Lama Dagyah Rimpoce: Consigli di un lama a praticanti (e maestri)

Sua Santità il Dalai Lama con Dagyab Rinpoche

Lama Dagyah Rimpoce: Consigli di un lama a praticanti (e maestri)

Questa che pubblichiamo è una parte (lacunosa in alcuni punti per difetti di registrazione) dell’insegnamento svolto in lingua tedesca all’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia nell’aprile 1987 dal Lama Dagyab Rimpoce. Questo testo, che in qualche passaggio richiama alla memoria lo stile del lama Thubten Yeshe, affronta con coraggiosa spregiudi:catezza alcuni problemi che stanno emergendo nelle comunità buddhiste dell’Occidente e che sono in genere trascurati o affrontati senza la necessaria obiettività e correttezza. Sono significative in particolare le opinioni di Dagyab Rimpoce (trattandosi per di più di un maestro tantrico tibetano) sui rapporti tra maestro e discepolo, che – per immaturità del discepolo, ma talora anahe per qualche apparenza di presuntuosità nel maestro – non sono sempre improntati a quella confidenza familiare ed amichevole che è necessaria affinché l’insegnamento diventi un aiuto valido nel processo di realizzazione del Risveglio.

Lama Dagyab Rimpoce

1. Il buddhismo si sta rapidamente espandendo in Occidente, ma capita ancora spesso che molti occidentali siano allergici ad esso, perché lo considerano culturalmente superato ed esotico. Questo giudizio trae alimento dall’abuso che si fa spesso negli insegnamenti buddhisti di parole antiche e straniere: sanscrite, tibetane, ecc. Così presentato, accade che l’insegnamento appaia esotico nella sua globalità. Si dimentica che il buddhismo è una dottrina ancorata alle condizioni reali di tutte le persone, è un insegnamento che si collega alla vita di ognuno, alle singole condizioni esistenziali. È quindi importante che sia presentato con un linguaggio comprensibile ed adatto a tutti.

Più siamo in grado, maestri e discepoli, di conoscerlo e di praticarlo in maniera semplice e naturale, più grande sarà il beneficio per tutti. Si deve ricorrere con molta prudenza a parole straniere, specialmente nel rivolgersi a principianti. Il nostro modo di comunicare deve adattarsi alla mentalità dei nostri interlocutori; dobbiamo metterci al loro livello.

2. Trattiamo ora il rapporto maestro-allievo. Il maestro può ·essere considerato in due modi diversi: come oggetto di devozione, oppure semplicemente come un partner, un amico con cui discorrere ed al quale ci si possa rivolgere in tutte le circostanze. Quale modo è più corretto? E’ necessario abbandonare ogni atteggiamento verso il maestro che ostacoli un rapporto di confidenza ed impedisca il sorgere di un legame spontaneo e naturale. Avere confidenza con il maestro non è affatto in contrasto con il rapporto corretto che deve intercorrere fra un maestro e un suo discepolo. Fortunati quei praticanti che hanno la disponibilità di un maestro residente, al quale potersi rivolgere con naturalezza in ogni caso di bisogno. Esistono alcune circostanza oggettive che rendono difficile la relazione fra maestro e allievo. Molti maestri non conoscono e non parlano la lingua del paese in cui insegnano, la lingua materna dei loro allievi. In queste condizioni diventa difficile instaurare fra maestro e· allievo un rapporto spontaneo e sincero; diventa difficile per il maestro scegliere i metodi di insegnamento e le pratiche più adatte al proprio allievo. Non va infine dimenticato che in molti casi il maestro ha uno sfondo culturale diverso da quello dei propri discepoli. Un maestro tibetano, ad esempio, si è maturato nel clima culturale caratteristico del suo paese; è cresciuto in un ambiente diverso, da cui in un certo senso è stato condizionato. Gli studenti che ascoltano i suoi insegnamenti appartengono ad un altro sfondo culturale e le parole del maestro fanno i conti nelle loro menti con un diverso background. Questa situazione può dar luogo negli allievi ad autentici shock culturali. Per evitare tutto questo, è assolutamente necessario che ci sia una comunicazione aperta e sincera fra maestro ed allievo.

3. Il Buddhismo non deve essere considerato un prodotto della cultura orientale non compatibile con le specificità culturali e storiche dell’Occidente. Da voi ha avuto un ampio sviluppo l’indagine razionale, l’analisi logica e la ricerca scientifica e taluni ritengono che il Buddhismo sia incompatibile con queste caratteristiche del pensiero occidentale. Così non è, il Buddhismo è compatibile con qualsiasi cultura. Se si potesse trovare nei testi buddhisti anche una sola parola in contrasto con ·i principi di una «ragionevole logica», questa parola dovrebbe essere eliminata.

Buddha ha insegnato che i suoi discorsi non sono da accettare come la fonte esclusiva e indiscutibile della saggezza; egli ha dichiarato con chiarezza che la validità del suo insegnamento era da verificare, come con idonei strumenti si verifica la genuinità e la purezza dell’oro. Solo dopo che una verifica personale ne ha dimostrato la validità, l’insegnamento potrà essere adottato e praticato. La dottrina buddhista non è da trattarsi come .un oggetto di venerazione, ma come materia di esperimento.

Si potrà allora riconoscere che, lo ripete spesso il Dalai Lama, in tutti i testi della letteratura buddhista non esiste un solo passaggio che possa entrare in conflitto con la logica. Esistono peraltro nelle scritture buddhiste alcune descrizioni del sistema cosmico e dell’Universo non conformi agli attuali risultati delle indagini scientifiche. Ebbene: queste parti delle scritture sono da considerarsi superate, perché sono in contrasto con la scienza. I risultati delle ricerche scientifiche devono essere accettati anche da noi. Questa posizione non è condivisa da qualche maestro molto tradizionalista (mi suscitano sempre qualche preoccupazione i maestri tradizionalisti!). Grande è il mio rispetto e salda la mia fiducia nelle scritture sacre e nella parola del Buddha, ma non ho esitazioni di sorta a rifiutare le descrizioni errate contenute in qualche testo buddhista e nel preferire le giuste visioni delle scoperte scientifiche, anche se sono in contrasto con le sacre scritture.

4. Bisogna tenere conto delle caratteristiche culturali e della mentalità diffusa nel paese in cui si vive. Per questo non mi trova consenziente la situazione creatasi in questo istituto di Pomaia con l’approntamento di una sala di meditazione riservata ai soli monaci maschi. Sono un uomo anch’io e potrei quindi mettermi dalla parte dei maschi, ma non condivido residue abitudini patriarcali. Chi ha scelto la vita monacale e ne rispetta la severa disciplina, soprattutto nella condotta morale e nell’osservanza dei voti, merita grande ammirazione. Non dobbiamo dimenticare mai che le prostrazioni di un monaco accumulano molti più meriti delle prostrazioni di un laico, come le prostazioni di un bodhisattva o di chi ne ha preso i voti sono più meritorie delle prostrazioni di chi non ha preso questi voti, e ancora più meritorie sono quelle di chi è impegnato con i ·voti tantrici.

Tutto questo è vero, ma dobbiamo considerare le cose con mente aperta ed attenta. Il buddhismo è nato in India, un paese in cui erano e restano molto accentuate le differenze sociali, dove esistono ancora le caste e si è andata tradizionalmente affermando l’abitudine ad una specie di separatismo fra uomini e donne. Noi non abbiamo nessun bisogno, meno che mai qui in Occidente, di adottare simili tradizioni e meno che mai la separazione fra uomini e donne, che contrasta con l’odierna cultura occidentale. Atteggiamenti simili non sono ragionevoli e quindi non possono considerarsi conformi ad una corretta .pratica buddhista.

Esistono in Tibet alcuni templi, dedicati a certi protettori, dove è vietato l’ingresso alle donne; esistono delle reliquie che le donne non possono toccare e nemmeno guardare. Ho una sorella che si dimostra tuttora timorosa quando viene in contatto con certi oggetti religiosi. Si tratta di una mentalità che è innata nel mondo tibetano, la cui cultura tradizionale induce tuttora a manifestazioni di questo tipo.

Si tratta comunque di comportamenti che non hanno una base logica e sono anzi intimamente contraddittori. Infatti, se una reliquia dà protezione a chi la porta o a chi la tocca, per quale motivo questa protezione dovrebbe essere riservata agli uomini e ne dovrebbero essere escluse le donne?

Il Buddhismo insegna che uomini e donne hanno bisogno di protezione in parti uguali. C’è quindi un controsenso, una palese contraddizione nel separare i sessi. Sono questi atteggiamenti che inducono taluni a considerare il Buddhismo una dottrina priva di logica, alimentando quella certa allergia verso il Dharma, che si riscontra intorno a noi. Il Buddhismo è invece adatto a tutte le persone, di qualunque ceto sociale, di entrambi i sessi, di ogni razza e di ogni cultura, senza distinzione alcuna, senza eccezioni di sorta, in modo uguale per tutti. Il Buddha ha insegnato per tutti gli esseri, non soltanto per i discepoli suoi contemporanei. Affermare questa uguaglianza, peraltro, non significa mettere in discussione il rispetto che un laico deve avere verso il· monaco, un monaco verso il bodhisattva e un bodhisattva verso il praticante tantrico; si tratta di un rispetto giusto e logico, che ha un suo fondamento molto concreto.

5. Nei primi tempi di diffusione del Dharma in Occidente si è assistito ad un fenomeno che ha seriamente danneggiato il Buddhismo: si aggiravano giovani praticanti occidentali vestiti in modo strano, adorni di rosari e catenelle, con altri pendagli di ogni genere e si presentavano con occhi spiritati, barbe incolte, capelli in disordine o rapati a zero. Era tutta una mascheratura perché si riteneva che fosse necessario mettersi in evidenza come persone diverse, come seguaci di religioni esotiche e che l’autentico praticante buddhista si dovesse distinguere con una specie di uniforme. Questi atteggiamenti non potevano che danneggiare il significato profondo della pratica corretta del Buddhismo. Ero allora avvicinato da persone visibilmente preoccupate che mi dicevano: «Come sono strani questi buddhisti, parlano in modo incomprensibile, sembrano sporchi e trasandati, si comportano come dei matti». Pare adesso che questa prima ondata stia terminando; forse non è ancora finita del tutto, ma finirà presto, non c’è dubbio. Potrebbe seguire peraltro una diversa ondata, di buddhisti tutti atteggiati come tanti gentleman o tante ladfos. Certo: ci avrebbe uno spettacolo più attraente, ma, se si trattasse di una nuova moda per apparire diversi e distinguersi dagli altri, si sarebbe ancora fuori strada. La tendenza a caratterizzarsi, a mettersi in uniforme l’altro non è che ·una manifestazione della sofferenza. Chi si mette in divisa intende ostentare le proprie idee, affermare il proprio ego, personale o collettivo che sia. E ci potrà essere un ego particolare dei tulku, un ego dei gheshe, un ego dei monaci, un ego dei praticanti tantrici. Si ricorre a mezzi esteriori per affermare e mettere in evidenza la propria personalità e così facendo non si fa che aumentare la sofferenza. Come buddhisti, non abbiamo bisogno alcuno di ostentare distintivi o di mascherarci con uniformi. Per quanto è possibile, cerchiamo di evitare ogni segno esteriore. Saremo così più vicini ad una corretta applicazione degli insegnamenti. (a cura di Vincenzo Piga) https://maitreya.it/wp-content/uploads/2020/02/Paramita-24.pdf