Il grande sigillo della natura di Buddha
di Giuseppe Baroetto. Tratto da: “Mahâmudrâ”, in Occidente Buddhista, n. 16, Milano, 1997, pp. 60-63.
Etimologicamente maha vuol dire grande, mentre mudrâ ha il significato di sigillo, matrice, segno e simbolo. La traduzione “Grande Sigillo” si ricollega alla definizione tradizionale, così riportata dal maestro tibetano Tashi Namgyal (1513-1587) nel suo voluminoso trattato (Mahâmudrâ, Shambhala, Boston 1986):
«Come un sigillo lascia il segno su altri oggetti, così Mahâmudrâ, la realtà ultima, imprime se stessa su tutta la realtà del samsâra e del nirvâna» (p. 92).
Attualmente questa dottrina viene tramandata unicamente dai maestri tibetani, eppure, se la si esamina in profondità e senza preconcetti, si può scoprire che nella sua essenza è proprio il cuore di tutte le tradizioni buddhiste. Infatti, Tulku Urgyen insegnava che «Mahâmudrâ ha tre modalità: Mahâmudrâ dei sûtra, Mahâmudrâ dei mantra (tantra) e Mahâmudrâ dell’essenza» (Tsele Natsok Rangdrol, The Lamp of Mahamudra, Rangjung Yeshe, Kathmandu 1988, p. 13). Per quanto concerne la prima Mahâmudrâ, il maestro Tashi Namgyal cita alcuni sûtra (testi fondamentali del Buddhismo exoterico) dove si leggono frasi come queste (pp. 93, 97-98):
«I fenomeni sono segnati dal sigillo del Tathâgata, la natura di Buddha che è senza nascita».
«Tutti i fenomeni sono segnati dal sigillo della liberazione naturale, completamente puro e non duale. Come lo spazio celeste, tutta la realtà è senza distinzioni, perché ogni cosa è segnata dal sigillo dell’uguaglianza».
Ebbene, questa comprensione non costituisce anche l’intento ultimo dei tantra (le fonti letterarie del Buddhismo esoterico)? Se ci atteniamo all’opera autorevole di Tashi Namgyal, la risposta sarebbe affermativa. Allora, quale potrebbe essere la differenza fondamentale tra le prime due Mahâmudrâ? Tashi Namgyal risponderebbe che la differenza non riguarda, ovviamente, l’unico senso finale, ma i metodi seguiti per realizzarlo.
Il maestro Padmasambhava (sec. VIII) ne La via graduale del mantra segreto classifica i metodi esoterici secondo il seguente schema: il sigillo dell’impegno (samaya-mudrâ), il sigillo dell’insegnamento (dharma-mudrâ), il sigillo dell’azione (karma-mudrâ) e il Grande Sigillo (mahâmudrâ). Queste mudrâ o sigilli sono gli insegnamenti collegati alle quattro iniziazioni dei “tantra supremi” (anuttara), le quali abilitano, rispettivamente, alla meditazione su una divinità, al controllo dell’energia vitale nel proprio corpo, all’unione sessuale e alla contemplazione della consapevolezza non duale in cui consiste la natura di Buddha.
Riguardo alla “Mahâmudrâ dell’essenza” il maestro Tashi Namgyal afferma più volte che essa si differenzia dalla altre due in quanto prescinde sia dai sûtra sia dai tantra. Su questo argomento in Tibet si è discusso a lungo, perché alcuni importanti Lama, per esempio il noto Sakya Pandita (1181-1251), non hanno voluto riconoscere la validità della terza Mahâmudrâ, tuttavia — come Tashi Namgyal ha cercato di dimostrare — essa è attestata in molte fonti autorevoli. Gampopa (1079-1153), grande discepolo del famoso mistico Milarepa e fondatore dell’ordine Dakpo Kagyü (a cui apparteneva Tashi Namgyal), insegnava sûtra e tantra, ma anche la Mahâmudrâ dell’essenza. Quest’ultima offre la duplice possibilità della via graduale e di quella diretta, a seconda delle capacità del praticante:
a) la via graduale prescrive prima lo sviluppo della quiete mentale (shiné), poi la chiara visione (lhakthong) della vera natura della realtà;
b) la via diretta o breve, viceversa, inizia con la chiara visione, a cui segue la stabile contemplazione della stessa.
I successori di Gampopa non si attennero tutti al suo sistema, ma lo adattarono integrando la Mahâmudrâ dell’essenza con le pratiche tantriche e privilegiando la via graduale a quella diretta. Lo stesso Tashi Namgyal ne tiene conto nel suo trattato sulla Mahâmudrâ, la cui sezione principale è dedicata proprio a tale sintesi tantrica secondo la procedura graduale.
Il testo intitolato La Mahâmudrâ che elimina il buio dell’ignoranza (Ubaldini, Roma 1985) — noto manuale del IX Karmapa, Wangchuk Dorje (1556-1603), capo dell’ordine Karma Kagyü — propone unicamente questa metodologia caratterizzata dalle pratiche preliminari basate sui tantra e dalle meditazioni progressive sulla quiete mentale, seguite da quelle sulla chiara visione.
«D’altro lato», scrive Tashi Namgyal, «se si segue il sistema di Gampopa di insegnare la Mahâmudrâ a sé stante, non è necessario [da parte del maestro] conferire l’iniziazione ai devoti. Attenendosi al suo sistema, si dovrebbero seguire gli esercizi preparatori da lui prescritti, senza includere la meditazione tantrica sulla divinità Vajrasattva, la recita del mantra, la trasformazione di se stessi nella divinità (yidam) e la visualizzazione del proprio guru nella forma del Buddha Vajradhara, sorgente dell’iniziazione esoterica» (p. 124).
Inoltre, sebbene la via graduale sia valida, secondo Gampopa «il sistema principale, essendo lo stadio contemplativo della Mahâmudrâ, consiste nei metodi [per realizzare prima di tutto la chara visione della vera realtà] chiarificando i dubbi e le distorsioni e poi ricercando una stabile contemplazione» (pp. 143-144).
Questo sistema diretto non è un’innovazione di Gampopa, ma risale a due importanti mistici indiani: Saraha (sec. VIII-IX) e Tilopa (928-1009). Il significato della Mahâmudrâ secondo i due lignaggi è lo stesso, comunque in questo articolo considereremo soltanto l’insegnamento del lignaggio “breve” di Tilopa che, tramite Nâropa, giunge a Marpa, maestro di Milarepa. Ne I consigli del Grande Sigillo, trasmessi da Tilopa a Nâropa (956-1040) sulle rive del Gange, la Mahâmudrâ indipendente dai sûtra e dai tantra è indicata esplicitamente con queste parole:
La visione del Grande Sigillo, che è chiara luce, non può essere conseguita attenendosi alle esposizioni dogmatiche e alle scritture proprie sia del sistema exoterico — ammaestramenti (sûtra), regole etiche (vinaya), studi filosofici (abhidharma) e perfezioni (pâramitâ) — sia del sistema esoterico (tantra). Infatti la visione della chiara luce è oscurata dal dogmatismo. L’osservanza dogmatica dei precetti (samaya) equivale a non mantenere il vero impegno. Non avere fissazioni è libertà dal dogmatismo […]. Se non si perde la consapevolezza del valore autentico, al di là di idee fisse e comportamenti rigidi, l’impegno [spirituale] è mantenuto come una lampada che elimina l’oscurità. Quando si è liberi dal dogmatismo, perché non ci si fissa più su una conclusione, si consegue la visione [del vero significato] di tutti gli insegnamenti.
E in maniera ancora più esplicita, Il tesoro dei cantici, che tramanda l’insegnamento finale di Tilopa a Nâropa, recita così:
Non c’è proprio nulla né da eliminare né da conquistare, né da ottenere né da rifuggire. Non rimanere nella foresta a praticare l’ascetismo. La felicità non può essere trovata tramite le abluzioni e la purità rituale. Neppure il culto delle divinità ti farà ottenere la liberazione. Comprendi quel rilassamento in cui non si afferra né si abbandona alcunché. La meta è la consapevolezza della propria vera natura. Nell’istante in cui si consegue questa comprensione, non c’è più alcuna via da seguire. Le persone ordinarie che non capiscono ricercano la meta altrove. Felicità è trascendere speranza e timore.
Secondo il maestro Lhündrup Tenzin — da cui ho ricevuto la trasmissione di questi testi — Tilopa cercava soltanto di far capire a Nâropa che, fin quando ci si aggrappa ai princìpi dogmatici e alle norme rigide di una tradizione, sia essa exoterica o esoterica, non si può comprendere il vero significato del risveglio spirituale realizzato dai Buddha.
Nâropa era già un noto esperto di sûtra e tantra, quando comprese di essere ancora lontano dalla realizzazione del senso reale di tali insegnamenti; perciò abbandonò l’importante monastero di cui era abate, per mettersi alla ricerca di Tilopa, il suo ultimo maestro. Il famoso studioso e praticante Nâropa non comprese subito l’insegnamento diretto di Tilopa, così continuò a seguire la via graduale dei “tantra supremi “per diversi anni, finché, dopo aver superato varie prove, divenuto umile e semplice come il maestro, realizzò il vero significato del Dharma del Buddha. Fu allora che compose La sintesi del Grande Sigillo, un testo breve, ma molto significativo, tradotto qui di seguito dal tibetano:
La sintesi del Grande Sigillo di Nâropa
Tutti i fenomeni sono la propria coscienza. La visione della realtà esterna è la mente che si inganna; è come un sogno, priva di sostanza. Anche la coscienza è soltanto il movimento della consapevolezza. Non ha un’identità propria, perché è l’energia del prâna: come lo spazio celeste, è vuota di un’identità.
Tutti i fenomeni si trovano nell’equanimità come nel cielo, e ciò vien detto “Grande Sigillo”. Non ha un’identità propria che possa essere indicata, perciò la vera natura della coscienza è la stessa condizione del Grande Sigillo. In essa non c’è nulla da correggere né da trasformare. Se si comprende direttamente proprio questo, tutta l’esistenza è il Grande Sigillo, il vasto e onnipresente “corpo spirituale” (dharmakâya).
Essendo rimasti rilassati nel proprio stato naturale non corretto, [lo stato di coscienza] senza nulla da pensare è il corpo spirituale. La pratica è rimanere [naturali], senza [nulla] cercare. La pratica che consiste nel cercare [alcunché] è la mente che si inganna. Così come non c’è dualità tra il cielo e i fenomeni, non c’è dualità fra la pratica e la non pratica.
Dove sono la libertà e il condizionamento? Lo yoghin comprenda in questo modo. Così comprendendo, si dissolve il karma sia dei peccati che delle virtù. Le emozioni sono la grande saggezza, amiche per lo yoghin come la foresta rispetto al fuoco. Dove andare e rimanere? Cosa c’è da meditare in ritiro? Chiunque non comprenda proprio questo, non consegue altro che una liberazione temporanea. Se invece si comprende proprio questa [verità], da che cosa si può essere legati?
Oltre a rimanere nello stato naturale senza distrarsi, non si parla né di contemplazione né della sua assenza, perché non c’è niente da correggere con un antidoto o da praticare.
Qui nulla esiste davvero: i fenomeni si dissolvono naturalmente e appare la vera natura della realtà; i pensieri si dissolvono naturalmente e sorge la grande saggezza. Lo stato equanime e non duale è il corpo spirituale.
Così come un grande fiume fluisce di continuo, qualunque cosa si faccia è ognora sensata. Questa [condizione] è sempre lo stato di Buddha. Non essendoci posto per il samsâra, è grande felicità.
Tutti i fenomeni sono vuoti di un’identità propria e l’idea del vuoto è svanita naturalmente. [Essere] liberi dal pensiero e non tenere nulla in mente: questa è la via di tutti i Buddha.
Anche se i maestri tibetani conoscono questi e altri testi analoghi, è da secoli che evitano di trasmetterli apertamente. Le motivazioni addotte sono principalmente due: alcuni ritengono che i discepoli pronti per comprendere e applicare correttamente la Mahâmudrâ indipendente dai sûtra e dai tantra siano rarissimi; altri sostengono che questa Mahâmudrâ sia unicamente la meta finale dei sûtra e dei tantra, al di là dei vari metodi graduali. Quando chiesi al Lama Lhündrup Tenzin quale fosse la sua posizione, ricevetti una risposta per me molto chiarificatrice, che riporto integralmente qui di seguito a conclusione di questo articolo: «La maggior parte delle persone riescono a comprendere la Mahâmudrâ soltanto alla fine di un percorso graduale più o meno lungo; pochi sono in grado di realizzarla immediatamente sin dall’inizio. Tuttavia, come tu ben sai, prima o poi gli uccelli devono lasciare i punti di appoggio, per imparare a volare liberamente nello spazio del cielo sconfinato. Ecco la Mahâmudrâ indipendente dai sûtra e dai tantra! Se un maestro non ha compreso questo principio profondamente, oppure si sbaglia nel valutare le capacità del discepolo, può trasformare il Dharma sopramondano del Buddha nel dharma mondano di Mâra, e il nido da cui spiccare il volo in una gabbia di paure e speranze. Oggi sembra che il Buddhismo si stia diffondendo in tutto il mondo. Ovunque spuntano come funghi i “Centri di Dharma”, molte dei quali fondati da importanti maestri depositari di tradizioni insuperabili. Così, insieme al Dharma arrivano anche le etichette, le pubblicità del prodotto migliore, la concorrenza e gli steccati di antiche e nuove divisioni. Ecco i segni del declino del Dharma nell’epoca finale! Se tutti i maestri fossero umili e semplici come Tilopa, potrebbero riscoprire l’autentico Dharma del Buddha, libero dai dogmatismi delle convinzioni e dalle rigidità delle regole. Questo è l’insegnamento al di là dei limiti. Tu chiamalo pure come preferisci, ma ricorda che in pratica è il cuore della vera libertà».
Per redigere la traduzione ho confrontato l’edizione attribuita a Maitripa in Do ha mdzod brgyad (Tashijong, Palampur, H.P., India, 1973, pp. 24-25b) con l’edizione contenuta nel Gdam ngag mdzod (1, Delhi, N. Lungtok and N. Gyaltsan, 1971, pp. 47-48). http://buddhismoitalia.forumcommunity.net/?t=16500842