Chogyal Namkhai Norbu: arriva il lama libera tutti.
“Il Maestro non ti dice se devi andare a destra o sinistra”, di Raimondo Bultrini foto di Paolo Fassoli. Dolcevita, Vagabondi del Dharma 7 Agosto 2015. Il Venerdì di Repubblica.
Cos’ha di speciale il suo modo d’intendere il Buddhismo? Innanzitutto meno formule, meno mantra e più comportamenti quotidiani. Lo racconta l’autore di questo articolo: la guida più (allegramente) illuminata che potreste trovare. Il Maestro assiste alle danze tibetane (si chiamano khaita, ovvero «armonia nello spazio») nel gompa (il luogo di pratica) di Merigar. Tutti a Merigar appassionatamente. Per la sua gente Norbu è un tulku, reincarnazione di maestri dalle buone intenzioni.
Per molti mesi l’anno Giorgio Horn lavorava in Africa come consulente di vari progetti umanitari, e al ritorno passavamo lunghe serate a parlare di vita, musica etno e religioni del mondo. Giorgio aveva incontrato Chogyal Namkhai Norbu, allora docente di Letteratura tibetana e mongola dell’università orientale di Napoli, in un vecchio casale alle pendici del Monte Amiata, dove il professore-lama si svestiva dei suoi panni accademici per indossare quelli non meno scomodi di guida spirituale. In quei primi anni ’80 ai suoi studenti universitari si era aggiunto un nucleo di pionieri e «vagabondi del dharma» che, come Giorgio, tentavano di applicare nelle loro moderne esistenze i principi di una tradizione preservata per millenni sulla cima dell’Himalaya e chiamata dzogchen, o totale perfezione, un «via» parallela alle scuole del buddhismo tibetano e dell’antico Bon.
Giorgio mi disse che l’insegnamento di Norbu, oggi 77enne, non era religioso in senso stretto perché basato sulla conoscenza della natura della mente. Nel suo centro di Arcidosso chiamato Merigar, si raccoglieva gente di diversa fede, ideologia, censo e razza, accomunata dalla convinzione che questa natura, perfetta all’origine, sia semplicemente coperta, come un sole, da strati pesanti ma transitori di nubi formate da strati di preconcetti e pregiudizi. Si dicono formati nel circolo perpetuo di nascita, invecchiamento, malattia e morte e mi impressionò riflettere sulla morte fisica come uno degli innumerevoli passaggi durante i quali la mente, così immateriale, deve inevitabilmente staccarsi dal precedente e dal successivo corpo. Trent’anni fa, per la prima volta, ascoltai Norbu parlare della natura della mente.
Di evoluzione, morte e rinascita secondo lo dzogchen, il lama tornerà a parlare dal 13 al 17 agosto 2015 nella sua Merigar, che vuol dire il fuoco sotto la Terra, durante uno dei ritiri spirituali a ridosso dello stesso boschetto dell’Amiata dove lo ascoltai la prima volta quasi 30 anni fa. Allora in posti come Merigar, o al più monastico Lama Tsongkapa di Pomaia, non si giungeva per moda ma al termine di percorsi personali talvolta difficili se non traumatici. Oggi da nord a sud esistono 46 centri buddisti principali di diverse tradizioni del Sud est asiatico e dell’Estremo oriente come lo Zen, con 100 mila iscritti più o meno fissi, ma resta difficile leggere con le statistiche una realtà fatta di distinguo e divisioni a partire da principi filosofici basilari, come il significato del vuoto e del pieno, o dell’uovo e la gallina, diremmo in Italia. Ricordo che all’inizio di Merigar si dormiva tutti nel piccolo gompa o luogo di pratica, in un’ala del casale di Arcidosso dove oggi sono gli uffici dell’Associazione culturale Dzogchen, ormai ramificata in quattro continenti. Il nuovo gompa è in legno e vetro, un esempio di architettura orientale semplice che non ha paralleli nemmeno in Tibet, con lo spazio interno per un migliaio di persone sovrastato da immagini di maestri e divinità dipinte sotto al tetto costellato di lettere di un antico alfabeto oggi in disuso.
Per la sua gente Norbu è un tulku, reincarnazione di maestri dalle buone intenzioni capaci di oltrepassare con la mente le barriere del tempo. Negli anni della prima occupazione militare cinese del Tibet orientale, dov’era nato e cresciuto, era in Sikkim senza poter rientrare in patria, e la sua fama di studioso del Tibet antico gli valse un invito in Italia dal grande orientalista Giuseppe Tucci. All’epoca nel Belpaese non c’erano tibetani, almeno non tulku, e dopo un periodo di studio dell’italiano all’Università per stranieri di Perugia, Norbu si concentrò sul materiale raccolto nei suoi viaggi in Tibet e messo da Tucci a disposizione del celebre Ismeo (materiale che oggi marcisce vergognosamente nei magazzini dopo la bancarotta dell’ente, ribattezzato Isiao). Creare una propria famiglia e immergersi negli studi lo aiutò a superare il trauma della lontananza e della morte di alcuni dei suoi cari nel Tibet occupato dai cinesi.
Fin da bambino era stato educato a controllare la mente, la creatrice per eccellenza secondo il Buddhismo, attraverso metodi precisi sperimentati da altri maestri dei maestri che lo istruivano. Ma solo quando incontrò il suo «guru radice» Chiangchub Dorje in un villaggio di contadini del Kham, capì che per evolvere occorreva liberarsi della visione relativa e dualistica del mondo in quanto oggetto separato dal soggetto. Schopenhauer tradusse in Occidente questa via d’uscita come la fine del dominio della volontà sull’uomo, per liberare la conoscenza dalla catena del desiderio compulsivo e dal sapere concettuale.
Nello dzogchen, i limiti della mente razionale sono spinti ai confini della verità ultima, la totale integrazione tra il fuori e il dentro, realtà materiale e spirituale. Più di tutto ero attratto dall’idea quasi romantica di un’esistenza frutto di pura illusione, come un sogno col quale ti svegli e riaddormenti ogni giorno senza provarne paura. Prepararsi con la mente al grande sonno-veglia dove si percorrono temporaneamente gli stadi del misterioso Bar-do, o stato intermedio tra morte e rinascita, era l’esercizio richiesto da Norbu, ovvero evolvere spiritualmente notte e giorno, anche dormendo. Per diversi giorni mi domandai cosa ci facessi seduto tra le betulle di quel boschetto visto che non capivo molto delle cose ascoltate e della natura iniziatica di testi antichissimi. Ma come i miei vicini di zolla (impiegati, massaie, intellettuali, operai) sperimentavo con intensità crescente il suggerimento del lama di ribaltare la prospettiva di osservazione della realtà: dagli occhi che osservano allo specchio che riflette. Col tempo superai perfino un esame di cultura dzogchen di base e potrei definirmi oggi un esponente della post New Age, ma non ho la facilità di tanti a passare dal Buddhismo alla mindfullness, dallo zazen allo yoga aerobico, o al culto di un mantra sovrannaturale come i devoti della scuola giapponese Soka Gakkai, i più attivi al mondo nel proselitismo. Seguire una tendenza non esclude certi spiacevoli effetti colla- terali se la devozione non nasce dalla comprensione, «come un prigioniero», diceva Norbu, «che evade da una cella (ideologica, religiosa) per finire in un’altra», magari più spaziosa e comoda, però sempre limitante.
Il centro di Merigar, membro dell’Unione buddhista italiana dagli inizi, è tra i pochi che preferisce lo status di associazione culturale a quello di «chiesa» o «culto» riconosciuto e sovvenzionato, non considerandosi tale. Gli insegnanti della comunità offrono corsi aperti di yoga, lo yantra, basati sul respiro e la natura degli elementi, metodi secondari ma importanti perché lavorano sull’energia dell’individuo e aiutano a raggiungere lo stadio calmo necessario per osservare la propria mente all’opera con le emozioni e i i limiti del corpo fisico. Dicono a Merigar che il dharma, o la conoscenza, non è in vendita nella tradizione del Tibet, perché perderebbe il suo valore, e ha reso gratuiti molti seminari del maestro, compreso quello del prossimo agosto. Chi può aiuta a far tornare i conti con donazioni, e i centri di studio e pratica continuano ad aumentare, dall’Europa alle ex Repubbliche sovietiche, all’America del Nord e del Sud, perfino nella Cina atea e comunista. Indirettamente e direttamente con la sua attività di maestro, scrittore e storico, Norbu sostiene anche diverse popolazioni tibetane attraverso una Onlus chiamata A.s.i.a., l’unica per la quale i suoi studenti ricorrono ai fondi previsti dalla legge dell’8 per mille per le iniziative umanitarie. A differenza di San Tommaso, ho avuto la fortuna di poter vedere con i miei occhi i luoghi del Tibet dove negli anni sono sorte più scuole elementari che di meditazione, ospedali, abitazioni adatte al freddo degli altipiani, stalle per gli animali.
La fiducia e stima personale verso questo Maestro che ha influenzato studiosi e appassionati verso una percezione non settaria della storia del Buddhismo e dello stesso antico Bon dello Shang Shung, si rafforzò durante i nostri 10 mesi di viaggio tra il suo Tibet orientale e la Cina della fine degli anni ’80. Il Dalai lama non aveva ancora ricevuto il Nobel la Pace e non gli avevano dedicato tre film di successo come Kundun, Sette anni in Tibet o Il Piccolo Buddha. Per ore e ore restavo per conto mio nella contemplazione di altipiani sconfinati dove lo spazio e il tempo perdevano il significato che gli avevo sempre attribuito. Dopo un rientro brusco alla realtà competitiva dell’Occidente, ho dovuto presto rendermi conto che solo la mente poteva ricreare le condizioni di quell’armonia naturale per il corpo e l’energia che offrono le vette più alte e incontaminate. Ma non c’è forse cosa più difficile dell’integrare la pratica spirituale nell’esistenza, se non si ha tempo di starsene seduti a gambe incrociate.
Davanti a un bicchiere di Brunello, il ristoratore Gianni Totino e la musicologa Giovanna Natalini, due dirigenti del centro di Merigar, mi hanno ricordato una storiella che circola da quando i Maestri antichi passavano gli insegnamenti sulla natura della mente ai discepoli sussurrandoli all’orecchio. Oggi Namkhai Norbu si collega all’istante coi suoi studenti in tutto il mondo insegnando via Webcast, ma quel principio di «introduzione diretta» alla conoscenza dello stato di contemplazione trasmessa ininterrottamente da millenni non è cambiato con le tecnologie. La storiella narra che un giorno un Maestro dzogchen, interrogato sul tipo di meditazione da lui prediletto, rispose con sorpresa: «Meditazione? E quando mai sono distratto (dalla contemplazione)?».
Anni fa la morale non l’avevo capita. Oggi credo che meditare sul vuoto o su un Buddha, su un passato di cui pentirsi e un futuro di cui illudersi, è molto diverso che «vivere nella presenza», come consigliano Norbu, il Dalai lama e altri saggi meno legati alle formule e più alla sostanza del significato di karma, il nostro essere e agire nel tempo. Quanto ai rituali, oggi che penso a Giorgio ormai scomparso, più dei mantra recitati insieme ricordo le sue collezioni di musica africana e jazz che mi hanno accompagnato sulle montagne del Derghe e del sacro Kailash. E non temo per questo gli inferni minacciati dalle religioni. So che lo stesso Namkhai Norbu è più felice di vedere i suoi studenti praticare in allegria una bella danza tibetana tradizionale che una posa perfetta nella posizione del loto. Fonte http://desalling.org/wp-content/uploads/2015/02/Arriva-il-lama-libera-tutti-Raimondo-Bultrini-Venerd%C3%AC-La-Repubblica-07.08.2015.pdf