Questo allenamento ci tornerà utile quando avremo a che fare con pensieri molto intensi, intrusivi, percepiti come negativi, sbagliati, indesiderati o intollerabili. Potremo apprendere a non seguirli, ma anche a non tentare di scacciarli, sopprimerli, controllarli, aggiustarli, modificarli, ma a lasciarli semplicemente andare.

Per molte persone all’inizio è difficile cogliere la differenza tra “lasciare andare un pensiero” e “controllarlo” o “scacciarlo”. Per ora basti sapere che proprio il tentativo di controllare i pensieri o di scacciarli, inevitabilmente li trattiene! I pensieri, quando sono semplicemente accolti per quelli che sono, cioè dei pensieri, tendono naturalmente a dissolversi. È la loro natura. I pensieri si manifestano, si dispiegano, si dissolvono. Siamo noi spesso a trattenerli perché rimaniamo ingaggiati in una lotta impari contro di essi o in un inutile tentativo di spiegarli definitivamente, modificarli definitivamente, controllarli.

La “Acceptance and Commitment Therapy” (ACT), che in italiano può essere resa con “psicoterapia basata sull’accettazione e l’impegno”, viene collocata all’interno di quella che è indicata come la terza generazione (“third wave”) della terapia cognitiva e comportamentale.

Se la prima fase della psicoterapia fu caratterizzata dal comportamentismo e la seconda dal cognitivismo, la terza fase è un movimento che si incardina su interventi che includono, in maniera differente, l’utilizzo dell’accettazione incondizionata, della meditazione, della relazione, dei valori e della spiritualità, in funzione dei differenti obbiettivi terapeutici.

Più che focalizzarsi sulla riduzione dei sintomi, la finalità primaria della ACT consiste nell’aiutare ad accettare i propri pensieri ed emozioni e vivere in maniera consistente con i propri valori. Così, ad esempio, quelli che sono chiamati i sintomi dell’ansia non sono considerati come elementi problematici. Si ritiene infatti che la fonte principale del disagio (o sofferenza) sia il tentativo senza fine di controllare e gestire i sintomi.

Accettazione e Impegno

La ACT si propone come una terapia capace di affrontare un ampio spettro di disturbi psicopatologici e molteplici forme di disagio psicologico, pur privilegiando il trattamento dei disturbi d’ansia (Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999; Eifert & Forsyth, 2005; Hayes, Follette, & Linehan, 2005).

All’interno di questo approccio, l’ansia non è considerata come qualcosa di negativo, né qualcosa che debba essere ridotta o eliminata. Al contrario, l’ansia è vista come parte integrante dell’ampio ventaglio dell’esperienza umana. Così, per poter giungere ad una qualità di vita più soddisfacente, le persone che sperimentano stati ansiosi non dovrebbero tentare di eliminare da loro stessi gli stati ansiosi. Viceversa, dovrebbero fare la scelta di agire in maniera da essere consistenti con i propri valori, invece di utilizzare l’ansia come una scusa per non partecipare pienamente alla vita.

In tale prospettiva, si capisce anche l’importanza dell’acronimo ACT, che in inglese rende i tre principali passi proposti dalla terapia: “Accept thoughts and feelings, Choose directions, and Take action(accetta i pensieri e le emozioni, scegli le priorità, agisci).

Gli Autori riconoscono che tale approccio terapeutico possa apparire controintuitivo. In ambienti che sono focalizzati sulla gestione della salute degli utenti, i clinici sono interessati più alla riduzione dei sintomi che alla promozione della soddisfazione della vita. In tale prospettiva, l’ACT è talora indicata più come una visione del mondo, che come una serie di tecniche terapeutiche. Si deve riconoscere come la filosofia soggiacente alla ACT, e in generale alle pratiche legate alla meditazione, mostri una modalità di considerare il dolore e il disagio opposta alla visione tradizionale occidentale, legata al controllo e alla riduzione dei sintomi.

Pur proponendo un approccio nuovo al disagio psicologico, Hofman e Asmundson (2008) ritengono che l’ACT non sia un trattamento per i disturbi emotivi così differente rispetto ai modelli tradizionali di terapia cognitiva-comportamentale (CBT). All’interno della letteratura riguardante la regolazione delle emozioni, queste ultime possono essere regolate sia manipolando la valutazione degli stimoli interni o esterni che anticipano le emozioni (regolazione delle emozioni focalizzata sugli antecedenti), sia manipolando la risposta emotiva (regolazione delle emozioni focalizzata sulla risposta).

Sia i modelli CBT classici che l’ACT propongono strategie di regolazione delle emozioni adattive, differenziandosi nei processi regolatori. La CBT promuove strategie di regolazione delle emozioni focalizzate sull’analisi degli antecedenti, mentre la strategia dell’accettazione dell’ACT intende ridurre le strategie non adattive di risposta alle emozioni. In tale prospettiva, Hofman e Asmundson (2008) ritengono che, nonostante le fondamentali differenze filosofiche, le tecniche proposte dall’ACT siano pienamente compatibili con il modello CBT, e che tali tecniche possano portare degli interventi più adeguati per taluni disagi.

Principi terapeutici

1. Accettazione dell’esperienza

Il primo elemento cardine dell’ACT è l’accettazione del cliente, in una forma ancora più radicale di quella formulata da Rogers. L’ACT vuole sostenere il cliente a sentire e pensare cosa egli senta direttamente e cosa egli pensi di fatto, ciò che è, non ciò che dice di essere, al fine di aiutare il cliente a muoversi nella direzione desiderata, con tutta la propria storia e le proprie reazioni automatiche.

Le tecniche formulate non vogliono altro che facilitare la definizione di un contesto psicologico che renda possibile ciò. Il processo dell’ACT è ciclico: riconoscimento della fusione cognitiva e dei comportamenti di evitamento, defusione, e “scorrer via” (“letting go”), al fine di stabilire nuove relazioni funzionali più flessibili con questi eventi, e poi muoversi nella direzione desiderata, costruendo repertori comportamentali sempre più ampi.

Per definire un esempio, una persona ansiosa vuole liberarsi del suo problema d’ansia. E potrebbe venir vissuto come invalidante rifiutarsi di lavorare direttamente sul risultato sperato. Ad un livello differente, comunque, il cliente con disturbo d’ansia vuole liberarsi dal suo problema al fine di vivere una vita migliore. A questo punto, la liberazione dall’ansia non è l’obbiettivo ultimo: è una tappa per un fine. A tale cliente l’ACT propone qualcosa di differente rispetto ai suoi tentativi precedenti di liberarsi dall’ansia: muoversi direttamente e velocemente verso l’obbiettivo finale, liberandosi dai circoli automatici dell’ansia, e affidandosi invece alle proprie esperienze (Twohig, Masuda, Varra, & Hayes, 2005).

Per far questo, l’ACT utilizza il linguaggio in una forma non lineare, in quanto il linguaggio lineare stesso rischia di essere la sorgente primaria di repertori rigidi e inefficaci. Strumenti cognitivi ben noti quali i paradossi, le metafore, le storie, gli esercizi, i compiti comportamentali, i processi esperenziali sono ampiamente utilizzati. Immagini quali l’essere caduti all’interno di un buco, o la metafora del poligrafo e della pistola puntata alla testa ricorrono spesso allo scopo di far fare esperienza al cliente dei processi impossibili dentro i quali sta cercando la soluzione.

2. Defusione cognitiva

L’ACT si basa su un modello cognitivo chiamato Relation Frame Theory (RFT) derivante dal lavoro di Skinner Verbal Behavior. Il linguaggio e i pensieri non sono considerati con valenza automatica o meccanica, ma contestuale. In tal senso, la RFT riconosce come spesso i pensieri funzionino come se fossero ciò che dicono di essere (Backledge, 2007). Il pensiero “Io sono un fallito” può far ritenere la persona di dover affrontare la realtà dell’essere una persona fallita, anziché il pensiero che pensa “Io sono un fallito”.

Questo è un elemento ben noto all’interno della CBT, che ha offerto come soluzione di trovare verifiche per il pensiero stesso, o di analizzare il contenuto irrazionale dei pensieri. L’ACT invece propone di modificare il contesto, tramite la defusione cognitiva.

Le tecniche di defusione cognitiva intendono erodere le strette relazioni verbali che stabiliscono la funzione appresa dello stimolo (Masuda, Hayes, sacket, & Twohig, 2004). Ad esempio una tecnica di defusione è data dall’esercizio del “latte, latte, latte”, descritto per la prima volta da Titchener nel 1916. Si esplorano le proprietà di una singola parola (per esempio: bianco, cremoso, caldo) e si ripete rapidamente la parola per circa un minuto, fino a che, nel contesto della rapida ripetizione, la parola perde i suoi significati e diviene un semplice suono. L’esercizio è poi ripetuto avendo come parola una preoccupazione principale per il cliente o un pensiero ripetitivo (per esempio: stupido, debole, inutile). Il punto esperienziale è che i pensieri non significano quello che dicono di significare, e se non è possibile modificare il loro referente, è sempre possibile sperimentali come un processo in divenire.

3. Una esperienza trascendente di sé

Gli Autori riconoscono come sia irrealistico chiedere ad un cliente di sperimentare pensieri e emozioni che ritiene pericolosi senza fornire un luogo sicuro dove ciò sia possibile. Hayes (1984) ritiene che tale luogo si possa trovare lungo il continuum della autoconsapevolezza nel guardare le cose da una altra prospettiva (“perspective taking”).

Per spiegare tale concetto l’ACT usa sovente l’esercizio dell’osservatore, un esercizio da svolgersi ad occhi chiusi, finalizzato a promuovere l’esperienza del contatto con la dimensione trascendente di sé. Si chiede alla persona di fare attenzione alle proprie sensazioni, di ricordare un episodio avvenuto mesi prima e prestare attenzione a quello che si è provato in quella situazione. A questo punto si chiede alla persona di prestar attenzione a come una persona sia qui che sperimenta dei pensieri e delle emozioni, e una altra persona abbia sperimentato quell’evento mesi orsono. In tal modo si intende mostrare come il continuum delle esperienze possa essere interrotto, spostando il contenuto delle esperienze stesse.

Una metafora dall’analogo significato è data dall’osservatore che guarda l’acqua di un fiume scorrere: vede prima i tronchi e le foglie andar via, poi può immaginare che qualcun altro, dall’alto di un albero, lo fissi mentre osserva il fiume scorrere e trascinare con sé oggetti diversi.

Questi e simili esercizi intendono far fare esperienza alla persona della differenza tra la persona stessa e quelle cose che la preoccupano e le creano disagio. Hayes ritiene che (solo) tale esperienza trascendente di sé fornisca un luogo sicuro dal quale sperimentare alcuni dei contenuti psicologici temuti con minore preoccupazione.

4. Valori e obiettivi

L’elemento più specifico dell’ACT è forse dato dall’enfasi sui valori personali. Hayes (2004) afferma che solo partendo dal contesto valoriale l’azione, l’accettazione, la defusione si integrano tra di loro in una proposta efficace. I valori sono definiti all’interno della RFT come qualità dell’azione che possono essere istanziate nel comportamento ma non possono essere possedute come oggetto.

Le prime fasi della terapia ACT si caratterizzano per ricercare quelli che sono i valori personali nei diversi domini della vita: nella famiglia, nelle relazioni intime, nella salute, nel lavoro, nella spiritualità e così via. Una delle tecniche usate consiste nel chiedere cosa uno desidererebbe che venisse scritto sulla propria pietra tombale, o cosa venisse detto durante il proprio funerale. Una volta che i valori personali sono chiarificati, è possibile definire obiettivi che incarnino tali valori, azioni concrete e graduali che possano permettere di raggiungere tali obiettivi. Ancora una volta, strategie cognitive e comportamentali ben note per la risoluzione dei problemi sono utilizzate con finalità meno specifiche e più generali.

5. Impegno

Si chiarisce quindi che il senso dell’accettazione indica, anche etimologicamente, prendere quello che è offerto. Accettazione non è solo tolleranza, ma è un attivo abbracciare senza giudicare l’esperienza provata qui ed ora grazie alla tecnica della defusione cognitiva e dell’esperienza trascendentale di sé.

Accettazione implica intrinsecamente il concetto di esposizione, concetto centrale in molteplici terapie comportamentali basate sull’esposizione stessa. Ma l’ACT si differenzia da tali terapie in quanto non intende perseguire la finalità della regolazione delle emozioni. Non intende far sperimentare un sentimento con lo scopo di controllarlo o ridurlo direttamente. La finalità dell’esposizione nell’ACT è l’esperienza stessa del fare esperienza di emozioni e pensieri temuti.

Si intende quindi aumentare il repertorio comportamentale della persona, aumentandone la flessibilità psicologica (Backledge & Hayes, 2001). L’ACT si propone di costruire un repertorio comportamentale più ampio, sia rimuovendo gli effetti limitanti della fusione cognitiva e dell’evitamento, sia sostenendo un insieme di comportamenti coerenti con i valori personali. L’ACT intende far apprendere strategie generalizzate per muoversi verso i propri obbiettivi e raggiungerli, dissolvendo le barriere psicologiche tramite la defusione e l’accettazione, e dissolvendo le barriere situazionali tramite l’azione diretta. E le tecniche utilizzate sono quelle provenienti dal patrimonio della terapia comportamentale. In questa ottica, l’ACT è tanto una strategia orientata all’accettazione quanto una strategia orientata al cambiamento. Raramente viene però affermato come tale esposizione offra delle analogie sorprendenti con i presupposti delle tecniche di desensibilizzazione o di flooding.

Non devi essere buono. Non devi trascinarti ginocchioni, pentito, per cento miglia attraverso il deserto. Devi soltanto permettere a quel mite animale, al tuo corpo, di amare ciò che ama. Parlami della tua disperazione, io ti racconterò la mia. Intanto il mondo va avanti. Intanto il sole e gli splendidi sassolini della pioggia attraversano i paesaggi, passano sopra le praterie e gli alberi dalle profonde radici, sopra le montagne e i fiumi. Intanto le oche selvatiche, alte nel limpido azzurro, fanno nuovamente ritorno a casa. Chiunque tu sia, per quanto tu possa essere solo, il mondo si offre alla tua immaginazione, ti manda il suo richiamo come le oche selvatiche, aspro ed eccitante, annuncia incessantemente la tua appartenenza alla famiglia delle cose.

Mary Oliver, Le oche selvatiche

Per approfondire

Giommi F., Il potere dell’attenzione. La prospettiva della mindfulness, in Bara B.G. (a cura di) Nuovo Manuale di Psicoterapia Cognitiva, Bollati-Boringhieri: Torino, 3 Vol, 2005.

Hayes S., Follette V., Linehan M. (eds), Mindfulness and Acceptance. Expanding the Cognitive-Behavioral Tradition, Guilford: New York, 2004.

Montano A., (2007) Mindfulness. Guida alla meditazione di consapevolezza Ecomind Ebook, Salerno.

Segal Z. V., Teasdale J.D., Williams J.M.G, Mindfulness-Based Cognitive Therapy for Depression. A New Approach to Preventing Relapse, Guilford, New York, 2002, (trad. it. Mindfulness, Bollati-Boringhieri: Torino, 2006)

Spagnulo P., (2009) Mindfulness – La meditazione per la salute. Ecomind Ebook, Salerno.

Esercizio: la pratica informale

Scegli un’attività quotidiana che esegui in genere in modo automatico, forse pensando ad altro. Ad esempio quando ti lavi i denti, fai colazione, prepari il caffè, dai da mangiare al gatto o al cane, vai in bagno, fai la doccia.

Proponiti di svolgere questa attività quotidiana con consapevolezza, portando la tua attenzione a quello che stai facendo, alle sensazioni che provi, ai tuoi movimenti.

Nel corso di questo esercizio, quando la mente divaga, nota dove sta la mente e riporta la tua attenzione all’attività che stai svolgendo.

Importante: non confondere l’attenzione a ciò che stai facendo con il “controllo” di quello che stai facendo. Non si tratta di controllare i propri pensieri, le proprie emozioni o persino i propri movimenti. Si tratta di essere pienamente consapevoli di ciò che si sperimenta mentre facciamo naturalmente qualcosa. Ad esempio, se decidi di svolgere l’esercizio quando cammini per andare a lavoro, non si tratta di camminare in modo controllato o volontario, ma di percepire nel presente il movimento del corpo che cammina, l’aria che lambisce il volto, le sensazioni dei piedi sul terreno, i suoni provocati dai passi, etc. etc. Insomma, ciò che percepiamo nel momento presente, momento dopo momento, mentre camminiamo.

Se scegli invece un’attività più complessa, come ad esempio preparare il caffè, puoi prestare attenzione al contatto delle mani con il contenitore del caffè, ai movimenti delle mani, all’aroma del caffè macinato, ai suoni, e così via.

Meditazione del corpo

Questa meditazione è di una importanza basilare per l’utilizzazione terapeutica della mindfulness. La possibilità di esplorare le sensazioni del corpo, qualsiasi esse siano, in modo diretto, con la semplice percezione, senza seguire le etichette ed i filtri che la mente frappone tra noi ed il corpo, consente non solo di acquisire un rapporto più sano con il corpo, con le sue sensazioni e le sue attività, ma anche di esplorare la risonanza emotiva dei nostri pensieri.

I nostri pensieri e le nostre emozioni non sono slegati dal corpo. Esse si esprimono attraverso il corpo. Per riconoscere e superare alcune emozioni particolarmente negative ed intense è indispensabile familiarizzarsi con la loro espressione corporea, soprattutto per apprendere a distinguerla dalle etichette che noi le attribuiamo.

Assumi la tua solita posizione seduta con la schiena dignitosamente eretta, ed inizia il tuo esercizio del respiro come al solito. Oppure utilizza un tappetino e stenditi in maniera che tutto il corpo sia ben appoggiato al pavimento.

I. Sdraiamoci in modo da stare comodi, distesi sulla schiena sul pavimento o su un materassino o una stuoia – oppure sul nostro letto, in un luogo in cui saremo tranquilli e al caldo. Chiudiamo dolcemente gli occhi.

2. Prendiamoci alcuni istanti per entrare in contatto con il movimento del respiro e con le sensazioni a esso collegate che proviamo nel corpo. Quando siamo pronti, prendiamo consapevolezza delle sensazioni fisiche del corpo, specialmente le sensazioni di contatto o di pressione, dove il corpo tocca il pavimento o Il letto. A ogni espirazione, ci diamo iI permesso di «!asciar andare», sprofondando un po’ di più nel materassino o nel letto.

3·∙ Ricordiamo a noi stessi qual è lo scopo di questa pratica. Non è sentirsi in modo diverso, ossia rilassati o tranquilli: questo può accadere o no. Ma la pratica mira a farcI prendere consapevolezza, meglio che possiamo, di ogni sensazione che riusciamo a individuare mentre ci concentriamo su ciascuna parte del corpo, una alla volta.

4·∙ Adesso portiamo la nostra consapevolezza sulle sensazioni fisiche dell’addome diventando coscienti delle mutevoli sensazioni della parete addominale mentre inspiriamo ed espiriamo. Prendiamoci alcuni minuti per sperimentare le sensazioni che proviamo mentre il respiro entra ed esce.

5·∙ Dopo esserci collegati con le sensazioni addominali, spostiamo il fuoco, o il «riflettore», della nostra consapevolezza più in giù, sulla gamba sinistra, nel piede sinistro, e verso l’esterno, sulle dita del piede sinistro. Concentriamoci su ciascun dito del piede sinistro, uno alla volta, indagando dolcemente, con curiosità, la qualità delle sensazioni che scopriamo: magari il senso del contatto tra le dita, un formicolio, un senso di calore, o anche nessuna sensazione particolare.

6. Quando siamo pronti, su un’inspirazione, sentiamo o immaginiamo il respiro che entra nei polmoni, e poi scende nell’addome, nella gamba sinistra, nel piede sinistro, fino alle dita del piede sinistro. Poi, con l’espirazione, sentiamo il respiro che torna indietro, esce dal piede, va nella gamba, risale fino all’addome, attraversa il petto ed esce dal naso. Cerchiamo di andare avanti così per alcuni respiri, inspirando fino alle dita del piede ed espirando a partire dalle dita del piede. Può essere difficile da imparare, ma limitiamoci a praticare meglio che possiamo, come per gioco, questo «respirare dentro».

7·∙ Adesso, quando siamo pronti, su un’espirazione, abbandoniamo la consapevolezza delle dita del piede e prendiamo coscienza delle sensazioni sulla pianta del piede sinistro, con una curiosità indagatrice ma delicata per la pianta, per il collo del piede, per il tallone (cioè rilevando le sensazioni che proviamo quando il tallone tocca il materassino o il letto). Sperimentiamo il «respirare insieme» alle sensazioni, rimanendo consapevoli del respiro sullo sfondo, mentre, «in primo piano», esploriamo le sensazioni che proviamo nella parte inferiore del piede.

8. Lasciamo adesso che la consapevolezza si estenda al resto del piede, alla caviglia, al dorso del piede, fino alle ossa e alle articolazioni. Poi, con un’inspirazione leggermente più profonda, dirigiamola verso l’intero piede sinistro, ed espirando abbandoniamo il piede sinistro lasciando che la consapevolezza passi a concentrarsi sulla parte inferiore della gamba sinistra: di volta in volta il polpaccio, la tibia, il ginocchio e così via.

9·∙ Continuiamo prendendo consapevolezza, con una curiosità accogliente, delle sensazioni fisiche che proviamo in ciascuna parte del resto del corpo, una alla volta: la parte superiore della gamba sinistra, le dita del piede destro, il piede destro, la gamba destra, la pelvi, la schiena, l’addome, Il petto, le dita, le mani, le braccia, le spalle, il collo, la testa, il viso. In ciascuna zona, meglio che possiamo, portiamo altrettanto dettagliatamente la nostra consapevolezza e la nostra delicata curiosità sulle sensazioni fisiche che vi sono presenti. Nel lasciare ogni zona principale, respiriamoci dentro con l’inspirazione e lasciamola andare con l’espirazione.

10. Quando ci rendiamo conto di una tensione o di altre intense sensazioni in una particolare parte del corpo, «respiriamoci dentro» utilizzando l’inspirazione per portare con calma la nostra consapevolezza su quelle. Specifiche sensazioni e poi, come meglio ci riesce, lasciamole svanire o attenuarsi con l’espirazione.

11. È inevitabile che prima o poi la mente si allontani dal respiro e dal corpo. Questo è del tutto normale. La mente fa così. Quando ce ne accorgiamo, riconosciamolo con tranquillità, notando dove se n’è andata la mente, e poi riportiamo dolcemente l’attenzione sulla parte del corpo su cui intendevamo concentrarci.

12. Dopo aver «esplorato» tutto il corpo in questo modo, dedichiamo alcuni minuti alla consapevolezza del nostro corpo tutto intero, e del respiro che fluisce liberamente dentro e fuori dal corpo.

13. Se ci accorgiamo di addormentarci, può essere utile sostenere la testa con un cuscino, tenere gli occhi aperti, o restare seduti invece che sdraiati.

Dr. Marco Vicentini, psicologo psicoterapeuta CBT
Mindfulness – Corso di aggiornamento per operatori nella relazione di aiuto Centro Camilliano di Formazione – Verona, Maggio 2012

Meditazione del respiro

Il termine “meditazione” è piuttosto ambiguo e pertanto in genere non viene utilizzato nell’insegnamento della mindfulness per scopi sanitari o psicoterapeutici.

La mindfulness è chiamata meditazione di consapevolezza. La caratteristica fondamentale degli esercizi di meditazione che svolgerai di qui in avanti, è la vigile consapevolezza del momento presente, momento dopo momento, di ciò che entra nel campo della consapevolezza, senza lasciarsi andare in ragionamenti, giudizi, tentativi di spiegazione. Senza respingere, ma allo stesso tempo senza essere catturati. La bontà di una meditazione non si misura con il grado di benessere o rilassamento raggiunto. Ma dalla qualità non giudicante della nostra attenzione. Persino la tendenza a giudicare, respingere, lottare, cedere agli impulsi, può essere oggetto della meditazione. Se sono consapevole di giudicare, sto facendo una buona meditazione. Se sono consapevole di respingere, sto facendo una buona meditazione.

Trova un momento in cui nessuno possa disturbarti, non hai nulla di urgente da fare, e puoi permetterti di non rispondere al telefono o al cellulare.

Assumi una posizione seduta con la schiena dignitosamente eretta. Ci si può sedere su una sedia oppure su un cuscino alto e duro oppure su una coperta ben piegata, con le gambe incrociate. Un altro modo di meditare è di mettersi a cavalcioni di un cuscino o su una speciale panca per la meditazione.

Concediti tutto il tempo che ti serve. Prima di chiudere gli occhi e praticare la meditazione, leggi attentamente le seguenti istruzioni. Dovremo ridurle all’essenziale altrimenti ti sarà difficile ricordare tutto durante l’esercizio. Oppure puoi ascoltare una guida audio che ti guidi durante la meditazione. In appendice puoi trovare delle indicazioni su come reperire una guida di questo tipo.

Lo scopo della meditazione che stai per eseguire non è di ottenere qualche speciale tipo di rilassamento o di andare in qualche curiosa o profonda forma di trance. Lo scopo della mindfulness è la consapevolezza. La consapevolezza della propria esperienza momento dopo momento.

Inizia con il sentire il corpo, nota ciò che percepisci nei punti di contatto con il pavimento o con la seduta. Nota la temperatura, le sensazioni interne.

Ora porta la tua attenzione al respiro. Possibilmente restringi il campo dell’attenzione alle sensazioni del respiro nella pancia. Al movimento della pancia mentre respiri. Alle sensazioni che avverti nella pancia nel corso del respiro. Senza forzare il respiro, senza guidarlo volontariamente. Lascia che sia il corpo a guidare il respiro. Semplicemente porta la tua attenzione a ciò che percepisci nella pancia mentre respiri.

Ora, prima di chiudere gli occhi e dedicarti alla tua meditazione leggi attentamente la seguente istruzione fondamentale:

Quando la mente divaga, e si allontana dal respiro, invece di biasimarti, semplicemente riconosci che la mente non è più sul respiro, nota dove sta la mente, e poi riporta l’attenzione sul respiro nella pancia.

Ricorda: quando la mente divaga, nota dove sta la mente e porta nuovamente l’attenzione al respiro nella pancia.

Meditazione dei suoni e dei pensieri

E’ venuto il momento di occuparci dei pensieri. Finora abbiamo considerato i pensieri una sorta di distrazione della mente dal nostro oggetto di attenzione. Ad esempio, se il nostro oggetto di attenzione era il respiro, abbiamo appreso a riconoscere l’emergere di pensieri e la loro tendenza a catturare la nostra attenzione, ed abbiamo appreso a sganciarci da essi e tornare al respiro.

Ora apprenderemo a mettere al centro della nostra attenzione proprio i pensieri.

Assumi una posizione seduta con la schiena dignitosamente eretta ed inizia la tua meditazione come hai già appreso. Prima il respiro, poi il corpo.

Ad un certo punto, quando tu vorrai sceglierlo, espandi il campo dell’attenzione fino ad includere anche i suoni. Osserva i suoni nella loro natura sonora, notando la tendenza della mente ad attribuire invece costantemente delle etichette e dei significati a ciascun suono.

Non seguire questa attività della mente e torna alla percezione sonora diretta, nota ed esplora i suoni in quanto tali, non il loro significato o le loro cause.

Ad un certo punto, quando tu vorrai sceglierlo, espandi il campo dell’attenzione fino ad includere i pensieri. Poni dunque al centro della tua attenzione i tuoi pensieri. Esattamente come per i suoni, nota i pensieri nel loro manifestarsi e nel loro dissolversi, notando la tendenza della mente ad attribuire un significato o un giudizio ai pensieri.

Può esserti di aiuto immaginare davanti a te uno schermo dove proiettare ciascun pensiero, dove proiettarne le parole oppure le immagini. Oppure può esserti utile immaginare di essere sulla riva di un ruscello, o di un lento fiume tranquillo, dove galleggiano grandi foglie che vengono trasportate lentamente dalla corrente. E puoi dunque scrivere su ciascuna foglia un tuo pensiero, oppure puoi disegnarlo. Ogni pensiero una foglia, ogni foglia un pensiero. Ed ogni foglia viene trascinata via lentamente dalla corrente.

Osserva i tuoi pensieri nel loro manifestarsi, esattamente come sono, nel momento in cui sono. Non seguire i pensieri, non saltare da un pensiero all’altro. Nota ciascun pensiero. Puoi notare la loro intensità, le emozioni che accompagnano i pensieri. Alcuni pensieri sono neutrali, senza emozioni, altri sono accompagnati da emozioni più o meno intense. Alcuni pensieri sono piacevoli e tendono a catturarti, ma non seguirli, lascia che si dissolvano naturalmente. Altri sono spiacevoli, tristi, dolorosi, angosciosi o minacciosi, e suscitano il bisogno di sbarazzarsene, di combatterli, ma non metterti a lottare con loro, non metterti a cercare di spiegarli, aggiustarli, modificarli, controllarli. Puoi esercitare curiosità nei loro confronti, apertura, e osservarli così come sono.

Alcuni pensieri risuonano nel corpo. Puoi sentirli nel corpo. Se questo accade, puoi portare l’attenzione nell’area del corpo dove risuona il pensiero e osservare la sensazione così come è, nel momento in cui è.

Se ti accorgi che un certo pensiero ti cattura, puoi tornare per un momento con l’attenzione al respiro. Giusto il tempo di disingaggiarti dal pensiero, di non esserne schiavo. E poi riprendi ad osservare i pensieri.

Domande frequenti
Ad un certo punto mi sono chiesto “come mai non ci sono pensieri?”

Quando ti sei chiesto come mai non ci fossero pensieri, questo era il tuo pensiero. Non avevo pensieri e stavo bene così. E’ possibile che durante una meditazione si vivano sensazioni di calma e benessere. Ma è anche possibile che emergano pensieri, emozioni o sensazioni intense. Non c’è un modo desiderabile, giusto, adeguato di sperimentare ciascuna meditazione. Ogni meditazione ha le sue caratteristiche ed è una esperienza nuova. Ciò che conta è la consapevolezza della nostra esperienza presente. Ad esempio, se le sensazioni prevalenti sono di calma e benessere, possiamo notare queste sensazioni. Eventualmente possiamo notare quali pensieri accompagnano queste sensazioni. Ad esempio, possiamo notare il desiderio di continuare a sperimentare questo “stato di grazia” indefinitamente, oppure il timore che svanisca.

Ho pensato a lungo ad un problema che mi affligge, ma non ho trovato benefici.

Lo scopo di questa meditazione non è il beneficio immediato. Il beneficio arriverà, ma sarà la conseguenza di un’apertura alla nostra esperienza così come si presenta, senza cercare di lenirla, modificarla, aggiustarla. Quando ci occupiamo di un pensiero cercando di risolverlo, modificarlo o eliminarlo, spesso non raggiungiamo lo scopo prefisso, ma, al contrario, siamo ancora più presi dai nostri pensieri.

Ho provato a pensare a qualcosa di brutto, ma non mi veniva.

Nel corso di una psicoterapia con la mindfulness, esistono degli esercizi in cui il terapeuta chiede di richiamare volontariamente alla mente delle situazioni molto pesanti, dolorose o difficili, ma è meglio lasciare questi esercizi al solo contesto psicoterapeutico. Non cercare i pensieri. Lascia che emergano spontaneamente.

Mi veniva sempre un certo pensiero molto brutto. Ho cercato in tutti i modi di non pensare.

Può darsi che in questo momento vi siano dei temi, delle paure, delle emozioni, dei disagi che hanno ancora una grande presa su di te. Non aver fretta. Concediti il tempo che ti serve per aprirti alla tua esperienza un po’ per volta. Ad esempio, puoi dedicare ogni volta qualche secondo in più ai pensieri che emergono spontaneamente, qualsiasi essi siano, e scoprire che puoi farlo. Ogni volta un po’ di più.

Meditazione camminata

Diamo di seguito le istruzioni per la pratica della meditazione camminata. L’esercizio può essere praticato individualmente, da soli.

Quello che serve per cominciare è un ambiente dove sia possibile camminare avanti e indietro. Uno spazio che va da un minimo di 3 metri fino ad uno spazio molto ampio. Può essere al chiuso o all’aperto. L’importante è che sia un luogo tranquillo, silenzioso e non disturbato, soprattutto da sguardi indiscreti.

L’esercizio comincia in piedi. In posizione dritta, eretta, rilassata, con le piante dei piedi parallele ad una distanza fra loro più o meno pari a quella delle anche. Le braccia sciolte lunghi i fianchi oppure le mani intrecciate davanti. Le ginocchia leggermente piegate. Questo abbassa il baricentro e aiuta l’equilibrio.

Gli occhi aperti, che fissino il suolo un metro e mezzo o due di fronte a noi. Volendo gli occhi possono anche essere chiusi se le condizioni lo permettono, ma in questo caso l’equilibrio è più instabile, soprattutto all’inizio.

L’esercizio comincia portando l’attenzione sul respiro.

Sulle sensazioni del flusso ad ogni inspirazione e ad ogni espirazione. Rimaniamo un paio di minuti sul respiro.

E poi quando ci sentiamo pronti, lentamente, spostiamo il peso sulla gamba destra. Questo lentamente scarica il peso dalla gamba sinistra. Il tallone del piede sinistro può cominciare a sollevarsi, si solleva tutto il piede, si sposta in avanti e si abbassa.

Lentamente il peso passa dalla gamba destra alla sinistra. Il piede destro si scarica, si solleva, avanza e si abbassa. Di nuovo, il piede sinistro si alza, avanza, e si abbassa. Il piede destro si alza, avanza, e si abbassa.

Proviamo a dare tutta la nostra attenzione alle sensazioni che ci vengono dalle piante dei piedi.

L’importante è che questo esercizio sia svolto con lentezza. Poi ognuno troverà il ritmo adatto, ma il rallentare ci permette di dare più attenzione e di accogliere con più consapevolezza le sensazioni fisiche collegate alle piante dei piedi, allo spostamento del baricentro, da una gamba all’ altra.

Proviamo semplicemente a camminare mantenendo la nostra attenzione sulle sensazioni delle piante dei piedi.

Quando ci rendiamo conto che la nostra attenzione è stata distratta ed è altrove, con calma, riportiamola alle sensazioni delle piante dei piedi. Come facevamo col respiro.

Il tallone si alza, il piede avanza, si abbassa a partire dal tallone fino alle dita.

Il tallone dell’altro piede si alza, il piede si sposta in avanti, il tallone si abbassa e il piede tocca il suolo fino alle dita. Con questo movimento continuiamo fino a che non raggiungiamo la fine dello spazio che abbiamo a disposizione.

A questo punto ci fermiamo nella posizione di partenza e cioè con i piedi pari. Riportiamo brevemente l’attenzione al respiro.

Poi quando ci sentiamo pronti, lentamente ruotiamo e in questa rotazione proviamo a notare tutte le sensazioni connesse a questo complesso movimento. E quando siamo voltati ricominciamo a camminare.

Il piede si alza, avanza, e si abbassa. Si alza, avanza, e si abbassa. Quando ci rendiamo conto di essere altrove torniamo sulle sensazioni delle piante dei piedi. Via via che l’esercizio prosegue ci renderemo conto che saremo sempre più in grado di distinguere sensazioni diverse e nuove, nei piedi, nelle gambe, mentre il baricentro si sposta. Continuiamo in questo modo per 15 minuti, e se vogliamo anche di più, ricordandoci alla fine di ogni tratto di percorso di sostare sul respiro per qualche momento prima di ruotare su noi stessi.

Se in qualche circostanza siamo agitati possiamo fare questo esercizio camminando in modo veloce, anche più veloce del ritmo normale di camminata in una prima fase e poi rallentando fino alla velocità che abbiamo imparato ad utilizzare per la meditazione sul camminare.

Meditazione senza oggetto predefinito

Uno degli aspetti più interessanti della mindfulness è la possibilità di essere consapevoli della propria esperienza, qualunque essa sia, senza giudizi, commenti, considerazioni, etichette, insomma senza i filtri: esplorare la propria esperienza, nel momento presente, così come si presenta.

L’esercizio che apprenderemo ora ci consente di spingere un po’ più in là il nostro lavoro di consapevolezza. Finora, infatti, abbiamo utilizzato uno specifico oggetto di attenzione al quale ritornare ogni volta che la mente ci cattura. Un po’ come un’ancora che ci consente di non essere trascinati dal vento e dalle onde. Abbiamo dunque utilizzato come oggetti precostituiti il respiro, il corpo i suoni. Abbiamo utilizzato come oggetto precostituito di attenzione persino i pensieri.

Apprenderemo a non predefinire un oggetto di attenzione. Apprenderemo ad accogliere tutto ciò che emerge nel campo della consapevolezza senza effettuare alcuna selezione e senza favorire alcun oggetto. Questo esercizio è il più vicino alla meditazione vipassana di cui abbiamo parlato all’inizio di questa guida. Per alcuni viene considerato un traguardo difficile. Ed in effetti non è facile permanere in uno stato di attenzione non giudicante senza avere un’ancora predefinita a cui fare riferimento ogni qualvolta ci sentiamo catturati da alcuni contenuti mentali. Per questa ragione, quando ci accorgiamo di essere catturati dai pensieri, può essere utile tornare per un momento al respiro, solo il tempo di sganciarci dal coinvolgimento, per poi riprendere l’esercizio.

Inizia la tua meditazione come al solito, portando la tua attenzione al respiro. Quando la mente divaga, nota dove sta la mente e torna al respiro. Quando ti senti pronto espandi l’attenzione al corpo nel suo insieme. Espandi l’attenzione al corpo che respira. Quando la mente divaga, nota dove sta la mente e torna al corpo che respira

Quando lo ritieni appropriato espandi l’attenzione anche ai suoni. Ascolta i suoni che ti circondano, notando la tendenza della mente ad etichettarli, a stabilire un loro significato, a ricercare la loro fonte. Ma non seguire il lavorio classificatorio o esplicativo della mente, torna ad ascoltare i suoni per quello che sono, nella loro qualità sonora. Nota la loro intensità, l’altezza, il timbro, le pause.

Espandi dunque il campo dell’attenzione fino ad includere i pensieri. Osserva la tua esperienza che include il respiro, il corpo, i suoni i pensieri.

Quando ritieni che sia venuto il momento, puoi lasciare libera l’attenzione. Puoi osservare semplicemente ciò che, di volta in volta, emerge nel campo della tua consapevolezza, senza soffermarti su nulla in particolare. Se emerge una sensazione, nota la sensazione, se emerge un suono, nota il suono, se emerge un pensiero, nota il pensiero, se emerge una emozione, nota l’emozione, così come si presentano, nel momento in cui si presentano.

Rimani per qualche minuto in questo stato di osservazione. Se ti senti catturato da pensieri o emozioni intense, torna per un momento al respiro, sganciati dal coinvolgimento e torna ad osservare ciò che emerge nel campo della consapevolezza.

Concludi l’esercizio scegliendo il momento appropriato per aprire gli occhi ed accogli nel campo della consapevolezza anche le immagini, così come si presentano ai tuoi occhi. Osserva le luci, le ombre, i contorni, le distanze.

Conserva, per quanto possibile, per tutta la giornata un contatto con la tua esperienza presente.

Il momento del respiro (o esercizio dei momenti difficili)

È un esercizio che ha un valore speciale in quanto ha una finalità pratica: non essere catturati da emozioni troppo intense oppure impulsi che spingono a compiere azioni di cui dopo immancabilmente ci si pente.

Ma, senza arrivare a questi estremi, è un esercizio utilissimo anche quando ci sentiamo semplicemente troppo ingolfati da pensieri, preoccupazioni, stress. È un momento da dedicare a noi stessi per ritrovare il contatto con la nostra esperienza presente e sganciarci dal treno degli impegni, dei programmi, dei ragionamenti, della fretta.

Questo esercizio, molto breve, può essere svolto più volte nel corso della giornata, ogni volta in cui ci sentiamo troppo presi o catturati da emozioni intense, preoccupazioni, disagio, ansia, stress. Per questa ragione questo esercizio si chiama anche “Esercizio dei momenti difficili”. L’esercizio si svolge in tre fasi:

Prima fase

Qualsiasi cosa ti stia passando per la mente, qualsiasi siano le tue emozioni, i tuoi pensieri, le sensazioni fisiche, semplicemente riconoscine la presenza. Apri l’attenzione a dove “stai con la testa” nel momento presente. Un unico grande sguardo che comprende tutto, nel presente.

Se provi rabbia, riconosci il tuo essere nella rabbia, se provi ansia, riconosci il tuo essere nell’ansia, se provi tristezza, riconosci il tuo essere nella tristezza. Se provi gioia, curiosità, tristezza, amore, odio, riconosci il tuo essere nella gioia, nella curiosità, nella tristezza, nell’amore, nell’odio. Non indulgere in questa fase. Rimanici solo il tempo necessario per riconoscere in modo globale, complessivo, non dettagliato, dove stai con la mente.

Ora porta deliberatamente tutta la tua attenzione sul respiro. Raccogli tutta la tua attenzione sul respiro nella pancia. E quando la mente divaga, nota dove sta la mente, e riporta l’attenzione sulla pancia che respira.

Seconda fase

Espandi ora il campo dell’attenzione a tutto il corpo nel suo insieme. Percepisci il corpo nella sua interezza che respira. Se la mente divaga, nota dove sta la mente e torna al corpo che respira.

Terza fase

Se avverti sensazioni intense o fastidi in alcune aree del corpo, porta tutta la tua attenzione proprio in quest’area, lasciando che venga attraversata dal respiro. Accogli le sensazioni così come sono, nel momento in cui sono. Nota la qualità delle sensazioni, la loro intensità, la loro localizzazione, i cambiamenti nel tempo, per tornare infine al corpo che respira.

È importante ricordare che questo esercizio può essere svolto anche mentre stiamo facendo qualcosa. Può essere svolto mentre guidiamo, mentre parliamo con qualcuno, mentre camminiamo o facciamo la spesa. Naturalmente, in questi casi, non possiamo chiudere gli occhi e concentrare l’attenzione solo sul respiro e sul corpo. In queste circostanze dobbiamo espandere il campo dell’attenzione fino ad includere anche quello che stiamo facendo.

Ad esempio, se stiamo guidando, l’esercizio consiste nell’includere nel campo della consapevolezza vigile anche la guida. Allo stesso modo, se stiamo parlando in pubblico e ci sentiamo in ansia, l’esercizio può essere svolto includendo nel campo dell’attenzione non solo il respiro ed il corpo, ma anche ciò che stiamo dicendo.

Dr. Marco Vicentini, psicologo psicoterapeuta CBT
Mindfulness – Corso di aggiornamento per operatori nella relazione di aiuto Centro Camilliano di Formazione – Verona, Maggio 2012