Sogyal Rinpoche: L’energia del piacere.

Sogyal Rinpoche: L’energia del piacere. Il dispiegarsi della visione della totalità. Servitori della pace. Domande sulla morte. Tenuti in vita. Lasciare che la morte avvenga. Scegliere di morire. Due mantra.

L’energia del piacere

Penso spesso a questa frase di Dudjom Rinpoche: “La natura della mente è la natura di tutte le cose”. E mi domando se il processo tripartito che si rivela nei bardo non si applichi, come abbiamo scoperto, solo ai vari livelli e alle varie esperienze di coscienza tanto nella vita che nella morte, ma anche, forse, alla natura stessa dell’universo.

Più rifletto sui tre kaya e il processo tripartito del bardo, e più trovo stimolanti e fertili paralleli con la visione centrale delle altre tradizioni spirituali e con molti altri campi, apparentemente diversi, dell’espressione umana. Penso alla visione cristiana della natura e dell’attività di Dio rappresentata dalla Trinità, all’incarnazione di Cristo che promana dalla natura del Padre attraverso il mezzo sottile dello Spirito Santo. Non potrebbe essere illuminante vedere Cristo come il Nirmanakaya, lo Spirito Santo come il Sambhogakaya, e la base assoluta di entrambi come il Dharmakaya? Nel Buddhismo tibetano la parola tulku, ‘incarnazione’, indica in realtà il Nirmanakaya, l’incarnazione, che si ripresenta costantemente, dell’energia compassionevole e illuminata e della sua attività. Non è un concetto molto vicino a quello cristiano dell’incarnazione divina?

Penso anche alla triplice visione induista dell’essenza di Dio, chiamata in sanscrito satcitananda (sat-cit-ananda) che, grossolanamente tradotto, significa ‘manifestazione, coscienza, beatitudine’. Per gli induisti, Dio è l’esplosione simultanea ed estatica di tutte le energie e i poteri. Anche qui si potrebbero fare affascinanti paralleli con i tre kaya: il Sambhogakaya potrebbe essere paragonato all’ananda, l’energia di beatitudine della natura divina; il Nirmanakaya al sat e il Dharmakaya al cit. Chiunque abbia ammirato la statua di Shiva nelle grotte di Elephanta in India, con i tre volti che rappresentano i tre volti dell’assoluto, si sarà reso conto della bellezza e della maestosità di questa visione del divino.

Entrambe queste visioni mistiche dell’essenza, della natura e dell’attività della dimensione divina rivelano una comprensione che, benché formulata in termini diversi, richiama una somiglianza con la visione buddhista dei vari e interpenetranti livelli dell’essere. Non dà da pensare che la triplicità sia al centro di queste varie tradizioni mistiche, anche se ciascuna concepisce la realtà secondo una propria prospettiva?

La riflessione sulla possibile natura della manifestazione e sui modi diversi eppure simili di comprenderla, mi porta naturalmente a pensare alla creatività umana, la manifestazione nella forma del mondo interno dell’umanità. Da tempo mi chiedo se il processo di manifestazione dei tre kaya e dei bardo possa far luce sulla creatività artistica, rivelandone la vera natura e lo scopo recondito. Qualunque produzione creativa nella musica, nella pittura, nella poesia e nelle stesse scoperte scientifiche, così come ci vengono descritte dai loro scopritori, nasce da una base misteriosa di ispirazione e prende forma attraverso la mediazione di un’energia di traduzione e comunicazione.

Siamo di fronte a un’altra manifestazione del triplice processo interrelato che abbiamo visto all’opera nei bardo? È questo il motivo per cui determinate musiche e poesie, e anche alcune scoperte scientifiche, sembrano avere un valore e un significato quasi illimitato? È per questo che ci conducono in uno stato di contemplazione e di felicità in cui si rivela in parte il segreto della nostra natura e della realtà? Da dove provengono questi versi di Blake?

Vedere il Mondo in un Granello di Sabbia e il Paradiso in un Fiore spontaneo trattenere l’infinito nel palmo della tua mano e l’Eternità in un’ora.

Nel Buddhismo tibetano, il Nirmanakaya è visto come la manifestazione dell’illuminazione in un’infinita varietà di modi e forme, nel mondo materiale. Tradizionalmente viene descritto in tre modi. Primo come la manifestazione di un Buddha completamente realizzato come Siddhartha Gautama, che nasce nel mondo e vi insegna; secondo, come un essere apparentemente ordinario ma benedetto dalla straordinaria capacità di aiutare gli altri, cioè un tulku; terzo, un essere nel quale un certo grado di illuminazione agisce per ispirare e beneficiare gli altri attraverso le arti, i prodotti manuali e le scienze. In essi, scrive Kalu Rinpoche, l’impulso illuminato è una “espressione spontanea, come la luce irraggia spontaneamente dal sole senza che questi debba deciderlo o dedicarvi un’attenzione cosciente. Il sole è, e perciò stesso irraggia”. La forza e la natura del genio artistico non potrebbero allora essere spiegate come derivate e ispirate dalla dimensione della Verità?

Ciò non significa che i grandi artisti siano illuminati, e la loro vita dimostra infatti che non lo sono. Ma è altrettanto chiaro che, in particolari condizioni e in momenti cruciali, possono agire come strumenti e canali dell’energia illuminata. Chi, ascoltando i capolavori di Beethoven o Mozart, potrebbe negare che nelle loro composizioni sembra trapelare alle volte un’altra dimensione? E chi, davanti alle grandi cattedrali medievali come quella di Chartres, davanti alla moschea di Isfahan, alle sculture di Angkor, allo splendore dei templi induisti di Ellora, non sente che gli artisti che li crearono dovevano essere ispirati da quell’energia che scaturisce dalla base e dalla fonte di tutte le cose?

Penso che una grande opera d’arte sia come la luna che splende nel cielo notturno: illumina il mondo ma la luce non è la sua, è presa a prestito dal sole nascosto dell’assoluto. L’arte ha aiutato molti ad avere un barlume della natura della spiritualità. Uno dei limiti di tanta arte moderna non sarà proprio la perdita del senso della sua misteriosa e sacra origine e del suo sacro scopo: trasmettere agli uomini il senso della loro vera natura e del loro posto nell’universo per recuperare, nella sua inesauribile freschezza, il significato e il valore della vita con le sue infinite possibilità? Il senso profondo delle creazioni artistiche realmente ispirate non sarà affine al campo del Sambhogakaya, quella dimensione di infinita energia luminosa e beata che Rilke chiama l’alata energia del piacere, quella radiosità che traduce, trasmette e comunica il puro e infinito senso dell’assoluto al finito e al relativo; in altre parole, dal Dharmakaya al Nirmanakaya?

Il dispiegarsi della visione della totalità

Una delle molte ispirazioni che ho tratto dall’esempio di Sua Santità il Dalai Lama è la viva curiosità e l’apertura che dimostra verso tutti gli aspetti e le scoperte della scienza moderna. Il Buddhismo, dopotutto, viene spesso indicato come la ‘scienza della mente’ e, quando contemplo gli insegnamenti del bardo, è la loro precisione, la loro grande e sobria chiarezza che muove il mio rispetto e la mia gratitudine. Se il Buddhismo è una scienza della mente, per me lo Dzogchen e gli insegnamenti del bardo costituiscono il cuore essenziale di tale scienza, il seme più visionario e pratico da cui un albero imponente di realizzazioni interrelate è fiorito e fiorirà, con il procedere dell’evoluzione umana, in modi che sfuggono all’immaginazione.

Nel corso degli anni, e come risultato di tanti incontri con scienziati di tutti i campi, mi sono sempre più stupito dei numerosi paralleli tra gli insegnamenti del Buddha e le scoperte della fisica moderna. Fortunatamente, molti pionieri della ricerca scientifica e filosofica occidentale sono anch’essi consapevoli di questi paralleli e li esaminano con prudenza ed entusiasmo, sapendo che dal dialogo tra le scienze materiali e il misticismo, che rappresenta la scienza della mente e della coscienza, potrà emergere una nuova visione dell’universo e della nostra responsabilità verso di esso. Sono sempre più convinto che gli insegnamenti del bardo, con il loro progressivo triplice dispiegamento, possano portare un contributo essenziale al dialogo. Tra le molte possibilità, vorrei fermarmi sulla teoria del fisico David Bohm, che mi ha sempre affascinato. Bohm formula un nuovo approccio alla realtà che, benché controverso, ha suscitato l’interesse di quasi tutti i campi della ricerca, fisica, medicina, biologia, matematica, neurologia, psichiatria, oltre che tra gli artisti e i filosofi. Il suo approccio alla realtà si basa, esattamente come gli insegnamenti del bardo, sulla totalità e unità dell’esistenza come un tutto coesivo e indivisibile.

L’ordine dinamico e multidimensionale che Bohm vede all’opera nell’universo ha essenzialmente tre aspetti. Il più evidente è il nostro universo tridimensionale, fatto di oggetti, tempo e spazio, che chiama ordine esplicato o dispiegato. Da dove proviene questo ordine dispiegato? Da un campo universale e ininterrotto, un ‘campo oltre il tempo’, l’ordine implicato o ripiegato, come lo definisce, che rappresenta il fondamento onnicomprensivo di tutta la nostra esperienza. Bohm vede il rapporto tra i due ordini come un processo continuo in cui ciò che si dispiega nell’ordine esplicato torna a ripiegarsi nell’ordine implicato. Quanto alla causa che organizza il processo nelle sue varie strutture, Bohm ‘propone’ (termine che ama molto, poiché tutta la sua filosofia ritiene che le idee debbano nascere dal dialogo ed essere sempre vulnerabili) un ordine superimplicato, una dimensione ancora più sottile e potenzialmente infinita.

Non c’è una notevole somiglianza tra questi tre ordini e i tre kaya e il processo dei bardo? Scrive David Bohm: “Il concetto di ordine implicato è, per cominciare, un modo di dibattere il prodursi della forma dal senza forma, attraverso il processo di esplicazione o dispiegamento”.

Ma un altro aspetto del lavoro di Bohm da cui ho tratto ispirazione, è che, con una grande forza di immaginazione, egli ha esteso questo modo di capire la materia, nato all’interno della fisica quantistica, alla comprensione della coscienza stessa, compiendo così un salto che secondo me diventerà sempre più necessario via via che la scienza si apre ed evolve. “La mente” scrive Bohm, “potrebbe avere una struttura simile a quella dell’universo, e nell’attività sottostante che chiamiamo spazio vuoto c’è in realtà un’enorme energia, una dinamica. Le forme specifiche che appaiono nella mente potrebbero essere analoghe alle particelle, e il fondamento della mente potrebbe paragonarsi alla luce”.

Accanto al concetto di ordine implicato ed esplicato, Bohm ipotizza un possibile rapporto tra il mentale e il fisico, tra mente e materia, che chiama soma-significato: “Il concetto di soma-significato implica che il soma (il fisico) e il suo significato (il mentale) non sono assolutamente separati, ma rappresentano due aspetti di un’unica realtà globale”.

Per Bohm, l’universo manifesta tre aspetti mutuamente interdipendenti: materia, energia e significato.

Dal punto di vista dell’ordine implicato, l’energia e la materia sono impregnate di un significato intrinseco che dà forma alla loro attività globale e alla materia che dall’attività si forma. Anche l’energia della mente e la materia cerebrale sono impregnate di un significato che dà forma alla loro attività globale. Generalmente parlando, l’energia comprende materia e significato, e la materia comprende energia e significato… Ma anche il significato comprende materia ed energia… Ognuno di questi concetti base comprende quindi gli altri due.

Semplificando questa visione eccezionalmente sottile e raffinata, potremmo dire che il significato ha per Bohm un’importanza precisa e di portata immensa. “Ciò implica, in contrasto con la concezione usuale, che il significato è parte intrinseca ed essenziale della realtà globale, e non una qualità astratta ed eterea che esiste solo nella nostra mente. Per dirla in altro modo, nella vita dell’uomo il significato è l’essere”. Interpretando l’universo, noi lo creiamo. “Potremmo dire che, in un certo senso, siamo la somma dei nostri significati”.

Non sarebbe utile incominciare a vedere dei paralleli tra i tre aspetti di questa concezione dell’universo e i tre kaya? Un esame più attento della concezione di Bohm potrebbe forse rivelare che significato, energia e materia stanno nell’identico rapporto reciproco dei tre kaya. Potrebbe forse suggerire che il ruolo del significato, com’è inteso da Bohm, sia analogo al Dharmakaya, questa fertile e incondizionata totalità da cui tutte le cose emergono? La dinamica dell’energia, attraverso la quale significato e materia interagiscono, ha una certa affinità con il Sambhogakaya, lo spontaneo e continuo prodursi dell’energia dalla base della vacuità. Infine, la creazione della materia presenta analogie con il Nirmanakaya, la continua cristallizzazione dell’energia in forma e manifestazione.

Pensando a David Bohm e alla sua affascinante visione della realtà, mi chiedo quali grandi scoperte potrebbe fare uno scienziato che fosse nello stesso tempo un esperto praticante spirituale sotto la guida di un grande maestro.

Che cosa potrebbe dirci della natura della realtà una persona che riunisse in lo scienziato e il saggio, la fusione di un Longchenpa e di un Einstein?

Tra i fiori futuri dell’albero degli insegnamenti del bardo, ci sarà forse il dialogo tra la scienza e la mistica, attualmente difficile da immaginare ma di cui sembriamo già essere alle soglie? E che cosa significherebbe per l’umanità?

Il parallelismo più profondo tra la formulazione di David Bohm e gli insegnamenti del bardo è che entrambi sgorgano da una visione di unità, di completezza. Visione che, se potesse sollecitare gli individui a trasformare la propria coscienza influenzando così la società, restituirebbe al mondo quel significato e quel senso di viva interrelazione di cui avvertiamo disperatamente il bisogno.

Ciò che suggerisco è che il modo di pensare la totalità, ovvero la visione complessiva del mondo, è essenziale per l’ordine globale della mente umana. Se la totalità viene pensata come costituita da frammenti indipendenti, la mente si comporterà di conseguenza; ma se si includesse tutto, coerentemente e armonicamente, in una globalità indivisa, non frammentata e non limitata (perché ogni limite è in sé divisione e frattura), la mente agirebbe in modo simile, esprimendo un’azione ordinata all’interno del tutto.

Tutti i grandi maestri sarebbero d’accordo con queste parole di Bohm:

È indispensabile un cambiamento di significato per cambiare il mondo in termini politici, economici e sociali. Ma il cambiamento deve partire dall’individuo, deve muovere dall’interno… se il significato è parte essenziale della realtà, una volta che la società, l’individuo e i rapporti venissero visti in un senso diverso, avverrebbe un cambiamento radicale.

La visione che permea gli insegnamenti del bardo, e le comprensioni più profonde dell’arte e della scienza, convergono in un unico fatto: la nostra responsabilità e la responsabilità verso noi stessi. Inoltre, l’urgenza di usare questa responsabilità nel modo più ampio per trasformare noi stessi, il senso della nostra vita e il mondo.

Come dice il Buddha: Vi ho indicato la via per la liberazione, ora sta a voi seguirla“.

Servitori della pace

Recentemente uno dei miei studenti più anziani, che ha assistito negli anni alla stesura di questo libro, mi ha chiesto: “Che cosa speri, nel più profondo del cuore, dalla pubblicazione?”. Immediatamente si formò nella mia mente l’immagine di Lama Tseten, la serena e dolce dignità della sua morte a cui assistetti da bambino. Mi scoprii rispondere: “Vorrei che gli uomini non avessero più paura della morte, e neppure della vita. Vorrei che tutti gli esseri umani potessero morire in pace, circondati dalle attenzioni più sagge, più nette e più tenere; vorrei che tutti provassero la felicità che solo la comprensione della natura della mente e della realtà può dare”.

Come scrive Thomas Merton: “A cosa serve andare sulla luna se non siamo capaci di superare l’abisso che ci separa da noi stessi? È questo il viaggio di esplorazione più importante e, senza di esso, tutto il resto non solo è inutile ma disastroso”. Spendiamo milioni di dollari al minuto per addestrare uomini a uccidere e distruggere, per costruire bombe, aerei e missili. È quasi niente, in rapporto, per insegnare la natura della vita e della morte, per aiutare gli uomini ad affrontare la morte e a capire che cos’è quando si presenta. Che situazione terribilmente triste, rivelatrice della nostra ignoranza e della mancanza di amore per noi stessi e per gli altri!

Soprattutto spero che questo libro possa contribuire, anche se in misura minima, a cambiare questo stato di cose, possa far sentire a quante più persone possibile l’urgenza e la necessità di una trasformazione spirituale, l’urgenza e la necessità di assumerci la responsabilità di noi stessi e degli altri. Tutti siamo buddha potenziali, e tutti desideriamo vivere e morire in pace. Quando l’umanità se ne renderà veramente conto, quando creerà una società che rifletta in tutti i suoi aspetti questa semplice, sacra comprensione? Senza di essa, che valore ha la vita? Senza di essa, come possiamo morire bene?

È fondamentale introdurre una visione illuminata della morte e del morire a tutti i livelli educativi. I bambini non vanno ‘protetti’ dalla morte ma informati, già da piccoli, della vera natura della morte e degli insegnamenti che ne possono trarre. Perché non diffondere questa visione, nelle sue forme più semplici, in tutte le fasce di età? La comprensione della morte, della natura spirituale della morte e del morire, la conoscenza di che cosa si può fare per dare aiuto a chi muore, dovrebbe essere diffusa in tutta la società. Dovrebbe venire insegnata, seriamente e in modo creativo, nelle scuole e nelle università; ma soprattutto, ed essenzialmente, dovrebbe essere presente nella formazione dei medici e del personale infermieristico che svolge assistenza ai morenti e che ha un’enorme responsabilità verso di loro.

Come potete essere veri medici se non conoscete almeno in parte che cos’è la morte, se non sapete aiutare spiritualmente i vostri pazienti? Come potete essere veri infermieri se non avete guardato in faccia la vostra paura della morte e non sapete cosa dire a chi chiede guida e saggezza mentre sta morendo? Conosco medici e infermieri animati dalle migliori intenzioni, sinceramente aperti a nuove idee e nuovi approcci. Spero che questo libro possa dare a tutti loro il coraggio e la forza per introdurre la saggezza degli insegnamenti nelle istituzioni in cui lavorano e adattarli a esse. Non è ora che i medici capiscano che la ricerca del significato della vita e della morte è inseparabile dalla cura dei malati? Vorrei che questo libro promuovesse un dibattito sull’assistenza ai morenti e sulle migliori condizioni per metterla in atto. Occorre urgentemente una rivoluzione, tanto spirituale che pratica, nella formazione del personale medico e infermieristico, nella visione globale dell’assistenza ospedaliera e nel trattamento dei morenti, e spero che questo libro possa dare un umile contributo.

Ho espresso infinite volte la mia ammirazione per il lavoro pionieristico che sta facendo l’hospice movement, grazie al quale i morenti sono finalmente trattati con la dignità che meritano. Da queste pagine rivolgo un accorato appello a tutti i governi del mondo perché incoraggino la creazione di reparti ospedalieri destinati ai morenti e li dotino generosamente di fondi.

È mia intenzione usare questo libro come base per vari programmi di formazione. I programmi saranno rivolti a tutti, di qualunque professione e livello culturale, ma con speciale attenzione a coloro che assistono i morenti: familiari, medici, infermieri, sacerdoti di tutte le religioni, counselor, psicologi e psichiatri.

Nel Buddhismo tibetano, e soprattutto nelle profezie di Padmasambhava, si conserva un ampio quanto sconosciuto corpus di rivelazioni mediche specifiche sulle malattie dell’epoca attuale. Rivolgo un altro accorato appello per raccogliere fondi da destinare allo studio di questo straordinario materiale. È impossibile prevedere quali cure potremmo scoprirvi, quali e quanti metodi per affrontare infermità angosciose come il cancro, l’AIDS e altre che non si sono ancora manifestate!

Quindi, che cosa spero da questo libro? Di ispirare una tranquilla rivoluzione nel nostro modo di vedere la morte e nell’assistenza ai morenti, e di conseguenza nel nostro modo di considerare la vita e di prenderci cura dei vivi.

Mentre scrivevo questo libro, il 27 settembre 1991 a Thimphu, in Bhutan, moriva il mio grande maestro Dilgo Khyentse Rinpoche. Aveva ottantadue anni e aveva dedicato la vita al servizio degli altri. Chi l’ha conosciuto, come potrà mai dimenticarlo? Era una montagna d’uomo, enorme e ardente, e la sua imponenza maestosa vi avrebbe intimorito se non fosse stato per la profonda calma e gentilezza che emanava da lui, per il profondo umorismo spontaneo, per la pace e la beatitudine che sono i segni della realizzazione ultima. Per me, e per molti altri, fu un maestro paragonabile per gli ottenimenti, l’importanza e la grandezza a Milarepa, Longchenpa, Padmasambhava e allo stesso Buddha. Con la sua morte fu come se il sole avesse abbandonato il cielo lasciando il mondo nelle tenebre, segnando la fine di tutta una gloriosa epoca della spiritualità tibetana. Qualunque cosa ci riservi il futuro, sono sicuro che non vedremo nessuno che gli sia pari. Vederlo anche una volta sola, fosse pure per un attimo, gettava in voi un seme di liberazione che nulla potrà distruggere e che un giorno fiorirà completamente.

Prima e dopo la sua morte si manifestarono segni stupefacenti che ne testimoniarono la grandezza, ma quello che mi toccò e mi stupì maggiormente accadde a più di seimila chilometri di distanza, nel sud della Francia in un luogo chiamato Lerab Ling, presso Montpellier, che diverrà un centro di ritiri sotto la sua benedizione. Lascio che uno dei miei studenti che vive e lavora al centro lo descriva con le sue parole:

Quel mattino il cielo tardava a schiarire, e il primo annuncio dell’alba fu una profonda linea rossa all’orizzonte. Dovevamo andare in città. Quando arrivammo in cima alla salita apparve sulla collina alla nostra destra la tenda che ricopriva l’altare, piantata nel luogo in cui doveva sorgere il tempio. Improvvisamente un raggio di sole brillò nella luce ancora incerta e cadde sulla tenda bianca dell’altare, illuminandola intensamente nel primo mattino. Proseguimmo e, giunti all’ultima curva prima della città, un improvviso impulso ci fece gettare un’occhiata alla tenda alle nostre spalle. Ora il cielo era chiaro. Rimanemmo di sasso: uno sfolgorante arcobaleno brillava sulla valle, così vivido e terso che ci sembrava quasi di poterlo toccare. Nasceva dalla linea dell’orizzonte, alla nostra sinistra, e si incurvava riempiendo il cielo. La cosa strana era che non c’era il minimo segno di pioggia: solo l’arcobaleno, splendido e radiante nell’ampio cielo vuoto. Solo la sera dell’indomani venimmo a sapere che Dilgo Khyentse Rinpoche era morto quello stesso giorno in Bhutan. Non dubitavamo che l’arcobaleno fosse un segno della sua benedizione, scesa su tutti noi e su Lerab Ling.

Il Buddha, mentre moriva nella foresta di Kushinagara circondato da cinquecento discepoli, disse con l’ultimo respiro: “Tutte le cose che assumono una forma hanno la natura di dissolversi. Sforzatevi con tutto il vostro essere di raggiungere la perfezione”. Queste parole mi sono tornate molte volte in mente dopo la morte di Dilgo Kyentse Rinpoche. C’è forse un insegnamento sull’impermanenza più profondo della morte di un grande maestro, di chi sembrava l’asse stesso del mondo? Tutti noi discepoli e quanti lo conobbero ci sentimmo soli, costretti a fare affidamento su noi stessi. E ora tocca a noi continuare e incarnare, per quanto possiamo, la tradizione che Dilgo Khyentse rappresentò così nobilmente. Tocca a noi fare ciò che fecero i discepoli del Buddha, lasciati soli nel mondo e privati del suo splendore: “sforzarci con tutto il nostro essere di raggiungere la perfezione .

Credo che l’arcobaleno che brillò nel cielo mattutino della Francia sopra la valle di Lerab Ling fosse un segno della benedizione che Dilgo Khyentse Rinpoche dà, e continuerà a dare, al mondo intero. Libero dal corpo, vive ora nella gloria incondizionata e senza tempo del Dharmakaya, con il potere che hanno tutti gli illuminati di portare aiuto al di là dei confini del tempo e dello spazio. Abbiate fiducia nel suo ottenimento, invocatelo con tutto il cuore e lo sentirete immediatamente vicino a voi. Come potrebbe abbandonarci, lui che ha amato tutti gli esseri con un amore così perfetto? E dove potrebbe andare, ora che è diventato uno con il tutto?

Che fortuna che un maestro come lui, che incarnava tutto ciò che la tradizione tibetana rappresentava, sia rimasto con noi per trent’anni dopo la caduta del Tibet, insegnando nelle regioni himalayane, in India, in Europa, in Asia e negli Stati Uniti! Che fortuna avere centinaia di ore di registrazioni con la sua voce e i suoi insegnamenti, video che trasmettono almeno in parte la maestosità della sua presenza, traduzioni in inglese e in altre lingue delle più ricche effusioni della sua mente di saggezza! Mi riferisco soprattutto agli insegnamenti che diede, nell’ultimo anno di vita, in Francia vicino a Grenoble. Lì, guardando le valli e le montagne in un paesaggio che ricordava la maestosità del Tibet, trasmise i principali insegnamenti Dzogchen a millecinquecento studenti accorsi da ogni parte del mondo, molti dei quali, con mia grande gioia, erano miei studenti. Molti maestri presenti sentirono che, con quel gesto nel suo ultimo armo di vita, Dilgo Khyentse Rinpoche apponeva definitivamente il suo sigillo sulla trasmissione degli insegnamenti in Occidente, benedicendo quella trasmissione con il potere accumulato in molte vite di meditazione. Da parte mia, con sbalordita gratitudine, sentii che dava la sua benedizione anche a tutto ciò che avevo cercato di fare per diffondere gli insegnamenti in Occidente.

Pensare a Dilgo Khyentse Rinpoche e a ciò che ha fatto per l’umanità significa vedere incarnata in una persona la grandezza del dono che il Tibet porta al mondo.

Mi è sempre parso molto più di una coincidenza che il Tibet sia caduto nel 1959, proprio nel momento in cui l’Occidente stava aprendo la mente e il cuore alle tradizioni della saggezza orientale. In quel momento di ricettività occidentale, molti dei più profondi insegnamenti preservati nella solitudine delle montagne del Tibet poterono essere trasmessi all’umanità. Ora occorre preservare a ogni costo questa viva tradizione di saggezza, perché per trasmettercela i tibetani hanno affrontato inenarrabili sofferenze. Teniamoli sempre nel nostro cuore, e impegniamoci perché il Tibet e le sue tradizioni siano restituiti ai tibetani. I grandi insegnamenti che ho condiviso con voi in questo libro non possono essere praticati apertamente dal popolo che li ha conservati per tanto tempo. Possa venire presto il giorno in cui i monasteri tibetani risorgeranno dalle macerie e le ampie distese del Tibet saranno di nuovo dedicate alla pace e alla ricerca dell’illuminazione.

Forse il futuro dell’umanità dipende in gran parte dalla ricostruzione di un Tibet libero, un Tibet che funga da santuario per i ricercatori di tutte le fedi, che sia il cuore di saggezza per l’evoluzione del mondo, il laboratorio in cui le più alte intuizioni e le tecnologie sacre siano verificate, migliorate e usate, come lo sono state per tanti secoli, come aiuto e fonte di ispirazione per tutta l’umanità nell’ora del pericolo. È difficile trovare l’ambiente adatto a praticare la saggezza in un mondo come il nostro; per questo un Tibet ripristinato, purificato dalla tragedia e con la rinnovata determinazione che nasce dalla passata sofferenza, potrebbe costituire l’ambiente indispensabile all’evoluzione dell’umanità.

Dedico questo libro alle centinaia di migliaia di tibetani che hanno trovato la morte in quell’atmosfera di terrore, testimoniando la loro fede e la meravigliosa visione degli insegnamenti del Buddha, e a tutti quelli che in questo secolo sono morti in situazioni altrettanto spaventose: agli ebrei, ai cambogiani, ai russi, alle vittime delle due guerre mondiali, a tutti i morti abbandonati e dimenticati, a tutti coloro che sono privati della possibilità di seguire una via spirituale.

Molti maestri ritengono che gli insegnamenti tibetani stiano entrando in una nuova epoca, e molte profezie di Padmasambhava e di altri mistici ne hanno preannunciato la diffusione in Occidente. Ora che il tempo è venuto, so che gli insegnamenti rivivranno di nuova vita. Questa nuova vita porterà con sé dei cambiamenti, ma credo che ogni adattamento debba nascere da una comprensione vera per evitare di tradire la purezza della tradizione e la sua forza, l’aspetto atemporale della sua verità. Solo la fusione di una profonda comprensione della tradizione e una reale consapevolezza dei problemi e delle sfide della vita moderna consentirà adattamenti che rafforzeranno, amplieranno e arricchiranno la tradizione, rivelando livelli degli insegnamenti ancora più profondi e rendendoli più adatti ad affrontare le difficoltà dell’epoca moderna.

Molti grandi maestri tibetani venuti in Occidente negli ultimi trent’anni sono morti, e sono certo che, morendo, pregavano perché gli insegnamenti possano essere di beneficio non solo ai tibetani, non solo ai buddhisti, ma al mondo intero. Credo che conoscessero esattamente quale valore e messaggio avrebbero potuto avere gli insegnamenti quando il mondo moderno fosse stato pronto a riceverli. Penso a Dudjom Rinpoche e al Karmapa, che scelsero di morire in Occidente come per benedirlo con il potere della loro illuminazione. Che le loro preghiere per la trasformazione del mondo e per l’illuminazione del cuore e della mente dell’umanità siano esaudite! È che noi, che abbiamo ricevuto gli insegnamenti, possiamo assumerne la responsabilità e sforzarci di incarnarli! La sfida più grande del trapianto di insegnamenti spirituali come il Buddhismo dalla loro antica sede in Occidente sta nel trovare, in un mondo inquieto, veloce e turbolento, il modo di praticarli con la calma e la solida coerenza che richiedono perché la verità che contengono possa essere realizzata. La pratica spirituale è la forma di educazione più alta e sotto molti aspetti più esigente, e va sviluppata con l’impegno e l’applicazione sistematica richiesti da ogni altro studio. Come possiamo credere che diventare medici richieda anni di studio e di pratica, mentre per seguire un sentiero spirituale basti qualche benedizione, qualche iniziazione e incontri occasionali con diversi maestri? In passato si restava in un unico luogo e si seguiva un maestro per tutta la vita. Pensiamo a Milarepa, che trascorse anni al servizio di Marpa prima di raggiungere la maturità spirituale per praticare da solo.

L’educazione spirituale richiede una trasmissione continua, esige di lavorare con un maestro e di imparare, seguendolo con ardore e sottile abilità.

L’interrogativo principale a proposito degli insegnamenti nel mondo moderno è come aiutare e ispirare quanti li seguono a trovare il giusto ambiente, tanto interiore che esterno, per praticarli nella loro completezza, per realizzarne l’essenza e incarnarla.

Tutte le vie mistiche affermano che c’è, dentro di noi, un immenso serbatoio di forza, la forza della saggezza e della compassione, quel potere che Cristo chiamava il Regno dei cieli. Se impariamo a farne uso, e questo è lo scopo della ricerca dell’illuminazione, ne verremo trasformati non solo noi ma il mondo intero. C’è mai stata un’epoca in cui l’uso cosciente di questo sacro potere fosse più importante e più urgente? C’è mai stata un’epoca in cui fosse più vitale comprendere la natura di questa forza pura e come incanalarla e usarla per il bene del mondo? Prego perché i lettori di questo libro possano conoscere e avere fede nel potere dell’illuminazione; possano conoscere la natura della mente perché conoscerla significa generare, alla base dell’essere, una comprensione che cambia il modo di vedere il mondo, che fa scoprire e sviluppa, naturalmente e spontaneamente, il desiderio compassionevole di servire tutti gli altri assieme al modo migliore per farlo, quali che siano le vostre capacità e le circostanze. Prego perché possiate conoscere, nel profondo dell’essere, la verità vivente di queste parole di Nyoshul Khenpo:

Può nascere una naturale compassione per tutti gli esseri che non hanno realizzato la loro vera natura. È talmente infinita che se le lacrime potessero esprimerla, piangereste in continuazione. Non solo la compassione, ma quando comprendete la natura della mente possono prodursi enormi abili mezzi. Siete naturalmente liberati da ogni sofferenza e ogni paura, come la paura della nascita della morte e dello stato intermedio. Per descrivere la gioia e la beatitudine che nasce dalla realizzazione, dicono i Buddha che se anche radunassimo tutto lo splendore, il piacere e la felicità del mondo non arriveremmo a una minuscola parte della gioia che nasce dalla realizzazione della natura della mente.

Servire il mondo a partire dall’unione dinamica di saggezza e compassione implica l’impegno attivo alla preservazione del pianeta. I maestri di tutte le tradizioni religiose hanno capito che l’educazione spirituale è essenziale non solo per i monaci e le monache ma per tutti gli uomini, qualunque sia la loro fede o il loro modo di vita. In questo libro ho cercato di evidenziare la natura pratica, attiva e sostanzialmente pragmatica dello sviluppo spirituale. Come dice un famoso maestro tibetano: “Quando il mondo è colmo di mali, tutte le avversità vanno trasformate nel sentiero dell’illuminazione”. Il pericolo in cui tutti ci troviamo esige di non considerare lo sviluppo spirituale come un lusso, ma come necessario alla sopravvivenza stessa.

Proviamo a immaginare un mondo in cui un gran numero di persone accolga l’occasione offerta dagli insegnamenti, dedichi in parte la vita a una seria pratica spirituale, riconosca la natura della mente e utilizzi l’opportunità rappresentata dalla morte per avvicinarsi ancora di più alla buddhità e per rinascere allo scopo di servire e aiutare gli altri.

Questo libro è una sorta di manuale di tecnologia sacra per trasformare non solo questa vita, non solo la morte, ma anche le vostre vite future e quindi il futuro dell’umanità. Ciò che i miei maestri e io ci auguriamo da queste pagine è un balzo in avanti verso l’evoluzione cosciente dell’umanità. Imparare a morire è imparare a vivere, imparare a vivere è imparare ad agire non solo in questa vita ma anche in quelle a venire.

Trasformare realmente voi stessi, e rinascere come esseri trasformati per il bene degli altri, significa dare al mondo l’aiuto più potente.

L’intuizione più compassionevole della mia tradizione, e il suo più nobile contributo alla saggezza spirituale dell’umanità, è stata l’interpretazione e la continua attuazione dell’ideale del bodhisattva, colui che prende su di la sofferenza di tutti gli esseri senzienti, che procede nel cammino della liberazione non solo per il proprio bene ma per il bene di tutti, e che, raggiunta l’illuminazione, non si dissolve nell’assoluto e non rifugge il tormento del samsara ma decide di ritornare infinite volte offrendo la sua saggezza e la sua compassione al servizio del mondo. Il mondo ha bisogno soprattutto di veri servitori della pace “rivestiti”, come dice Longchenpa, “della corazza della perseveranza”, dediti alla visione del bodhisattva e alla diffusione della saggezza in tutti i campi dell’esperienza. Abbiamo bisogno di avvocati bodhisattva, artisti e politici bodhisattva, medici ed economisti bodhisattva, educatori e scienziati bodhisattva, tecnici e ingegneri bodhisattva, bodhisattva ovunque che operino come canali consapevoli di compassione e saggezza a ogni livello sociale e in ogni situazione, impegnati nella trasformazione della mente e dell’azione propria e degli altri, lavorando instancabili nella certezza dell’appoggio dei buddha e degli esseri illuminati per la preservazione del nostro mondo e per un futuro migliore.

Come scrive Teilhard de Chardin: “Un giorno, dopo aver dominato il vento, le onde, le correnti e la gravità… sfrutteremo… le energie dell’amore.

Allora, per la seconda volta nella storia dell’umanità, l’uomo avrà scoperto il fuoco”. Nella splendida preghiera di Rumi:

Amore, puro amore profondo! Che tu sia qui, sia ora, sia tutto! I mondi si dissolvono nella tua immacolata, infinita radiosità con te le fragili foglie ardono più vivide delle fredde stelle; fai di me il tuo servo, il tuo respiro, il tuo centro.

Una delle mie più profonde speranze è che questo libro possa diventare il fedele, leale compagno di tutti coloro che hanno fatto la scelta di diventare bodhisattva, una fonte di guida e ispirazione per quanti vogliono realmente affrontare le sfide di quest’epoca e procedere sulla via dell’illuminazione mossi dalla compassione per gli esseri. Che non si sentano mai stanchi o delusi, che non abbandonino mai la speranza di fronte a qualunque ostacolo, qualunque difficoltà, qualunque timore. Possano gli ostacoli indurre una determinazione ancora maggiore. Possano avere fede nell’amore e nel potere immortale di tutti gli esseri illuminati che hanno benedetto e continuano a benedire la terra con la loro presenza. Possano trovare incoraggiamento, come io l’ho sempre trovato, nell’esempio vivente dei grandi maestri, uomini e donne come noi che con immenso coraggio si sono impegnati a seguire le ultime parole del Buddha, sforzandosi con tutto il loro essere di ottenere la perfezione. Possa, attraverso i nostri sforzi, realizzarsi la visione dei mistici di tutte le tradizioni, la visione di un mondo libero dalla crudeltà e dalla violenza, dove l’umanità viva nella felicità suprema della natura della mente. Preghiamo insieme per questo mondo migliore, prima con le parole di Shantideva e poi con quelle di san Francesco:

Finché esisterà lo spazio e finché ci saranno esseri senzienti, possa io rimanere per alleviare l’infelicità del mondo.

Oh Signore, fa di me uno strumento della tua Pace: Dove è odio, fa ch’io porti l’Amore. Dove è offesa, ch’io porti il Perdono. Dove è discordia, ch’io porti l’Unione. Dove è dubbio, ch’io porti la Fede. Dove è errore, ch’io porti la Verità. Dove è disperazione, ch’io porti la Speranza. Dove è tristezza, ch’io porti la Gioia. Dove sono le tenebre, ch’io porti la Luce. Oh! Maestro, fa ch’io non cerchi tanto. Ad essere consolato, quanto a consolare. Ad essere compreso, quanto a comprendere. Ad essere amato, quanto ad amare. Poiché: Si è: Dando, che si riceve; Perdonando, che si è perdonati; Morendo, che si risuscita a Vita Eterna.

Dedico questo libro a tutti i miei maestri. Possano, quanti di loro sono morti, vedere esaudite le loro aspirazioni; e quanti sono ancora in vita, possano vivere a lungo. Possa la loro grande opera sacra avere sempre più successo, possano í loro insegnamenti Ispirare, incoraggiare e rincuorare tutti gli esseri. Prego con tutto il cuore per una pronta rinascita di Dilgo Khyentse Rinpoche, nella forma più illuminata e più potente possibile, per aiutarci nei pericoli dell’epoca odierna!

Lo dedico inoltre a tutti coloro di cui ho parlato in queste pagine e che sono morti: Lama Tseten, Lama Chokden, Samten, Ani Pelu, Ani Rilu e A-pe Dorje.

Ricordateli nelle vostre preghiere e ricordate anche i miei studenti che sono morti e che stanno morendo in questo momento, dal cui coraggio e dalla cui devozione ho tratto enorme ispirazione.

Lo dedico infine a tutti gli esseri, viventi, morenti o morti. Possano tutti coloro che stanno in questo momento attraversando il processo della morte morire in pace, liberi da dolore e paura. Possano tutti coloro che in questo momento stanno nascendo, e coloro che si dibattono in questa vita, ricevere nutrimento dalle benedizioni dei Buddha, possano incontrare gli insegnamenti e incamminarsi sul sentiero della saggezza. Possa la loro vita essere felice e fruttuosa, libera da ogni pena. Possano i lettori di questo libro ricavarne grande e infinito beneficio, e possano questi insegnamenti trasformare il loro cuore e la loro mente. Questa è la mia preghiera.

Possano tutti gli esseri dei sei reami ottenere, tutti insieme, il fondamento della perfezione originaria!

Domande sulla morte

I progressi e lo sviluppo tecnologico della medicina hanno salvato un numero infinito di vite e alleviato indicibili sofferenze. Ma, nello stesso tempo, pongono interrogativi etici e morali molto complessi e spesso causa di scelte angoscianti per i morenti, i familiari e i medici. Dobbiamo, ad esempio, consentire che un nostro caro venga collegato a un’apparecchiatura di rianimazione? Possiamo prendere noi la decisione di scollegarlo? I medici debbono avere il potere di mettere fine a una vita per non prolungare l’agonia? E i malati di una malattia terminale che li condanna a una morte lunga e dolorosa andrebbero incoraggiati, o persino aiutati, a togliersi la vita? Sono queste le domande che mi vengono rivolte più frequentemente, e vorrei esaminarne alcune.

Tenuti in vita

Solo quarant’anni fa quasi tutti morivano a casa, oggi invece si muore in prevalenza negli ospedali o nelle case di cura. La prospettiva di essere tenuti in vita da una macchina è reale e spaventosa. Ci si chiede sempre di più cosa si può fare per garantire una morte umana e dignitosa, non prolungando la vita senza necessità. È un problema complesso. Quando e come decidere se mantenere in vita un incidentato grave? E se è già in coma, se non può più parlare, se il processo degenerativo l’ha leso mentalmente? È un bambino nato con gravi deformazioni fisiche o con lesioni cerebrali?

Non ci sono risposte facili a domande del genere, ma si possono individuare alcuni fondamentali principi guida. Secondo l’insegnamento del Buddha la vita è sacra: tutti gli esseri hanno la natura di Buddha e la vita offre a tutti, come abbiamo visto, la possibilità dell’illuminazione. Non togliere la vita è uno dei principi basilari del comportamento umano. Ma il Buddha insorse fermamente contro il dogmatismo, e credo che non possiamo assumere un punto di vista sempre uguale, una posizione ‘ufficiale’, o stabilire regole universali. L’unica cosa da fare è agire con tutta la saggezza che possediamo, applicandola alle varie circostanze. Come sempre, tutto dipende dalla nostra motivazione e dalla compassione che la sorregge. Qual è il senso di mantenere artificialmente in vita una persona che altrimenti sarebbe già morta? Il Dalai Lama ha indicato al proposito un fattore essenziale: lo stato mentale del malato. “Dal punto di vista buddhista, se il morente ha anche una sola possibilità di generare pensieri positivi e virtuosi, è importante che possa vivere anche pochi minuti di più”. Inoltre mette in risalto la responsabilità della famiglia: “Se non c’è la possibilità che possa generare pensieri positivi, e se inoltre i parenti devono spendere molto denaro, mantenere semplicemente qualcuno in vita sembrerebbe privo di senso. Generalizzare è molto difficile, e ogni caso va esaminato singolarmente”.

Le tecniche di rianimazione e risuscitamento possono essere causa di disturbo, fastidio e distrazione nel momento critico della morte. Dagli insegnamenti buddisti e dai resoconti delle esperienze di pre-morte abbiamo visto che, anche nel coma, si può conservare la consapevolezza di tutto ciò che accade. I momenti che precedono la morte, la morte vera e propria e la separazione finale della coscienza dal corpo, sono momenti tremendamente importanti per tutti, ma soprattutto per un praticante spirituale che cerca di praticare o di rimanere nella natura della mente.

C’è il pericolo che le tecniche di rianimazione, se non fanno altro che prolungare il processo della morte, provochino soltanto inutile attaccamento, rabbia e frustrazione, specie se il morente non desiderava che fossero applicate. I parenti che devono prendere gravi decisioni, schiacciati dalla responsabilità di lasciar morire una persona cara, dovrebbero fare questa riflessione: se non c’è una speranza realistica di ripresa, la qualità degli ultimi giorni o delle ultime ore può essere molto più importante che tenere semplicemente il malato in vita. Inoltre, poiché non possiamo sapere se la coscienza è ancora nel corpo, rischiamo di imprigionarla in un corpo ormai inutile.

Dilgo Khyentse Rinpoche mi ha detto: Ricorrere ad apparecchiature di rianimazione se le persone non hanno nessuna possibilità di riprendersi, è inutile. Molto meglio lasciarle morire naturalmente in un’atmosfera serena, e fare azioni positive a loro beneficio.

Se il collegamento è allacciato ma non c’è più speranza, interromperlo non è un crimine. Se infatti non c è nessuna possibilità di sopravvivenza, state solo allungando la vita artificialmente.

Anche i tentativi di rianimazione possono essere inutili e ostacolare inutilmente il morente. Un medico scrive: L’ospedale esplode in un attacco di frenesia. Dozzine di persone si precipitano sul paziente nel disperato tentativo di risuscitarlo. La persona, clinicamente morta, è imbottita di droghe, trafitta da dozzine di aghi e sottoposta a scariche elettriche. I nostri ultimi istanti sono scanditi dalla lettura del battito cardiaco, del tasso di ossigeno nel sangue e del tracciato dell’elettroencefalogramma. Finalmente quando anche l’ultimo medico ne ha avuto abbastanza, l’isteria tecnologica si arresta.

Forse non volete essere collegati a un apparecchio di rianimazione né essere risuscitati, anzi volete essere lasciati indisturbati per qualche tempo dopo la morte clinica. Come poter essere sicuri che vi venga garantito l’ambiente sereno raccomandato dai maestri?

Anche se esprimete la volontà di usufruire o di rifiutare determinati trattamenti clinici, il vostro desiderio può non essere rispettato. Se i parenti non condividono i vostri desideri, potrebbero richiedere particolari interventi medici persino mentre siete ancora coscienti e in grado di parlare. Purtroppo non è insolito che i medici assecondino i desideri dei familiari invece di quelli dei morenti. Per tutti questi motivi, il modo migliore per avere un certo controllo sulle cure mediche che ricevete è morire in casa.

In alcuni paesi esiste una Carta dei Diritti dei vivi (“Living Wills”) che vi la possibilità di scegliere gli interventi medici a cui acconsentite quando non sarete più in condizioni di esprimervi. È una precauzione molto sensata e di grande aiuto per i medici che si trovano di fronte a un dilemma. Purtroppo non hanno valore legale, né possono prevedere tutte le complessità della situazione. Negli Stati Uniti potete stilare davanti a un notaio un documento chiamato “Durable Power of Attorney for Health Care”. È il modo migliore per precisare le vostre scelte e fare in modo che, entro i limiti del possibile, vengano rispettate. Con questo documento delegate una persona fornita di autorità legale, che è a conoscenza delle vostre scelte e delle vostre preferenze, a tutelarvi durante la malattia e a prendere in vostro nome le decisioni cruciali.

Io vi consiglio di accertarvi che il medico sia d’accordo nell’accogliere le vostre scelte, soprattutto per quanto riguarda il rifiuto della rianimazione al momento dell’arresto cardiaco. Assicuratevi che il vostro medico informi il personale dell’ospedale e che disponga di un documento scritto di vostro pugno con i vostri desideri da esporre accanto alla cartella clinica. Discutete con la famiglia i particolari della vostra morte. Chiedete ad amici e familiari di avvisare il personale medico di scollegare qualunque apparecchiatura di monitoraggio quando il processo del morire sia iniziato e, se possibile, di trasferirvi dal reparto di rianimazione a una stanza privata. Studiate tutte le possibilità per rendere l’ambiente silenzioso, tranquillo e privo di panico.

Lasciare che la morte avvenga

Nel 1986 l’Associazione Medica Americana stabilì la legittimità etica, per i medici, di interrompere le terapie di rianimazione, compresa l’alimentazione via sonda, per malati terminali ormai prossimi alla morte e per casi di coma irreversibile. Quattro anni dopo, un sondaggio Gallup rivelò che l’ottantaquattro per cento degli americani preferiva l’interruzione della rianimazione in assenza di possibilità di ripresa.

La decisione di limitare o sospendere le terapie di rianimazione è chiamata spesso ‘eutanasia passiva’. Si lascia che la morte avvenga naturalmente, astenendosi da procedure mediche o interventi straordinari che non farebbero che allungare la vita di pochi giorni o di poche ore. Questo significa non ricorrere a terapie o trattamenti aggressivi già in fase di morte, non utilizzare o scollegare l’apparecchiatura di rianimazione e l’alimentazione via sonda, e non ricorrere alla rianimazione cardiaca. L’eutanasia passiva consiste anche nella decisione, da parte dei medici e dei familiari, di non curare un’eventuale complicanza. Ad esempio, non curare una polmonite che si può presentare negli stadi finali di un tumore osseo porta a una morte più tranquilla, meno dolorosa e meno ritardata.

E per quanto riguarda i malati terminali che scelgono di esser scollegati dalle apparecchiature di rianimazione? Mettendo fine alla propria vita, commettono un’azione negativa? Kalu Rinpoche ha dato una risposta molto precisa:

Decidere di avere sofferto abbastanza e voler essere lasciati morire, non è una situazione che potremmo definire virtuosa o non virtuosa. Certamente non possiamo biasimare nessuno per una decisione del genere. Non è un’azione karmicamente negativa ma il semplice desiderio di evitare la sofferenza, che è il desiderio fondamentale di tutti gli esseri. La decisione non è, tuttavia, nemmeno un’azione particolarmente virtuosa… Non si tratta del desiderio di mettere fine alla propria vita, ma del desiderio di mettere fine alla sofferenza. Perciò è un’azione karmicamente neutra.

E se il nostro caro ci chiede di scollegarlo dalle apparecchiature di rianimazione? Sentiamo ancora Kalu Rinpoche:

Può darsi che non possiamo far niente per salvare una persona, che non possiamo far niente per alleviarne la sofferenza. Ma cerchiamo di fare del nostro meglio, mossi dalla motivazione più pura possibile. Qualunque cosa facciamo, anche se non produce nessun risultato, non può essere ritenuta karmicamente dannosa o negativa.

La richiesta, da parte di un malato, di scollegarlo dalle apparecchiature di rianimazione pone il medico in una difficile situazione, perché l’istinto può dire: “Se resta collegato, il paziente continuerà a vivere. Se stacco il collegamento, morirà”. Le conseguenze karmiche dipendono dalla motivazione del medico, che comunque priva una persona della possibilità di rimanere in vita, anche se gli è stato chiesto espressamente di farlo. Ma se la motivazione profonda del medico è aiutare il malato e alleviarne la sofferenza, parrebbe che da un tale stato mentale non possa derivare niente di karmicamente negativo.

Scegliere di morire

L’indagine Gallup del 1990 rivela inoltre che il sessantasei per cento della popolazione degli Stati Uniti ritiene che, in caso di grande sofferenza e dove non ci sia ‘speranza di miglioramento’, si abbia il diritto morale di togliersi la vita. Si stima che in Olanda diecimila persone all’anno scelgano l’eutanasia. Il medico deve provare che il malato ha dato il suo assenso, che è stato informato di tutte le possibilità, e di essersi consultato con un collega. Negli Stati Uniti un libro che descrive i vari modi di suicidio per malati terminali è rapidamente diventato un bestseller, e sono sorti movimenti che si battono per legalizzare l’eutanasia attiva o ‘morte assistita’.

Che cosa accadrebbe se l’eutanasia diventasse legale? Molti temono che malati etichettati come terminali, soprattutto se in preda a forti dolori, possano scegliere la morte anche se il dolore è ancora sopportabile e se c’è ancora possibilità di sopravvivenza. Altri temono che gli anziani si sentano in dovere di morire, optando per il suicidio semplicemente per far risparmiare alla famiglia tempo e denaro.

Molte persone che si dedicano all’assistenza ai morenti ritengono che un’intensificata cura e attenzione sia la risposta alle richieste di eutanasia. Richiesta della sua opinione in merito alla legislazione sull’eutanasia ancora allo studio, Elisabeth Kubler-Ross ha risposto: “È triste richiedere una legislazione anche su punti come questo. Credo che dovremmo ricorrere alla nostra sensibilità umana e affrontare la nostra paura della morte. Allora sapremmo rispettare i desideri del malato e il problema non sussisterebbe”.

Molti temono di non poter affrontare il momento della morte, di ritrovarsi paralizzati o privati delle facoltà mentali, di essere sopraffatti da dolori intollerabili e inutili. Gli insegnamenti buddhisti ci parlano di un diverso atteggiamento nei confronti del dolore, come spiega chiaramente il Dalai Lama:

La vostra sofferenza è causata dal vostro karma e dovete subirne gli effetti in questa vita o in un’altra, a meno che non riusciate a purificarlo. Per questo è preferibile sperimentare il proprio karma in questa vita in forma umana che ci la possibilità di affrontarlo meglio, ad esempio, di un animale che è privo di strumenti e che per questo soffre ancora di più.

Secondo gli insegnamenti buddisti, dovremmo fare tutto il possibile per aiutare il morente ad affrontare l’aggravarsi delle condizioni, il dolore e la paura, con quell’appoggio amorevole che darà un significato alla fine della sua esistenza. Dice Cicely Saunders, fondatrice del St. Christopher’s Hospice di Londra: “Se uno dei nostri pazienti richiede l’eutanasia, significa che non stiamo facendo bene il nostro lavoro”. Si dichiara contraria alla legalizzazione dell’eutanasia, perché:

La nostra società non è così povera da non poter impegnare tempo, sforzi e denaro per assistere chi sta morendo fino al momento della morte. È nostro dovere nei confronti di tutti alleviare il dolore che imprigiona nella paura e nell’amarezza. Per fare ciò, non dobbiamo uccidere… Legalizzare l’eutanasia volontaria [attiva] è un atto irresponsabile che nega l’aiuto, esercita pressioni su chi è in condizioni di vulnerabilità, annulla il rispetto e la responsabilità nei confronti dei vecchi e dei malati, i disabili e i morenti.

“Che cosa accade alla coscienza di un feto su cui viene praticato l’aborto, o di un bambino che muore ancora molto piccolo?”.

Dilgo Khyentse Rinpoche ha risposto: La coscienza di chi muore prima ancora di nascere, mentre viene alla luce o nei primissimi momenti, riattraversa gli stati del bardo e prende una nuova nascita. Anche in questi casi possiamo fare le pratiche e azioni meritorie che dedichiamo ai defunti: pratiche di purificazione, recitazione del mantra di Vajrasattva, offerte di luce, purificazione delle ceneri, e così via.

Nel caso di un aborto i genitori in preda al rimorso possono, oltre alle pratiche usuali, prendere coscienza del rimorso e seguire con il massimo ardore la pratica di purificazione di Vajrasattva. Inoltre possono fare offerte di luce, salvare altre vite, aiutare gli altri e collaborare a progetti

umanitari o spirituali, dedicando tutte le loro azioni al benessere e all’illuminazione futura della coscienza del bambino.

Che cosa accade alla coscienza di un suicida?“. Dilgo Khyentse Rinpoche ha risposto:

La coscienza di una persona che si è suicidata non ha altra possibilità che seguire il proprio karma negativo, e può accadere che uno spirito malvagio si impossessi della sua forza vitale. In caso di suicidio, un maestro dotato di molto potere deve celebrare pratiche particolari, come ad esempio la cerimonia del fuoco, per liberare la coscienza del suicida.

“È giusto donare gli organi? Che cosa accade se vengono asportati mentre è ancora in atto la circolazione sanguigna o prima che si sia concluso il processo della morte? Non danneggia o disturba la coscienza nei momenti precedenti la morte?”.

I maestri a cui ho sottoposto la domanda hanno risposto uniformemente che donare gli organi è un’azione molto positiva, poiché nasce da un genuino desiderio compassionevole di essere utili agli altri. Se questa è davvero la volontà della persona, la sua coscienza non ne sarà danneggiata in alcun modo all’uscita dal corpo. Anzi, un’ultima azione motivata da generosità genera buon karma. Un maestro ha specificato che qualunque dolore o sofferenza provata nell’asportazione degli organi si trasforma in buon karma.

Dilgo Khyentse Rinpoche puntualizzò che: “Se la morte è questione di momenti, e la persona ha espresso il desiderio di donare i propri organi e la sua mente è permeata di compassione, si può procedere all’asportazione anche se il cuore non ha ancora cessato di battere”.

“È la crionica, cioè il procedimento di congelare il corpo o soltanto la testa per attendere che la scienza medica faccia progressi tali da risuscitarci in futuro?”.

Dilgo Khyentse Rinpoche definisce la crionica una cosa totalmente priva di senso. La coscienza non può rientrare nel corpo una volta sopravvenuta la morte. La speranza di poter risuscitare il corpo in un lontano futuro rischia di intrappolare la coscienza in un tragico attaccamento a questo corpo, aumentando drammaticamente la sofferenza e bloccando il processo della rinascita. Un maestro ha paragonato la crionica ad arrivare direttamente in un inferno freddo senza passare per il bardo.

“Cosa possiamo fare per una persona anziana, ad esempio per un padre che soffre di demenza senile”

Ovviamente in questi casi non serve parlare degli insegnamenti, ma possiamo praticare tranquillamente o recitare i mantra o i nomi dei Buddha in presenza del malato. Spiega Kalu Rinpoche:

Così pianterete dei semi. Le vostre aspirazioni e l’interesse altruistico sono molto importanti in situazioni come questa. Se volete offrire aiuto a un padre in queste infelici condizioni, dovete farlo con le migliori intenzioni, mossi da una vera preoccupazione per il suo benessere e la sua felicità in un punto fondamentale del vostro rapporto… Il legame karmico tra geni ton e figli e molto forte, e proprio la sua forza può produrre effetti benefici a livello sottile, se il nostro rapporto con i genitori è sotto l’insegna della compassione e se la nostra pratica spirituale non è diretta soltanto al nostro bene ma al bene di tutti gli esseri, in questo caso soprattutto al bene del genitori.

Due resoconti

I miei studenti e i miei amici occidentali mi hanno riferito molti casi toccanti di persone aiutate, nella morte, dagli insegnamenti del Buddha. Vorrei comunicarvi due casi di miei studenti e il modo in cui hanno affrontato la morte.

DOROTHY

Dorothy era una mia studentessa che morì di cancro al St. Christopher’s Hospice di Londra. Aveva talento per la pittura e il ricamo, era una storica dell’arte, guida turistica, cromoterapeuta e guaritrice. Suo padre era un apprezzato guaritore, e lei aveva un grande rispetto per tutte le religioni e tradizioni spirituali. Negli ultimi anni della vita scoprì il Buddhismo e ne rimase, come si espresse, ‘agganciata’, riconoscendo che gli insegnamenti le avevano dato la visione più completa e convincente della natura della realtà.

Ascoltiamo dalle parole dei suoi amici spirituali, che la assistettero nella morte, come gli insegnamenti aiutarono Dorothy negli ultimi momenti.

La morte di Dorothy fu di grande ispirazione per tutti noi. Morì con grande soavità e dignità, e tutti quelli che le furono vicini avvertirono la sua forza: medici, infermieri, volontari, gli altri malati e, non ultimi, i suoi amici spirituali che ebbero la fortuna di rimanerle accanto nelle ultime settimane.

Quando andammo a trovarla a casa prima del ricovero, era ormai evidente che il cancro aveva raggiunto una fase aggressiva invadendo gli organi. Assumeva morfina da più di un anno, non riusciva quasi a mangiare e bere, eppure non si lamentava mai e non avreste immaginato che in realtà provava dolori terribili. Era dimagrita moltissimo, e in alcuni momenti era evidentemente spossata. Ma, ogni volta che gli amici andavano a trovarla, era pronta a salutarli e a parlare con loro, sempre serena e premurosa, emanando un’energia e una gioia palpabili. Una delle cose che preferiva era stare sdraiata sul divano ad ascoltare i nastri degli insegnamenti di Sogyal Rinpoche. Quando Rinpoche le mandò alcune cassette da Parigi, dicendo che per lei avevano un significato speciale, ne fu estasiata.

Pianificò la propria morte nei minimi particolari. Non voleva far pesare su altri faccende irrisolte, e dedicò mesi a mettere tutto a posto. Non manifestava nessuna paura di morire, ma voleva essere sicura che non rimanesse nulla in sospeso, per affrontare la morte senza altri pensieri. Ricavava grande conforto dal sapere di non aver mai fatto del male a nessuno, di aver ricevuto gli insegnamenti e di averli seguiti. Come diceva: “Ho fatto i miei compiti”.

Quando venne il momento di essere ricoverata e di lasciare per sempre il suo appartamento (che era stato pieno di splendidi tesori collezionati negli anni), portò con sé solo una piccola valigetta e non si fermò neppure per dare un’ultima occhiata. Aveva ormai dato via tutto ciò che possedeva, conservando una piccola fotografia di Rinpoche che teneva sempre con sé e un libretto di meditazioni scritto da Rinpoche. Aveva riassunto le sue necessità in quella piccola valigetta, che chiamava ‘viaggiare leggera’. Affrontò la partenza molto pragmaticamente, come se dovesse andare solo al negozio all’angolo.

Disse soltanto: “Ciao ciao, casa”, agitò la mano e uscì.

La stanza che occupava all’ospedale divenne un luogo speciale. C’era sempre una candela accesa sul tavolino sotto il ritratto di Rinpoche e una volta, quando le chiesero se avrebbe avuto piacere di parlargli, sorrise e guardando la fotografia disse: “Non ce n’è bisogno, lui è sempre qui”. Ricordava spesso il consiglio di Rinpoche di creare l’ambiente giusto e fece appendere alla parete davanti a un quadro che raffigurava un bellissimo arcobaleno.

C’erano fiori ovunque, portati dai visitatori. Dorothy tenne in mano la situazione fino alla fine, e la sua fiducia negli insegnamenti non vacillò mai, nemmeno per un attimo. Sembrava che fosse lei ad aiutare noi, e non il contrario! Era invariabilmente allegra, fiduciosa e piena di spirito, con una dignità che sapevamo sgorgare dal suo coraggio e dalla sua fiducia in se stessa. La gioia con cui ogni volta ci accoglieva, ci aiutò a capire che la morte non è per nulla tetra o terrificante. Questo fu il suo dono per noi, che ci faceva sentire onorati e privilegiati di poterle essere accanto.

Arrivammo al punto da dipendere noi dalla sua forza, e fu umiliante accorgerci che era lei ad avere bisogno della nostra energia e del nostro appoggio. Stava discutendo i particolari del funerale quando improvvisamente ci rendemmo conto che ciò di cui sentiva il bisogno era di lasciar andare tutti quei dettagli e rivolgere interamente l’attenzione su se stessa. E aveva bisogno che le dessimo il permesso di farlo.

Morì in modo difficile e doloroso, e si comportò come un guerriero. Cercava di fare tutto quello che le era possibile per alleviare il lavoro delle infermiere, finché il corpo non le obbedì più. Una volta, quando riusciva ancora ad alzarsi dal letto, un’infermiera le chiese con molto tatto se voleva usare la seggetta. Dorothy si tirò su a fatica, rise e disse: “Guardate com’è ridotto questo corpo!”, mostrandoci il suo corpo diventato praticamente uno scheletro. Mentre il suo corpo si disfaceva, il suo spirito era radioso e leggero. Sembrava accettare che il corpo avesse ormai fatto la sua parte, non era più realmente ‘suo’ ma qualcosa che aveva abitato e che ora era pronta ad abbandonare.

Nonostante la sua luminosità e la sua gioia, era evidente che morire non è facile. Fu, anzi, molto difficile. Ci furono momenti duri e strazianti, ma li visse con grazia e coraggio. Dopo una notte particolarmente tormentata, in cui era anche caduta, iniziò a temere di poter morire da un momento all’altro, da sola, e chiese che qualcuno rimanesse sempre con lei. Cosi iniziammo a darci il cambio per coprire tutte le ventiquattro ore.

Dorothy praticava ogni giorno, e la sua preferita era la pratica di purificazione di Vajrasattva. Rinpoche aveva raccomandato di leggerle gli insegnamenti sulla morte, che comprendevano la pratica del phowa. Spesso le leggevamo dei passi ad alta voce, cantavamo il mantra di Padmasambhava oppure restavamo in silenzio, sviluppando così un ritmo leggero e rilassato di pratica e riposo. A volte, dopo essersi appisolata, si risvegliava dicendo: “Oh, com’è bello!”. Nei momenti in cui si sentiva più in forze leggevamo dei passi degli insegnamenti del bardo perché imparasse a riconoscere le fasi per cui sarebbe passata. Tutti eravamo stupefatti dalla sua prontezza mentale e dalla sua attenzione, ma desiderava che la sua pratica fosse molto semplice: l’essenza. Quando arrivavamo per il cambio di ‘turno’ eravamo sempre colpiti dall’atmosfera serena della stanza. Dorothy era distesa con gli occhi bene aperti, fissi nello spazio, anche se dormiva, mentre la persona che le stava accanto era seduta in silenzio o recitava sotto voce i mantra.

Rinpoche telefonava spesso per avere notizie, e parlavano tranquillamente di quanto mancava alla morte. Dorothy si esprimeva in modo molto pratico, con frasi come: “Solo più pochi giorni, Rinpoche”. Un giorno l’infermiera arrivò col telefono dicendo: “Una chiamata da Amsterdam”. Dorothy si illuminò di gioia mentre rispondeva alla chiamata di Rinpoche. Dopo aver riattaccato, ci sorrise radiosamente dicendoci che Rinpoche l’aveva consigliata di lasciar perdere le letture e di “rimanere semplicemente nella natura della mente, rimanere nella luminosità”. Quando ormai la morte era prossima e Rinpoche la chiamò per l’ultima volta, Dorothy ci disse che le sue parole erano state: “Non dimenticarti di noi, chiamaci qualche volta!”.

Un’altra volta, quando il medico venne a controllare la medicazione, Dorothy gli disse, in modo diretto e disarmante: “Vede, io sono una studentessa di Buddhismo, e noi crediamo che alla morte si vedrà una grande luce. Credo di incominciare a coglierne dei barlumi, ma non credo di averla ancora vista davvero”. I medici erano stupiti dalla sua lucidità e dalla sua vitalità, soprattutto, ci dissero, nelle fasi terminali della malattia quando di norma sopravviene l’incoscienza.

Più la morte si avvicinava, più scompariva la differenza tra il giorno e la notte. Dorothy scendeva sempre più profondamente dentro se stessa. D volto cambiò colore, e i momenti di coscienza erano sempre più rari. Ci sembrava di poter cogliere i segni della dissoluzione degli elementi. Dorothy era pronta a morire ma il suo corpo no, perché aveva un cuore molto forte. Ogni notte era una prova, e al mattino era sorpresa che fosse spuntato un altro giorno. Non si lamentò mai, ma noi vedevamo la sua sofferenza. Facevamo di tutto per aiutarla e, quando non poté più assumere neppure liquidi, le bagnavamo le labbra. Fino alle ultime trentasei ore rifiutò cortesemente qualunque droga che annebbiasse la consapevolezza.

Negli ultimi istanti prima della morte, le infermiere le cambiarono posizione. Si era racchiusa in posizione fetale, il suo corpo si era ridotto a un niente, non poteva muoversi né parlare, ma gli occhi erano aperti e vivi, e fissavano il cielo attraverso la finestra. Nell’ultimo momento ebbe un impercettibile sussulto, guardò Debbie negli occhi e tentò di comunicare qualcosa con grande forza, uno sguardo di riconoscimento, come se dicesse: “Ecco, ci siamo”, e con un accenno di sorriso. Poi portò di nuovo lo sguardo al cielo, respirò una o due volte, e morì. Debbie le lasciò andare dolcemente la mano perché potesse continuare, indisturbata, la dissoluzione interiore.

Il personale dell’ospedale disse di non aver mai visto nessuno che fosse preparato alla morte come Dorothy, e molte persone, ancora un anno dopo la sua morte, ne ricordavano la figura e l’ispirazione.

RICK

Rick viveva nell’Oregon ed era malato di AIDS. Aveva lavorato come operatore di computer, e aveva quarantacinque anni quando, alcuni anni fa, partecipò al ritiro estero che tengo ogni anno negli Stati Uniti, e ci parlò di cosa significassero per lui la morte, la vita e il suo male. Fui sorpreso da quanto Rick prendesse a cuore gli insegnamenti buddisti, che studiava con me da non più di un paio d’anni. In quel breve periodo aveva colto, a modo suo, l’essenza degli insegnamenti: la devozione, la compassione e la Visione della natura della mente, e li aveva resi parte integrante della sua vita. Seduto su una sedia e rivolto verso di noi, ci parlò di quel che provava verso la morte. Spero che gli stralci che seguono trasmettano anche a voi le impressioni di quel commovente momento.

Due anni fa, quando seppi che dovevo morire, feci quello che era naturale: implorai, e mi fu risposto. Soffrii di febbri tremende per varie settimane, durante le quali pensavo di stare per morire nel cuore della notte… La devozione, l’invocazione… quando è tutto ciò che ci resta, abbiamo la promessa di Padmasambhava che lui è lì. Non mente, me l’ha dimostrato più volte.

Se non fosse per Padmasambhava che, come ci insegna Rinpoche, è la natura della nostra mente, la nostra natura di buddha, se non fosse per la sua fulgida, luminosa presenza, non potrei sopportare quello che sto passando. So che non potrei.

Per prima cosa ho capito che dobbiamo assumerci la responsabilità di noi stessi. Sto morendo perché ho l’AIDS La responsabilità è mia, nessun altro è da biasimare. Anzi, non c’è nessuno da biasimare, neppure me stesso. Ma me ne assumo la responsabilità.

Prima di conoscere il Buddhismo avevo fatto il voto, a me stesso e a qualunque dio esista, di voler essere felice. Quando… presi questa decisione, la mantenni. È molto importante se si vuole incominciare un qualunque lavoro sulla mente. Dobbiamo prendere la decisione di voler davvero cambiare. Se non lo vogliamo noi, nessuno farà il lavoro al nostro posto.

Il nostro compito… è di lavorare con gli aspetti quotidiani della nostra situazione. Anzitutto la gratitudine di essere in questo corpo e su questo pianeta. Per me fu la prima cosa: provare gratitudine per la terra, per gli esseri viventi. Ora che sento le cose andarsene a poco a poco, provo sempre più gratitudine per tutti e per tutto. La mia pratica è centrata su questa gratitudine, una continua offerta di lode alla vita, a Padmasambhava che vive nella moltitudine delle forme.

Non fate l’errore che ho fatto io per tanti anni: che ‘pratica’ significhi stare seduti eretti recitando mantra e pensando “Spero che finisca presto”. La pratica è molto più grande. La pratica è le persone che incontrate, la pratica è qualunque parola scortese che udite pronunciare, forse contro di voi.

La vera pratica inizia dal momento in cui vi alzate dal cuscino di meditazione. Dobbiamo essere abili e creativi nell’applicare la pratica alla vita. C’è sempre qualcosa nell’ambiente circostante da trasformare in occasione di pratica. Se sono troppo distratto per visualizzare Vajrasattva sopra la testa, mi alzo e lavo i piatti, e il piatto che tengo in mano è il mondo con tutti gli esseri sofferenti. Allora recito il mantra… OM VAJRA SATTVA HUM… e lavo la sofferenza degli esseri. Quando faccio la doccia, non è una doccia: è Vajrasattva che scende su di me. Quando esco nella luce del sole, è la luce di centinaia di migliaia di soli che splende dal corpo di Vajrasattva, mi entra dentro e io l’accolgo. Quando per la strada incontro una persona bella, all’inizio penso: “Com’è bella”, ma nell’attimo successivo la offro con tutto il cuore a Padmasambhava e la lascio andare. Dovete usare le situazioni quotidiane e trasformarle in pratica, altrimenti avrete soltanto parole vuote che non vi danno conforto, non vi danno forza quando arrivano i momenti difficili. “Un giorno andrò in paradiso, un giorno sarò un Buddha”, è solo un’idea. Non diventerete un buddha quel tal giorno, siete già Buddha adesso. Quando praticate, vi esercitate a essere ciò che siete…

È molto importante prendere le situazioni quotidiane e usarle. Come dice sempre Rinpoche, se praticate l’invocazione e la richiesta di aiuto, nei bardo vi verrà naturale fare lo stesso… Ho preso questo verso di Dudjom Rinpoche e ne ho fatto un mantra: “O lama dall’impagabile gentilezza, solo a te va il mio ricordo”. Ci sono giorni in cui è l’unico pensiero che riesco a formulare, l’unica pratica che mi riesce. Funziona bene.

Felicità, assumersi la propria responsabilità, gratitudine… non confondete una pratica morta e ritualistica con una pratica viva, incessante, dinamica, fluida, aperta e luminosa. Perché la mia esperienza, anche in questo momento, è che vedo Padmasambhava ovunque. So che possono sembrare solo parole, ma nel mio cuore so che non lo sono. Questa è la mia pratica. Tutti, soprattutto le persone con cui ho dei problemi, che rendono la vita difficile agli altri, per me sono la benedizione del maestro. Per me, questo male è la benedizione del maestro. È grazia. Così tanta grazia…

Ma tutto ciò è stato possibile perché ho educato la mente… All’inizio giudicavo in continuazione. Giudicavo questa persona e quell’altra, giudicavo il suo modo di guardare, giudicavo il suo modo di sedere, giudicavo: “Che brutta giornata, piove, è tutto grigio. Povero me… Amami… Aiutami…”. Ho incominciato così. Nella mia mente c’era un commento continuo. Ma feci il primo passo: scrivevo dei bigliettini e li attaccavo al frigorifero. “Non giudicare!”.

Quando date retta alla mente che sceglie sempre tra questo e quello, “Questo è buono… questo invece è cattivo, non lo voglio”, sempre tra paura e speranza, tra amore e odio, tra gioia e tristezza, quando vi afferrate a uno di questi estremi, la pace fondamentale della mente se ne va Un patriarca zen dice: “La grande Via non è difficile per chi non ha preferenze”. Perché la vostra natura di buddha è sempre lì, perché la felicità è ovunque.

Così cominciai a lavorare alla mente concettuale. All’inizio sembrava impossibile. Ma più praticavo… capii: se lasciate al suo posto tutto ciò che accade, tutto è perfetto, dov’è. Siate semplicemente con ciò che c’è e siate felici, perché sapete di avere la natura di Buddha.

Non si tratta di fare come se aveste la natura di buddha. Non è questo il punto. Il punto è la fiducia, che è fede. Il punto è la devozione, che è abbandonarsi. Questa, per me, è l’essenza. Se avete fiducia in ciò che dice il maestro, se studiate e vi sforzate di richiamare alla memoria gli insegnamenti nei momenti difficili allenando la mente a non ricadere nei modelli abituali, se riuscite a stare con ciò che accade, con nuda attenzione, incomincerete a notare che nulla rimane a lungo. Neppure i pensieri negativi. E non certo il nostro corpo. Tutto cambia. Se lasciate tutto al suo posto, si libererà.

In una situazione come la mia, quando la paura è così presente e predominante, quando vi sentite divorati dalla paura, dovete prendere in mano la mente. Ho capito che la paura non mi ucciderà, è soltanto qualcosa che passa nella mia mente. È un pensiero, e so che i pensieri si libereranno se lascio andare la presa. Capisco anche che è la stessa cosa che avviene nei bardo, quando una visione terrificante sembra venire verso di voi, ma in realtà viene da dentro di voi! È il fuoriuscire delle energie che abbiamo represso dentro il nostro corpo.

Allenando la mente ho ben presto scoperto che c’è un punto, un confine che dovete tracciare, oltre il quale non potete lasciar andare la mente. Se lo fate, c’è il rischio di problemi mentali, cupezza, rischiate di angosciare tutti quelli che vi circondano, per non dire altro. Oppure potete dare di testa. La gente di testa, diventa squilibrata credendo a quello che la mente gli dice circa la realtà. Tutti facciamo così, ma c’è una linea oltre la quale non potete andare… mi prendevano attacchi di panico. Credevo che ci fosse un grande buco nero davanti a me. Ma, poiché mi sono concesso il privilegio e la grazia di essere felice, non vedo più buchi neri.

Alcuni di voi mi sono più cari della mia stessa famiglia perché mi portate Padmasambhava in un altro modo, attraverso il vostro affetto, il vostro interessamento e il vostro amore. Non siete in ansia per il fatto che ho l’AIDS. Nessuno mi chiede: “Come l’hai preso?”. Nessuno insinua che sia una maledizione scagliata su di me, salvo un vecchio amico che una settimana fa mi chiamò e mi disse: “Non credi che Dio ti abbia mandato la sua maledizione?”.

Quando smisi di ridere, risposi: “Tu credi che Dio abbia maledetto la terra e che il corpo sia impuro, io invece credo che la benedizione, e non la maledizione, sia l’atto originario”. Da un tempo senza inizio, tutto è sempre stato puro, compiuto e perfetto.

Tutto ciò che faccio è rimanere nella radiosità. È dappertutto. Non potete fuggirne. È così inebriante che a volte mi sembra di galleggiare nella radiosità. Lascio semplicemente che Padmasambhava mi permetta di seguirlo, mentre vola nel cielo della mia mente.

Se fossi tra di voi ad ascoltare quello che sto dicendo, chiederei: “Allora, perché non sei guarito?”. È una domanda che mi hanno fatto realmente. Non che non ci abbia provato: ho comprato una valigia piena di pillole. Poi il problema è svanito. Credo che non volessi manipolare e interferire con il processo che si era innescato. Per me è un processo di purificazione. Ora so che consuma moltissimo karma. Forse è anche un processo di purificazione per mia madre, perché lo offro a lei. Anche lei soffre. Poi, in questo gruppo, ci sono amici spirituali che amo come fratelli e sorelle: anch’essi soffrono. Ho fatto un patto con Padmasambhava: se devo soffrire perché un po’ della mia sofferenza serva a pulire e purificare voi e me, che benedizione! Questa è la mia preghiera. E non sono uno di quelli a cui piace soffrire, ve lo garantisco! Ma sento che la sua grazia, la sua benedizione mi spingono dolcemente nella sofferenza.

Ora che ho studiato gli insegnamenti di Rinpoche sui bardo, la morte non è più un nemico. E nemmeno i nostri pensieri vanno considerati come nemici…

Nemmeno la vita è un nemico. La vita è splendida, perché grazie a essa possiamo risvegliarci al nostro vero essere.

Vi prego, dal profondo del cuore, di non sprecare l’opportunità, mentre avete la salute, di lavorare con ciò che Rinpoche vi offre… Lui sa come arrivare al punto quando parla e dà insegnamenti Dzogchen, sa come portarvi al cuore della cosa. È fondamentale, soprattutto quando vi state preparando a morire. Sono venuto per dirvi addio. Mentre sono qui… voglio dire addio a tutti voi che siete diventati miei fratelli e sorelle, che ho conosciuto ma non ho avuto il privilegio di conoscere meglio, e a tutti quelli che non conosco ancora… Sento che morirò nei prossimi sei mesi, ma potrebbe anche essere nei prossimi tre. Vi ho tutti nel cuore, vi vedo tutti luminosi e scintillanti. Nessuna oscurità. È la luce dal cuore di Padmasambhava, che ci pervade tutti. Grazie alla benedizione del maestro.

Due mantra

I due mantra più famosi in Tibet sono il mantra di Padmasambhava chiamato il mantra del Vajra Guru: OM AH HUM VAJRA GURU PADMA SIDDHI HUM; e quello di Avalokiteshvara, il Buddha della compassione: OM MANI PADME HUM. Come la maggior parte dei mantra sono in sanscrito, l’antica lingua sacra dell’India.

IL MANTRA DEL VAJRA GURU

Il mantra OM AH HUM VAJRA GURU PADMA SIDDHI HUM viene pronunciato dai tibetani: Om Ah Hung Benza Guru Péma Siddhi Hung. Vediamone il significato alla luce delle spiegazioni di Dudjom Rinpoche e Dilgo Khyentse Rinpoche.

OM AH HUM

Le sillabe OM AH HUM hanno un significato esterno, interno e ‘segreto’. A ognuno di questi livelli, OM è riferito al corpo, AH alla parola e HUM alla mente. Rappresentano la benedizione trasformatrice di corpo, parola e mente di tutti i Buddha.

Esternamente, OM purifica tutte le azioni negative commesse con il corpo, AH le azioni negative della parola, e HUM quelle della mente. Purificando il corpo, la parola e la mente, OM AH HUM concede la benedizione del corpo, della parola e della mente dei buddha.

OM è inoltre l’essenza della forma, AH l’essenza del suono e HUM l’essenza della mente. Recitando il mantra purificate l’ambiente, voi stessi e tutti gli esseri che vi si trovano. OM purifica le percezioni, AH i suoni e HUM la mente, con i pensieri e le emozioni.

Internamente, OM purifica i canali sottili; AH il vento, aria interna o flusso di energia; e HUM l’essenza creativa.

A livello più profondo, OM AH HUM rappresenta i tre kaya della famiglia di Loto dei buddha: OM è il Dharmakaya, il Buddha Amitabha, il Buddha della Luce infinita; AH è il Sambhogakaya, Avalokiteshvara, il Buddha della Compassione; e HUM è il Nirmanakaya, Padmasambhava. Nel caso di questo mantra, significa che i tre kaya sono unificati in Padmasambhava.

A livello ancora più interno, OM AH HUM consente la realizzazione dei tre aspetti della natura della mente: OM favorisce la realizzazione dell’energia e della compassione infinite, AH della natura radiosa, e HUM dell’essenza simile al cielo.

VAJRA GURU PADMA

VAJRA è paragonato al diamante, la pietra più dura e più preziosa. Come il diamante può tagliare ogni altra cosa ma di per sé è indistruttibile, l’immutabile saggezza non duale dei Buddha non può essere danneggiata o distrutta dall’ignoranza, ed è in grado di aprirsi un varco in tutte le illusioni e le oscurazioni. Le qualità e le attività del corpo, della parola e della mente di saggezza dei Buddha beneficiano gli esseri con il potere penetrante e inarrestabile del diamante. Come il diamante, il Vajra è privo di imperfezioni: la sua forza sfavillante proviene dalla realizzazione della natura di Dharmakaya della realtà, dalla natura del Buddha Amitabha.

GURU significa ‘pesante’ e indica una persona colma di meravigliose qualità, l’incarnazione della saggezza, della conoscenza, della compassione e degli abili mezzi. Come l’oro è il più pesante e il più prezioso dei metalli, le incommensurabili e integre qualità del Guru, il maestro, lo rendono insuperabile ed eccelso sopra ogni cosa. GURU corrisponde al Sambhogakaya e ad Avalokiteshvara, il Buddha della compassione. Padmasambhava, poiché insegna la via del Tantra simboleggiato dal Vajra, e poiché ha ottenuto la suprema realizzazione attraverso la pratica del Tantra, è conosciuto come il ‘Vajra Guru’.

PADMA significa ‘loto’ e indica la famiglia di Loto dei buddha, particolarmente nell’aspetto della parola illuminata. È la famiglia di buddha di cui gli esseri umani fanno parte. In quanto emanazione diretta, o Nirmanakaya, del Buddha Amitabha, che è il Buddha primordiale della famiglia del Loto, Padmasambhava è conosciuto come ‘Padma’. Il suo nome significa infatti ‘Nato dal loto’, in riferimento alla sua nascita da un bocciolo di fiore di loto.

Prese nel loro insieme, le sillabe VAJRA GURU PADMA convogliano l’essenza e la benedizione di Visione, Meditazione e Azione. VAJRA è l’essenza immutevole, adamantina e indistruttibile della verità, che preghiamo di realizzare nella Visione; GURU è la Natura di luminosità e le nobili qualità dell’illuminazione, che preghiamo di portare a perfezione nella meditazione; PADMA è la Compassione, che preghiamo di riuscire a mettere in pratica nell’Azione.

Recitando questo mantra riceviamo la benedizione della mente di saggezza, delle nobili qualità e della compassione di Padmasambhava e di tutti i Buddha.

SIDDHI HUM

SIDDHI significa ‘vero compimento’, ‘ottenimento’, ‘benedizione’ e ‘realizzazione’. Ci sono due tipi di siddhi: ordinarie e supreme. Ricevendo la benedizione delle siddhi ordinarie, vengono rimossi gli ostacoli come le malattie, le nostre buone aspirazioni vengono esaudite, godiamo di ricchezza, prosperità e lunga vita, e ogni circostanza diventa favorevole e propizia alla pratica spirituale e alla realizzazione dell’illuminazione.

La benedizione delle siddhi supreme dona l’illuminazione stessa, lo stato di completa realizzazione di Padmasambhava, che beneficia tanto noi stessi che gli altri esseri senzienti. Ricordando e pregando il corpo, la parola, la mente, le qualità e le attività di Padmasambhava, otterremo sia le siddhi ordinarie sia quelle supreme.

Viene detto che SIDDHI HUM attiri tutte le siddhi come una calamita attira la limatura di ferro.

HUM è la mente di saggezza dei Buddha, il sacro catalizzatore del mantra. Equivale a proclamarne il potere e la verità: “Così sia!”.

Il significato fondamentale del mantra è: “Ti invoco, Vajra Guru, Padmasambhava, perché con la tua benedizione possa concederci le siddhi ordinarie e supreme”.

Spiega Dilgo Khyentse Rinpoche: Si dice che le dodici sillabe OM AH HUM VAJRA GURU PADMA SIDDHI HUM racchiudano l’intera benedizione dei dodici tipi di insegnamento pronunciati dal Buddha, che costituiscono l’essenza dei suoi ottantaquattromila Dharma. Quindi, recitare una volta il mantra del Vajra Guru equivale alla benedizione di recitare… o di praticare l’intero insegnamento del Buddha. Questi dodici rami dell’insegnamento sono gli antidoti per liberarci dai ‘Dodici anelli dell’originazione interdipendente’ che ci legano al samsara: ignoranza, formazioni karmiche, coscienza concettuale, nome e forma, sensi, contatto, sensazione, brama, attaccamento, esistenza, nascita, vecchiaia e morte. Questi dodici anelli sono il meccanismo del samsara, ciò che lo mantiene in vita. Con la recitazione delle dodici sillabe del mantra del Vajra Guru, i dodici anelli sono purificati e potete rimuovere e purificare completamente le contaminazioni emotive karmiche, liberandovi così dal samsara.

Anche se non possiamo vedere Padmasambhava in persona, la sua mente di saggezza si manifesta nella forma del mantra; le dodici sillabe sono la reale emanazione della sua mente di saggezza, dotate di tutta la sua benedizione. Il mantra del Vajra Guru è Padmasambhava stesso in forma di suono. Invocandolo attraverso la recitazione delle dodici sillabe, otterrete benedizioni e meriti incalcolabili. In questi tempi difficili, in cui non c’è Buddha né rifugio, non possiamo invocare nessuno più potente di Padmasambhava, e quindi non c’è mantra più adatto del mantra di Vajra Guru.

IL MANTRA DELLA COMPASSIONE

Il mantra della compassione, OM MANI PADME HUM, è pronunciato dai tibetani: Om Mani Pémé Hung. Incarna la compassione e la benedizione di tutti i buddha e i bodhisattva, invocando in particolar modo la benedizione di Avalokiteshvara, il Buddha della compassione. Avalokiteshvara è la manifestazione del Buddha nel Sambhogakaya, e il suo mantra è considerato l’essenza della compassione del Buddha verso tutti gli esseri. Se Padmasambhava è il principale maestro dei tibetani, Avalokiteshvara è il Buddha più importante, la divinità karmica del Tibet. Un famoso detto afferma che il Buddha della compassione è talmente impresso nella coscienza tibetana che i bambini che sanno dire ‘mamma’ sanno anche recitare il mantra OM MANI PADME HUM.

Si narra che, tantissimo tempo fa, mille principi fecero voto di diventare Buddha. Uno decise di diventare il Buddha che conosciamo come Gautama Siddhartha, mentre Avalokiteshvara fece voto di non raggiungere l’illuminazione finché tutti gli altri principi non fossero diventati Buddha. Nella sua infinita compassione, fece anche voto di liberare tutti gli esseri senzienti dalle sofferenze dei reami del samsara. Davanti ai Buddha delle dieci direzioni, pregò così: “Possa io aiutare tutti gli esseri, e se mi stanco di questa grande opera possa il mio corpo essere frantumato in migliaia di pezzi”. Prima, si narra, discese nei reami infernali, da dove ascese al mondo degli spiriti affamati e infine a quello degli dei. Là guardò in basso e vide inorridito che, benché avesse salvato innumerevoli esseri dagli inferni, un numero incalcolabile continuava a precipitarvi. Sprofondò nella più cupa angoscia, per un attimo quasi perse la fede nel nobile voto che aveva pronunciato, e il suo corpo esplose in migliaia di frammenti. Nella disperazione invocò l’aiuto di tutti i Buddha che accorsero in suo aiuto da tutte le direzioni dell’universo come, dice un testo, una dolce bufera di neve. Con il loro grande potere, i Buddha lo ricomposero. Da allora Avalokiteshvara ha undici teste, mille braccia e mille mani; sul palmo di ogni mano c’è un occhio, simbolo dell’unione di saggezza e abili mezzi che è il segno della vera compassione. In questa nuova forma divenne ancora più fulgido e dotato di un potere ancora maggiore di portare aiuto agli esseri. La sua compassione diventava sempre più grande, mentre pronunciava infinite volte il suo voto al cospetto dei Buddha: “Possa io non ottenere la buddhità suprema finché tutti gli esseri senzienti non abbiano ottenuto l’illuminazione”.

Si narra che, a causa dell’angoscia davanti al dolore del samsara, due lacrime gli caddero dagli occhi e, grazie alle benedizioni dei buddha, divennero le due Tare. Una è la Tara verde, l’aspetto attivo della compassione; l’altra è la Tara bianca, che ne rappresenta l’aspetto materno. Tara significa ‘colei che libera’, che ci traghetta al di là dell’oceano del samsara.

Nei sutra mahayana si legge che Avalokiteshvara diede il suo mantra al Buddha stesso, e in cambio il Buddha gli riconobbe il nobile e straordinario compito di condurre tutti gli esseri dell’universo alla buddhità. Allora gli dèi fecero cadere su di loro una pioggia di fiori, la terra tremò e l’aria risuonò del mantra OM MANI PADME HUM HRIH.

Dicono i versi:

Avalokiteshvara è simile alla luna la cui fresca luce spegne le fiamme del samsara; ai suoi raggi, il loto della compassione spuntato nella notte spalanca i suoi petali.

Gli insegnamenti spiegano che ciascuna delle sei sillabe del mantra OM MANI PADME HUM ha una potente e specifica efficacia per trasformare diversi livelli del nostro essere. Le sei sillabe purificano completamente le sei emozioni negative intossicanti, che sono la manifestazione dell’ignoranza e che ci spingono a compiere azioni negative con il corpo, la parola e la mente, creando così il samsara e la sofferenza che proviamo in esso. Orgoglio, invidia, desiderio, ignoranza, avidità e ira sono trasformati, grazie al potere del mantra, nella loro vera natura, ovvero nelle saggezze delle sei famiglie dei Buddha che si manifestano nella mente illuminata.

Recitando OM MANI PADME HUM le sei emozioni negative, che producono i sei reami del samsara, sono purificate. Perciò, recitare le sei sillabe impedisce la rinascita nei sei reami corrispondenti e nello stesso tempo dissolve la sofferenza di ciascun reame. Contemporaneamente, la recitazione del mantra purifica gli aggregati dell’io, gli skandha, e porta a perfezione i sei tipi di azione trascendente del cuore della mente illuminata, le paramita: generosità, condotta armoniosa, pazienza, entusiasmo, concentrazione e saggezza. Viene inoltre detto che OM MANI PADME HUM protegge da tutte le influenze negative e da varie forme di malattia.

A volte si aggiunge al mantra la sillaba finale HRIH, la ‘sillaba-seme’ di Avalokiteshvara, per formare il mantra OM MANI PADME HUM HRIH. L’essenza della compassione di tutti i buddha, HRIH, è il catalizzatore che attiva la compassione dei Buddha perché trasformino le nostre emozioni negative nella loro natura di saggezza.

Scrive Kalu Rinpoche: Il mantra si può interpretare anche in questo modo: la sillaba OM è l’essenza della forma illuminata, MANI PADME, le quattro sillabe centrali, sono la parola illuminata; l’ultima sillaba, HUM, è la mente illuminata. Il corpo, la parola e la mente di tutti i Buddha e bodhisattva sono contenuti nel suono di questo mantra. Esso purifica gli oscuramenti di corpo, parola e mente, e conduce tutti gli esseri nello stato realizzato. Unito alla fede e agli sforzi della meditazione e della recitazione, il suo potere di trasformazione si manifesta e si accresce. In questo modo è realmente possibile purificare se stessi.

Per coloro che hanno familiarità con questo mantra per averlo recitato con fede e fervore durante la vita, il Libro tibetano dei morti prega che, nel bardo: “Quando il suono della dharmata rimbomba come mille tuoni, possa diventare il suono delle sei sillabe”. E nel Surangama Sutra: Com’è dolcemente misterioso il suono trascendente di Avalokiteshvara. il suono primordiale dell’universo… È il sommesso mormorio della marea che si ritrae. Il suo suono misterioso dona liberazione e pace a tutti gli esseri senzienti che nel dolore invocano aiuto, e dona un senso di serena fermezza a tutti coloro che cercano l’infinita pace del Nirvana.

Fonte: Il libro tibetano del vivere e del morire. http://www.esonet.org/wp-content/uploads/2013/05/136069562-Il-Libro-Tibetano-del-Vivere-e-del-Morire-Sogyal-Rinpoche.pdf