Sogyal Rinpoche: Riportare la mente a casa.

Sogyal Rinpoche: La mente e la natura della mente. Il cielo e le nuvole. I quattro errori. Guardare dentro. La promessa dell’illuminazione. Riportare la mente a casa. Educare la mente. Il cuore della meditazione. La pratica della presenza mentale. La grande pace naturale. Riposate nella gran pace naturale. I metodi della meditazione. La postura. Tre metodi di meditazione: osservare il respiro, utilizzare un oggetto, recitare un mantra. La mente in meditazione. Un delicato equilibrio. Pensieri ed emozioni: le onde e l’oceano. Esperienze, fate delle interruzioni.

La mente e la natura della mente.

La scoperta più rivoluzionaria del Buddhismo è questa: vita e morte sono nella mente, e in nessun altro luogo. La mente è vista come la base universale di tutte le esperienze, il creatore della felicità e della sofferenza, il costruttore di ciò che chiamiamo vita e di ciò che chiamiamo morte.

Gli aspetti della mente sono molti, ma due risaltano sugli altri. Il primo è la mente ordinaria, chiamata in tibetano sem. Un maestro la descrive così: “Ciò che possiede la consapevolezza discriminante, ciò che possiede il senso della dualità, che afferra o rifiuta gli oggetti esterni: questa è la mente. Fondamentalmente, è ciò che si può associare con un ‘altro’, con qualunque ‘cosa’ percepita come diversa dal percettore”. Sem è la mente concettuale, dualistica, pensante che opera esclusivamente in base a un punto di riferimento proiettato da essa stessa e quindi percepito erroneamente come esterno.

Perciò, sem è la mente che pensa, progetta, desidera, manipola; che divampa d’ira; che crea e si abbandona a onde di emozioni e di pensieri negativi; che è costretta a continuare a confermare, convalidare e difendere la sua ‘esistenza’ frammentando, concettualizzando e solidificando l’esperienza. La mente ordinaria è il perenne trasformarsi e la preda impotente di influssi esterni, tendenze abituali e condizionamenti. I maestri paragonano sem alla fiamma di una candela esposta a una corrente d’aria, vulnerabile al diverso soffiare delle circostanze.

Vista da una certa angolazione sem è vacillante, instabile, avida, si occupa senza tregua degli affari altrui, e la sua energia è dissipata nella proiezione all’esterno. Spesso mi viene da descriverla come un fagiolo saltellante messicano, o una scimmia che balza instancabilmente di ramo in ramo. Considerata da un’altra angolazione, questa stessa mente ordinaria esprime una stabilità falsa e ottusa, un’inerzia compiaciuta di autodifesa, una gravezza di comportamenti abituali pesante come un macigno. Sem è astuta come un politico disonesto, scettica, sospettosa, abile a truffare e frodare; come scrisse Jamyang Khyentse “ingegnosa negli intrighi”.

All’interno di questa caotica, confusa e indisciplinata sem, la mente ordinaria, che ripetutamente sperimentiamo cambiamento e morte.

L’altro aspetto è la vera natura della mente, la sua essenza più profonda, sempre e assolutamente indenne dal cambiamento e dalla morte. In condizioni normali è nascosta dentro sem, la nostra mente ordinaria, avvolta e oscurata dalla fuga precipitosa dei pensieri e delle emozioni. Ma come le nuvole possono essere sospinte lontano da una raffica di vento, rivelando così il cielo aperto e il sole che splende, momenti di ispirazione possono in particolari circostanze aprirci barlumi della natura della mente. Sono barlumi di diverso grado e intensità, ma che portano comunque una certa luce di comprensione, di significato e di libertà. La natura della mente è infatti la radice stessa della comprensione. Il termine tibetano è Rigpa, e indica la pura, originaria consapevolezza primordiale che è immediatamente intelligente, cognitiva, radiosa e sempre desta. Potremmo definirla come la conoscenza della conoscenza stessa. Non commettete l’errore di immaginare che la natura della mente appartenga esclusivamente alla nostra mente. È la natura di tutte le cose. Non si ripeterà mai abbastanza che realizzare la natura della mente equivale a realizzare la natura di tutte le cose.

Nel corso dei millenni, sadhu e mistici hanno definito le loro realizzazioni con nomi diversi, mettendo in luce lati diversi e differenti interpretazioni che si riducono tutte all’esperienza fondamentale della natura della mente. Cristiani ed ebrei la chiamano ‘Dio’; gli induisti ‘Sé’, ‘Shiva’, ‘Brahman’ e ‘Vishnu’; i sufi ‘Essenza nascosta’; e i buddisti ‘natura di Buddha‘ Nel cuore di tutte le religioni c’è la certezza dell’esistenza di una verità fondamentale, e che questa vita rappresenta una sacra opportunità di evolversi e realizzarla.

Parlando del Buddha pensiamo immediatamente al principe indiano Gautama Siddhartha, che ottenne l’illuminazione nel VI secolo a. C. e che insegnò il sentiero spirituale seguito da milioni di persone in tutta l’Asia conosciuto oggi come ‘Buddhismo’. Ma il termine Buddha ha un significato molto più profondo. Indica la persona, ogni persona che si è risvegliata dall’ignoranza e si è aperta all’infinito potenziale della saggezza. Un Buddha è colui che ha messo fine alla sofferenza e alla frustrazione, scoprendo una felicità e una pace durevoli e prive di morte.

In quest’epoca così scettica tale stato può sembrare a molti una fantasia, un sogno, o qualcosa al di là della nostra portata. Ma ricordate sempre che ilBuddha fu un essere umano, come voi e io. Non pretese mai di essere divino.

Scoprì semplicemente di avere la natura di Buddha, il seme dell’illuminazione, e vide che tutti ne sono dotati. La natura di Buddha appartiene per diritto di nascita a ogni essere senziente. Dico sempre: “La nostra natura di Buddha è buona come la natura di Buddha di qualunque Buddha“. Ecco la buona notizia che il Buddha ci comunica dalla sua illuminazione a Bodhgaya, e che molti trovano di grande ispirazione. Il suo messaggio, L’illuminazione è alla portata di tutti, ci dona una speranza enorme. Attraverso la pratica tutti possiamo diventare illuminati. Se ciò non fosse vero, gli innumerevoli illuminati che si sono susseguiti da allora fino ai nostri giorni non avrebbero potuto ottenere l’illuminazione.

Ottenuta l’illuminazione il Buddha desiderò solo di rivelare a tutti noi la natura della mente e condividere completamente la sua realizzazione. Ma vedeva anche, con la pena che viene da una compassione infinita, quanto ci sarebbe stato difficile capire.

Infatti, anche se tutti noi condividiamo la natura del Buddha, non la riconosciamo perché è incapsulata e rinchiusa nella nostra mente ordinaria. Immaginate un vaso vuoto. Lo spazio interno è perfettamente uguale allo spazio esterno. Solo una sottile parete separa i due spazi. La mente di Buddha è dentro le pareti della mente ordinaria. Con l’illuminazione, è come se le pareti del vaso si frantumassero. Lo spazio ‘dentro’ si fonde immediatamente con lo spazio ‘fuori’. Diventano uno. In quell’istante capiamo che non sono mai stati diversi o separati, sono sempre stati la stessa cosa.

Il cielo e le nuvole

Qualunque sia la nostra vita, la natura di Buddha è sempre presente. È sempre perfetta. Noi diciamo che neppure i Buddha possono migliorarla con la loro infinita saggezza, né gli esseri senzienti possono guastarla con la loro apparentemente infinita confusione. La nostra vera natura si può paragonare al cielo, e la confusione della mente ordinaria alle nuvole. Ci sono giorni in cui il cielo è coperto dalle nuvole; e noi, guardando in su dalla terra, abbiamo difficoltà a credere che vi sia qualcosa oltre alle nuvole. Ma basta salire su un aereo per scoprire, là in alto, la vastità illimitata del cielo azzurro. Dall’alto, le nuvole che credevamo essere tutto ci sembrano così piccole e così lontane.

Cerchiamo di ricordare sempre che le nuvole non sono il cielo, e non ‘appartengono’ al cielo. Vi sono solamente sospese, viaggiando in modo non dipendente e lievemente ridicolo. Mai e poi mai potranno influire sul cielo o macchiarlo.

Dov’è esattamente questa natura di Buddha? Nella natura simile al cielo della mente. Aperta, libera, illimitata; così fondamentalmente semplice e naturale che non può venire complicata, corrotta o intaccata, così pura che è al di là dei concetti di purezza e impurità. Descrivere la natura della mente come simile al cielo è, naturalmente, una metafora che ci aiuta a immaginare la sua sconfinatezza che tutto accoglie. La natura di Buddha ha infatti una qualità che il cielo non possiede, la radiosa chiarezza della consapevolezza. Si dice: È semplicemente la vostra integra, presente consapevolezza, vuota e conoscente, nuda e sveglia”.

Scrive Dudjom Rinpoche: Le parole non possono descriverla, gli esempi non possono indicarla, il Samsara non la peggiora, il Nirvana non la migliora. Non è mai nata e non è mai finita, non è mai stata liberata e non è mai stata illusa, non è mai esistita e non è mai non esistita, non ha limiti e non si può racchiudere in categorie.

E Nyoshul Khen Rinpoche: Profonda e tranquilla, libera da complessità, chiarità luminosa e non composta oltre la mente delle idee concettuali: tale la profondità della mente dei Vittoriosi.

In essa, niente va tolto e niente va aggiunto. È l’immacolato che contempla naturalmente se stesso.

I quattro errori

Perché troviamo così difficile anche solo concepire la profondità e lo splendore della natura della mente? Perché a tanti sembra un’idea bizzarra e improbabile?

L’insegnamento parla di quattro errori che ci impediscono di realizzare la natura della mente in questo preciso istante:

  1. La natura della mente è semplicemente troppo vicina per essere colta. Così come non riusciamo a vedere la nostra faccia, la mente ha difficoltà a vedere nella propria natura.

  2. È troppo profonda da scandagliare. Non abbiamo nessuna idea della sua profondità; se l’avessimo, l’avremmo già realizzata, almeno fino a un certo punto.

  3. È troppo facile perché possiamo crederci. In realtà, tutto ciò che dobbiamo fare è rimanere nella nuda, pura consapevolezza della natura della mente, che è sempre presente.

  4. È troppo meravigliosa per adattarvisi. La sua semplice immensità è troppo vasta per conciliarsi con la nostra ristrettezza di vedute. Semplicemente, non riusciamo a crederci. E neppure riusciamo a concepire che Iilluminazione sia la vera natura della nostra mente.

Se questi quattro errori si sono dimostrati veri in una cultura come quella tibetana, votata quasi interamente alla ricerca dell’illuminazione, lo saranno in modo ancora più notevole e intenso per la civiltà occidentale, largamente votata al culto dell’illusione. Manca una diffusa informazione sulla natura della mente. Gli scrittori e gli intellettuali non ne parlano quasi mai, i filosofi contemporanei non vi alludono direttamente e la maggior parte degli scienziati la negano. Non ha alcun ruolo nella cultura popolare, non c’è una canzone che ne parli, non viene messa in scena a teatro, trasmessa alla televisione. L’educazione ci condiziona a credere che non vi sia nulla al di là della percezione sensoriale.

Ma, a dispetto del massiccio e generalizzato diniego della sua esistenza, a volte ne cogliamo alcuni rapidi barlumi: in una musica che ci eleva, nella serenità che a volte ci la natura o nelle più comuni situazioni quotidiane. Possiamo intravederla semplicemente mentre guardiamo la neve che scende, l’alba dietro una montagna, un raggio di luce che entra nella stanza e ci commuove in modo misterioso. Tutti noi proviamo questi momenti di illuminazione, di pace e di beatitudine, che ci colpiscono in modo inspiegabile e duraturo.

Credo che, a volte, almeno a metà li comprendiamo, ma la cultura moderna non ci fornisce di un contesto o di punti di riferimento per capirli. Peggio ancora, invece di incoraggiarci a esaminare questi barlumi più a fondo per scoprire da dove vengono, veniamo invitati a ignorarli, sia esplicitamente che dissimulatamente. Sappiamo che nessuno ci prenderebbe sul serio se ne parlassimo. E così continuiamo a ignorare quelle che potrebbero rivelarsi le esperienze più illuminanti della vita, se solo le potessimo capire. Questo è forse l’aspetto più buio e conturbante della civiltà moderna: l’ignoranza e la rimozione di chi siamo in realtà.

Guardare dentro

Supponiamo di fare una conversione completa. Supponiamo di smettere di guardare sempre nella stessa direzione. Ci è stato insegnato a inseguire i nostri pensieri e le nostre proiezioni. Anche quando si parla di ‘mente’ ci si riferisce ai pensieri e alle emozioni, e i ricercatori, che studiano ciò che immaginano essere la mente, considerano solo le sue proiezioni. Nessuno guarda davvero nella mente, la base da cui nascono tutte queste espressioni. E ciò porta tragiche conseguenze. Dice Padmasambhava: Sebbene ciò che comunemente è chiamata ‘mente’ sia tenuta in alta stima e presa ad argomento di discussione, non è compresa, o è compresa male, o è compresa unilateralmente. Poiché non viene correttamente compresa così com’è in se stessa vengono in essere innumerevoli concezioni filosofiche. Inoltre gli esseri comuni, non comprendendola, non riconoscono la propria natura e vagano nei sei reami della rinascita dei tre mondi, provando così sofferenza”.

Ecco perché non comprendere la tua stessa mente è un tragico errore.

Come cambiare radicalmente questa situazione? È molto semplice. La nostra mente ha due possibilità: può guardare fuori o guardare dentro.

Proviamo a guardare dentro.

Questa piccola inversione di tendenza fa una differenza enorme, e potrebbe addirittura revocare i disastri che minacciano il mondo. Se più persone conoscessero la natura della propria mente, conoscerebbero anche la luminosa natura del mondo in cui vivono, e lotterebbero con impegno e coraggio per preservarlo. È interessante che, in tibetano, ‘buddhista’ si dica nangpa.

Significa chi va dentro‘, chi cerca la verità non all’esterno ma nella natura della propria mente. Tutti gli insegnamenti e le pratiche del Buddhismo mirano a quest’unico punto: guardare nella natura della mente per liberarci dalla paura della morte e realizzare la verità della vita.

Guardare dentro richiede grande acume e grande coraggio: niente meno che un cambiamento radicale nel nostro atteggiamento verso la vita e verso la mente. Siamo così assuefatti dall’abitudine di guardare fuori che abbiamo quasi completamente perso il contatto con il nostro essere interiore. Guardare dentro ci spaventa, perché la nostra cultura non ci offre indicazioni su ciò che troveremo. Potremmo addirittura pensare che c’è il rischio di impazzire. E l’ultima risorsa e una delle tattiche più ingegnose dell’io per impedirci di scoprire la nostra vera natura.

Riempiamo la vita di frenesia proprio per non correre il minimo rischio di guardare in noi stessi. L’idea stessa di meditazione può far paura. Sentir parlare di ‘non io’ o ‘vacuità’ suscita in alcuni l’immagine di esseri scagliati fuori da una navicella spaziale e fluttuare per l’eternità in un vuoto freddo e buio. Niente è più lontano dalla verità. In un mondo che si è consegnato alla distrazione, il silenzio e l’immobilità ci atterriscono, e ce ne proteggiamo con il rumore e l’attività frenetica. Guardare nella natura della mente è l’ultima cosa che oseremmo fare.

A volte penso che non vogliamo interrogarci seriamente su chi siamo, per paura di scoprire che c’è un’altra realtà oltre a questa. Come influirebbe questa scoperta sul modo in cui siamo vissuti? Come reagirebbero amici e colleghi a ciò che ora sappiamo? Cosa faremmo di questa nuova conoscenza? Con la conoscenza viene la responsabilità. Anche se la porta della cella è rimasta aperta, spesso il prigioniero non vuole scappare.

La promessa dell’illuminazione

Nel mondo attuale sono pochissimi gli esseri che incarnano le qualità che derivano dall’aver realizzato la mente. Per questo ci è difficile anche solo immaginare l’illuminazione o il modo di percepire di un essere illuminato, e ancora più difficile pensare di poter diventare illuminati.

Nonostante la vantata celebrazione del valore della vita umana e della libertà dell’individuo, in realtà la nostra società ci considera ossessionati solo dal potere, dal sesso e dal denaro, e pensa che abbiamo bisogno di essere continuamente distolti dalla morte, o dalla vera vita. Se sentiamo parlare, o ci viene il sospetto, della nostra immensa potenzialità, quasi non riusciamo a crederci. E se anche riusciamo a concepire una trasformazione spirituale, crediamo sia possibile solo per i grandi santi e i maestri spirituali del passato. Spesso il Dalai Lama parla della mancanza di auto stima e di vero amore per se stessi che ha osservato in molte persone nel mondo moderno. La nostra visione si basa su una convinzione nevrotica delle nostre limitazioni, negandoci ogni speranza di risveglio e contraddicendo tragicamente l’insegnamento centrale del Buddismo: che siamo già essenzialmente perfetti.

Se anche concepissimo la possibilità dell’illuminazione, un’occhiata al contenuto della nostra mente ordinaria (rabbia, avidità, invidia, cattiveria, crudeltà, lussuria, paura, ansia e agitazione) pregiudicherebbe per sempre ogni speranza di raggiungerla, se non ci fosse stata presentata la natura della mente e l’indubbia possibilità di realizzarla.

Ma l’illuminazione è reale, e sulla terra abbiamo maestri illuminati. Incontrandone uno siete toccati e scossi nel profondo del cuore, e vi rendete conto che parole come ‘illuminazione’ e ‘saggezza’, a cui pensavate come a vaghe idee, sono vere.

Nonostante i suoi pericoli, il mondo moderno è molto stimolante. La mente moderna si sta aprendo gradualmente a nuove visioni della realtà. Grandi maestri come il Dalai Lama e Madre Teresa appaiono in televisione, molti maestri orientali insegnano in Occidente, libri di ogni tradizione mistica stanno raccogliendo un pubblico sempre più vasto. La situazione critica del pianeta ci sta risvegliando a una necessità di trasformazione su scala globale.

L’illuminazione, come ho già detto, è reale. Tutti noi, chiunque siamo, nelle giuste circostanze e con un allenamento corretto, possiamo realizzare la natura della mente per conoscere ciò che in noi è senza morte ed eternamente puro. Questa è la promessa di tutte le tradizioni mistiche, verificata in passato e nel presente da migliaia e migliaia di esseri umani.

L’aspetto meraviglioso di questa promessa sta nel fatto che non è nulla di esotico, di fantastico o riservato a un’élite. È per tutti e quando la realizziamo, ci dicono i maestri, si rivela insospettatamente ordinaria. La verità spirituale non è qualcosa di complesso e di esoterico, ma un profondo buon senso. Realizzando la natura della mente, tutti gli strati della confusione cadono. Non si tratta di ‘diventare’ un Buddha, ma di smettere gradatamente di essere illusi. Un Buddha non è un qualche onnipotente superuomo spirituale, ma un essere umano finalmente vero.

Una delle maggiori tradizioni buddiste chiama la natura della mente la ‘saggezza dell’ordinarietà’. Non mi stancherò mai di ripeterlo: la nostra vera natura, e la natura di tutti gli esseri, non è niente di straordinario.

L’ironia sta nel fatto che proprio il nostro mondo ‘ordinario’ è una fantastica, straordinaria, elaboratissima allucinazione prodotta dal modo di vedere illuso del samsara. È questa visione ‘straordinaria’ che ci rende ciechi alla natura ‘ordinaria’, naturale, intrinseca della mente. Immaginate che i buddha ci guardino: come sarebbero amaramente stupiti dalla letale ingegnosità e dalla complessità della nostra confusione.

Siamo così inutilmente complicati che a volte, quando un maestro ci introduce alla natura della mente, non riusciamo a crederci perché è troppo semplice. La nostra mente ordinaria obietta che non può essere, che ci deve essere qualcosa di più. Deve essere certamente più ‘splendido’, con lampi di luce che ci fiammeggiano intorno, angeli dai lunghi capelli dorati che ci scendono incontro, e la voce cavernosa del Mago di Oz che dichiara: “Ora sei stato introdotto alla natura della mente”. Ma non accade niente di così teatrale.

In una cultura che sopravvaluta l’intelletto, immaginiamo che l’illuminazione richieda un’intelligenza straordinaria, dove in realtà molte bravure intellettuali non sono che oscuramenti in più. C’è un detto tibetano: “Se sei troppo intelligente, puoi mancare del tutto il bersaglio”. Patrul Rinpoche dice: “La mente razionale sembra molto interessante, ma è il seme dell’illusione”. Possiamo farci ossessionare dalle nostre stesse teorie e non cogliere mai il punto. C’è un altro detto tibetano: “Le teorie sono come toppe su un abito: prima o poi si staccano”.

Voglio raccontarvi una storia incoraggiante. Un maestro del secolo scorso aveva un discepolo veramente ottuso. Gli aveva dato innumerevoli insegnamenti nel tentativo di introdurlo alla natura della mente. Niente da fare. Alla fine il maestro si infuriò e gli disse: “Porta questo sacco d’orzo sulla cima di quella montagna. Non fermarti mai a riposare. Vai avanti finché arrivi in cima”. Il discepolo, d’animo semplice ma dotato di una devozione e una fiducia nel maestro incrollabili, fece esattamente ciò che gli era stato detto. Il sacco era molto pesante. Lo prese e incominciò a salire il pendio, senza osare fermarsi. Più saliva, più il sacco diventava pesante. Fu un viaggio interminabile. Arrivato in cima, depose il sacco e crollò a terra, esausto ma intimamente rilassato. Sentì l’aria pungente sul volto. Ogni resistenza si era dissolta e, con essa, la mente ordinaria. Tutto sembrava essersi fermato. In quell’istante, realizzò di colpo la natura della sua mente. “Ah, ecco quello che il maestro voleva farmi capire!”, pensò. Corse giù dalla montagna e, contro ogni regola di buona educazione, irruppe nella stanza del maestro.

“Ce l’ho fatta… ce l’ho davvero fatta!”.

“Hai fatto un’interessante scalata, vero?”, gli disse il maestro sorridendo con l’aria di chi la sa lunga.

Chiunque voi siate, potete fare la stessa esperienza che il discepolo fece sulla montagna. Questa esperienza vi darà l’intrepidezza per trattare con la vita e con la morte. Ma qual è la via migliore, più rapida e più efficace? Il primo passo è la meditazione. La meditazione purifica a poco a poco la mente ordinaria, smascherando e portando a esaurimento le sue abitudini e le sue illusioni, dandoci la possibilità, al momento giusto, di riconoscere chi siamo davvero.

Riportare la mente a casa

Oltre duemilacinquecento anni fa, un uomo che aveva cercato la verità per molte, molte esistenze arrivò in un posto tranquillo nel nord dell’India e sedette sotto un albero. Continuò a restare seduto con determinazione enorme, facendo voto di non rialzarsi prima di avere trovato la verità. Al crepuscolo, si tramanda, vinse le forze oscure dell’illusione; e poco prima dell’alba, quando Venere apparve nel cielo, quell’uomo fu ricompensato per i suoi anni di pazienza, di disciplina e di perfetta concentrazione con la meta ultima dell’esistenza umana: l’illuminazione. In quel sacro momento la terra tremò come “ubriaca di beatitudine” e, dicono le scritture: “Nessuno, in nessun luogo, fu irato, malato o triste; nessuno fece il male, nessuno fu arrogante; il mondo fu rappacificato, come se avesse raggiunto la piena perfezione”.

Quest’uomo divenne noto come il Buddha.

Il maestro vietnamita Thich Nhat Hanh dà una splendida descrizione dell’illuminazione del Buddha: “Per Gautama fu come se la prigione che lo racchiudeva da migliaia di esistenze fosse crollata. Il carceriere era l’ignoranza. Solo l’ignoranza aveva oscurato la sua mente, così come le nuvole avevano nascosto la luna e le stelle. Velata da onde infinite di pensieri illusori, la mente aveva diviso in maniera fallace la realtà in soggetto e oggetto, io e altri, esistenza e non esistenza, nascita e morte, e da tali discriminazioni erano sorte le visioni errate, le prigioni della sensazione, del desiderio, dell’attaccamento e del divenire. La sofferenza della nascita, della vecchiaia, della malattia e della morte non fa altro che rendere le mura più spesse. L’unica cosa da fare era acciuffare il carceriere e guardarlo in faccia. Ed ecco che il carceriere è l’ignoranza. Una volta scomparso il carceriere, anche la prigione svanisce per non venire ricostruita mai più.

Il Buddha aveva visto che l’ignoranza della nostra vera natura è la radice di tutto lo strazio del samsara, e che la radice dell’ignoranza è l’abitudine della mente alla distrazione. Mettere fine alla distrazione della mente equivale a mettere fine al samsara; e la chiave, capì, è riportare la mente a casa nella sua vera natura, attraverso la pratica della meditazione.

Il Buddha sedeva per terra con serena e umile dignità, con il cielo al di sopra e intorno a sé, come per indicarci che in meditazione stiamo seduti con un atteggiamento mentale aperto, simile al cielo, e nello stesso tempo siamo ben presenti, radicati nella terra. Il cielo è la nostra natura assoluta priva di barriere e di confini; la terra è la nostra realtà, la condizione ordinaria e relativa. Con la postura che assumiamo in meditazione colleghiamo assoluto e relativo, cielo e terra come le due ali di un uccello unendo la natura senza morte e simile al cielo della mente al terreno della nostra natura mortale, passeggera.

Imparare a meditare è il dono più grande che possiate fare a voi stessi in questa vita. Solo attraverso la meditazione potete mettervi in viaggio alla scoperta della vostra vera natura, trovando la stabilità e la fiducia per vivere, e per morire, bene. La meditazione è la strada verso l’illuminazione.

Educare la mente

Ci sono molti modi per presentare la meditazione. Anche se l’ho insegnata migliaia di volte, ogni volta è diversa, ogni volta è qualcosa di diretto e di nuovo.

Per fortuna viviamo in un mondo in cui sempre più persone si accostano alla meditazione, che viene sempre più accettata come una pratica che scavalca le barriere culturali e religiose per metterci in contatto con la verità dell’essere. È una pratica che, nello stesso tempo, trascende i diversi dogmi religiosi e costituisce l’essenza delle religioni.

Distratti dal nostro vero sé sprechiamo la vita in interminabili attività, mentre la meditazione è un modo per ritornare a noi stessi, per sperimentare e assaporare il nostro intero essere al di là dei modelli abituali. La vita è vissuta come una lotta feroce e piena d’ansia, un turbine di rapidità e aggressività, competizione, fare nostro, appropriarci, ottenere… caricandoci di un cumulo di attività e preoccupazioni che sono estranee al nostro essere.

La meditazione è esattamente l’opposto. Meditare è fare uno stacco totale dal modo ‘normale’ di agire; è uno stato libero da occupazioni e preoccupazioni in cui non c’è competizione, non c’è desiderio di afferrare e impossessarsi, non c’è lotta feroce e piena d’ansia, non c’è sete di ottenimento. È uno stato senza ambizione in cui non c’è né accettazione né rifiuto, né speranza né paura, uno stato in cui a poco a poco incominciamo a lasciar liberi nello spazio della semplicità naturale le emozioni e i concetti che ci imprigionavano.

I maestri buddisti di meditazione sanno quanto sia flessibile e malleabile la mente. Se la educhiamo, tutto diventa possibile. Siamo stati perfettamente educati dal samsara e per il samsara, siamo stati educati a provare invidia, educati ad afferrare, educati a provare ansia, tristezza, disperazione e avidità; educati a reagire con rabbia a tutto ciò che ci provoca. Siamo così bene educati che queste emozioni negative sorgono spontaneamente, senza nessuno sforzo per suscitarle. Tutto sta nell’educazione e nella forza dell’abitudine. Se siamo sinceri con noi stessi, sappiamo anche troppo bene che la mente, se la consegniamo alla confusione, diventa un’oscura maestra di confusione, abile nelle sue intossicazioni, subdola e perversamente docile alle sue schiavitù. Consegnatela, con la meditazione, al compito di liberarsi dall’illusione e scoprirete che, con il tempo, la pazienza, la disciplina e la pratica corretta, incomincerà a sciogliere i propri nodi e a riconoscere la propria beatitudine e chiarezza essenziali.

‘Educare’ la mente non significa in alcun modo soggiogarla con la forza, né un lavaggio del cervello. Educare la mente significa in primo luogo vedere direttamente e concretamente come essa funziona, una conoscenza che si può ottenere solo dagli insegnamenti spirituali e dall’esperienza meditativa personale. Allora potrete usare questa conoscenza per domare la mente, plasmandola abilmente per renderla docile e sempre più malleabile, in modo da diventarne i padroni e indirizzarla al suo uso più pieno e più benefico.

Un maestro buddhista dell’VIII secolo, Shantideva, scrive:

Se l’elefante della mente è legato da ogni lato dalla corda della presenza mentale, tutte le paure svaniscono e sorge la totale felicità.

Tutti i nemici: tigri, leoni, elefanti, orsi e serpenti [delle nostre emozioni]; tutti i guardiani dell’inferno: demoni e orrori tutti sono legati dalla padronanza della mente e, domando quell’unica mente, tutti sono sottomessi. Perché dalla mente provengono tutte le paure e le innumerevoli sofferenze”.

Come uno scrittore impara la spontaneità e la libertà di espressione solo dopo anni di studio spesso faticoso, e come la semplice grazia di una ballerina è il risultato di prove spossanti e pazienti, una volta che abbiate compreso dove vi porterà, vi accosterete alla meditazione come al maggior compito della vita, che esige il massimo della perseveranza, dell’entusiasmo, dell’intelligenza e della disciplina.

Il cuore della meditazione

La meditazione ha lo scopo di risvegliare in noi la natura simile al cielo della mente e di introdurci a ciò che siamo davvero, alla pura e immutabile consapevolezza che sta alla base del processo della vita e della morte.

Nella calma e nel silenzio della meditazione intravediamo e ritorniamo a quella profonda natura interiore che abbiamo perduto di vista tanto, tanto tempo fa a causa dell’agitazione e della distrazione della mente. Non è strano che la mente non riesca a star ferma per più di pochi istanti senza rincorrere le distrazioni? La nostra mente è così agitata e sempre occupata in qualcosa da farmi a volte pensare che vivendo in una città moderna siamo già simili agli esseri tormentati dello stadio intermedio del dopo morte, dove si dice che la coscienza sia angosciosamente inquieta.

Le statistiche rivelano che il tredici per cento degli americani soffre di disturbi mentali.

Che cosa rivela questo dato rispetto al nostro modo di vivere?

Siamo frammentati in troppi aspetti diversi. Non sappiamo chi siamo realmente, né con quali dei nostri aspetti identificarci o in quali aspetti credere. Tali e tante voci contraddittorie, regole e sentimenti lottano tra di loro per assumere il controllo della nostra vita interiore che ci troviamo sparpagliati in tutte le direzioni, senza nessuno in casa.

La meditazione, dunque, è riportare la mente a casa.

Negli insegnamenti del Buddha diciamo che vi sono tre cose che differenziano completamente una meditazione che induce rilassamento, pace e beatitudine temporanei, e una meditazione che diventa un potente strumento di illuminazione, vostra e degli altri. Le indichiamo come ‘buona all’inizio, buona nel mezzo e buona alla fine’.

Buona all’inizio deriva dalla consapevolezza che noi e tutti gli esseri senzienti abbiamo la natura di Buddha come essenza più profonda, e che realizzare la nostra natura significa liberarsi dall’ignoranza e mettere fine alla sofferenza. Ogni volta che sediamo in meditazione, siamo mossi e ispirati dalla motivazione di dedicare la pratica e la vita all’illuminazione di tutti gli esseri. Nello stesso spirito di tutti i Buddha del passato, che pregavano così: “Tramite il potere e la verità di questa pratica: che tutti gli esseri abbiano la felicità e le cause della felicità, che tutti gli esseri siano liberi dalla sofferenza e dalle cause della sofferenza, che nessuno sia mai separato dalla sacra felicità priva di sofferenza, che tutti vivano in equanimità, senza troppo attaccamento e troppa avversione, che vivano fiduciosi nell’uguaglianza di tutto ciò che vive”.

Buona nel mezzo è la disposizione mentale con la quale entriamo nel cuore della pratica, disposizione ispirata dalla realizzazione della natura della mente e da cui si origina un atteggiamento di non attaccamento, libero da qualunque riferimento concettuale, e la consapevolezza che vede tutte le cose intrinsecamente ‘vuote’, illusorie, simili a un sogno.

Buona alla fine è la conclusione della meditazione con la dedica dei meriti acquisiti, e la fervida preghiera: “Qualunque merito originato dalla pratica possa contribuire all’illuminazione di tutti gli esseri, possa diventare una goccia nell’oceano dell’azione di tutti i Buddha nel loro impegno instancabile per la liberazione degli esseri”. Il merito è costituito dalla forza positiva, dagli effetti benefici, dalla pace e felicità che irraggiano dalla vostra pratica; e voi lo dedicate al bene ultimo degli esseri: l’illuminazione. A livello più immediato lo dedicate alla pace nel mondo, perché tutti siano liberi dal bisogno e dalla malattia, e sperimentino perfetto benessere e durevole felicità. Quindi, realizzando la natura illusoria e simile a un sogno di questa realtà, percepite nel senso più profondo voi stessi che state dedicando i meriti, coloro a cui li state dedicando, e l’atto stesso del dedicarli come ‘vuoti’ e illusori. Questo viene detto sigillare la meditazione per assicurarsi che il suo potere puro non vada minimamente perduto, e quindi di non sprecare nessuno dei meriti della pratica.

Questi tre sacri principi (l’abile motivazione, l’atteggiamento di non attaccamento che garantisce la pratica, e la dedica che la sigilla) rendono la meditazione realmente illuminante e potente. Il grande maestro tibetano Longchenpa li descrive splendidamente come “il cuore, l’occhio e la forza vitale della vera pratica”. Come dice Nyoshul Khenpo: “Per la completa illuminazione niente di più è necessario, ma di meno è incompleto”.

La pratica della presenza mentale

La meditazione è riportare la mente a casa, e il primo passo è la pratica della presenza mentale.

Una volta una donna anziana chiese al Buddha come si medita. Il Buddha le rispose di essere consapevole di tutti i movimenti delle mani mentre attingeva acqua al pozzo. Così facendo, si sarebbe presto scoperto quello stato di attenzione e di calma spaziosa che è la meditazione.

La presenza mentale, la pratica di riportare a casa la mente distratta riconducendo in un unico punto focale tutti gli aspetti del nostro essere, è chiamata ‘dimorare pacificamente’, o ‘dimorare nella calma’. ‘Dimorare pacificamente’ ha tre effetti.

Primo: gli aspetti frammentati di noi stessi, in conflitto tra di loro, si calmano, si fondono e fanno amicizia. Tranquillizzandoci incominciamo ad avere una comprensione migliore di noi e, a volte, a sperimentare barlumi della radiosità della nostra natura fondamentale.

Secondo: la presenza mentale disinnesca la negatività, l’aggressività e la turbolenza delle emozioni, che hanno acquistato sempre più forza nel corso di infinite esistenze. Non reprimiamo le emozioni e non vi indulgiamo; invece le vediamo, assieme ai pensieri e a tutto ciò che si presenta, con un’accettazione e una generosità il più aperte e spaziose possibile. I maestri tibetani dicono che questa saggia generosità ha il sapore dello spazio illimitato, così caldo e accogliente che vi sentite avvolti e protetti come in una coperta di luce.

A poco a poco, rimanendo aperti e presenti, e utilizzando le tecniche che spiegherò più avanti per mettere sempre più a fuoco la mente, la negatività verrà gradualmente disinnescata. Incomincerete a star bene dentro di voi o, come dicono i francesi: etre bien dans sa peau (stare bene nella propria pelle). Da ciò nasce un rilassamento e un profondo benessere. Ritengo questa pratica la forma più efficace di terapia e autoguarigione.

Terzo: questa pratica rivela il vostro essenziale buon cuore, perché dissolve e scioglie la cattiveria e la volontà di nuocere. Solo rimuovendo la volontà di nuocere possiamo diventare davvero utili agli altri. Rimuovendo con la pratica la cattiveria e la volontà di nuocere, permettiamo che il buon cuore, quella bontà e quella gentilezza fondamentali che sono la nostra vera natura, splenda e irradi il calore in cui fiorisce il nostro vero essere.

Ora siete in grado di capire perché chiamo la meditazione la vera pratica della pace, la vera pratica della non aggressione e della non violenza, il vero e più grande ‘disarmo’.

La grande pace naturale

Quando insegno la meditazione incomincio spesso dicendo: “Riportate la mente a casa. Allentate la presa. Rilassatevi”. Tutta la pratica meditativa può riassumersi in questi tre punti: riportare la mente a casa, allentare la presa, e rilassarsi. Ciascun punto risuona a più di un livello.

Riportare la mente a casa significa portare la mente nello stato di dimorare nella calma mediante la pratica della presenza mentale. Al livello più profondo, riportare la mente a casa significa rivolgerla verso l’interno e farla riposare nella natura della mente. Questa è la forma di meditazione più alta.

Allentare la presa significa liberare la mente dalla prigionia dell’afferrare, riconoscendo che la paura, il dolore e l’angoscia derivano dall’avidità della mente che afferra. A livello più profondo, la fiducia che nasce dalla sempre maggiore comprensione della natura della mente ispira quella profonda e naturale generosità che vi rende capaci di lasciar andare tutti gli attaccamenti che sono nel vostro cuore. Così il cuore si libera, sciogliendosi nell’ispirazione della meditazione.

Infine, rilassarsi significa essere spaziosi e rilassare la mente da tutte le tensioni. A livello più profondo, vi rilassate nella vera natura della mente lo stato di Rigpa. Le parole tibetane che descrivono questo processo comunicano il senso di ‘rilassarsi sul Rigpa’. È come colare lentamente una manciata di sabbia su una superficie piatta: ogni granello trova spontaneamente il suo posto. Lo stesso accade se vi rilassate nella vostra vera natura, lasciando che i pensieri e le emozioni si calmino naturalmente dissolvendosi nello stato naturale della mente.

Mentre medito, trovo spesso ispirazione in questi versi di Nyoshul Khenpo: “Riposa nella grande pace naturale questa mente spossata, percossa impotente dal karma e dai pensieri nevrotici come dall’implacabile furia delle onde nell’oceano infinito del samsara”.

Riposate nella grande pace naturale.

Siate soprattutto a vostro agio, il più naturali e spaziosi possibile. Scivolate lentamente fuori dal cappio del vostro io ansioso, allentate la presa e rilassatevi nella vostra vera natura. Immaginate l’io ordinario, emotivo e tormentato dai pensieri, come un blocco di ghiaccio o un pezzo di burro lasciato sciogliere al sole. Se provate durezza o freddezza, lasciate che questi sentimenti aggressivi si sciolgano al sole della vostra meditazione. Lasciate che la pace vi lavori e vi aiuti a raccogliere la mente frammentata nella presenza mentale del dimorare nella calma, risvegliando in voi la consapevolezza e la comprensione intuitiva della Chiara visione.

Scoprirete che le negatività vengono disarmate, l’aggressività si dissolve, la confusione evapora a poco a poco come nebbia nel cielo ampio e immacolato della vostra natura assoluta.

Sedendo quietamente, il corpo fermo, la parola resa silente e la mente tranquilla, lasciate che i pensieri e le emozioni, qualsiasi essi siano, sorgano e svaniscano, senza attaccarvi a niente.

Com’è questo stato? Dudjom Rinpoche diceva di immaginare un uomo che, dopo una lunga giornata di duro lavoro nei campi, torna a casa e sprofonda nella poltrona preferita davanti al fuoco. Ha lavorato tutto il giorno e sa di aver fatto ciò che voleva fare. Non gli restano altre occupazioni, non ha lasciato nulla di incompiuto, non deve preoccuparsi di nient’altro. È semplicemente pago di essere.

Meditando è essenziale creare l’ambiente mentale appropriato. Lo sforzo e la lotta vengono dal non essere spaziosi, e per questo è vitale creare l’ambiente giusto perché la meditazione possa realmente avvenire. Quando sono presenti l’umorismo e la spaziosità, la meditazione nasce senza sforzo.

Spesso, mentre medito, non ricorro a nessun metodo particolare. Lascio semplicemente che la mia mente riposi e mi accorgo che, specie se sono ispirato, posso riportarla a casa e rilassarmi molto rapidamente. Siedo tranquillo e riposo nella natura della mente, e non mi domando se sono nello stato ‘corretto’ o no. Non c’è sforzo. Ci sono ricca comprensione, vigilanza e un’incrollabile certezza. Quando sono nella natura della mente, la mente ordinaria non c’è più. Non ho alcun bisogno di convalidare o confermare la mia esistenza: semplicemente, sono. È presente una fiducia fondamentale. Non c’è niente di particolare da fare.

I metodi della meditazione

Se la vostra mente è capace di calmarsi in modo naturale e spontaneo, e scoprite di trovare l’ispirazione di rimanere semplicemente nella sua pura consapevolezza, non avete bisogno di alcun metodo per meditare. Se riuscite a entrare in questo stato, seguire un metodo può addirittura rivelarsi controproducente. Ma, in genere, per molti è difficile entrare direttamente in questo stato. Non sappiamo come si fa a risvegliarlo, e la nostra mente è così turbolenta e distratta che abbiamo bisogno di abili mezzi, di un metodo per evocarlo.

Con ‘abile’ intendo che unite la comprensione della natura essenziale della mente, la coscienza della mutevolezza dei vari stati d’animo, e l’intuizione sviluppata nel corso della pratica su come lavorare con voi stessi, momento per momento. Unendo tutto ciò, imparate l’arte di applicare qualunque metodo si riveli appropriato alla situazione o al problema particolare, per trasformare il vostro ambiente mentale.

Ma, ricordate: il metodo è soltanto uno strumento, non è la meditazione. Attraverso l’abile utilizzo del metodo potrete raggiungere la perfezione di quello stato di totale presenza che costituisce la vera meditazione.

C’è un eloquente detto tibetano: Gompa ma yin, kompa yin, che significa letteralmente “‘Meditazione’ non è; ‘abituarsi’ è”. Vuol dire che la meditazione non è altro che abituarsi a praticare la meditazione. Si dice anche: “La meditazione non è sforzarsi, ma venirne naturalmente assimilati”.

Mettendo costantemente in pratica il metodo, la meditazione si produce a poco a poco. La meditazione non è qualcosa che potete ‘fare’; è qualcosa che deve accadere spontaneamente, e solo quando abbiamo portato a perfezione la pratica.

Ma, perché possa accadere, ha bisogno di calma e di condizioni favorevoli. Per raggiungere la padronanza della mente, dobbiamo prima calmarne l’ambiente. Ora la nostra mente è come la fiamma di una candela: instabile, tremolante, irrequieta, piegata dal vento turbolento dei pensieri e delle emozioni. La fiamma può bruciare tranquillamente solo se l’aria è ferma. Così, solo dopo aver calmato la turbolenza dei pensieri e delle emozioni potremo incominciare a vedere la natura della mente e riposare in essa. Inoltre, più avremo sviluppato la stabilità meditativa e minore sarà l’impatto di rumori e disturbi di ogni genere.

Gli occidentali tendono a farsi assorbire da ciò che chiamo la ‘tecnologia della meditazione’. Il mondo moderno è affascinato dalle macchine e dai meccanismi, dedito alle formule pratiche. Ma l’aspetto più importante della meditazione è di gran lunga il suo spirito, non la sua tecnica: il modo abile, ispirato e creativo con cui pratichiamo e che potremmo chiamare la ‘postura’.

La postura

I maestri dicono: “Se create le condizioni adatte nel corpo e nell’ambiente, la meditazione e la realizzazione si producono spontaneamente”. Parlare di postura non è pedanteria esoterica. Assumere una postura corretta significa creare un ambiente più favorevole alla meditazione, al risveglio del Rigpa. C’è un legame tra la posizione del corpo e lo stato della mente. Mente e corpo sono interrelati, e la meditazione sorge spontaneamente se la postura e lo stato mentale sono ispirati.

Se, mentre sedete, la mente non è accordata con il corpo, se ad esempio siete ansiosi o preoccupati, il corpo proverà disagio fisico e sarà più probabile che si presentino difficoltà. Al contrario, uno stato mentale calmo e ispirato influirà sulla globalità della vostra postura, e potrete sedere con molta più naturalezza e senza sforzo. È quindi fondamentale unire la postura del corpo e la fiducia che viene dalla realizzazione della natura della mente.

Può darsi che la postura che spiegherò sia leggermente diversa da altre a cui siete abituati. Deriva dagli antichi insegnamenti dello Dzogchen, mi venne insegnata dai miei maestri e la trovo estremamente potente.

Negli insegnamenti dello Dzogchen si dice che la vostra Visione e la vostra postura devono essere come una montagna. La Visione è la somma di tutta la comprensione e tutte le intuizioni sulla natura della mente che riportate nella meditazione. La vostra Visione si traduce nella vostra postura e la ispira, esprime il cuore del vostro essere attraverso il modo in cui vi sedete.

Quindi, sedete come una montagna: con la salda, incrollabile maestosità di una montagna. Una montagna è completamente naturale e sta perfettamente bene in se stessa, per quanto sia forte il vento che la investe o per quanto spesse le nuvole che turbinano intorno alla vetta. Sedendo come una montagna, lasciate che la mente si innalzi e si libri in volo.

Punto essenziale della postura è la schiena diritta come una ‘freccia’ o una ‘pila di monete d’oro’. Così l’energia interiore’, il prana, scorrerà facilmente attraverso i canali sottili del corpo e la mente troverà il suo naturale stato di riposo. Non forzate assolutamente. La parte inferiore della colonna vertebrale fa una curva: tenetela rilassata ma eretta. La testa sarà comodamente equilibrata sul collo. La forza e la grazia della postura sono date dalle spalle e dalla parte superiore del tronco: tenetele diritte ma senza tensione.

Sedete a gambe incrociate. Non occorre sedervi nel loto completo, come si insiste in pratiche yoga più avanzate. Le gambe incrociate esprimono l’unità di vita e morte, buono e cattivo, abili mezzi e saggezza, potenzialità maschile e femminile, samsara e nirvana. È lo spirito, l’umorismo della non dualità. Potete anche sedere su una sedia, con le gambe rilassate ma assicurandovi di tenere la schiena eretta.

Nella mia tradizione di meditazione si tengono gli occhi aperti. È un punto molto importante. Se siete sensibili ai disturbi esterni, all’inizio della pratica potrebbe esservi utile chiudere gli occhi per qualche momento per riportarvi silenziosamente all’interno. Quando vi siete calmati, aprite lentamente gli occhi e scoprirete che il vostro modo di guardare è diventato più sereno e tranquillo. Abbassate lo sguardo seguendo la linea del naso, formando un angolo di circa quarantacinque gradi. Un accorgimento pratico è abbassare lo sguardo se la mente è agitata, e sollevarlo se la mente è torpida o sonnolenta. Quando la mente si è calmata e incomincia a prodursi la chiarezza della visione, vi sentirete in grado di sollevare lo sguardo, di aprire di più gli occhi e di guardare nello spazio immediatamente di fronte a voi. Questa è la posizione degli occhi raccomandata nella pratica dello Dzogchen.

Gli insegnamenti dello Dzogchen dicono che la meditazione e lo sguardo devono essere come la vasta distesa di un grande oceano: aperta, illimitata, che abbraccia tutto. Come la visione e la postura sono inseparabili, così la meditazione ispira il vostro sguardo, divenendo una cosa sola con esso.

Non mettete allora a fuoco niente in particolare; volgete lo sguardo lentamente all’interno, e lasciate che si espanda diventando sempre più ampio e penetrante. Scoprirete che anche la Visione si espanderà e che nel vostro sguardo ci sarà più pace, più compassione, più equanimità e più equilibrio.

Il nome tibetano del Buddha della compassione è Chenrézig. Chen è l’occhio, ré l’angolo dell’occhio, e zig significa ‘vedere’. Ciò significa che, con i suoi occhi compassionevoli, Chenrézig vede le necessità di tutti gli esseri.

Prendete la compassione che irraggia dalla vostra meditazione e incanalatela gentilmente e con dolcezza negli occhi, in modo che il vostro sguardo diventi lo sguardo stesso della compassione, onnipervadente e simile all’oceano.

Ci sono molte ragioni per tenere gli occhi aperti. Prima di tutto, avrete meno possibilità di addormentarvi. Poi, la meditazione non è un modo per fuggire dal mondo, per rifugiarsi nell’esperienza simile alla trance di uno stato alterato di coscienza. Al contrario è un metodo diretto per comprendere realmente noi stessi, per metterci in rapporto con la vita e il mondo.

Per questo in meditazione dovete tenere gli occhi aperti, e non chiusi. Non chiudete fuori la vita, ma rimanete aperti e in pace verso ogni cosa. Lasciate che i sensi (udito, vista, tatto) siano naturalmente aperti, senza rincorrere le percezioni sensoriali. Dudjom Rinpoche diceva: “Benché vengano percepite varie forme, esse sono essenzialmente vuote: eppure nella vacuità si percepiscono le forme. Benché vengano percepiti vari suoni, essi sono essenzialmente vuoti; eppure nella vacuità si percepiscono i suoni. Benché sorgano vari pensieri, essi sono vuoti; eppure nella vacuità si percepiscono i pensieri”. Tutto ciò che vedete, tutto ciò che udite, lasciatelo così com’è senza afferrarlo. Lasciate l’udire nell’udire, lasciate il vedere nel vedere, senza permettere all’attaccamento di mescolarsi alla percezione.

Secondo la speciale pratica della luminosità dello Dzogchen, la luce della nostra energia di saggezza risiede nel centro del cuore, che è collegato agli occhi attraverso ‘canali di saggezza’. Gli occhi sono le ‘porte’ della luminosità, e li teniamo aperti per non ostruire questi canali di saggezza.

Anche la bocca va tenuta leggermente schiusa, come se stesse per emettere un profondo, rilassante “Aaah”. Si dice che, tenendola leggermente schiusa e respirando soprattutto attraverso la bocca, i ‘venti karmici’ che originano i pensieri discorsivi hanno più difficoltà a prodursi, creando meno ostacoli alla mente e alla meditazione.

Infine, lasciate riposare comodamente le mani sulle ginocchia. Questa è la postura della ‘mente tranquilla e a suo agio’.

In questa postura c’è una scintilla di speranza, un umore giocoso che viene dalla segreta conoscenza che la natura di Buddha è in tutti noi. Assumendo questa postura vi state divertendo a imitare un Buddha, riconoscete la vostra natura di Buddha, e date un reale incoraggiamento al suo emergere. Di fatto state incominciando a rispettarvi in quanto Buddha potenziali. Nello stesso tempo riconoscete la vostra condizione relativa. Ma, essendo ispirati da una gioiosa fiducia nella vostra natura di Buddha, siete in grado di accettare più facilmente i vostri aspetti negativi e di affrontarli con più gentilezza e più umorismo. Meditando, invitatevi a provare l’autostima, la dignità e la grande umiltà del Buddha che voi siete. Spesso dico che lasciarsi ispirare da questa gioiosa fiducia è abbastanza; da questa comprensione e questa fiducia, la meditazione fiorirà spontaneamente.

Tre metodi di meditazione

Il Buddha ha insegnato 84.000 modi per domare e pacificare le emozioni negative, e il Buddismo ha sviluppato un numero incalcolabile di meditazioni. Dalla mia esperienza, tre meditazioni sono particolarmente efficaci per gli uomini moderni. Tutti possono usarle e trarne beneficio. Sono: ‘osservare’ il respiro, utilizzare un oggetto e recitare un mantra.

1. Osservare’ il respiro

Il primo metodo è molto antico, e si ritrova in tutte le scuole buddiste. Consiste nel posare l’attenzione, con leggerezza e consapevolezza, sul respiro.

Il respiro è vita, l’espressione primaria e fondamentale della vita. Nel Giudaismo ruah, il respiro, simboleggia lo spirito di Dio che viene infuso nella creazione; e anche ‘nel Cristianesimo c’è un profondo collegamento tra lo Spirito santo, senza di cui nulla può vivere, e il respiro. Nel Buddhismo il respiro, prana in sanscrito, è definito il ‘veicolo della mente’, perché è il responsabile dei movimenti della mente. Calmando la mente con l’abile lavoro sul respiro, simultaneamente e automaticamente la state domando ed educando. Non abbiamo forse fatto tutti esperienza di come sia rilassante, in momenti di grande tensione, restare da soli per pochi minuti e fare alcune inspirazioni ed espirazioni profonde e tranquille? Anche questo semplicissimo esercizio può aiutarci molto.

Meditando, respirate normalmente. Portate con leggerezza l’attenzione sull’espirazione. Espirando, lasciatevi fluire con il respiro. Con ogni espirazione, allentate e lasciate la presa. Immaginate che il vostro respiro si dissolva nella vastità della verità che tutto pervade. Ogni volta che espirate, e prima dell’inspirazione successiva, scoprirete che si apre un intervallo naturale, man mano che l’attaccamento si dissolve.

Rimanete in questo intervallo, in questo spazio aperto. Quando inspirate in modo naturale, non concentrate l’attenzione sull’inspirazione ma continuate a riposare la mente nello spazio che si è aperto.

Praticando è importante non rimanere invischiati in commenti mentali, analisi o chiacchiericcio interno. Non scambiate per presenza mentale il continuo commento “Ora sto inspirando, ora sto espirando”. L’importante è la pura presenza.

Non concentratevi troppo sul respiro. Dategli il 25 per cento dell’attenzione, con il rimanente 75 per cento tranquillamente e spaziosamente rilassato.

Diventando sempre più consapevoli del respiro vi scoprirete sempre più presenti, unificherete le vostre parti disperse qua e là, e diventerete un tutto integro.

In seguito, invece di ‘osservare’ il respiro, identificatevi gradatamente con esso, come se diventaste il respiro. A poco a poco il respiro, chi respira e il respirare diventano uno. La dualità e la separazione scompaiono.

Noterete come questa semplice presenza mentale filtri i pensieri e le emozioni. È come lasciar cadere una vecchia pelle: qualcosa si stacca e si libera.

Alcuni non si sentono affatto rilassati né a proprio agio osservando il respiro, anzi lo trovano quasi claustrofobico. Se siete tra questi, forse può esservi più utile la prossima tecnica.

2. Utilizzare un oggetto

Il secondo metodo, che molti trovano utile, consiste nel posare con leggerezza la mente su un oggetto. Potete scegliere un oggetto bello che vi comunica una speciale ispirazione: un fiore, un cristallo. Ancora più potente è un’immagine che incarna la verità: Cristo, Buddha o il vostro maestro. Il vostro maestro è il legame vivente con la verità e, grazie al rapporto personale che avete con lui o lei, contemplarne il volto vi ricollega all’ispirazione e alla realtà della vostra natura.

Molti hanno scoperto di avere uno stretto rapporto con l’immagine della statua di Padmasambhava chiamata ‘Mi assomiglia’, scolpita dal vero e benedetta da lui stesso nell’VIII secolo in Tibet. Grazie allo straordinario potere della sua personalità spirituale, Padmasambhava portò l’insegnamento del Buddha in Tibet. I tibetani lo conoscono come il ‘secondo Buddha’ e lo chiamano affettuosamente ‘Guru Rinpoche’, che significa ‘prezioso maestro’. Dilgo Khyentse Rinpoche diceva: “Dalla nobile terra dell’India e dal Tibet, il paese delle nevi, vennero tanti maestri incomparabili e straordinari, ma, tra tutti, colui che ha la più grande compassione e benedizione per gli esseri di questa difficile età è Padmasambhava, che incarna la compassione e la saggezza di tutti i Buddha. Tra le sue qualità c’è la capacità di dare istantaneamente la sua benedizione a chiunque lo prega e, per qualunque cosa preghiamo, può soddisfare immediatamente il nostro desiderio”.

Ispirati da ciò, portate un’immagine di questa statua al livello degli occhi e posate con leggerezza l’attenzione sul suo volto, guardandolo negli occhi. Nel suo sguardo c’è una profonda calma che erompe dalla fotografia e che vi trasporta in quello stato di consapevolezza senza attaccamento che è lo stato della meditazione. Lasciate la vostra mente, silenziosa e tranquilla, in compagnia di Padmasambhava.

3. Recitare un mantra

La terza tecnica, molto usata nel Buddhismo tibetano (come anche nel Sufismo, nella Chiesa ortodossa e nell’Induismo), usa il suono di un mantra per unificare la mente. La parola mantra significa ‘ciò che protegge la mente’. Un mantra è ciò che protegge la mente dalla negatività, o che vi protegge dalla vostra stessa mente.

Se siamo nervosi, disorientati o emotivamente fragili, cantare o recitare un mantra con ispirazione può cambiare radicalmente lo stato mentale trasformandone l’energia e l’atmosfera. Com’è possibile? Il mantra è l’essenza del suono, l’incarnazione della verità sotto forma di suono. Ogni sillaba è intrisa di potere spirituale, condensa una verità spirituale e vibra della benedizione della parola dei Buddha. Si dice inoltre che la mente cavalca l’energia sottile del respiro, il prana, che attraversa e purifica i canali sottili del corpo. Mentre cantate un mantra, caricate il vostro respiro e la vostra energia con l’energia del mantra, intervenendo direttamente sulla mente e sul corpo sottile.

Ai miei studenti consiglio il mantra OM AH HUM VAJRA GURU PADMA SIDDHI HUM (i tibetani lo pronunciano: Om Ah Hung Benza Guru Péma Siddhi Hung). È il mantra di Padmasambhava, il mantra di tutti i Buddha, maestri e esseri realizzati, dotato di uno speciale potere di pace, risanamento, trasformazione e protezione in quest’epoca così violenta e caotica. Recitatelo tranquillamente, con profonda attenzione, e lasciate che il respiro, il mantra e la consapevolezza diventino a poco a poco un’unica cosa. Oppure cantatelo con ispirazione e riposate nel silenzio profondo che a volte lo segue.

Dopo un’intera vita di familiarità con la pratica, a volte sono ancora meravigliato dal potere del mantra. Qualche anno fa diressi a Lione un seminario con circa trecento persone, in maggioranza terapeuti e casalinghe Avevo insegnato tutto il giorno, ma sembrava che volessero davvero sfruttare al massimo l’incontro e mi ponevano inesorabili una fila di domande Al calar della sera ero completamente esausto, e sulla sala stava scendendo un’atmosfera cupa e pesante. Così cantai un mantra, lo stesso mantra che vi ho insegnato. Fui stupefatto dall’effetto: in un attimo sentii le energie ritornarmi, l’atmosfera in sala si trasformò, e il pubblico era di nuovo vivace e incantevole. La stessa esperienza mi è capitata più volte per cui so che non si tratta di un ‘miracolo’ occasionale.

La mente in meditazione

Allora, che cosa si deve ‘fare’ con la mente in meditazione? Assolutamente niente. Lasciatela semplicemente così com’è. Un maestro descrive la meditazione come: “mente, sospesa nello spazio, in nessun luogo”.

C’è un detto famoso: “Se la mente non è manipolata, è spontaneamente colma di beatitudine, così come l’acqua, se non viene agitata, è per sua natura chiara e trasparente”. Spesso paragono la mente in meditazione a un vaso d’acqua torbida: meno vi interferiamo e lo scuotiamo, più le particelle di sporcizia si depositano sul fondo, permettendo alla naturale purezza dell’acqua di rivelarsi. La vera natura della mente è tale che, se la lasciate nel suo stato naturale inalterato, essa ritroverà la sua vera natura di beatitudine e limpidezza.

Dunque curatevi di non imporre nulla alla mente, di non caricarla. Non sforzatevi di controllarla, e non sforzatevi di essere in pace. Non siate troppo solenni e non crediate di stare celebrando un rituale speciale; lasciate andare l’idea stessa di stare meditando. Lasciate che il corpo e il respiro siano così come sono. Pensate a voi stessi come al cielo che contiene tutto l’universo.

Un delicato equilibrio

Nella meditazione, come in tutte le arti, dev’esserci un delicato equilibrio tra rilassamento e attenzione. C’era un monaco di nome Shrona che studiava meditazione con uno dei discepoli più stretti del Buddha e non riusciva a trovare la giusta disposizione mentale. Tentava vigorosamente di concentrarsi, ma si procurava solo dei gran mal di testa. Allora si rilassò. Troppo, perché si addormentò. Allora chiese aiuto al Buddha. Sapendo che, prima di diventare monaco, era stato un musicista, il Buddha gli chiese: Da laico, non eri un suonatore di vina?”.

Shrona annuì.

“Quando traevi i suoni migliori dal tuo strumento? Quando le corde erano molto tese o quando erano molto lente?”.

“In nessuno dei due casi, ma quando le corde avevano la giusta tensione: né troppo tese né troppo lente”.

“È esattamente lo stesso con la mente”.

Una delle più grandi maestre tibetane di meditazione, Ma Chik Lap Dron, diceva: “Attento, attento; ma rilassati, rilassati. Ecco il punto cruciale della Visione in meditazione”. Destate l’attenzione ma, nello stesso tempo, rimanete rilassati. Così rilassati da non tenere stretta neppure l’idea del rilassamento.

Pensieri ed emozioni: le onde e l’oceano

Molti, incominciando a meditare, dicono che i loro pensieri si scatenano e diventano più incontrollati di prima. Li rassicuro dicendo che è un buon segno. Non significa che i vostri pensieri sono diventati più scatenati, ma che voi siete diventati più calmi, prendendo finalmente consapevolezza del chiasso che hanno sempre fatto i vostri pensieri. Non scoraggiatevi e non mollate. Siate semplicemente presenti a tutto ciò che si presenta e ritornate continuamente al respiro, anche in mezzo alla peggiore confusione.

Nelle antiche istruzioni di meditazione si dice che, all’inizio, i pensieri sono accavallati, ammassati l’uno sull’altro come l’acqua che scende da una montagna ripida. A poco a poco, perfezionando la meditazione, sono come l’acqua in una gola stretta e profonda, poi come un ampio fiume che serpeggia lentamente verso il mare, e infine la mente diventa come l’oceano, calmo e immobile, mosso di tanto in tanto da increspature o onde momentanee.

Molti credono che, in meditazione, non ci debbano essere né pensieri né emozioni. Quando pensieri ed emozioni si formano ne sono disturbati, sono esasperati con se stessi e pensano di stare sbagliando. Niente è più lontano dalla verità. A questo proposito c’è un detto tibetano: “Voler carne senza ossa e senza foglie è una pretesa assurda”. Finché avrete una mente, avrete pensieri ed emozioni.

Come l’oceano produce onde e il sole raggi, la mente irraggia pensieri ed emozioni. Nell’oceano si formano le onde, ma l’oceano non ne è particolarmente turbato. Le onde sono la natura stessa dell’oceano. Le onde nascono, ma dove vanno? Ritornano all’oceano. E da dove vengono? Sempre dall’oceano. Allo stesso modo, i pensieri e le emozioni sono l’espressione e l’irraggiamento della natura stessa della mente. Sorgono dalla mente e si dissolvono… dove? Di nuovo nella mente. Qualunque cosa sorge, non consideratela un problema. Se non reagite impulsivamente, se siete pazienti, si acquieterà di nuovo nella sua natura essenziale.

Con questa comprensione, i pensieri rafforzeranno la vostra pratica. Ma se non ne comprendete la natura intrinseca, cioè che essi sono l’emanazione della natura della vostra mente, i pensieri diventano semi di confusione. Sviluppate un atteggiamento spazioso, aperto e compassionevole verso i pensieri e le emozioni: sono i vostri parenti, la famiglia della vostra mente. Come diceva Dudjom Rinpoche: “Siate come un vecchio saggio che guarda un bambino giocare”.

A volte siamo perplessi sul da farsi rispetto alle negatività o alle emozioni che ci turbano. Ma, nella spaziosità della meditazione, potete vedere pensieri ed emozioni con un atteggiamento imparziale. Cambiando l’atteggiamento cambia tutta l’atmosfera della mente, e la natura stessa dei pensieri e delle emozioni. Se voi siete ben disposti, anche loro lo sono; se non li sentite come una difficoltà, non vi faranno difficoltà.

Così, qualunque pensiero ed emozione si presenti, lasciate che sorga e svanisca, come un’onda nell’oceano. Ogni volta che vi scoprite a pensare, lasciate che il pensiero sorga e svanisca senza alcuna coercizione. Non afferratelo, non alimentatelo, non abbandonatevi a esso e non tentate di conferirgli solidità. Non invitate e non seguite i pensieri, siate come l’oceano nei confronti delle onde o come il cielo che vede, giù in basso, le nuvole che lo attraversano. Scoprirete ben presto che i pensieri sono come il vento, vanno e vengono. Il segreto sta nel non ‘pensare’ ai pensieri, ma di lasciarli passare nella mente senza costruire pensieri sui pensieri.

Percepiamo il flusso di pensieri della mente ordinaria come una massa ininterrotta. Non è così. In meditazione scoprirete che c’è un intervallo tra un pensiero e l’altro. Quando un pensiero è finito e il prossimo non è ancora sorto, scoprirete che c’è sempre un intervallo in cui si manifesta il Rigpa, la natura della mente. Il compito della meditazione è quindi di lasciare che i pensieri rallentino perché l’intervallo diventi sempre più evidente.

Il mio maestro aveva un discepolo di nome Apa Pant, noto scrittore e diplomatico indiano che aveva ricoperto la carica di ambasciatore in molte capitali. Aveva rappresentato il governo indiano a Lhasa e poi nel Sikkim. Inoltre era un praticante di meditazione e di yoga, e ogni volta che incontrava il mio maestro gli chiedeva “come meditare”. In ciò si atteneva a una precisa tradizione orientale nella quale lo studente pone ripetutamente al maestro un’unica domanda, semplice e basilare.

Apa Pant mi raccontò che un giorno il nostro comune maestro, Jamyang Khyentse, assisteva a una rappresentazione della ‘danza dei lama’ al tempio di Gangtok, la capitale del Sikkim, e si divertiva alle buffonate dell’atsara, un clown che mette in scena numeri divertenti tra una danza e l’altra. Apa Pant continuava a tormentarlo, chiedendogli con insistenza come meditare. Il mio maestro gli rispose in modo da fargli capire che glielo diceva una volta per tutte: “Sentimi bene: quando l’ultimo pensiero è finito e il prossimo non è ancora sorto, non c’è un intervallo?”.

“Sì, c’è”, rispose Apa Pant.

“Bene, allungalo. Quello è la meditazione”.

Esperienze

Se continuate a praticare avrete esperienze di ogni genere, buone e cattive. Come una stanza provvista di molte porte e finestre lascia entrare l’aria da molte direzioni, e naturale che m una mente aperta entri ogni genere di esperienza. Potreste sperimentare stati di beatitudine, chiarezza e assenza di pensieri. In un certo senso sono esperienze ottime che segnalano un progresso nella meditazione. Sperimentare beatitudine indica che il desiderio si è temporaneamente dissolto. Sperimentare chiarezza significa che si è temporaneamente dissolta l’aggressività. Sperimentare l’assenza di pensieri è un segno che la vostra ignoranza è temporaneamente svanita. In sé sono ottime esperienze ma, se vi ci attaccate, diventano ostacoli. Le esperienze non sono la realizzazione; ma, se non vi restiamo attaccati, si rivelano per quello che sono in realtà: materiali per la realizzazione.

Le cattive esperienze sono spesso quelle più fuorvianti, perché tendiamo a considerarle un brutto segno. In realtà le esperienze negative sono benedizioni travestite. Cercate di non reagire con la consueta avversione e riconoscetele per ciò che sono in realtà: esperienze, e perciò illusorie e simili a un sogno. La comprensione della vera natura delle esperienze vi libera dal danno o dal pericolo dell’esperienza stessa, di modo che anche un’esperienza negativa si può trasformare in una fonte di grande benedizione e di grande compimento. Ci sono moltissime storie che illustrano il modo di lavorare dei maestri con le esperienze negative per trasformarle in catalizzatori della realizzazione.

Tradizionalmente si dice che per un vero praticante gli ostacoli non sono le esperienze negative, ma al contrario quelle buone. Soprattutto quando le cose vanno bene, dovete essere particolarmente prudenti, e fare attenzione a non essere troppo soddisfatti e compiaciuti. Ricordate l’ammonimento di Dudjom Rinpoche mentre stavo facendo un’esperienza molto potente: “Non eccitarti troppo. In fondo, non è né buono né cattivo”. Sapeva che mi stavo attaccando all’esperienza e che anche quell’attaccamento, come ogni altro, deve essere reciso. Tanto in meditazione che nella vita dobbiamo imparare a essere liberi dall’attaccamento per le esperienze buone, e liberi dall’avversione per quelle cattive.

Dudjom Rinpoche ci mette in guardia da un altro trabocchetto: “Può darsi che, in meditazione, sperimentiate uno stato torbido, confuso, semiconscio, come se aveste una specie di cappuccio sulla testa. Un torpore sognante. Non è altro che una nebbiosa stagnazione priva di consapevolezza Come uscirne?

Svegliatevi, raddrizzate la schiena, buttate fuori l’aria stantia dai polmoni e dirigete la consapevolezza sullo spazio limpido per rinfrescare la mente. Se rimanete in quello stato stagnante non andrete avanti. Quindi, ogni volta che cadete in questo intoppo, rimuovetelo. La cosa importante è essere il più svegli possibile, il più attenti possibile”.

Qualunque sia il metodo che usate, una volta entrati naturalmente in uno stato di pace attenta, espansa e vibrante, abbandonatelo o lasciate che cada da sé. Poi rimanete silenziosi, non distratti, senza più ricorrere a un metodo preciso. Il metodo è già servito al suo scopo. Ma, se vi smarrite o vi distraete, ritornate alla tecnica più efficace per riportarvi indietro.

Lo splendore della meditazione non sta nei metodi ma nella sua ininterrotta, viva esperienza della presenza; nella beatitudine, nella limpidezza, nella pace; e, soprattutto, nella completa assenza di attaccamento. La diminuzione dell’attaccamento è il segno che vi state liberando da voi stessi. Più sperimentate questa libertà, più si fa chiaro che l’io, e le speranze e le paure che lo mantengono in vita, si stanno dissolvendo; e più sarete vicini alla infinitamente generosa ‘saggezza del non io’. Vivendo in questa casa di saggezza non troverete più barriere tra l’io e il ‘tu’ tra ‘questo’ e ‘quello’, tra ‘dentro’ e ‘fuori’. Siete ritornati alla vostra vera casa: lo stato di non dualità.

FATE DELLE INTERRUZIONI

Spesso mi viene chiesto: “Per quanto tempo devo meditare? E quando? Meglio venti minuti al mattino e alla sera, o periodi più brevi durante la giornata?”. Sì, va bene meditare per venti minuti, anche se questo non è certo il limite massimo. Nei testi non ho mai trovato menzione di questi venti minuti; credo sia una trovata occidentale e lo chiamo ‘Tempo standard della meditazione occidentale’. Il punto non è nella durata della meditazione; è nel vedere se la pratica vi porta davvero in una condizione di consapevolezza e di presenza dove siete un po’ aperti e in grado di comunicare con l’essenza del vostro cuore. Cinque minuti di pratica seduta consapevole valgono molto più di un pisolino di venti minuti!

Dudjom Rinpoche consigliava ai principianti di incominciare con brevi sedute. Praticate per quattro, cinque minuti, poi fate una pausa di un minuto. Durante questa interruzione non applicate il metodo scelto, ma non rilasciate del tutto la presenza mentale. A volte, specie se la pratica ha richiesto sforzo, stranamente il momento in cui smettete di applicare il metodo, se rimanete presenti, è il momento in cui la meditazione accade davvero. Ecco perché la pausa è un elemento della meditazione altrettanto importante della seduta.

Agli studenti in difficoltà dico a volte di praticare durante la pausa e di fare una pausa durante la meditazione!

Sedetevi per pochi minuti. Poi fate una pausa, molto breve: da trenta secondi a un minuto. Conservate però l’attenzione mentale di tutto ciò che fate e non perdete la presenza e la sua naturale tranquillità. Poi risvegliatevi e sedetevi di nuovo. Facendo molte sedute brevi, le interruzioni renderanno la meditazione più reale e ispirata, togliendo alla pratica quel senso di goffa e fastidiosa rigidità, solennità e innaturalezza, e arricchendo sempre di più la vostra capacità di mettere a fuoco e la quiete. A poco a poco, grazie all’avvicendamento di sedute e di pause, la barriera tra meditazione e vita quotidiana crollerà, il loro apparente contrasto svanirà, e vi scoprirete sempre più nella pura presenza naturale, senza distrazioni.

Allora, com’era solito dire Dudjom Rinpoche: “Anche se il meditante lascia la meditazione, la meditazione non lascia il meditante”.

Fonte: Il libro tibetano del vivere e del morire. http://www.esonet.org/wp-content/uploads/2013/05/136069562-Il-Libro-Tibetano-del-Vivere-e-del-Morire-Sogyal-Rinpoche.pdf