Penor Rinpoche: Visione, compassione, meditazione e Dzogchen.

Sua Santità Penor Rinpoche: Benché sia di fondamentale importanza perseguire il proprio beneficio spirituale e la propria illuminazione, bisogna capire che questo stato risvegliato lo si può ottenere soltanto avendo a cuore la felicità di tutti gli altri esseri senzienti.

Penor Rinpoche: Visione, compassione, meditazione e Dzogchen.

La mente è un “qualcosa” che possiamo vedere, individuare in quanto tale? Se pensiamo che ciò che è chiamato mente sia un “qualcosa” che ha la sofferenza, il dolore, i problemi e così via, allora finiremo per percepire la mente come un oggetto esistente in sé, come ad esempio una sostanza sferica o qualcosa del genere. Quando invece indaghiamo sulla mente in quanto tale, ci rendiamo conto che è impossibile percepire “una mente”. Però, allo stesso tempo, la mente non muore – non ha una fine. Da un numero di vite senza inizio fino ad oggi, la mente del samsara non ha fatto altro che prendere rinascita senza interruzioni. La mente che si esprime attraverso i concetti di un soggetto (interno) e di un oggetto (esterno) è ciò che incatena gli esseri all’esistenza condizionata. È ciò che proietta il “mondo esterno”, il proprio corpo e così via. Ma per quanto si possa indagare a fondo, non si riuscirà mai a trovare/identificare “una mente”. Tutti gli esseri illuminati del passato hanno spiegato che la mente non può essere trovata cercando nel passato, nel presente o nel futuro. Se fosse esistente in sé e per sé allora potremmo percepirla, come si può percepire un oggetto qualsiasi! Allora perché crediamo che sia possibile percepirla come un oggetto? Tutti i cosiddetti “oggetti” sono in realtà creati dalla mente: tutte le esperienza di felicità e sofferenza del samsara e del nirvana sono puramente e semplicemente create dalla mente. Dunque se riflettiamo sulla natura ultima della mente, scopriremo senza alcun dubbio che questa è vacuità. Qualcuno potrebbe pensare: “La mia mente è molto dinamica e multicolore; forse è questa la sua vera natura!”. O qualcun altro potrebbe dire: “La mia mente ha la natura di una luce chiara!”. Ma non sono questi i modi in cui la mente esiste. Se non acquistiamo una padronanza sulla mente e la lasciamo semplicemente in balia di se stessa, questa inizia a creare ogni sorta di pensieri e attività maldestri e controproducenti.

Ecco perché queste pratiche che chiamiamo meditazione, anche se ne esistono di innumerevoli tipi diversi, hanno tutte in comune la funzione di domare la mente, di metterla sotto controllo. Hanno in comune la funzione di riconoscere che l’errore fondamentale della mente è il pensiero concettuale, che è un fenomeno prettamente dualistico, dove c’è sempre un soggetto e un oggetto, che condanna gli esseri viventi al samsara o “esistenza condizionata”. Contemporaneamente, la meditazione ha la funzione di realizzare la natura assoluta della mente, di riconoscerla, e questa è la parte più importante della nostra pratica. Quando il Maestro trasmette questi insegnamenti, gli studenti li ricevono e cercano di metterli in pratica, dopodiché dicono: “Oh! Ho riconosciuto la natura della mente”. In realtà ciò che hanno riconosciuto si trova sempre all’interno della mente concettuale, e riconoscendo quest’ultima è estremamente improbabile che si raggiunga l’illuminazione! Quella che chiamiamo mente è ciò che crea tutti i pensieri concettuali e le relative emozioni; ma l’obiettivo della pratica è fare esperienza di qualcosa che si trova al di là della mente concettuale, qualcosa che solitamente chiamiamo “saggezza primordiale” (tib. Yeshe). È quest’ultima che dobbiamo realizzare – non possiamo raggiungere la gioia definitiva soltanto riconoscendo la mente concettuale. Ci sono molti tipi di pratiche che hanno la funzione di pacificare i pensieri nocivi e di controllare la mente confusa, in modo da purificare entrambi. Svolgendo queste pratiche e raggiungendo un certo grado di tranquillità – in cui la mente è concentrata e diventa molto stabile – si può poi “utilizzare” questo stato per meditare sulla vacuità, così da raggiungere una genuina realizzazione. Dunque quando pratichiamo la meditazione e riusciamo ad entrare in uno stato di quiete e stabilità, a quel punto perfino una fugace esperienza della vacuità è di grande beneficio e può creare grandi meriti e saggezza. Se riflettiamo sulla natura ultima della mente, scopriremo senza alcun dubbio che questa è vacuità.

La vacuità è l’idea della vacuità.

La vacuità non significa rimanere senza pensieri, né significa “il nulla”. Nei testi si dice che se non si sa come meditare correttamente sulla vacuità, si finisce sulla strada sbagliata. Quindi occorre indagare sulla vera natura della mente, così da raggiungere la conclusione che la sua natura ultima è la vacuità; questo riconoscimento dev’essere reso stabile grazie alla pratica della meditazione. La vacuità intesa come pura e semplice “assenza” e la vacuità intesa come natura della mente sono due cose completamente diverse. Il primo tipo di vacuità corrisponde praticamente al “nulla”, alla inesistenza. Questo genere di vacuità/nulla negli insegnamenti del Dharma viene illustrato attraverso l’esempio delle corna di un coniglio, qualcosa che non esiste affatto, non esiste tout court. Ma quando parliamo di vacuità della mente: questa è priva di sostanza materiale, di colore, di forma, ecc. – da un certo punto di vista non esiste, ma al tempo stesso la mente è tutto. La mente è ciò che crea tutti i fenomeni del samsara e del nirvana. Quando si pratica la meditazione, è bene troncare ogni pensiero concettuale. Essere liberi dai pensieri e rimanere in meditazione è di grande beneficio. Questo tipo di meditazione è chiamata shamatha o “stabilità nella quiete”. Se si porta avanti questa pratica per un po’, si inizia a godere di una certa stabilità mentale e, a questo punto, è più facile raggiungere risultati nella meditazione vipassana o “di introspezione”. Tutti gli insegnamenti e le pratiche del Dharma devono svolgersi attraverso un lignaggio autentico. Questo significa che l’insegnante dev’essere qualificato e autorizzato a trasmettere gli insegnamenti. Dopodiché lo studente, il praticante, se possiede devozione o fiducia, può comprendere il senso degli insegnamenti attraverso la propria pratica personale. Non c’è altro modo di trasmettere e ricevere questi insegnamenti. Quindi l’insegnante deve avere la capacità di comprendere la mente dello studente. Quando l’insegnante ha questa capacità, in base ad essa può impartire allo studente la giusta introduzione allo stato naturale della mente. Per esempio: quando un insegnante esamina un praticante, può capire per esperienza diretta se questi possiede l’effettivo riconoscimento dello stato naturale della mente. Al di là di questa interazione diretta, da mente a mente, non c’è alcun modo di spiegare concettualmente: “Oh, lo stato naturale della mente è simile a questo”. Non esistono parole per descriverlo. Se ci fosse una rappresentazione simbolica rapida della natura della mente, allora basterebbe tracciare un grafico ed esclamare: “Ecco a voi lo stato naturale della mente!”. Insomma è importante portare avanti queste pratiche, come quella di shamatha, abituandosi a questo tipo di concentrazione, in modo che sia possibile raggiungere un genuino riconoscimento della natura della mente.

La parola tibetana “Lama” significa “il più alto insegnante”. “La” rappresenta l’elevatezza della realizzazione spirituale; “Ma” sta a significare la madre, cioè l’affetto e la gentilezza piena d’amore – simili a quelli di una madre per i suoi figli – che un insegnante deve possedere. Tutti i Buddha del passato, del presente e del futuro raggiungono l’illuminazione facendo affidamento su un lama. Non esiste un solo Buddha che realizzi l’illuminazione per conto proprio, con il suo sforzo individuale. Il lama, l’insegnante, è colui che conosce a fondo queste pratiche di meditazione. Dunque indossare una veste rossa non significa essere lama! Anche indossare una veste gialla non significa essere lama! Chi possiede una vera purificazione e una realizzazione interiore, viene chiamato lama. E la mente di un lama deve avere la genuina intenzione di bodhicitta, di portare beneficio a tutti gli esseri viventi. Meditazione secondo lo Dzogchen. Molti di voi, con sincero interesse, hanno chiesto: “Per favore, trasmetti insegnamenti sullo Dzogchen!”. Ma io stesso non ho una precisa idea di cosa sia lo Dzogchen e non ho un granché da insegnarvi.

La mente è ciò che crea tutti i fenomeni del samsara e del nirvana. Tuttavia, come ho spiegato poco fa, se uno mette in pratica Bodhicitta (la pura intenzione di recare beneficio a tutti gli esseri senzienti) e i vari metodi di meditazione per rinforzare la capacità di concentrazione della mente, senza ombra di dubbio arriverà il momento della Grande Perfezione (Dzogchen). Se invece non si riesce a coltivare Bodhicitta nel continuum della propria mente, la via verso l’illuminazione si presenta interrotta fin dall’inizio! Senza Bodhicitta, non esiste una vera e propria via. Bodhicitta è libera da ristrettezze e parzialità; la pura intenzione di Bodhicitta, l’aspirazione alla felicità di tutti gli esseri viventi senza eccezioni, può essere compresa riconoscendo che, in una vita o un’altra, ogni essere ci è stato genitore e ci ha dato la vita. Se comprendiamo questo dato di fatto, e pensiamo all’affetto con cui si sono presi cura di noi, ci sentiremo pieni di riconoscenza verso tutti gli esseri – simili a madri e padri – e potremo generare Bodhicitta verso ognuno di loro. Il nostro attuale corpo esiste in questo preciso momento grazie ai nostri genitori. Se non avessimo avuto genitori, non avremmo mai potuto ottenere questo corpo. E se non avessimo questo corpo in carne ed ossa, non potremmo mai svolgere nessun tipo di attività, né mondana né di Dharma. Dunque le nostre madri sono effettivamente gentili e preziose per noi, dovremmo essere pieni di riconoscenza nei loro confronti. Naturalmente esistono molti tipi diversi di relazione fra genitori e figli in questo mondo, però dovremmo sempre ricordare che il sentirci vicini o meno ai nostri genitori dipende dai nostri pensieri e dai nostri desideri. A parte questo, il punto fondamentale qui è che senza i nostri genitori non potremmo avere questo corpo e, per questa ragione, dovremmo essere pieni di riconoscenza per la loro gentilezza. In sintesi, prima bisogna concentrarsi sul generare Bodhicitta sulla base di una profonda gratitudine verso la madre di questa vita, poi bisogna estendere questa Bodhicitta a tutti gli esseri viventi allo stesso modo, senza distinzioni. Dunque i punti più importanti sono avere fede e devozione nel Dharma, e riflettere/meditare su Bodhicitta e sulla compassione. Una volta fatto questo, ci si può applicare alla pratica delle meditazioni sulla vacuità. Nella pratica del Dharma non si dovrebbe mai pensare: “Oh, sto facendo tutta questa pratica per compiacere questo lama oppure questi Buddha”. Non pensate mai in questo modo! La pratica del Dharma è per voi stessi. Ciascuno di voi, individualmente, ha il compito di liberarsi dal samsara. State realizzando l’illuminazione per voi stessi. State realizzando la Buddhità per voi stessi. La vostra pratica non aiuterà il lama a raggiungere l’illuminazione, e lo stesso dicasi per i Buddha. I Buddha hanno già realizzato la Buddhità! E se non riuscite a portare avanti la pratica del Dharma nel modo appropriato, sarete voi a cadere negli stati di esistenza inferiori, non certo il lama o i Buddha! In sintesi: benché sia di fondamentale importanza perseguire il proprio beneficio spirituale e la propria illuminazione, bisogna capire che questo stato risvegliato lo si può ottenere soltanto avendo a cuore la felicità di tutti gli altri esseri senzienti. Senza questa pura aspirazione di Bodhicitta non si può raggiungere la piena illuminazione. Non importa quanto sia vasta, potente o limitata: la Bodhicitta che riusciamo a generare in questo momento è comunque straordinariamente preziosa. In futuro, quando realizzeremo l’illuminazione, la vastità e il potere della nostra Bodhicitta saranno direttamente proporzionali al numero di esseri viventi che potranno trarne beneficio e liberarsi dall’infelicità del samsara. In questo momento ci è difficile percepire un risultato così immenso, ma, se continuiamo a praticare, in futuro lo riconosceremo per esperienza diretta.

Scelto, adattato e tradotto da Italo Choni Dorje. http://www.vajrayana.it/Meditaz_Penor.pdf