Biografie di Machig

Machig Labdro

Machig Labdro

Machig Labdrön e le fondamenta del Chöd

di JERÔME EDOU

    Il Meraviglioso e l’Immaginario, La Saggezza Primordiale delle Dākini.

    Biografie di Machig

  1. Il Meraviglioso e l’Immaginario

E’ abbastanza sorprendente che la biografia presentata qui, in traduzione, sia chiamata lo rgyus in Tibetano, un resoconto o una cronaca storica di Machig, piuttosto che rnam thar, agiografia, come ci si aspetterebbe. Sebbene all’ultima pagina1 si faccia riferimento al testo, come al rnam thar, non c’è alcuna traccia di una simile designazione o sottotitolo nell’opera, mentre La Storia Concisa della Vita – la fonte della versione tradotta qui – usa questa espressione per indicare il titolo del lavoro.2 Strutturalmente e stilisticamente, questo testo può essere identificato con le classiche agiografie dei mahāsiddha dell?India e del Tibet. Infatti, i sei stadi che sembrano definire una struttura tipica di un rnam thar secondo Nathan Katz3 aderiscono perfettamente con il resoconto di Labdrön: – …

  1. nata in una casta particolare: Machig è la figlia di un governatore locale.

  2. Insolite realizzazioni durante la primissima infanzia: è abilissima nella recitazione e nell’esegesi della Prajñāpāramitā.

  3. Una svolta decisiva che implica la rinuncia alla vocazione precedente: l’esperienza di Machig all’Albero di Serlag e il suo abbandono della vita monastica, degli onori, dello status, etc.

  4. L’iniziazione alla pratica Vajrayāna che di solito viene conferita da una dākini: sotto l’Albero di Serlag, Machig riceve le realizzazioni (“empowerments”?) da differenti deità e dākini; più tardi riceverà l’iniziazione addirittura direttamente da Tārā.

  5. L’incontro con i guru: Dampa Sangyé e/o Sönam Lama.

  6. Ottenimento del siddhi più elevato e autorizzazione a fare miracoli: nel caso di Machig, in particolare guarigioni miracolose.

Tāranātha, uno dei più autorevoli storici del Tibet, non menziona né Dampa Sangyé né Machig Labdrön nelle sue Opere Complete (controllare),4 ma in linea generale sottovaluta l’importanza storica di queste antiche agiografie:

In generale, le biografie sacre dei primi traduttori-yogi,

che non eccellevano di sicuro per il loro ordine (cronologico),

non sembra che si siano basati su fonti più attendibili che le ciance di un bazar.5

Questa affermazione non si riferisce direttamente a Machig Labdrön, dato che lei non appartiene alla categoria solita dei traduttori-yogi come il suo contemporaneo Marpa, per esempio. Tuttavia, una tale affermazione da parte di un simile storico del Tibet ci suggerisce di usare una certa prudenza nei confronti del valore storico di questo tipo di letteratura.

Lo scopo principale degli agiografi (in contrasto con gli storici) non è la presentazione di un semplice rendiconto dei fatti. Come implicito nel termine “completa liberazione” (rnam thar), le biografie sacre contengono la narrazione del progresso spirituale dell’adepto e il modo in cui riesce a liberarsi dalle illusioni e al particolare condizionamento sociale e storico subìto. Questo de-condizionamento interiore, che porta, dallo stato mondano ordinario a quello risvegliato del Buddha, è spesso catalizzato da eventi esterni; per cui, nelle agiografie, le esperienze spirituali possono venire registrate come miracoli. Può anche succedere che eventi esterni siano presentati come esperienze interiori, perché da una prospettiva della Mādhyamika, non c’è nessuna distinzione definita tra interno ed esterno, essendo l’intrecciarsi dei fenomeni lo sterminato gioco delle illusioni. Secondo questa prospettiva, ogni interpretazione di queste agiografie, necessariamente, corre il rischio di ridurre le esperienze meditative al livello di fatti ordinari o viceversa, facendo perdere così l’entità di quanto si intendeva dire. Solo i lettori che hanno molta familiarità con queste esperienze interiori riusciranno a leggere tra le righe.

Le agiografie così tendono a rappresentare modelli esemplari con intento didattico e valore di iniziazione siccome mettono in funzione i segni di una pietra miliare dell’illuminazione. Contro la struttura dei fatti biografici, essi includono edificanti, spesso archetipici episodi come vagare in posti selvaggi, guarigioni miracolose, insegnamenti collegati alla trasmissione spirituale, e infine le iniziazioni ricevute e le esperienze meditative incontrate che puntualizzano il sentiero spirituale dello yogi sulla via dell’illuminazione.6 Questi due ultimi punti, le iniziazioni e le esperienze spirituali, come la visione filosofica della vacuità distinguono chiaramente il rnam tharindo-tibetano dalla tradizione dell’eremitaggio occidentale, come è descritto neLa Leggenda d’Oro, per esempio.7

Mentre la dimensione soprannaturale dell’agiografia può essere in qualche modo collegata ai racconti classici di magia, la sua principale caratteristica sembra essere la realizzazione di un piano provvidenziale con il continuo intervento del divino attraverso visioni, sogni e profezie. Questo intervento divino unisce il cielo e la terra e spiega il potere soprannaturale dello yogi. Nel caso di Machig, la potenza del mito addirittura precede la sua nascita, perché il testo inizia con la relazione della sua vita precedente quando era un pandita indiano. Allo stesso modo il divino interviene quando la sua nascitaè rivelata a sua madre da un sogno profetico: una dākinī annuncia il suo futuro incontro con Bhadra, e appare Tārā in una visione a rivelare la vera natura di Machig.

Una conseguenza di questo continuo intervento divino è quella di sottovalutare il drammatico percorso della narrazione. Limita la libertà psicologica e la motivazione personale del protagonista attribuendo un elemento provvidenziale e fantastico al fato e alle scelte. Proprio come la storia sbiadisce dietro uno schermo di racconti fantastici, anche la personalità psicologica – considerata illusoria e condizionata, per cui impigliata nella tristezza – dà vita ad un modello universale di liberazione dall’ignoranza e dall’ego. Come ulteriore sostituto all’angoscia personale o alla scelta psicologica, c’è confidenza nella benedizione della deità. Machig non controlla più le sue azioni, ergo non ha un ruolo funzionale o una (possibilità di) scelta: quando si chiede se dovrebbe unirsi a Thöpa Bhadra, i suoi dubbi vengono istantaneamente eliminati dall’apparizione di una dākini che conferma la necessità di questa unione.

E’ interessante notare come l’autore qui usi l’espressione tshul bstan, “dimostrare o mostrare un modo di agire”, per esprimere i segni “manifesti” di stanchezza per l’esistenza umana di Machig. Questa espressione ricorre regolarmente nei rnam thar8 per illustrare il fatto che il siddha non agisce secondo capricci momentanei, ma segue invece un piano ben definito per guidare gli esseri verso la liberazione. Infatti è quasi sorprendente che l’autore usi solo tre volte l’espressione in tutta la biografia, la prima, quando Machig, nell’aspetto di un pandita indiano, dimostra il trasferimento di coscienza per poter rinascere in Tibet.

Questa familiarità tra l’adepto e il mondo divino che trascende il tempo e lo spazio profani è tipico del mondo spirituale del Vajrayāna, il sentiero della purezza universale (dag pa rab ‘byams). Sebbene basato sulla visione della vacuità di tutti i fenomeni, il Vajrayāna può essere definito come un ritorno al mondo relativo delle apparenze, con cui lo yogi deve ora esercitarsi a giocare, mentre progressivamente sostituisce la coscienza ordinaria con quella risvegliata della pura visione. Da questa profonda pura visione lo yogi farà apparire i campi di Buddha e potrà addirittura percepire direttamente la deità o conversare con lei.9 La Storia della Vita Concisa contiene il seguente aneddoto:

Un giorno, dopo aver ricevuto un’iniziazione da Machig, Thönyön Samdrup sperimentò una serie di visioni. Egli chiese a Machig ragguagli sulla natura di tali visioni, e anche se i campi di Buddha fossero lì o no. Machig replicò: “Figlio del lignaggio Prajñā, è come questo, tienilo in mente. Questa visione delle terre pure del Buddha è dovuta al fatto che tu ti sei liberato dagli oscuri veli delle illusioni. Una volta liberato da essi, uno vede le terre di Buddha ovunque, proprio come il riflesso della luna sull’acqua appare in ogni superficie liquida. Figlio di nobile discendenza, io stessa, ovunque mi trovi, sono sempre circondata da un’assemblea divina.”10

Da una prospettiva Mahāyāna, la natura della deità è vacuità priva di esistenza inerente, e nei testi viene spesso descritta come se avesse la natura di un arcobaleno, l’inseparabile unione di chiarezza e vacuità Ma come facciamo allora a capire la natura di queste visioni che appaiono a Machig nel corso della sua vita? La biografia le presenta come interventi provvidenziali, ma di solito essi sono il frutto della meditazione dello yogi, della purificazione del velo delle afflizioni emotive, come dice Machig. Quando è stata ottenuta una così grande padronanza della meditazione da parte dello yogi, egli può fare domande alla deità nel corso della pratica quotidiana, specialmente quando deve affrontare situazioni pericolose o dilemmi fondamentali, suoi o degli altri che hanno bisogno di assistenza. Ogni tanto le risposte compariranno in sogno e qui lo yogi imparerà a distinguere tra i sogni profetici e significativi (i “grandi sogni” nella lingua di C. G. Jung) e quelli ordinari che sono interferenze o semplicemente riflessi di eventi passati. Per fare l’esempio di uno yogi attuale, il Venerabile Lobsang Tenzin:

Seguendo il consiglio di Tsong-Khapa, presi la decisione di completare la meditazione sullo stato di generazione prima. Dopo aver preso questa decisione, sognai una vecchia che mi offriva del cibo delizioso, qualcosa che sembrava come burro fuso e chang (birra tibetana) in una tazza triangolare. L’offerta era straordinariamente deliziosa e io la bevvi tutta. Poi dissi alla vecchia che anche se fosse stato solo burro fuso io lo avrei bevuto tutto lo stesso. Ero pieno di speranza: se avessi praticato molto, il mio potenziale sarebbe maturato in fretta di sicuro, così presi la ferma risoluzione di praticare veramente.11

All’inizio, questi sogni e queste visioni possono essere assolutamente fortuite, ma tenderanno a manifestarsi più di frequente quando il potere del meditatore aumenterà e la mente sarà purificata, finché verrà il tempo in cui il praticante otterrà la piena padronanza della meditazione e diventerà, come il Guru Ratna nel nostro testo, “un mahāsiddha di Chakrasamvara capace anche di emanare il palazzo del mandala manifesto della deità.”12 Di nuovo il testo agiografico non traccia una netta distinzione tra gli eventi esterni e l’esperienza interiore.

La vita di Machig ci insegna poche cose sulla situazione politica nel Tibet dell’undicesimo. La sua prima funzione è quella di sostenere l’efficacia esemplare dell’autenticità educativa degli insegnamenti (quando Machig deve giustificare il suo sistema davanti agli ācārya indiani, per esempio) piuttosto che una ricerca estetica come lo sviluppo del risultato narrativo. Infatti, la sua narrativa non scorre mai; il lettore è costretto a fare dei continui salti, senza nessun periodo di passaggio, dalle generalità che contengono di tutto, al dettaglio più insignificante. Altrettanto comuni sono i cambi radicali nello stile, molti dei quali si possono attribuire ad ulteriori correzioni.

Naturalmente, queste osservazioni valgono per numerosi rnam thar. Tuttavia, la tecnica narrativa usata da Machig è vistosamente diversa da quella trovata nel rnam thar di Milarepa, dove tutte le risorse della tecnica letteraria sono abilmente applicate per servire allo svolgersi della trama e per sottolineare ancora di più l’ambivalenza del protagonista, senza diminuire in nessun modo le meravigliose caratteristiche dell’opera. Questa è la ragione per cui la biografia di Milarepa è, a ragion veduta, apprezzata sia come modello in questo genere letterario sia come uno dei sublimi capolavori di tutta la letteratura agiografica. Una possibile ragione ancora più profonda per spiegare questa differenza potrebbe essere collegata al fatto che Machig è considerata un’emanazione della dākini della saggezza primordiale e per questo svolge un progetto di massima levatura in cui mostra il sentiero verso l’illuminazione. Al contrario, Milarepa porta a termine tutto, inclusa l’ultima mèta, nel solo arco di una vita e per questo può essere ritratto in un modo profondamente umano, soggetto a dubbi e fallimenti. Quando il Maestro Bhirājā definì la realizzazione di Milarepa come il risultato di un’attività meritoria condotta nelle vite precedenti, Milarepa negò fermamente tali asserzioni, insistendo sul fatto che aveva ottenuto le sue realizzazioni grazie al suo sforzo e alla perseveranza in questa stessa vita.

L’esempio di Milarepa può essere benissimo un’eccezione alla regola. Parlando in generale, il sistema narrativo delle agiografie sembra seguire un modello preciso per illustrare la ricerca della liberazione: infinite domande sostituiscono la storia, lo spirituale subentra allo psicologico, la solitudine prevale sulla interazione sociale e l’immaginario ha il sopravvento sulla realtà. Tutte queste caratteristiche contribuiscono a creare un mito, che, senza dubbio, spiega perché questo tipo di letteratura sia così diffuso nella cultura popolare tibetana.

  1. La Saggezza Primordiale delle Dākini

Machig vedeva se stessa come una donna e una dākini realizzata. I resoconti storici l’hanno innalzata al livello di una dākini non-umana di saggezza primordiale. La Vita Meravigliosa tende a enfatizzare la natura divina di Machig, ma lei rimane una figura complessa e, più di chiunque altro, è questa duplice natura, relativa e assoluta, umana e divina che conferisce alla sua biografia quel carattere tanto ricco e paradossale, che colloca l’intera narrazione nel dominio del mistero. La stessa Machig commenta questa sua duplice natura in un discorso indirizzato ai suoi discepoli:

Allo stesso modo io, Labdrön, una donna ordinaria, sono il palazzo (pho brang) dove i Cinque Buddha e le loro consorti si incontrano e rimangono, insieme al loro seguito, le guardie maschili e femminili e le dākini.13

Che cos’è una dākini? L’equivalente tibetano del termine sanscrito è “khandroma” (mkha’ ‘gro ma) che Herbert V. Guenther felicemente traduce con essere di trascendenza,”14 ma potrebbe essere tradotto più letterariamente con “messaggera celeste” o “colei che solca il cielo” in linea con la spiegazione etimologica data dal Venerabile Tenga Rinpoché:

La beatitudine-saggezza libera dal desiderio è l’essenza di tutte le desiderabili qualità. Questa incarnazione di saggezza femminile, la dākini, appare e scompare (‘gro) senza ostacoli nello spazio sconfinato (mkha’).15

Sua Santità il Dalai Lama commenta ulteriormente il termine:

Il significato del termine tibetano mkha’ ‘gro ma è, alla lettera, “colei che vola” o “che percorre lo spazio. Questo implica qualità reali, ma che non sono necessariamente spirituali. Le Dākini sono esseri umani – non uccelli! – che, grazie a certi poteri o qualità personali, sono in grado di volare: questa è la definizione, positiva o negativa, di mkha’ ‘gro ma.

Al livello più alto, mkha’ significa, non “spazio vuoto”, ma śunyata, vacuità o spazio interiore, la verità ultima, dove ‘gro rappresenta la mente assorbita nel suo spazio interiore o śūnyatā.16

E alla fine la spiegazione di David Snellgrove:

Si fa spesso riferimento alle dakini nei testi tantrici dell’India, dove appaiono come le partner degli yogi che si affollano intorno a loro quando essi visitano le grandi mete di pellegrinaggi. La loro presenza era essenziale per la rappresentazione dei riti psico-sessuali e le loro attività, in generale, sono così terrificanti e oscene al punto da guadagnarsi giustamente il nome di streghe. Esse rientrano nella mitologia tibetana in una forma più gentile e cessando, nel complesso di essere esseri fatte di carne e sangue, diventano le detentrici di dottrine mistiche e portatrici di offerte divine. Esse diventano i simboli individuali della saggezza divina con cui il meditatore deve unirsi misticamente…17

Quest’ultima descrizione fornisce un’idea generale dell’evoluzione delle dākini dall’India, dove appaiono in forme distruttive, assetate di sangue e a volte cannibalesche, al Tibet, dove, gradatamente, diventano sempre più benefattrici e assumono nuovi ruoli: Maestre che trasmettono istruzioni, partner per certe pratiche tantriche, deità di meditazione (yi dam) e yogini, spesso considerate emanazione di saggezza come Machig. Questa evoluzione è illustrata nella presente biografia: la dākini menzionata per prima è l’arrogante signora di una terra di cremazione vicino a Bodhgaya, in India, che viene successivamente soggiogata da Arthasiddhi Bhadra. Ma è una dākini benefica che gli consente di trasferire la sua essenza vitale in Tibet, ed è un’altra dākini pacifica che annuncia la nascita di Machig a sua madre, trasmette certe realizzazioni a Machig stessa, viene a darle il benvenuto da parte di Thöpa Bhadrae assiste suo figlio durante il suo solitario ritiro.

Il Buddhismo Mahāyāna associa il principio femminile con la vacuità, la vera fonte della liberazione, la Prajñāpāramitā, matrice della realizzazione di tutti i Buddha. Essa viene chiamata la Grande Madre, Yum Chenmo, e anche la Dākini di Saggezza. Nella tradizione tantrica, per realizzare o attuare questo principio di saggezza femminile, essa deve essere unita con il principio maschile o degli abili mezzi o grande beatitudine. Questa unione di beatitudine e vacuità (bde stong) è simbolicamente rappresentata dall’unione sessuale, nel senso di esperienza di estasi non-duale e di inseparabilità dei due principî. Per cui, nella pura visione dell’adepto, questo principio femminile, grossolano o sottile in apparenza, nell’aspetto di una donna ordinaria o di una deità, rimane la manifestazione della vacuità, per esempio, la dākini di saggezza18

La figura di Machig stessa, come descritta nella sua biografia, evoca i molteplici aspetti delle dākini: a volte appare come una ragazza ben educata e studiosa, a volte come un essere divino dotato di tutti i segni di una dākini di saggezza; più tardi appare come un potente mahāsiddha che soggioga i dèmoni e opera guarigioni miracolose, come una dākini pienamente realizzata, e come un consorte tantrico impegnato in una pratica di karmamudrā. In questo ultimo caso, la consorte (rig ma) è chiamata “donna di conoscenza”, perché è grazie alla sua cooperazione che la co-emergente consapevolezza-beatitudine, che sperimenta l’essenza della realtà, compare. In alcuni casi le consorti sono emanazioni spirituali, in altri esse sono reali consorti fisiche,19 ma in ogni caso esse sono considerate dākini. La parola maschile dāka ha la stessa etimologia sanskrita di dākini, “coloro percorrono lo spazio”, ma i testi tibetani, anziché avere l’equivalente maschile, mkha’ ‘gro, più spesso usa il termine dpa’bo, “eroe” o “guerriero”. Anche se i dāka dovrebbero, in teoria, svolgere le funzioni parallele di consorti tantrici e messaggeri celestiali per le praticanti, nella tradizione tibetana i loro ruoli non ricoprono una così ampia gamma di attività, status e potere come quelli delle dākini. Nella tradizione popolare, il termine mkha’ ‘gro ma è degno del massimo rispetto e viene spesso conferito a insegnanti donne riconosciute come incarnazioni e yogini realizzate, come un equivalente di Lama (bla ma), tulku (sprul sku) o persino Rinpoché (rin po che), che pare essere applicato per lo più a insegnanti maschi.

Una Biografia di Machig dà una versione alquanto diversa dell’incontro di Machig con Thöpa Bhadra, che chiama Thöpa Bharé e descrive come un Maestro locale, slob dpon, dell’area di Echung. Machig lo converte con canzoni spirituali di realizzazione (mgur) ed esibizioni dei suoi poteri magici, e alla fine lui diventa pieno di fede e devozione. L’intera sezione dà l’impressione che Machig lo consideri come suo consorte tantrico – dāka – anche se il testo non è esplicito su questo punto.20 Se, come tendiamo a pensare noi, questo testo è una versione più disadorna della vita di Machig, dove lei viene presentata come una donna più terrena e una praticante, ciò starebbe a significare che lo status di praticante femminile è cambiato nel corso della storia e che la nostra versione è stata gradualmente raffinata per dare a Machig un’apparenza più accettabile dall’ideologia patriarcale sempre più forte che ha preso piede in Tibet negli ultimi tempi.

La letteratura Vajrayāna definisce due tipi di dākini (‘jig rten gyi mkha’ ‘gro), che può essere assetata di sangue e feroce come può essere la protettrice delle dākini delle terre roventi, o, ancora, dolci fate e messaggere celesti che assistono lo yogi in meditazione Queste (1) dākini mondane sono spesso antiche deità locali associate a una fonte o a una montagna21che sono state costrette a fare giuramento da operatori di miracoli e hanno fatto da protettrici dell’insegnamento. (2) Le dākini sovramondane includono le dākini della saggezza (ye shes mkha’ ‘gro), la fonte dell’atttività spontanea dei buddha che elimina gli ostacoli. Secondo Machig, le cinque dākini del mandala, esteriormente possiedono la natura dei cinque corpi di Buddha, interiormente sono le cinque dākini della saggezza e segretamente rappresentano le cinque saggezze di Buddha. Come Machig spiega a suo figlio:

Da un punto di vista esterno, io sono la madre dei Buddha.

Da un punto di vista interno, io sono Ārya Tarā, e

Da un punto di vista segreto io sono Vajravārāhi

Circondata dalle quattro dākini.

Io, la donna ordinaria Labdrön,

in questo mandala delle dākini della saggezza e delle cinque deità,

sono Vārāhi (Phag mo), l’aggregato della coscienza mentale.

L’aggregato della forma è la dākini del Buddha,

delle sensazioni è la dākini di Ratna (Gioiello),

delle percezioni è la dākini di Padma (Loto),

dei fattori compositi è la dākini del Karma (Azione).23

Nel corso di un’udienza privata, Sua Santità il Dalai Lama ha dato la seguente spiegazione sulle dākni, che ha nominato “le guardiane femminili dei Tantra”:

Ci sono tre tipi di dākini: (1) Le dākini ultime che sono la saggezza che realizza la vacuità. Questa saggezza è il livello più sottile di consapevolezza, la chiara luce trasformata in saggezza che realizza la vacuità.

  1. Per calcolare la nascita di questa dākini, uno deve eliminare le forme grossolane della coscienza tramite la pratica del calore interiore (gtum mo) che è una particolare forma di beatitudine. Questa beatitudine è il mezzo per eliminare le coscienze grossolane; per cui, il calore interiore rappresenta un altro significato di dākini.

  2. Per sviluppare il calore interiore, in certe circostanze e condizioni, uno dovrebbe affidarsi ad una consorte come se fosse la sua assistente, e questo è un terzo significato di dākini. Queste consorti si distinguono in base a loro caratteristiche fisiche e qualità spirituali. A seconda del loro livello di realizzazione spirituale, queste dākini vengono chiamate “nata da un campo” “nata da un mantra” e “co-emergente” o “innata”. Ci sono differenti interpretazioni delle loro caratteristiche specifiche.

Sua Santità Il Dalai Lama dà un’interpretazione nella sua introduzione a Il Tantra in Tibet:

  1. coloro che sono nate da un campo e percorrono lo spazio (zhing skyes mkha’ ‘gro) sono nate con corpi di cane e sangue;

  2. coloro che sono innate (o co-emergenti) (lhan skyes) e percorrono lo spazio hanno ottenuto la realizzazione dello stadio di completamento (rdzogs skyes) nello Yoga Tantra più Elevato;

  3. coloro che, nate da un mantra e percorrono lo spazio (sngags skyes) non hanno ancora generato lo stadio di completamento, ma dimorano nella realizzazione dello stadio di generazione (bskyed rim).

    Secondo un’altra interpretazione,

    (1) coloro che sono nate da un campo e percorrono lo spazio hanno ottenuto la chiara luce soggettiva (il terzo dei cinque livelli dello stadio di completamento): (2) coloro che sono innate e percorrono lo spazio hanno una realizzazione minore ma sono ancora nello stadio del completamento;

    (3) e coloro che sono nate dai mantra e percorrono lo spazio sono definite coloro che dimorano nello stadio di generazione.24

Khenpo Tsultrim Gyamtso ha dato un’altra interpretazione di questi tre tipi di consorti dākini e dāka nella forma di una spontanea canzone spirituale:

Tra dāka e dākini ci sono ovvie differenze

Nel modo in cui si mostrano nella realtà apparente;

ma per la chiara luce mahāmudra

in essenza, non c’è un atomo di differenza!

Coloro che sono intelligenti e fortunati

Che sono entrati nel Vajrayāna

E hanno ottenuto il potere dei mantra

Sono rinomati come dākini nate dai mantra.

Seguendo un Maestro realizzato

E per il potere del riconoscimento dello stato naturale

Essi realizzano direttamente la vera natura della mente.

Queste vengono chiamate anche dākini co-emergenti.

Dimorando nei campi dei ventiquattro

Luoghi sacri di corpo, parola e mente,

esse ottengono il beneficio degli per gli altri.

Queste vengono chiamate dākini nate dai campi.25

Ad un livello relativo, Machig è una giovane donna, esemplare nel suo comportamento. Tramite la sua comprensione della Prajñāpāramitā e la sua esperienza diretta del non-sé, diventa una mahāsiddha il cui insegnamento creò un notevole scalpore. Già fin dalla nascita ella porta i segni di una dākini, ma, come la maggior parte dei grandi Maestri predestinati del passato, uomini o donne, Machig deve ancora realizzare la natura divina attraverso lo studio, la meditazione e l’azione, ricevendo insegnamenti e potenziamenti che portano a una maturazione tale per cui Tārā, alla fine, può rivelare la sua vera natura di Machig. Ad un livello di verità assoluta, Machig è una dākini non-umana, un’emanazione mentale di Yum Chenmo.

Secondo alcune profezie, l’emanazione mentale, tra la moltitudine delle emanazioni di Yum Chenmo, deve pacificare gli esseri di quattro luoghi sacri:

  1. le sfere dei trentatrè dèi e la terra pura di Tushita (dGa’ ldan),

  2. Bodhgaya in India,

  3. il Tibet e

  4. la regione di Uddiyāna (O rgyan) a Ovest.

    Di conseguenza, prima della sua reincarnazione indiana a Bodhgaya come Arthasiddhi Bhadra, Machig si manifesta tra gli dei. Più tardi, ella appare in una terza incarnazione come Machig Labdrön in Tibet. Riguardo al suo quarto e ultimo compito, Machig dichiara, davanti alla grande assemblea di Zangri, durante il suo dibattito con gli ācārya indiani:

All’età di novantanove anni, me ne andrò ad Ovest, nella regione di

Uddiyāna. Dopo aver beneficato gli esseri là,

partirò per la città dei rāksasa.26

Ricapitolando, le dākini ricoprono l’intera varietà di possibili manifestazioni del principio femminile, dalla infima fattucchiera alla più profonda deità, dalla donna più ordinaria alla più potente delle dākini. Questa abbondanza di molteplici sfaccettature rende difficile far rientrare tutte le dākini in una singola definizione, ma nell’universo evocativo della tradizione Vajrayāna, esse rappresentano il gioco naturale della manifestazione dei fenomeni, la spontanea, luminosa, vacua danza della saggezza, l’unica fonte di tutte le realizzazioni.