Bokar Rimpoce: L’essenza del Vajrayana
Iniziamo la pubblicazione di alcuni articoli sul vajrayana, apparsi sulla rivista “Dharma” n. 9/90; questo primo articolo è ricavato da un insegnamento che ha avuto luogo all’Istituto Karma Ling di Arvillard (Francia) nel novembre 1988, tradotto dal tibetano in francese da Lama Denis.
Bokar Rimpoce
In linea generale l’evoluzione dell’Universo è ciclica, con una successione di cicli cosmici chiamati Kalpa. Kalpa è il tempo che passa dalla nascita di un Universo alla sua dissoluzione dopo una lunga fase evolutiva; nascita, evoluzione e scomparsa di un Universo formano un ciclo cosmico, un kalpa e dalle lontane origini se ne sono avuti un numero incalcolabile. Alcuni di questi cicli cosmici sono considerati luminosi, altri oscuri: sono luminosi i kalpa nei quali è apparso un Buddha e ha dato l’insegnamento, sono oscuri quelli che non hanno avuto la luce fiammeggiante e l’insegnamento. Questi ultimi sono molto più numerosi dei primi. Il kalpa o ciclo cosmico nel quale viviamo è particolarmente propizio perché è stato predetto che avrebbe avuto l’insegnamento di mille Buddha; questo kalpa è cominciato con dei presagi molto positivi, sotto forma di mille fiori di loto che hanno annunciato l’avvento di mille Buddha nel corso del ciclo. Quattro di questi Buddha sono già apparsi: tre nei millenni passati ed il quarto è Sakyamuni e noi oggi siamo i detentori dei suoi insegnamenti. I tre Buddha del passato hanno trasmesso insegnamenti nella forma dei sutra e non dei tantra. Il quarto Buddha, Sakyamuni, ha trasmesso sia gli insegnamenti dei sutra che gli insegnamenti dei tantra. Tenendo conto che nessuno dei 996 Buddha del futuro trasmetterà insegnamenti di tantra, si comprende facilmente quanto sia rara e preziosa la trasmissione completa che abbiamo a disposizione.
Siamo ora in grado di valutare l’importanza della connessione che abbiamo stabilita oggi con gli insegnamenti dei tantra grazie al vajrayana e possiamo quindi apprezzarne l’eccezionalità e per ciò stesso considerarla qualcosa di molto prezioso. Gli insegnamenti dei sutra sono un approccio che può condurci fino al Risveglio: le pratiche del Rifugio, di Bodhicitta e cosi via, sono i fattori causali per la realizzazione del Risveglio. L’approccio tantrico del vajrayana è l’approccio del frutto o del risultato; in esso si usano i risultati ultimi, i frutti della realizzazione spirituale – l’esperienza del mondo come un mandala, terra di Buddha e l’esperienza degli esseri nella loro pura natura divina – come mezzo di evoluzione, come supporto della pratica lungo il Sentiero.
Ma qual’è la differenza tra l’approccio dei sutra e l’approccio dei tantra, tra l’approccio del veicolo azionato dalle cause e l’approccio del veicolo azionato dai frutti? Un celebre detto afferma: “L’approccio del vajrayana ha quattro caratteristiche: metodi numerosi, difficoltà nessuna, adatto a persone di capacità elevata, rapidità”. Dal punto di vista del frutto, cioè del risultato che si raggiunge con la pratica, non c’è differenza tra l’approccio dei sutra e quello dei tantra, poiché entrambi conducono allo stesso risultato. L’approccio del vajrayana si caratterizza nella sua metodologia. Anzitutto esso presenta numerosi metodi spirituali e numerosi strumenti di realizzazione, che non si trovano nella tradizione dei sutra; questa molteplicità di metodi e di strumenti è la ricchezza del vajrayana. In secondo luogo si tratta di un sentiero facile, nel senso che non presenta molte difficoltà, perché non richiede le rinunce che si incontrano sul sentiero dei sutra. L’approccio del vajrayana è inoltre adatto per persone di elevata capacità, cioè particolarmente recettive per questo tipo di insegnamenti. Per tali persone, ecco il quarto punto: il vajrayana è un sentiero rapido, una via di realizzazione spirituale che porta al Risveglio più direttamente e velocemente del sentiero dei sutra.
2. Il vajrayana è una via di trasmutazione e si ha qui una rilevante differenza metodologica rispetto ai sutra. I sutra insegnano ad abbandonare o ridurre le emozioni e le passioni. Il vajrayana al contrario propone una trasmutazione, un riconoscimento della natura essenziale delle emozioni e delle passioni. In un contesto di trasmutazione, le emozioni non sono più da respingere: con i giusti metodi del vajrayana esse sono soggette a trasformazione, sono riconosciute nella loro natura essenziale e in questo modo riusciamo a liberarcene. L’approccio del vajrayana è un mezzo di realizzazione di particolare rapidità: mentre nel sentiero dei sutra si raggiungono poco per volta i diversi livelli della realizzazione, i diversi cammini spirituali, le diverse “terre” dei bodhisattva e tutto ciò può richiedere un tempo molto lungo, nell’approccio del vajrayana è possibile raggiungere la realizzazione spirituale completa e perfetta al massimo nel giro di qualche esistenza. Va anche tenuto conto che il sentiero vajrayana comprende molte cose diverse. Ci sono diversi tipi di tantra: il tantra degli atti, il tantra dell’attività, il tantra dell’unione e il tantra dell’unione insuperabile. Già i primi di questi tantra permettono un percorso molto rapido; l’ultimo, lo yoga dell’unione insuperabile, propone metodi che, se rettamente applicati, permettono di raggiungere la realizzazione nel corso della nostra vita attuale ed è questo il valore e l’eccezionale caratteristica di tale approccio. Abbiamo così esposto succintamente le particolarità e i vantaggi del vajrayana.
3. Come si pratica il vajrayana? Anzitutto bisogna prendere in esame la persona, il praticante del vajrayana. Questa persona deve avere la motivazione del Mahayana, bodhicitta, cioè una aspirazione forte e senza riserve al Risveglio per il bene di tutti gli esseri, affinché la pratica sia posta al servizio della felicità e della liberazione di tutti. Il praticante che si impegna nel vajrayana deve essere animato da questa motivazione di bodhicitta, che è la motivazione del mahayana. L’esigenza di questa motivazione deriva dal fatto che la nostra attitudine abituale è egocentrica; siamo profondamente attaccati a noi stessi. Se ci impegnamo nel vajrayana con questa attitudine egocentrica, con questo attaccamento a noi stessi, al nostro interesse particolare, alla nostra autorealizzazione, ci esponiamo ad ogni sorta di difficoltà ed ai rischi di deviazione e di errori. E quando si sceglie la via del vajrayana e ci si dispone a praticare la meditazione sulle divinità, sulle terre pure dei Buddha e così via, è indispensabile che la nostra motivazione non sia egocentrica, che il nostro stato più profondo sia una disposizione altruistica e cioè bodhicitta, la motivazione del Mahayana. Per poter sviluppare questo stato mentale è necessario comprendere anzitutto che tutti gli esseri si trovano nella nostra stessa situazione: aspirano come noi alla felicità e cercano di evitare la sofferenza. Quando abbiamo colto questa identità di fondo nelle aspirazioni, arriviamo alla comprensione che non esiste differenza tra se stessi e gli altri; si può considerare I’altro come se stesso, animato da identiche aspirazioni e da identiche ricerche.
La base di bodhicitta è proprio questa esperienza di uguaglianza tra me stesso e gli altri, tra gli altri e me stesso. Nella nostra attuale condizione non identifichiamo di solito gli altri con noi stessi; finché abbiamo l’abitudine di dare importanza al nostro interesse personale e cerchiamo il nostro privilegio e la nostra sicurezza, non abbiamo spontaneamente la tendenza a considerare I’ altro come un nostro uguale. Dedichiamo in genere poca attenzione agli altri, alla loro felicità, alle loro sofferenze. Quando abbiamo praticata questa assimilazione tra noi stessi e gli altri, dobbiamo rovesciare la mentalità egocentrica: laltro deve essere considerato più importante di noi stessi. Solo così si arriva a comprendere che le fissazioni egoistiche sono la causa di tutte le sofferenze, la sorgente delle trasmigrazioni e dei condizionamenti samsarici, l’origine di tutte le passioni. A questo punto l’atteggiamento di fissazione egoistica viene abbandonato e si impara a guardare all’altro come alla fonte di ogni felicità e di ogni gioia. Questa disposizione mentale non sorge spontaneamente, ma esistono alcuni esercizi spirituali che ci inducono a indirizzare la nostra mente verso di essa. Il più importante di questi esercizi è la pratica che in tibetano si chiama del ton-len, che consiste nel dare e nel ricevere. In questa pratica, visualizzandoci con una forma bianca e luminosa, s’immagina di irradiare tutto quello che possediamo di positivo, virtuoso e gioioso, per offrirlo senza riserve a tutti gli esseri; all’inverso, visualizzandoci con una forma oscura e cupa, si immagina di aprirci verso l’assorbimento di tutto quello che è doloroso, nocivo e negativo. Praticando con assiduità questo dare e ricevere, riusciremo a generare nella nostra mente un livellamento tra noi e gli altri e quindi quel rovesciamento che ci porta a considerare gli altri più importanti di noi. Quando si sente parlare di questa pratica e ci si accosta ad essa da principianti, si può provare una certa esitazione; si incontra una certa difficoltà ad offrire quanto abbiamo di meglio a causa del nostro attaccamento, della nostra attitudine di possesso e di avarizia. D’altro canto, si ha paura nell’accettare pene, disagi e sofferenze: c’è una reticenza, un’attitudine di difesa e di rifiuto, di spavento. Ma se pratichiamo con coraggio, supereremo queste reticenze, andremo al di là di queste esitazioni. La nostra possessività progressivamente andrà diminuendo, come pure la nostra paura di aprirci. E così svilupperemo a poco a poco la mente di un bodhisattva. Questo è lo stato mentale che bisogna possedere quando ci si impegna nel vajrayana: l’approccio nella sua interezza e tutta la pratica sono dedicati a tutti gli esseri. In mancanza di tale motivazione, praticando il vajrayana con finalità personali e con interessi egoistici, non ci sarà possibile raggiungere il Risveglio perfetto. C’è un episodio che riguarda il grande maestro Atisha https://www.sangye.it/altro/?p=11767(una delle principali figure del Buddhismo indiano; raggiunto il Tibet nel 1038, vi rimase per 15 anni riformando in senso più rigoroso il Buddhismo locale e fondando la scuola dei Khadampa, da cui tre secoli dopo sorse con Tsong Khapa https://www.sangye.it/altro/?p=11772quella dei Ghelupa n.d.t.). Atisha https://www.sangye.it/altro/?p=6479aveva un discepolo di nome Drontempa che viveva con lui e d’abitudine al mattino gli portava il tè. Un giorno, alla colazione del mattino, presente Drontempa, il maestro si mette a battere le mani esclamando: “Ahi, ahi, ahi!” con un’espressione di delusione e di tristezza. “Maestro, che cosa sta succedendo?”, chiede il discepolo. E Atisha: “Sono molto amareggiato perché un mio discepolo, in India, sta seguendo un sentiero sbagliato”. “Di cosa si tratta?”. “Sta praticando Hevajra e sta deviando”. “Ma Hevajra è una pratica dell’Anuttarayoga-tantra, una delle più avanzate; come potrebbe il vostro discepolo deviare?”. “Perché sta praticando il vajrayana, ma non genera bodhicitta; ha smarrito lo stato mentale del mahayana. Praticando il vajrayana in questa maniera, si danneggia il bodhicitta e ci si pone in una situazione peggiore di quella di chi non abbia mai sviluppato il bodhicitta. Ci si mette in un sentiero che produrrà condizioni molto negative”. È dunque di estrema importanza avere questa giusta motivazione alla base della nostra pratica del vajrayana.
4. Due sono gli aspetti dell’approccio pratico del vajrayana propriamente inteso: la maturazione (tib. mine) e la liberazione (tib. drol). La prima si ottiene con la trasmissione iniziale, le iniziazioni. La seconda riguarda le pratiche che sono state eseguite e completate sulla base della trasmissione ottenuta con l’iniziazione. La trasmissione iniziatica è qualcosa di specifico del vajrayana, che non si trova nelle pratiche dei sutra. Cosa si intende per iniziazione e qual’è la sua funzione? Ci sono vari tipi di processi spirituali iniziatici, in relazione ai diversi tipi di tantra. In generale, l’iniziazione è un atto che fa maturare la nostra mente; il processo di iniziazione chiama in causa elementi diversi a livello di corpo, parola e mente. Si ricorre ad alcuni gesti simbolici (mudra), a varie rappresentazioni, a vari simboli messi in azione con i mantra; si fa riferimento anche alla disponibilità personale verso la 10 pratica. Una iniziazione, una trasmissione del vajrayana si può fare soltanto sulla base del Rifugio; è una regola elementare, facilmente comprensibile se si tiene presente che il Rifugio altro non è che la decisione o la scelta di cominciare a praticare. Senza questa decisione non avrebbe senso unirsi ad una qualsiasi forma di pratica o di trasmissione. Il secondo aspetto è il processo di liberazione (drol), la pratica che si sviluppa a seguito dell’iniziazione e sulla base di essa. Anche qui vanno distinte due tappe: kyerim e dzorim. Kyerim è la fase della generazione, dello sviluppo; dzorim è la fase del completamento o perfezionamento del processo meditativo del vajrayana. Si parla di generazione o sviluppo perché si fa riferimento alla meditazione che genera e sviluppa la presenza della divinità. Kyerim comincia di solito con alcuni preliminari per accrescere l’energia positiva, cui fa sempre seguito la meditazione sulla vacuità. Di questa vacuità si visualizza, su un trono di loto, la sillaba-radice, il seme, il principio della divinità (ad esempio: HRI, HUM, ecc.), che nel proseguo del processo meditativo si trasforma nella figura stessa della divinità, con il suo corpo, i suoi colori, i suoi ornamenti e tutte le sue caratteristiche. Questa pratica è un insegnamento tipico del vajrayana. Nella pratica dei sutra, quando siamo disturbati da pensieri ed emozioni, non abbiamo altro rimedio che lasciarli svanire, oppure ricorrere a qualche antidoto per evitarli. Nell’approccio di kyerim, invece, si utilizzano i pensieri e le emozioni trasformandoli; al pensiero ordinario si sostituisce l’esperienza della forma della divinità. Se abbiamo un’esperienza o un’emozione riguardante l’ambiente, questa esperienza ordinaria viene trasformata nella purezza della “terra” del Buddha; se si ode un suono, l’esperienza ordinaria del suono diventa la sonorità del mantra. In tal modo si mette in moto un processo di trasformazione che permette di sostituire le visioni ordinarie della nostra mente dal contenuto impuro con visioni pure. Questa sostituzione e questa trasformazione all’inizio della pratica richiedono una precisa intenzionalità, necessaria ed importante affinché possa prendere il via il processo di trasmutazione.
Facciamo un esempio: nell’approccio dei sutra si impara a mantenere la mente in uno stato di assorbimento concentrato, che possiamo paragonare alla situazione in cui un bambino (che raffigura la mente) si sente dire dalla madre (che raffigura il meditante): “Bimbo mio, tu ora rimani a casa e devi comportarti bene; tornerò fra qualche ora, non muoverti”. Cosa succederà? Il bimbo, poco entusiasta di tali disposizioni, comincia ad agitarsi, esce di casa e se la madre lo costringe con la forza a restare, nascono problemi di ogni genere.
L’approccio del vajrayana è tutto diverso: la madre non dice niente al bimbo e non lo costringe a rimanere in casa; ma in casa ci sono giocattoli di ogni specie e senza bisogno di sentirselo dire dalla madre, il bimbo è ben lieto di restare a casa, ha tante cose con cui divertirsi che non gli passa per la mente di andarsene altrove. Quando pratichiamo kyerim – ad esempio nella meditazione di Cenresi – dobbiamo sentirci Cenresi, puramente e semplicemente. Se si affollano in noi molti pensieri, questa versatilità della mente troverà sfogo nell’esperienza dei colori di Cenresi, di una sua mano, di un’altra mano (c’è anche un Cenresi con duemila mani! n.d.t.), dei suoi ornamenti, dei suoi abiti, di tutti i dettagli della sua figura. La nostra mente può muoversi a suo agio in questi pensieri riferiti alla forma di Cenresi; l’esperienza dei diversi dettagli integra l’insieme dei pensieri che mano a mano vanno sorgendo. Ma se non siamo investiti da tanti pensieri, non c’è bisogno alcuno di farli nascere. Guardiamoci peraltro dal considerare la pratica di kyerim come un semplice metodo di integrazione e di trasformazione dei pensieri. La pratica di kyerim ha ben altra ragion d’essere: essa aiuta tra l’altro a sciogliere e purificare le tendenze acquisite nel passato, ad ammorbidire le tracce latenti nella mente, a trasformare i pensieri del presente e, quanto al futuro, ci avvia all’esperienza della purezza fondamentale, che consiste nel riconoscere in tutti gli esseri la figura del Buddha e nel mondo intero la dimora del Buddha. Le pratiche del vajrayana non sono un gioco per bambini; l’esempio che abbiamo fatto ha un valore didattico, che può aiutarci a capire qualcosa; ma ci sono ragioni molto serie nell’uso di queste diverse immagini, che trascendono di molto il loro impiego per investirvi i nostri pensieri.
Dopo un’adeguata esperienza di meditazione kyerim e dopo avere realizzato il processo di trasformazione appena descritto, si passa a dzorim, la seconda tappa, la fase dell’accumulazione e della perfezione; è una meditazione senza forma, durante la quale tutte le immagini che si sono visualizzate con kyerim si dissolvono e scompaiono. Si pratica dzorim per contrastare la tendenza a “solidificare” le esperienze di kyerim, a considerare le apparenze che sono state generate da noi stessi come qualcosa di reale, di concreto, a non tener conto che si tratta di simboli, di visualizzazioni e a fissarsi su di esse. Ecco perché dopo l’esperienza di kyerim c’è la fase del superamento di ogni forma di fissazione e di materializzazione e questa è l’esperienza di dzorim. La pratica di kyerim serve a trasformare i pensieri ordinari e la pratica di dzorim serve a superare l’attaccamento e le :fissazioni che potrebbero nascere nei confronti delle forme generate con kyerim. Si tratta di un’unica pratica divisa in due tempi. Ma c’è anche una combinazione delle due pratiche, nota come “le due pratiche in parallelo” (tib. dye-zo sun-juk). Questa pratica di kyerim e dzorim unite insieme porta all’esperienza di “luminosità vuota” (tib. seton), in cui la luminosità è l’aspetto kyerim e la vacuità l’aspetto dzorim. Siamo qui al livello essenziale, fondamentale: la realizzazione di “luminosità vuota” è quello che si dice il raggiungimento dello stato di Dorje Chan (sanscrito: Vajradhara o buddhità suprema).
5. Questa che abbiamo indicato è la via profonda e rapida del vajrayana. Per praticarla in modo giusto bisogna avere fiducia e devozione. La fiducia riguarda gli insegnamenti trasmessi dal Buddha: non avere nei loro confronti né dubbi, né esitazioni, né preoccupazioni, ma solo una autentica fiducia. Questa stessa fiducia è necessaria verso il lama, che ci introduce in questi insegnamenti con l’iniziazione e ci trasmette le istruzioni necessarie per poterli praticare. Accanto alla fiducia, c’è la damtst’k, cioè il vincolo dell’iniziazione, la promessa, l’impegno inerente all’iniziazione. Questo impegno consiste nell’utilizzare la pratica con assiduità per trasformare le esperienze ordinarie del nostro corpo, della nostra parola e della nostra mente: si tratta di meditare la nostra forma come forma della divinità, la nostra parola come il suo mantra e la nostra mente come lo stato di assorbimento della stessa divinità.
Un altro impegno che fa parte della pratica vajrayana è il suo carattere privato e segreto. E una pratica che va fatta nell’interiorità, applicandola da se stessi e non trasmettendola a nessuno. Non bisogna parlarne a persone che non abbiano la necessaria qualificazione. Una informazione sconsiderata provocherebbe incomprensioni e susciterebbe problemi ed ostacoli, con il rischio di conseguenze negative. Praticando nel modo giusto i profondi insegnamenti vajrayana, si potranno percorrere rapidamente i diversi sentieri della evoluzione spirituale, le diverse “terre” del bodhisattva, fino alla realizzazione completa e perfetta di Dorje Chan. Con questi metodi impariamo ad apprezzare le pratiche ricche di energia ed applicate senza riserve. Solo a queste condizioni può essere realizzata la trasformazione, ricavandone un profitto inestimabile. A conclusione dell’insegnamento, facciamone la dedica, esprimendo l’auspicio che, sulla base di questo insegnamento, ci sia possibile percorrere la via del vajrayana, raggiungere il Risveglio, realizzare lo stato di Dorje Chan e utilizzare questa realizzazione per la felicità e la liberazione di tutti gli esseri. (Trad. dal francese di Vincenzo Piga) https://maitreya.it/wp-content/uploads/2020/02/Paramita-40.pdf