Sogyal Rinpoche: Il sentiero spirituale. Trovare la via. Come seguire il sentiero. Il maestro. L’alchimia della devozione. Un flusso di benedizioni. Il Guru Yoga: fondersi con la mente di saggezza del maestro. Invocazione. Maturazione e approfondimento della benedizione. Trasmissione di potere. Dimora nel Rigpa. La visione. La meditazione. L’azione. Il corpo d’arcobaleno.
Il sentiero spirituale.
Nelle “Conversazioni a tavola” del poeta e maestro sufi Rumi c’è un passo intenso e profondo: Il maestro disse che un’unica cosa il mondo non va dimenticata. Se anche dimenticaste tutto quanto, ma non questa, non c’è motivo di preoccupazione. Ma se ricordaste, eseguiste e portaste a compimento tutto il resto, dimenticando questa cosa sola, non avreste fatto assolutamente niente. Come se un re vi avesse inviato in un paese straniero con un compito preciso. Andate, vi occupate di centinaia di altre cose ma, se tralasciate il compito per cui siete stati mandati, è come se non aveste fatto niente. L’uomo è venuto in questo mondo con un preciso compito, e questo è il suo scopo. Se non lo esegue, non ha fatto niente.
Tutti i maestri spirituali dell’umanità hanno detto la stessa cosa: lo scopo della vita su questa terra è unirci alla nostra vera natura illuminata. Il ‘compito’ per cui il ‘re’ ci ha inviati in questo strano, oscuro paese è quello di realizzare e incarnare il nostro vero essere. Per farlo c’è un solo
modo, intraprendere il cammino spirituale con tutto l’ardore, l’intelligenza, il coraggio e la determinazione di trasformarci che possiamo chiamare a raccolta. Nella Katha Upanishad, la Morte dice a Nachiketas: C’è il sentiero della saggezza e il sentiero dell’ignoranza. Essi sono divisi e conducono a mete diverse… Immersi nell’ignoranza, reputandosi saggi e dotti, gli sciocchi vanno a casaccio di qua e di là come il cieco guidato da un cieco. Ciò che è oltre la vita non si rivela a coloro che sono puerili, disattenti e illusi dalle ricchezze.
TROVARE LA VIA
In altri tempi e culture, la via della trasformazione spirituale era riservata a un numero relativamente piccolo di persone. Ma oggi, se il mondo vuole essere salvato dai pericoli interni ed esterni che lo minacciano, una buona parte dell’umanità deve cercare la via della saggezza. Nella nostra epoca di violenza e disintegrazione, la visione spirituale non è un lusso elitario ma un fatto vitale per la nostra sopravvivenza.
Percorrere la via della saggezza non è mai stato così urgente e così difficile. La società è votata quasi totalmente all’esaltazione dell’io, con le sue tristi fantasie di successo e di potere, e l’ammirazione va proprio a questi agenti di avidità e di ignoranza che stanno distruggendo il pianeta. Mai è stato altrettanto difficile ascoltare la poco lusinghiera voce della verità e, una volta udita, seguirla. Niente, nel mondo che ci circonda, incoraggia questa scelta. La società in cui viviamo sembra negare qualunque idea di sacralità o di valori o significati eterni. Mai come ora, in questo momento di maggior pericolo quando è in forse il nostro stesso futuro, gli esseri umani si sono trovati sconcertati e imprigionati nell’incubo che essi stessi hanno creato.
Nella tragicità della situazione c’è un valido motivo di speranza: il fatto che gli insegnamenti spirituali di tutte le grandi tradizioni mistiche sono ancora a disposizione. Purtroppo i maestri che li incarnano sono rari e tra i ricercatori della verità c’è poca capacità discriminante. L’Occidente è diventato un paradiso per i ciarlatani spirituali. La validità di uno scienziato può essere provata attraverso la verifica delle sue scoperte ma, in Occidente, in assenza dei criteri nati da una robusta e matura cultura della saggezza, è praticamente impossibile stabilire l’autenticità dei cosiddetti ‘maestri’. Chiunque, sembra, può atteggiarsi a maestro e attirare un seguito di discepoli.
Non così in Tibet, dove la scelta di un particolare sentiero o maestro era molto più sicura. Chi si accosta al Buddhismo tibetano spesso si stupisce dell’estrema importanza assegnata al lignaggio, alla catena di trasmissione ininterrotta da maestro a maestro. Il lignaggio è una forma essenziale di tutela, perché conserva l’autenticità e la purezza dell’insegnamento.
L’identità di un maestro è stabilita a partire dal suo maestro. Non si tratta di preservare una forma fossilizzata e ritualistica, ma di trasmettere da cuore a cuore, da mente a mente, una conoscenza viva ed essenziale assieme a strumenti efficaci e potenti.
Riconoscere un vero maestro da uno falso è un compito molto sottile e complesso. In questa nostra epoca drogata dai divertimenti, dalle risposte facili e dalle riparazioni rapide, le qualità molto più sobrie e poco spettacolari della maestria spirituale possono facilmente passare inavvertite. Inoltre le nostre idee di una santità pia, melliflua e mansueta possono renderci ciechi alle manifestazioni dinamiche, esuberanti e briose della mente illuminata.
Scrive Patrul Rinpoche: “Le incredibili qualità dei grandi esseri che tengono celata la propria natura sfuggono alle persone ordinarie come noi, a dispetto degli sforzi per indagarli. Al contrario, qualunque ciarlatano è abilissimo nell’ingannare gli altri comportandosi come un santo”. Se Patrul Rinpoche poteva scrivere queste parole nel Tibet del secolo scorso, quanto sarà più vero nel caos del contemporaneo supermercato spirituale!
Come faremo, in questi tempi di scetticismo, a trovare la fiducia indispensabile per seguire un cammino spirituale? Che criteri adottare per stabilire l’autenticità di un maestro?
Ricordo vividamente un maestro, che conosco bene, che chiese agli studenti che cosa li attirava verso di lui e perché gli avevano dato fiducia. Una donna rispose: “Perché ho capito che, più di ogni altra cosa, desideri che comprendiamo e mettiamo in pratica gli insegnamenti, e ho visto la tua abilità nell’aiutarci a farlo”.
Un uomo sulla cinquantina rispose: “Non è tutto quello che sai che mi commuove, ma il tuo cuore altruistico e buono”.
Una donna sui quarant’anni: “Ho tentato di fare di te mia madre, mio padre, il mio terapeuta, mio marito e il mio amante. Tu sei passato tranquillamente attraverso lo spettacolo di tutte queste proiezioni senza mai allontanarti da me”.
Un ingegnere trentenne: “In te ho visto una genuina umiltà. Vuoi il bene di tutti noi e, pur essendo un maestro, non hai smesso di essere lo studente dei tuoi grandi maestri”.
Un giovane avvocato: “Per te la cosa più importante sono gli insegnamenti. A volte penso che il tuo ideale è diventare del tutto superfluo, limitandoti a trasmettere gli insegnamenti nella forma più priva di io”.
Un altro studente, un po’ schivo: “All’inizio ero terrorizzato dall’aprirmi a te. Sono stato ferito tante volte. Ma, iniziando a farlo, ho incominciato a vedere in me reali cambiamenti. A poco a poco mi sono sentito sempre più riconoscente perché capivo quanto mi stavi aiutando. Ho scoperto di avere una fiducia in te così profonda che non l’avrei mai creduto possibile”.
L’ultimo, un operatore di computer sui quaranta: “Per me sei stato uno specchio straordinario che mi ha fatto vedere due cose: il mio aspetto relativo e il mio aspetto assoluto. Guardandoti, vedo (non per quello che sei ma per l’immagine che mi rimandi) tutta la confusione del mio aspetto relativo, e con molta chiarezza. Ma vedo anche riflessa in te la natura della mente da cui tutto si produce, momento per momento”.
Queste risposte ci rivelano che i veri maestri sono gentili, compassionevoli, instancabili nel desiderio di condividere la saggezza ricevuta dai propri maestri, non approfittano e non manipolano gli studenti in nessuna occasione e in nessuna occasione li abbandonano, non servono i propri scopi ma la grandezza degli insegnamenti, rimanendo sempre umili.
Una vera fiducia può e deve svilupparsi solo col tempo e solo verso chi incarna tutte queste qualità. Scoprirete che questa fiducia diventerà la base della vostra vita, pronta a sostenervi in tutte le difficoltà della vita e della morte.
Nel Buddhismo stabiliamo l’autenticità di un maestro dal suo essere in accordo con l’insegnamento del Buddha. Non si ricorderà mai abbastanza che ciò che conta è la verità dell’insegnamento, non la personalità dell’insegnante. Per questo motivo il Buddha ci ricorda le ‘Quattro fiducie’:
Affidatevi al messaggio del maestro, non alla sua personalità.
Affidatevi al senso, non alle parole.
Affidatevi al senso reale, non a quello temporaneo.
Affidatevi alla vostra mente di saggezza, non a quella ordinaria che giudica.
È importante ricordare che il vero maestro, come vedremo, è il portavoce della verità, la sua compassionevole ‘espressione della saggezza’. Tutti i buddha, i maestri e i profeti sono infatti emanazione della verità che si manifestano in infiniti aspetti, abili e compassionevoli, per guidarci attraverso gli insegnamenti e riportarci alla nostra vera natura. Quindi, prima ancora dell’insegnante, è importante trovare e seguire la verità dell’insegnamento.
Solo mettendovi in rapporto con la verità dell’insegnamento scoprirete il vivente rapporto con un maestro.
COME SEGUIRE IL SENTIERO
Tutti abbiamo un karma che ci fa incontrare questo o quel sentiero spirituale e vi esorto, dal profondo del cuore, a seguire con totale sincerità il sentiero che vi ispira di più. Leggete i grandi libri spirituali di tutte le tradizioni, incominciate a comprendere in parte cosa intendono i maestri con liberazione e illuminazione, e scoprite quale approccio alla realtà assoluta vi attrae e vi si adatta maggiormente. In questa ricerca, applicate il massimo discernimento possibile: il sentiero spirituale richiede più intelligenza, più assennata comprensione, più sottile capacità di discriminazione di qualunque altra disciplina, perché è in gioco la verità più alta. Attenetevi sempre al buon senso. Avvicinatevi al sentiero con un’ironica consapevolezza del bagaglio che portate con voi: manchevolezze, fantasie, insuccessi e proiezioni. Alla consapevolezza ispiratrice di ciò che potrebbe essere la vostra vera natura mescolate un’umiltà molto pratica ed equilibrata, e una precisa valutazione del punto in cui vi trovate lungo il viaggio spirituale e di quello che dovete ancora capire e portare a termine.
La cosa più importante è non farvi intrappolare in un atteggiamento comunissimo in Occidente, la ‘mentalità del fare acquisti’ che vi sballotta da un maestro all’altro, da un insegnamento all’altro senza continuità e senza nessun vero impegno verso una disciplina. Quasi tutti i grandi maestri spirituali di tutte le tradizioni concordano sul fatto che la cosa principale è padroneggiare una via, un sentiero verso la verità, seguendo una tradizione con totalità di cuore e di mente fino al termine del viaggio spirituale, rimanendo anche aperti e rispettosi verso le intuizioni delle altre tradizioni. In Tibet diciamo: “Conoscendone una, le realizzi tutte”. La strana idea moderna di mantenere aperte tutte le possibilità senza mai impegnarci veramente in nulla, è una delle illusioni più grandi e più pericolose della nostra cultura, uno dei modi più efficaci dell’io per sabotare la ricerca spirituale.
Se cerchiamo indefinitamente, la ricerca diventa un’ossessione che vi divora. Diventate turisti spirituali che vanno di qua e di là senza arrivare da nessuna parte. Patrul Rinpoche diceva: “Avete lasciato l’elefante a casa e ne cercate le tracce nella foresta”. Seguire un solo insegnamento non è un modo per limitarvi o monopolizzarvi gelosamente. È un metodo abile e compassionevole per tenervi sempre centrati sul sentiero, a dispetto degli ostacoli che nasceranno inevitabilmente dal mondo e da voi stessi.
Quindi, dopo aver esaminato le varie tradizioni mistiche, scegliete un maestro, o una maestra, e seguitelo. Una cosa è iniziare un viaggio spirituale, un’altra è trovare la pazienza, la perseveranza, la saggezza, il coraggio e l’umiltà di percorrerlo fino alla fine. Anche se il karma vi ha fatto trovare un maestro, dovete creare voi il karma per seguirlo. Davvero pochi sanno seguire realmente un maestro, perché è una vera e propria arte. Qualunque sia la grandezza del maestro e dell’insegnamento, è essenziale che troviate in voi stessi l’intuizione e l’abilità per imparare ad amarli e a seguirli.
Non è facile. Le cose non saranno mai perfette, e come potrebbero? Siamo ancora nel samsara e, anche se avete scelto il maestro e ne seguite gli insegnamenti con tutta la sincerità che vi è possibile, incontrerete spesso difficoltà e frustrazioni, contraddizioni e imperfezioni. Non arrendetevi davanti agli ostacoli e alle piccole difficoltà, che sono sovente espressioni dell’emotività infantile dell’io. Non permettete che vi chiudano gli occhi all’essenziale e durevole valore di ciò che avete scelto. Non lasciate che l’impazienza vi svii dalla dedizione alla verità. Spesso mi ha addolorato vedere quanti accettano un insegnamento o un maestro con entusiasmo e grandi promesse per poi perdersi d’animo davanti agli ostacoli più insignificanti e inevitabili, ruzzolando di nuovo nel samsara e nelle vecchie abitudini e sprecando così anni e forse tutta la vita.
Come disse il Buddha nel suo primo insegnamento, la radice di tutta la nostra sofferenza nel samsara è l’ignoranza. Finché non ce ne liberiamo l’ignoranza può sembrarci infinita, e anche quando abbiamo intrapreso il sentiero spirituale la nostra ricerca ne è offuscata. Ma sapendolo e tenendo gli insegnamenti nel cuore, a poco a poco svilupperete il discernimento necessario a riconoscere le innumerevoli illusioni dell’ignoranza per quello che sono, senza più mettere in forse l’impegno preso e senza perdere di vista la strada.
La vita, ci ricorda il Buddha, è breve come un lampo. E, come scrive Wordsworth: “Il mondo è troppo per noi; prendendo e spendendo, dilapidiamo le nostre forze”. Questo dilapidare le forze, questo tradimento della nostra essenza, la rinuncia alla miracolosa possibilità che ci dà questa vita, il bardo naturale, di scoprire e incarnare la nostra natura illuminata, è forse l’aspetto della vita umana che più spezza il cuore. In pratica i maestri ci dicono di smettere di ingannare noi stessi. Che cosa avremo imparato se, al momento della morte, non sapremo chi siamo davvero? Come dice il Libro tibetano dei morti:
Con la mente lontana, senza pensare alla morte che arriva, compiendo attività senza senso, tornare a mani vuote ora significa confusione totale; il riconoscimento e gli insegnamenti spirituali sono necessari: perché quindi non praticare la via della saggezza proprio ora? Dalla bocca dei santi giungono queste parole: se non conservi nel cuore l’insegnamento del tuo maestro, non è forse vero che stai ingannando te stesso?
IL MAESTRO
In un tantra il Buddha dice: “Di tutti i buddha che hanno ottenuto l’illuminazione, neppure uno riuscì senza affidarsi a un maestro; e dei mille buddha che appariranno in questo eone, neppure uno otterrà l’illuminazione senza affidarsi a un maestro”.
Nel 1987 morì in Francia il mio amato maestro Dudjom Rinpoche. Mentre facevo ritorno in treno a Parigi dal sud della Francia, dov’era vissuto, mi attraversavano la mente i suoi mille gesti di generosità, tenerezza e compassione. Mi ritrovai in lacrime, mentre mi ripetevo: “Se non fosse stato per te, come avrei potuto capire?”.
Con una profondità e un’intensità mai provate prima compresi perché la nostra tradizione pone un’enfasi così sacrale sul rapporto tra maestro e discepolo, e quanto questo sia essenziale per la viva trasmissione della verità da mente a mente, da cuore a cuore. Senza i miei maestri non avrei avuto la minima possibilità di realizzare la verità degli insegnamenti, né riesco a immaginare come avrei potuto raggiungere il mio umile livello di comprensione.
Molti occidentali nutrono diffidenza verso i maestri. Spesso, purtroppo, per valide ragioni. Non starò a elencare i molti orribili e spiacevoli casi di pazzia, avidità e ciarlataneria che sono accaduti nel mondo moderno dall’apertura alla saggezza orientale negli anni ’50 e ’60. Resta il fatto che tutte le grandi tradizioni sapienziali (Cristianesimo, Sufismo Buddhismo e Induismo) traggono vigore dal rapporto maestro-discepolo. Quindi, ciò di cui il mondo ha oggi bisogno con maggiore urgenza è la comprensione più chiara possibile di che cos’è un vero maestro, cos’è un vero studente o discepolo, qual è la natura della trasformazione che avviene attraverso la devozione al maestro, che potremmo chiamare ‘l’alchimia del discepolato’.
Forse la descrizione più commovente e precisa della vera natura del maestro è quella che udii dal mio maestro Jamyang Khyentse. Sebbene la nostra vera natura sia buddha, diceva, è stata oscurata da un tempo senza inizio dalla nuvola dell’ignoranza e della confusione. Ma la vera natura, la natura di buddha, non si è mai arresa completamente alla tirannia dell’ignoranza e fomenta continuamente moti di ribellione contro la sua tirannia.
La natura di buddha ha un aspetto attivo che è il nostro ‘maestro interiore’.
Dal momento stesso in cui diventammo oscurati, il maestro interiore lavora instancabilmente per noi, cercando indefessamente di riportarci allo splendore e alla spaziosità del nostro vero essere. Neppure per un secondo, diceva Jamyang Khyentse, il maestro interiore ci ha abbandonati. Nella sua infinita compassione, che è una con l’infinita compassione di tutti i buddha e di tutti gli esseri illuminati, lavora senza tregua per la nostra evoluzione, non solo in questa vita ma in tutte le vite precedenti, adoperando tutti gli abili mezzi e usufruendo di tutte le situazioni per insegnare e risvegliarci, e guidarci alla verità.
Se abbiamo pregato, sospirato e agognato a lungo la verità per molte e molte vite, e quando il nostro karma si è abbastanza purificato, avviene una specie di miracolo. Se riusciamo a capirlo e a fame uso, può condurci alla fine definitiva dell’ignoranza. Il miracolo è che il maestro interiore, che è stato sempre con noi, si manifesta in forma di ‘maestro esterno’ e lo incontriamo quasi per magia. È l’incontro più importante di tutte le nostre vite.
Chi è il maestro esterno? Nient’altro che l’incarnazione e la voce del maestro interiore. Il maestro la cui forma e voce umana, la cui saggezza arriviamo ad amare con amore più profondo di ogni altro nostro amore, non è che la manifestazione esterna del mistero della nostra verità interiore. In che altro modo si spiegherebbe il forte legame che proviamo nei suoi confronti?
Al livello ultimo, più profondo, maestro e discepolo non sono e non potrebbero essere in alcun modo separati, perché compito del maestro è insegnarci a ricevere, al di là di ogni oscuramento, la chiarezza del messaggio del maestro interiore e di condurci a realizzare la presenza in noi di questo maestro assoluto. Prego perché tutti voi possiate gustare, in questa stessa vita, la gioia di questa amicizia, che è la più perfetta.
Il maestro non è solo il portavoce diretto del maestro interiore: è anche il canale che porta e trasmette le benedizioni di tutti gli esseri illuminati. È questo che gli conferisce lo straordinario potere d’illuminare la vostra mente e il vostro cuore. Non è altro che il volto umano dell’assoluto o, se preferite, il telefono attraverso il quale tutti i buddha e gli esseri illuminati si mettono in comunicazione con voi. Cristallizza la saggezza di tutti i buddha e incanala loro compassione di cui voi siete il destinatario. I raggi della loro luce universale hanno sempre puntato direttamente al vostro cuore e alla vostra mente per liberarvi.
Nella mia tradizione veneriamo il maestro in quanto ancora più compassionevole degli stessi buddha. Anche se la compassione e il potere dei buddha sono sempre presenti, le nostre oscurazioni ci impediscono di incontrare i buddha a faccia a faccia. Invece è possibile incontrare un maestro che vive, respira, parla e agisce qui davanti a noi per indicarci, in tutti i modi possibili, la via dei buddha, il cammino alla liberazione. Per me i miei maestri hanno rappresentato l’incarnazione della verità vivente, prove irrefutabili della possibilità dell’illuminazione in un corpo, in questa vita, in questo mondo, qui e ora; hanno rappresentato l’ispirazione suprema nella mia pratica, nel lavoro, nella vita e nel mio viaggio verso la liberazione. I miei maestri sono l’incarnazione del sacro impegno di tenere sempre al primo posto nella mia mente l’illuminazione fino a quando la realizzerò. So abbastanza per sapere che solo quando avrò raggiunto l’illuminazione potrò capire pienamente chi essi sono in realtà, comprenderne l’infinita generosità, amore e saggezza.
Vorrei condividere con voi questa splendida preghiera, scritta da Jikmé Lingpa, che in Tibet usiamo per invocare la presenza del maestro nel nostro cuore: Dal loto sbocciato della devozione ai centro del mio cuore, sorgi compassionevole maestro, mio solo rifugio! Sono afflitto dalle azioni passate e da tumultuose emozioni. Per proteggermi nella mia sventura posati come un diadema di gemme alla sommità del mio capo, il mandala della grande beatitudine risvegliando tutta la mia presenza mentale e consapevolezza, ti prego!
L’ALCHIMIA DELLA DEVOZIONE
Oltre ad affermare che, di tutti i buddha che hanno ottenuto l’illuminazione, neppure uno è riuscito senza affidarsi a un maestro, il Buddha disse anche: “Unicamente mediante la devozione e la sola devozione realizzerai la verità assoluta”.
La verità assoluta non è realizzabile nell’ambito della mente ordinaria. La via che conduce oltre la mente ordinaria, dicono tutte le grandi tradizioni sapienziali, passa per il cuore. È la via del cuore è la devozione. Come scrisse Dilgo Khyentse Rinpoche: C’è un’unica via per l’ottenimento della liberazione e dell’onniscienza dell’illuminazione: seguire un maestro spirituale autentico, la guida che vi aiuterà ad attraversare l’oceano del samsara.
Come il sole e la luna si riflettono istantaneamente nell’acqua chiara e ferma, le benedizioni di tutti i buddha sono sempre presenti in coloro che hanno piena fiducia in esse. I raggi del sole cadono uniformemente su tutte le cose, ma solo se vengono concentrati attraverso una lente possono dar fuoco all’erba secca. Quando i raggi onnipervadenti della compassione del Buddha vengono concentrati dalla lente della fede e della devozione, la fiamma della benedizione divampa nel vostro essere.
Di qui la necessità di sapere che cos’è la vera devozione. Non si tratta di un’adorazione cieca, di abdicare alla responsabilità di se stessi, né di seguire acriticamente la personalità o le fantasie di un altro. La vera devozione è ininterrotta ricettività alla verità. È radicata in una gratitudine reverente e colma di venerazione, ma è lucida, fondata e intelligente.
Quando il maestro riesce ad aprire il vostro cuore più intimo facendovi gettare uno sguardo innegabilmente poderoso sulla natura della mente, si gonfia un’onda di gioiosa gratitudine per chi vi ha aiutato a vedere, e la verità che ora vedete è incarnata nel maestro, nei suoi insegnamenti e nella sua mente di saggezza. Questo sentimento spontaneo e genuino trae origine da un’esperienza interiore ripetuta e inconfutabile: la ripetuta chiarezza della visione diretta. Questo, e solo questo, è ciò che chiamiamo devozione, in tibetano mo gu. Mo gu significa ‘anelito e rispetto’. Rispetto per il maestro, che si fa tanto più profondo quanto più comprendete chi egli sia in realtà; anelito verso ciò a cui vi introduce, perché avete imparato che il maestro è il vostro legame essenziale con la verità assoluta e l’incarnazione della vera natura della vostra mente.
Dilgo Khyentse Rinpoche dice: Inizialmente, la devozione non sarà sempre naturale o spontanea, e dobbiamo ricorrere a diverse tecniche per produrla. Dobbiamo ricordare sempre le eccellenti qualità del maestro, soprattutto la sua gentilezza nei nostri confronti. Generando ripetutamente fiducia, stima e devozione verso il guru, verrà il momento in cui la sola menzione del suo nome o il solo pensiero del maestro arresterà la percezione ordinaria, e lo vedremo come il Buddha stesso.
Vedere il maestro non più come un essere umano ma come il Buddha stesso è la fonte della massima benedizione. Come dice Padmasambhava: “Totale devozione porta totale benedizione, assenza di dubbi porta totale successo”. I tibetani sanno che, se vi rapportate al maestro come a un buddha, riceverete le benedizioni di un buddha; se vi rapportate a lui come a un essere umano, riceverete soltanto le benedizioni di un essere umano. Perciò, per ricevere tutto il potere trasformatore racchiuso nella benedizione del suo insegnamento, il pieno dispiegarsi del suo splendore, dovete aprirvi alla più ricca devozione possibile. Solo riconoscendo il maestro come un buddha può fluire in voi, dalla sua mente di saggezza, l’insegnamento di un buddha. Se invece lo considerate un essere umano, non ci sarà mai la pienezza della benedizione e sarete meno ricettivi anche ai più grandi insegnamenti.
Più rifletto sulla devozione e sul ruolo che riveste nella globalità dell’insegnamento, più capisco che si tratta essenzialmente di un mezzo abile e potente per renderci più ricettivi alla verità degli insegnamenti del maestro. I maestri non hanno bisogno della nostra adorazione, ma vederli come buddha viventi ci mette in grado di ascoltare e udirne il messaggio, e di seguirne le istruzioni, con la massima fedeltà. Da un certo punto di vista la devozione è il modo più pratico per far sorgere un totale rispetto, e quindi una totale apertura, nei confronti degli insegnamenti, incarnati dal maestro e trasmessi attraverso di lui. Più gli siete devoti, più siete aperti agli insegnamenti. Più siete aperti agli insegnamenti, maggiore è la possibilità che entrino nel vostro cuore e nella vostra mente, e che realizzino così una totale trasformazione spirituale.
Solo considerando il maestro un buddha vivente può avviarsi e giungere a compimento il processo che trasforma anche voi in buddha viventi. Quando la vostra mente e il vostro cuore sono totalmente aperti, con gioia, meraviglia, comprensione e gratitudine per il mistero della viva presenza dell’illuminazione nel maestro, allora a poco a poco, con gli anni, potrà avvenire la trasmissione tra il cuore e la mente di saggezza del maestro e il vostro cuore di saggezza, rivelandovi il pieno splendore della vostra natura di buddha e, con essa, il perfetto splendore dell’universo.
L’intima relazione tra discepolo e maestro diventa uno specchio, una vivente analogia del rapporto del discepolo con la vita e il mondo in generale. Il maestro diviene il perno della pratica assidua della ‘pura visione’, che culmina nel momento in cui il discepolo vede da sé, al di là di ogni dubbio, il maestro come il buddha vivente, le sue parole come parole del buddha, la sua mente come la mente di saggezza di tutti i buddha, le sue azioni come espressioni dell’attività dei buddha, il luogo in cui vive come il reame di un buddha, e quanti attorniano il maestro come luminose manifestazioni della sua saggezza.
Più questa percezione si fa stabile e reale, più il miracolo interiore che i discepoli hanno desiderato per tante vite può gradualmente accadere: incominciano a vedere in modo naturale che essi stessi, l’universo e tutti gli esseri senza eccezione sono spontaneamente puri e perfetti. Finalmente vedono la realtà con i suoi stessi occhi. Per questo il maestro è il sentiero, la fonte magica per la trasformazione totale di ogni percezione del discepolo.
La devozione è la via più pura, semplice e veloce per realizzare la natura della mente e di tutte le cose. Più la approfondiamo, più il processo rivela la sua meravigliosa interdipendenza: noi generiamo devozione in continuazione, la devozione genera barlumi sulla natura della mente, i barlumi aumentano e rinsaldano la devozione verso il maestro da cui traiamo ispirazione. Alla fine, la devozione sgorga dalla saggezza: la devozione e la viva esperienza della natura della mente diventano inseparabili e si nutrono a vicenda.
Il maestro di Patrul Rinpoche era Jikmé Gyalwé Nyugu. Da anni viveva in ritiro solitario in una grotta tra le montagne. Un giorno uscì dalla grotta, in pieno sole. Alzò gli occhi al cielo e vide una nuvola muoversi in direzione del luogo in cui viveva il suo maestro Jikmé Lingpa. “Là” pensò, “vive il mio maestro”. Lo assalirono un anelito e una devozione tremendi, così forti e dirompenti che svenne. Quando riprese coscienza, tutta la benedizione della mente di saggezza del maestro si era riversata in lui e raggiunse la più alta realizzazione, che chiamiamo la ‘cessazione della realtà fenomenica’.
UN FLUSSO DI BENEDIZIONI
Esempi come questi, sul potere della devozione e sulle benedizioni del maestro, non appartengono solo al passato. Khandro Tsering Chodron, consorte di Jamyang Khyentse e la più grande maestra dei nostri giorni, rivela ciò che anni di profonda devozione e di pratica possono indurre nello spirito umano. L’umiltà, la bellezza del cuore, la fulgida semplicità la modestia, la limpida e tenera saggezza della sua presenza sono onorate da tutti i tibetani, anche se ha sempre fatto il possibile per rimanere sullo sfondo senza mai mettersi in mostra, e per vivere la vita nascosta e austera degli antichi contemplativi.
Per tutta la vita ha tratto ispirazione da Jamyang Khyentse. Furono le nozze spirituali con lui a trasformarla da una ragazza bellissima ma ribelle nella radiosa dakini che i grandi maestri tengono nella massima stima. Dilgo Khyentse Rinpoche la considerava una ‘madre spirituale’, e diceva sempre di sentirsi onorato per essere il lama che ella venerava e amava di più. Ogni volta che la incontrava le prendeva la mano, la accarezzava con tenerezza, poi lentamente la poneva sulla propria testa. Sapeva che quello era l’unico modo per indurre Khandro a dargli la sua benedizione.
Jamyang Khyentse le aveva trasmesso tutti gli insegnamenti, formandola e ispirandola a praticare. Lei gli rivolgeva le domande in forma di canzoni, e lui le rispondeva con altre canzoni, in modo divertente e giocoso. Khandro dimostrò l’incrollabile devozione al maestro continuando a vivere, dopo la sua morte, nello stesso luogo del Sikkim dove Jamyang Khyentse aveva vissuto negli ultimi anni, dov’era morto e dove le sue reliquie sono conservate in uno stupa accanto a lui, Khandro continua la propria vita pura e indipendente, tutta dedicata alla preghiera. Ha letto tutto La parola del Buddha e centinaia di volumi di commento, molto lentamente, parola per parola. Dilgo Khyentse Rinpoche diceva che ogni volta che si recava allo stupa di Jamyang Khyentse era come tornare a casa, perché la presenza di Khandro creava un’atmosfera di intensità e di calore. Con ciò, voleva dire che era come se il maestro Jamyang Khyentse fosse ancora lì, vivo e presente nella devozione e nella presenza di Khandro.
Quante volte ho udito Khandro ripetere che, se il legame con il maestro è mantenuto davvero puro, nella vita vi andrà tutto bene. La sua stessa vita ne costituisce l’esempio più toccante e luminoso. La devozione le ha consentito di incarnare il cuore degli insegnamenti e di irraggiarne il calore sugli altri. Khandro non da insegnamenti formali, anzi non parla quasi. Ma, quando parla, le sue parole hanno una tale chiarezza da diventare profetiche.
Ascoltarla cantare con fervore e ispirazione, o praticare con lei, significa essere ispirati nelle profondità dell’essere. Anche solo camminare con lei, fare la spesa o sederle accanto è un’immersione nella potente, tranquilla felicità della sua presenza.
A causa della sua modestia, e poiché la sua grandezza sta nell’ordinarietà, solo chi ha una vera visione può capire chi è. Viviamo in tempi in cui l’ammirazione va a chi si mette in evidenza, ma è nelle persone umili come Khandro che vive davvero la verità. Se mai venisse a insegnare in Occidente sarebbe un maestro perfetto, una vera maestra che incarna con misteriosa totalità l’amore e la sapienza risanante di Tara, la compassione illuminata nella sua forma femminile. Se mi fosse vicina al momento della morte, mi sentirei più fiducioso e più in pace che se avessi vicino qualunque altro maestro.
Tutto ciò che ho realizzato, lo devo alla devozione per i maestri. Inoltre, insegnando, divento consapevole, con umiltà e vero rispetto, di come le loro benedizioni incominciano a lavorare tramite me. Io non sono nulla senza le loro benedizioni, e tutto ciò che sento di poter fare è fungere da ponte tra voi e loro. Sempre più mi accorgo che, parlando dei miei maestri mentre do insegnamenti, la mia devozione verso di loro ispira la devozione di coloro che ascoltano. In questi momenti meravigliosi sento che i miei maestri sono presenti, che benedicono e aprono il cuore degli studenti alla verità.
Ho un ricordo del Sikkim, negli anni ’60. Il mio maestro Jamyang Khyentse era morto da poco e Dilgo Khyentse Rinpoche dava una lunga serie di iniziazioni, gli insegnamenti visionari di Padmasambhava, che possono richiedere anche diversi mesi. Nel monastero sulle colline dietro Gangtok, la capitale, erano presenti molti maestri. Io sedevo vicino a Khandro Tsering Chodron e a Lama Chokden, già assistente di Jamyang Khyentse e maestro delle cerimonie.
Fu allora che sperimentai, nella maniera più vivida, la verità di come un maestro può trasmettere la benedizione della sua mente di saggezza a uno studente. Un giorno Dilgo Khyentse Rinpoche stava dando un insegnamento sulla devozione e un nostro comune maestro, Jamyang Khyentse. Era straordinariamente toccante. Le parole fluivano da lui in un fiume di eloquenza e & purissima poesia spirituale. Ascoltarlo e guardarlo evocava in modo profondamente misterioso lo stesso Jamyang Khyentse, la sua capacità di parlare e di lasciar scaturire, come da una sorgente nascosta e inesauribile, i più elevati insegnamenti. A poco a poco capii, con stupore, cos’era avvenuto: la benedizione della mente di saggezza di Jamyang Khyentse si era riversata nel figlio spirituale, Dilgo Khyentse Rinpoche, e ci parlava di nuovo, con la stessa facilità, attraverso di lui.
Terminato l’insegnamento mi voltai verso Khandro e Chokden e vidi i loro volti rigati di lacrime. “Sapevamo che Dilgo Khyentse è un grande maestro” mi dissero, “e sapevamo che si dice che un maestro trasmette la totale benedizione della sua mente di saggezza al figlio spirituale. Ma solo oggi, qui e ora, abbiamo capito cosa significa davvero”.
Ripensando a quel giorno meraviglioso nel Sikkim e ai grandi maestri che ho conosciuto, mi ritornano in mente le parole di un santo tibetano da cui ho sempre tratto ispirazione: “Quando il sole ardente della devozione splende sulla montagna innevata del maestro, il fiume della sua benedizione si riversa”. Mi vengono alla mente anche le parole di Dilgo Khyentse Rinpoche, che forse esprimono con più eloquenza di ogni altra descrizione le immense e nobili qualità del maestro:
Il maestro è come una nave sicura per gli esseri che attraversano l’oceano periglioso dell’esistenza, un capitano che non commette errori guidandoli alla terraferma della liberazione, una pioggia che estingue il fuoco delle passioni, un fulgido sole e una luna che dissipano la tenebra dell’ignoranza, un terreno solido che può sopportare il peso del bene come del male, un albero che esaudisce i desideri ed elargisce felicità temporale e beatitudine ultima, un tesoro di vaste e profonde istruzioni, una gemma che esaudisce i desideri e concede tutte le qualità della realizzazione, un padre e una madre che ripartiscono ugualmente il loro amore su tutti gli esseri senzienti, un grande fiume di compassione, una montagna che si eleva al di sopra delle preoccupazioni mondane e che i venti delle emozioni non scuotono, una nuvola gonfia di pioggia per mitigare i tormenti delle passioni. In breve, è pari a tutti i buddha. Essere in rapporto con lui, vedendolo udendone la voce, ricordandolo o venendo toccati dalla sua mano, ci condurrà alla liberazione.
Nutrire totale fiducia in lui è il mezzo sicuro per progredire verso la liberazione. Il calore della sua saggezza e compassione fonderà il minerale grezzo del nostro essere per estrarre l’oro della natura di buddha.
Sono diventato consapevole che le benedizioni dei miei maestri stillano in modo quasi impercettibile dentro di me guidando la mia mente. Da quando Dudjom Rinpoche è morto, i miei studenti mi dicono che insegno in modo più fluido, più chiaro. Non molto tempo fa, ascoltando Dilgo Khyentse Rinpoche dare un insegnamento particolarmente stupefacente, gli espressi la mia ammirazione: “È miracoloso il modo spontaneo e naturale con cui gli insegnamenti fluiscono dalla tua mente di saggezza”. Si piegò teneramente verso di me con un luccichio malizioso negli occhi, dicendomi: “Possano i tuoi insegnamenti in inglese fluire nello stesso modo”. Da allora, senza sforzi da parte mia, ho sentito la mia capacità di comunicare gli insegnamenti farsi sempre più naturale. Considero questo libro come la manifestazione delle benedizioni dei miei maestri trasmesse attraverso la mente di saggezza del maestro e guida supremo, Padmasambhava. Questo libro è il loro dono per voi.
È la devozione ai maestri che mi dà la forza di insegnare, l’apertura e la ricettività a imparare e a continuare a imparare. Dilgo Khyentse Rinpoche non smise mai di ricevere con umiltà insegnamenti da altri maestri, persino da chi era stato suo discepolo. La devozione che genera l’ispirazione a insegnare è la stessa devozione che dona l’umiltà di continuare a imparare. Al momento di separarsi Gampopa chiese a Milarepa, di cui era il principale discepolo: “Quando arriverà per me il momento di guidare gli studenti?”. Milarepa rispose: “Quando non sarai più come sei ora, quando tutto il tuo modo di percepire sarà trasformato e sarai in grado di vedere, vedere realmente questo vecchio che ti sta davanti come il Buddha stesso. Quando la devozione ti avrà portato a questo riconoscimento, sarà il segno che è venuto per te il momento di insegnare”.
Questi insegnamenti sono stati trasmessi a voi dal cuore illuminato di Padmasambhava lungo i secoli, da un migliaio di anni, attraverso un ininterrotto lignaggio di maestri ognuno dei quali è diventato tale perché aveva umilmente imparato a essere un discepolo e a rimanere, nel senso più profondo, discepolo dei propri maestri per tutta la vita. Quando, ormai ottantaduenne, Dilgo Khyentse Rinpoche parlava di Jamyang Khyentse, lacrime di gratitudine e devozione gli salivano agli occhi. Nell’ultima lettera che mi scrisse prima di morire si firmò come il “peggiore discepolo”. Mi fece capire come la vera devozione sia infinita; come, alle più grandi realizzazioni, si accompagnano la più grande devozione e la più perfetta, perché più umile, gratitudine.
Il Guru Yoga: fondersi con la mente di saggezza del maestro
Tutti i Buddha, i bodhisattva e gli esseri illuminati sono presenti attimo dopo attimo per aiutarci, e grazie alla presenza del maestro le loro benedizioni vengono concentrate su di noi. Chi conosce Padmasambhava conosce la verità vivente della promessa che fece più di mille anni fa: “Anche se non mi vedono, non sono mai lontano da coloro che hanno fede e persino da coloro che non l’hanno. I miei figli saranno sempre, sempre, protetti dalla mia compassione”.
Tutto ciò che dobbiamo fare per ricevere aiuto è chiederlo. Non disse anche Cristo: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto. Infatti chi chiede riceve; chi cerca trova; a chi bussa sarà aperto”. Eppure, chiedere è proprio ciò che ci riesce più difficile. Molti, io credo, non sanno neppure come chiedere. A volte perché siamo arroganti, a volte perché non siamo disponibili a chiedere aiuto, a volte per pigrizia, a volte perché la mente è così sovraccarica di domande, distrazioni e confusione che non ci viene in mente la semplicità del chiedere. La svolta verso la guarigione di un alcolista o un drogato avviene quando ammette di essere ammalato e chiede aiuto. In un modo o nell’altro, siamo tutti drogati dal samsara. L’aiuto ci viene nel momento in cui ammettiamo la nostra dipendenza e, semplicemente, chiediamo.
Ciò di cui abbiamo bisogno, più di ogni altra cosa, è il coraggio e l’umiltà di chiedere davvero aiuto dal profondo del cuore: invocare la compassione degli esseri illuminati, chiedere la purificazione e la guarigione, chiedere il potere di comprendere il significato della sofferenza e di trasformarla. Al livello relativo, chiedere che nella nostra vita crescano la chiarezza, la pace e il discernimento; e invocare la realizzazione della natura assoluta della mente che proviene dal fonderci con l’immortale mente di saggezza del maestro.
Non c’è pratica più rapida, più commovente e potente per invocare l’aiuto degli esseri illuminati, per far sorgere la devozione e realizzare la natura della mente, che quella del Guru Yoga. Scrive Dilgo Khyentse Rinpoche: “Le parole Guru Yoga significano ‘unione con la natura del guru’, e questa pratica ci fornisce i metodi per unire la nostra mente alla mente illuminata del maestro”. Ricordate che il maestro, il guru, incarna la cristallizzazione delle benedizioni di tutti i buddha, i maestri e gli esseri illuminati.
Invocare il maestro è invocare tutti questi esseri, fondere mente e cuore con la mente di saggezza del maestro è fonderla con la verità e l’incarnazione stessa dell’illuminazione.
Il maestro esterno vi introduce direttamente alla verità del maestro interno. Più ciò si rivela attraverso il suo insegnamento e la sua ispirazione, più incominciate a capire che il maestro esterno e quello interno sono indivisibili. Scoprendo gradualmente e di persona la veridicità di ciò, e invocando ripetutamente questa fusione con la pratica del Guru Yoga, sorgono in voi una fiducia, una gratitudine, una gioia e una devozione sempre più profonde, e grazie a esse la vostra mente e la mente di saggezza del maestro diventano realmente indivisibili. In una pratica del Guru Yoga che compose dietro mia richiesta, Dilgo Khyentse Rinpoche scrisse: Ciò che realizza la massima purezza della percezione è la devozione, che è la radiosità del Rigpa… Vedendo e ricordando che il mio stesso Rigpa è il maestro possano la vostra mente e la mia fondersi in una sola.
Ecco il motivo per cui tutte le tradizioni sapienziali del Tibet hanno assegnato tanta importanza alla pratica del Guru Yoga e i maggiori maestri tibetani l’hanno tenuta a cuore come la più intima pratica essenziale. Scrive Dudjom Rinpoche: È vitale che mettiate tutta la vostra energia nel Guru Yoga, tenendovi aggrappati a esso come alla vita e al cuore della pratica. Senza di ciò, la vostra meditazione sarà fiacca e, anche se farete qualche progresso, si presenteranno ostacoli senza fine, senza alcuna possibilità che la vera, genuina realizzazione si produca nella vostra mente. Ma se pregate ferventemente con devozione genuina, dopo qualche tempo la benedizione diretta della mente di saggezza del maestro vi trasmetterà, potenziandovi con una realizzazione unica e al di là delle parole, nata nel profondo della vostra mente.
Vorrei darvi una pratica semplicissima di Guru Yoga adatta a tutti, di qualunque religione o credo spirituale.
È meravigliosa ed è la mia pratica principale, cuore e fonte di ispirazione di tutta la mia vita. Il mio Guru Yoga è centrato su Padmasambhava. In punto di morte il Buddha profetizzò che, non molto tempo dopo, sarebbe nato Padmasambhava per diffondere l’insegnamento dei tantra. Come ho già ricordato, fu Padmasambhava che portò il Buddhismo in Tibet nell’VIII secolo. Per noi tibetani Padmasambhava, o Guru Rinpoche, incarna un principio cosmico e atemporale, è il maestro universale. È apparso innumerevoli volte ai maestri tibetani, e gli incontri e le visioni sono documentate con precisione: la data, il luogo e il modo in cui sono avvenuti, assieme agli insegnamenti e alle profezie dati da Padmasambhava in quelle occasioni. Inoltre ha lasciato migliaia di scritti visionari per le generazioni future, scoperti da molti grandi maestri che furono sue emanazioni. Uno di questi tesori visionari, o terma, è il Libro tibetano dei morti.
In momenti di crisi e di difficoltà mi sono sempre rivolto a Padmasambhava, e la sua benedizione e il suo potere non mi sono mai mancati. Quando penso a lui, tutti i miei maestri sono incarnati in lui. Per me è realmente vivo, in ogni momento, e l’universo intero, in ogni momento, splende della sua bellezza, forza e presenza.
O Prezioso Guru Rinpoche, tu sei l’incarnazione della compassione e delle benedizioni di tutti i Buddha, sei il solo protettore degli esseri.
Il mio corpo, i miei beni, il mio cuore e il mio spirito, senza esitazione ti consegno!
Da ora sino all’ottenimento dell’illuminazione nella felicità e negli affanni, nelle buone e cattive circostanze, in condizioni misere o eccelse mi affido totalmente a te, Padmasambhava, tu che mi conosci. Pensa a me, ispirami, guidami, rendimi uno con te!
Considero Padmasambhava come l’incarnazione di tutti i miei maestri e perciò, quando fondo la mia mente con lui nel Guru Yoga, tutti loro sono compresi.
Ovviamente potete pensare a qualunque essere illuminato, santo o maestro di qualsiasi religione o tradizione mistica per cui provate devozione, vivo o morto.
Questa pratica del Guru Yoga si articola in quattro fasi: invocazione; fusione della vostra mente con il maestro attraverso l’essenza del suo cuore, cioè il mantra; ricevimento della benedizione o trasmissione di potere; unione della vostra mente con il maestro e dimora nella natura del Rigpa.
Invocazione
Sedete tranquillamente. Dal profondo del cuore invocate, nel cielo davanti a voi, l’incarnazione della verità nella persona del vostro maestro, di un santo o un essere illuminato.
Visualizzate il maestro, o Buddha, vivo, fulgido e translucido come un arcobaleno. Credete, con totale fiducia, che incarni tutte le benedizioni e le qualità di saggezza, compassione e potere di tutti i Buddha e gli esseri illuminati.
Se avete difficoltà a visualizzare il maestro, immaginatelo semplicemente come un essere di luce, o cercate di sentirne vividamente la perfetta presenza nel cielo davanti a voi, come presenza di tutti i Buddha e i maestri. Ora lasciate che alla visualizzazione si sostituiscano l’ispirazione, la gioia e la reverenza che provate. Credete semplicemente che la presenza che state invocando è realmente lì. Il Buddha ha detto: “Chiunque mi pensi, io sono davanti a lui”. Il mio maestro Dudjom Rinpoche diceva che non importa se all’inizio non riuscite a visualizzare. La cosa principale è sentire la presenza nel vostro cuore e sapere che essa incarna le benedizioni, la compassione, l’energia e la saggezza di tutti i Buddha.
Rilassandovi e colmando il vostro cuore della presenza del maestro, invocatelo con tutta la forza del cuore e della mente. Chiamatelo dentro di voi con fiducia totale: “Aiutami, dammi l’ispirazione per purificare tutto il karma e le emozioni negative, e per realizzare la vera natura della mia mente!”.
Ora, con devozione profonda, fondete la mente con il maestro e lasciatela riposare nella sua mente di saggezza. Allo stesso tempo, arrendetevi totalmente al maestro pronunciando parole come: “Aiutami. Prenditi cura di me. Colmami della tua gioia ed energia, della tua saggezza e compassione.
Accoglimi nel cuore amorevole della tua mente di saggezza. Benedici la mia mente, ispira la mia comprensione”. Così, dice Dilgo Khyentse Rinpoche, “senza alcun dubbio la benedizione scenderà nel vostro cuore”.
Quando intraprendiamo questa pratica, scopriamo che è uno strumento diretto, efficace e potente per portarci al di là della mente ordinaria nel reame puro della saggezza del Rigpa, dove scopriamo, riconosciamo e ci rendiamo conto che sono presenti tutti i Buddha.
Sentire la viva presenza del Buddha, di Padmasambhava, del vostro maestro, e aprire semplicemente il cuore e la mente all’incarnazione della verità, benedice e trasforma davvero la mente. Nell’invocazione al Buddha, la vostra stessa natura di buddha trova ispirazione a risvegliarsi e a fiorire con la spontaneità di un fiore alla luce del sole.
Maturazione e approfondimento della benedizione
Quando arrivo a questa parte della pratica, la fusione della mia mente con il maestro attraverso il mantra, recito OM AH HUM VAJRA GURU PADMA SIDDHI HUM (che i tibetani pronunciano: Om Ah Hung Benza Guru Pema Siddhi Hung). Consideriamo il mantra l’essere stesso di Padmasambhava e le benedizioni di tutti i maestri in forma di suono. Immagino che egli colmi tutto il mio essere e, mentre recito il mantra che è l’essenza più intima del suo cuore, sento che le sue vibrazioni mi pervadono come se centinaia di piccoli Padmasambhava in forma di suoni fluttuassero dentro di me trasformando il mio intero essere.
Recitando il mantra, offrite il vostro cuore e lo spirito con devozione fervida e concentrata; fondete, congiungete e unite la vostra mente con Padmasambhava o con il vostro maestro. Gradualmente vi sentirete sempre più vicini a Padmasambhava, annullando la distanza tra voi e la sua mente di saggezza. A poco a poco, grazie alla benedizione e al potere di questa pratica, sentirete che la vostra mente si trasforma davvero nella mente di saggezza di Padmasambhava e del maestro, ne sperimenterete l’indivisibilità. Se mettete un dito nell’acqua, si bagnerà; se lo mettete nel fuoco, si brucerà. Allo stesso modo, se riponete la vostra mente nella mente di saggezza dei buddha, assumerà la loro natura di saggezza. Lentamente la vostra mente si troverà nello stato di Rigpa, perché la sua natura più profonda è la mente di saggezza di tutti i Buddha. È come se la mente ordinaria morisse dissolvendosi a poco a poco, rivelando la pura consapevolezza, la natura di Buddha, il maestro interiore. Questo è il vero significato di ‘benedizione’, una trasformazione in cui la mente ordinaria trascende nello stato assoluto.
Questa ‘maturazione della benedizione’ è il cuore, la parte principale della pratica. Perciò durante il Guru Yoga, dedicatele il periodo di tempo più lungo.
Trasmissione di potere
Immaginate che dal maestro fluiscano verso di voi migliaia di raggi luminosi e che vi penetrino purificando, guarendo, benedicendo, trasmettendo potere e spargendo in voi i semi dell’illuminazione.
Per rendere la pratica ricca e trarne la massima fonte di ispirazione potete immaginare che si svolga in tre fasi
Prima fase: dalla fronte del maestro emana una luce bianca abbagliante, tersa come il cristallo, che raggiunge il centro di energia nella vostra fronte e satura il vostro corpo. Questa luce bianca rappresenta la benedizione del corpo di tutti i buddha, rimuove il karma negativo accumulato con le azioni negative del corpo, purifica i canali sottili del sistema psicofisico, trasmette la benedizione del corpo dei buddha, rafforza la vostra capacità di visualizzazione e vi apre alla realizzazione dell’energia compassionevole del Rigpa, la natura della mente, che si manifesta in ogni cosa.
Seconda fase: un flusso di luce rosso rubino emana dalla gola del maestro, raggiunge il centro di energia nella vostra gola e satura il vostro corpo. Questa luce rossa rappresenta la benedizione della parola di tutti i buddha, rimuove il karma negativo accumulato con le parole dannose, purifica l’aria interna del sistema psicofisico, trasmette la benedizione della parola dei buddha, rafforza la vostra capacità di recitare il mantra e vi apre alla realizzazione della radiosità della natura del Rigpa.
Terza fase: un flusso di luce blu brillante, del colore del lapislazzulo, emana dal cuore del maestro, raggiunge il centro di energia nel vostro cuore e satura il vostro corpo. Questa luce blu rappresenta la benedizione della mente di tutti i buddha, rimuove il karma negativo accumulato con le attività negative della mente, purifica l’essenza creata o energia del sistema psicofisico, trasmette la benedizione della mente dei buddha, rafforza la vostra capacità di praticare gli yoga più avanzati e vi apre alla realizzazione della purezza primordiale dell’essenza del Rigpa.
Sentite che, grazie alla benedizione, ora possedete il corpo, la parola e la mente indistruttibili di Padmasambhava e di tutti i Buddha.
Dimora nel Rigpa
Ora dissolvete il maestro nella luce e fatelo diventare uno con voi, nella natura della vostra mente. Riconoscete, senza alcun dubbio, che la natura simile al cielo della vostra mente è il maestro assoluto. Dove potrebbero esistere tutti gli esseri illuminati se non nel Rigpa, nella natura della mente?
Ben fondati in questa realizzazione, rilassati in uno stato di spaziosità senza preoccupazioni, dimorate nel calore, nello splendore e nella benedizione della vostra natura assoluta. Siete arrivati all’essenza originaria: la primordiale purezza della semplicità naturale. Dimorando nello stato di Rigpa, potete riconoscere la verità delle parole di Padmasambhava: “La mente stessa è Padmasambhava. A parte ciò, non c’è nessuna pratica e nessuna meditazione”.
Ho collocato questa pratica nella sezione dedicata al bardo naturale di questa vita perché è la pratica principale tanto in vita che al momento della morte. Come vedremo nel capitolo 13, il Guru Yoga è la base della pratica del phowa, il trasferimento della coscienza al momento della morte. Se infatti, nell’attimo della morte, saprete unire fiduciosamente la vostra mente alla mente di saggezza del maestro e morire in questa pace, allora tutto andrà bene. Ve lo prometto e ve ne dò garanzia.
Il nostro compito, mentre siamo in vita, è quindi fonderci più e più volte con la mente di saggezza del maestro, finché diventi così naturale che ogni azione (sedere, camminare, mangiare, bere, dormire, sognare e risvegliarsi) sia sempre più permeata dalla viva presenza del maestro. A poco a poco, con anni di incrollabile devozione, inizierete a vedere che tutte le apparenze non sono che la manifestazione della saggezza del maestro. Tutte le situazioni, anche quelle a prima vista tragiche, prive di senso o spaventose, si rivelano sempre più in trasparenza come l’insegnamento diretto e la benedizione del maestro, e del maestro interiore. Come dice Dilgo Khyentse Rinpoche: La devozione è l’essenza del sentiero. Se nella nostra mente c’è solo ed esclusivamente il guru, e se l’unico nostro sentimento è la fervente devozione, tutto ciò che accade viene percepito come la sua benedizione. Praticare assiduamente questa costante devozione è preghiera.
Se tutti i nostri pensieri sono permeati di devozione al guru, nasce la spontanea fiducia che egli si prenderà cura di qualunque cosa accada. Tutte le forme sono il guru, tutti i suoni sono preghiera, tutti i pensieri grossolani e sottili si manifestano come devozione. Tutto è spontaneamente liberato nella natura assoluta, come nodi sciolti nel cielo.”
L’essenza più intima
Nessuno può morire senza provare paura e in assoluta sicurezza se non ha realizzato la natura della mente. Solo questa realizzazione, approfondita da anni di pratica continua, può mantenere la mente ferma attraverso la caotica confusione del processo della morte. Tra tutti i modi che conosco per aiutare gli altri a realizzare la natura della mente, il più chiaro, efficace e adatto alla situazione e ai bisogni odierni è la pratica dello Dzogchen, la tradizione di saggezza più antica e diretta all’interno degli insegnamenti buddhisti, e la fonte degli insegnamenti sul bardo.
Lo Dzogchen si fa risalire al Buddha primordiale, Samantabhadra, da cui è stato trasmesso in una successione ininterrotta di grandi maestri fino al giorno d’oggi. Centinaia di migliaia di persone in India, in Tibet e nella regione himalayana hanno ottenuto la realizzazione e l’illuminazione grazie a questa pratica. Dice una meravigliosa profezia che “in questa età oscura, l’essenza del cuore di Samantabhadra divamperà come fuoco”. La mia vita, i miei insegnamenti e questo libro sono dedicati all’accensione di questo fuoco nel cuore e nella mente di tutti gli esseri.
In questo compito, mio appoggio, ispirazione e guida è il supremo maestro Padmasambhava. Padmasambhava è lo spirito essenziale dello Dzogchen, il suo massimo esponente e la sua incarnazione in forma umana, dotato delle fulgide qualità di magnanimità, potere miracoloso, visione profetica, energia risvegliata e compassione infinita.
Lo Dzogchen non ebbe grande diffusione in Tibet, e ci fu un periodo dell’epoca moderna in cui molti grandi maestri non lo insegnarono. Perché dunque io ora lo insegno? Alcuni dei miei maestri mi hanno detto che questo è il momento di diffonderlo, il momento indicato dalla profezia. Inoltre, mi sembrerebbe poco compassionevole non comunicare e condividere l’esistenza di una saggezza tanto straordinaria. Gli esseri umani sono giunti a un punto critico nella loro evoluzione, e quest’epoca di estrema confusione richiede un insegnamento di altrettanta grande forza e chiarezza. Mi sono reso conto che gli uomini odierni vogliono una via spogliata da dogmi, fondamentalismi, elitarismi, metafisiche complesse e accessori esotici; una via nello stesso tempo semplice e profonda, che non ha bisogno di ashram o monasteri per essere seguita, ma integrabile nella vita quotidiana e praticabile ovunque.
Che cos’è dunque lo Dzogchen? Non soltanto un insegnamento, non una filosofia in più, un altro complicato sistema di pensiero o un seducente insieme di tecniche. Lo Dzogchen è uno stato, lo stato primordiale, il totale risveglio che è l’essenza profonda di tutti i buddha e di tutte le vie spirituali, la vetta dell’evoluzione spirituale di un individuo. Spesso il termine Dzogchen viene reso con ‘Grande perfezione’, ma preferisco non tradurlo. ‘Grande perfezione’ trasmette infatti il senso di un perfezionarsi, un qualcosa da ottenere mediante lo sforzo, la meta di un lungo viaggio faticoso. Niente è più lontano dal vero significato dello Dzogchen: lo stato già perfetto in se stesso della nostra natura primordiale, che non richiede ‘perfezionamenti’ perché, come il cielo, è sempre stato perfetto sin dall’inizio.
Tutti gli insegnamenti buddisti vengono presentati in termini di Base Sentiero e Frutto. La Base dello Dzogchen è lo stato primordiale, originario, la nostra natura assoluta che è già perfetta e sempre presente. Dice Patrul Rinpoche: “Non va cercato all’esterno, né è qualcosa che prima non avevate e che bisogna far sorgere nella mente”. Dal punto di vista della Base, cioè dell’assoluto, la nostra natura è la natura dei buddha, e a questo livello non si può assolutamente parlare (“nemmeno per un capello, dicono i maestri) di insegnamento da seguire o di pratica da fare.
Ma dobbiamo capire che i Buddha hanno preso una strada e noi un’altra. I Buddha riconoscono la propria natura originaria e diventano illuminati, noi non la riconosciamo e diventiamo confusi. Gli insegnamenti definiscono questo stato di cose ‘una Base, due Sentieri’. Nella condizione relativa in cui ci troviamo, la nostra natura intrinseca è oscurata, e per questo dobbiamo seguire insegnamenti e praticare per ritornare alla verità. Questo è il Sentiero dello Dzogchen. Infine, realizzare la nostra natura originaria equivale a ottenere la completa liberazione e diventare un buddha. Questo è il Frutto dello Dzogchen. È possibile in questa stessa vita, se il praticante si impegna con tutto il cuore e la mente.
I maestri Dzogchen sono profondamente consapevoli dei pericoli di confondere l’assoluto con il relativo. La mancanza di comprensione di questo rapporto può condurre a trascurare e addirittura disdegnare gli aspetti relativi della pratica spirituale e la legge karmica di causa ed effetto. La comprensione del vero significato dello Dzogchen conduce invece a un rispetto ancora più profondo per il karma, assieme al riconoscimento sempre più acuto e urgente della necessità di purificazione e pratica spirituale. Comprendendo l’immensità di tutto ciò che in noi è stato oscurato, si cerca, con sempre maggiore fervore e con disciplina sempre fresca e naturale, di rimuovere ciò che si frappone tra noi e la nostra vera natura. Gli insegnamenti dello Dzogchen sono come uno specchio che riflette la Base della nostra natura originaria con una purezza tanto sublime e liberante, con una chiarezza tanto immacolata, che siamo automaticamente al sicuro dalla trappola di qualunque comprensione fabbricata concettualmente, per quanto possa essere ingegnosa, convincente o seducente.
Qual è, per me, la meraviglia dello Dzogchen? Tutti gli insegnamenti conducono all’illuminazione, ma l’unicità dello Dzogchen consiste nel fatto che, anche nell’aspetto relativo degli insegnamenti, il suo linguaggio non colora mai l’assoluto con concettualizzazioni. Lo lascia intatto nella sua nuda, dinamica, maestosa semplicità, eppure ne parla a tutti quanti abbiano una mente aperta in termini così vividi ed elettrizzanti che, ancor prima di diventare illuminati, riceviamo in dono il barlume più intenso possibile dello splendore dello stato risvegliato.
LA VISIONE
La pratica del Sentiero dello Dzogchen è tradizionalmente descritta, nella sua modalità più semplice, in termini di Visione, Meditazione e Azione. La Visione è vedere direttamente lo stato assoluto, la Base dell’essere; la Meditazione è il modo di stabilizzare quella Visione rendendola un’esperienza ininterrotta; l’Azione è l’integrazione della Visione nella vita e in tutta la nostra realtà.
Che cos’è la Visione? Niente di meno che vedere il vero stato delle cose così come sono; sapere che la vera natura della nostra mente è la vera natura di tutte le cose; comprendere che la vera natura della mente è la verità assoluta. Dice Dudjom Rinpoche: “La Visione è la comprensione della nuda consapevolezza in cui tutto è contenuto: la percezione sensoriale e l’esistenza fenomenica, il samsara e il nirvana. Questa consapevolezza ha due aspetti: la ‘vacuità’ è l’aspetto assoluto, le apparenze o percezioni sono quello relativo”.
Ciò significa che l’intero spettro delle apparenze e dei fenomeni in tutte le varie realtà, appartenenti al samsara o al nirvana, tutto senza eccezione è sempre stato e sarà sempre perfetto e compiuto entro la vasta e infinita distesa della natura della mente. Benché l’essenza di tutte le cose sia vuota e ‘pura sin dall’inizio’, la sua natura è ricca di nobili qualità, gravida di possibilità infinite: un campo infinito, dalla creatività incessante e dinamica, sempre spontaneamente perfetto.
Potreste domandare: “Se realizzare la Visione significa realizzare la natura della mente, com’è questa natura della mente?”. Immaginate il cielo: ampio, spazioso e puro sin dall’inizio. La sua essenza è così. Immaginate il sole: limpido, luminoso, sgombro, spontaneamente presente. La sua natura è così.
Immaginate il sole che sfolgora imparzialmente su noi e su tutte le cose, pervadendo tutte le direzioni. La sua energia, che è la manifestazione della compassione, è così. Niente può ostacolarla, e penetra ovunque.
Potete anche raffigurarvi la natura della mente come uno specchio, dotato di cinque diversi poteri o ‘saggezze’. La sua apertura e vastità è la ‘saggezza dello spazio che tutto accoglie’, il grembo della compassione. La capacità di riflettere nei minimi dettagli tutto ciò che si presenta è la ‘saggezza simile a specchio’. La totale assenza di pregiudizi nei confronti delle immagini è la ‘saggezza uniformante’. L’abilità di distinguere con chiarezza, senza confusione, i diversi fenomeni che sorgono è la ‘saggezza discriminante’. La potenzialità per cui tutto è già completo, perfetto e spontaneamente presente è la ‘saggezza che tutto compie’
Lo studente di Dzogchen è introdotto direttamente alla Visione dal maestro. È il modo diretto di questa introduzione che caratterizza e rende unico lo Dzogchen.
Nell’introduzione viene trasmessa allo studente l’esperienza diretta della mente di saggezza dei buddha, attraverso la benedizione di un maestro che ne incarna la perfetta realizzazione. Per poter ricevere l’introduzione, gli studenti devono essere arrivati al punto in cui, come risultato delle aspirazioni passate e del karma purificato, hanno sia l’apertura mentale sia la devozione necessarie a renderli ricettivi al reale significato dello Dzogchen.
Come si può essere introdotti alla mente di saggezza dei buddha? Potete immaginare che la natura della mente sia come il vostro volto: è sempre con voi ma, senza un aiuto, non potete vederla. Ora immaginate di non aver mai visto uno specchio. L’introduzione fatta dal maestro è come mettervi improvvisamente davanti a uno specchio in cui, per la prima volta, vedete riflesso il vostro volto. Come nel nostro esempio, la pura consapevolezza del Rigpa non è una cosa ‘nuova’ fornitavi dal maestro e che prima non avevate, e neppure è qualcosa che potevate trovare al di fuori di voi stessi. È sempre stata vostra, è sempre stata con voi ma, prima di quel momento sbalorditivo, non l’avevate mai vista direttamente.
Patrul Rinpoche lo spiega dicendo: “Secondo la speciale tradizione dei grandi maestri del lignaggio della pratica, la natura della mente, il volto del Rigpa, è introdotta con la dissoluzione della mente concettuale”. Nel momento dell’introduzione, il maestro si apre un varco nella mente concettuale, mettendo a nudo il Rigpa e rivelandone esplicitamente la vera natura.
In quell’attimo poderoso avviene una fusione di menti e di cuori, e lo studente ha un’innegabile esperienza, un barlume della natura del Rigpa. Contemporaneamente, il maestro introduce e lo studente riconosce. Trasmettendo la sua benedizione dalla saggezza del suo Rigpa al cuore del Rigpa dello studente, il maestro gli rivela direttamente il volto originario della natura della mente.
Ma, perché l’introduzione sia veramente efficace, occorrono le giuste condizioni, ovvero l’ambiente adatto. Nel corso del tempo sono state rare le persone che, grazie a un karma purificato, hanno sperimentato il riconoscimento e sono diventate illuminate in quell’unico attimo. Per questo l’introduzione deve quasi sempre essere preceduta dai seguenti preliminari, che purificano e spogliano la mente ordinaria mettendovi nella condizione giusta perché il vostro Rigpa possa esservi rivelato.
Prima di tutto la meditazione, l’antidoto supremo alla distrazione, riporta la mente a casa e la stabilisce nel suo stato naturale.
In secondo luogo, le profonde pratiche di purificazione e il rafforzamento del karma positivo mediante l’accumulo di meriti e di saggezza, incominciano a logorare e dissolvere i veli emotivi e intellettuali che oscurano la natura della mente. Come scrive il mio maestro Jamyang Khyentse: “Rimuovendo gli oscuramenti, la saggezza del proprio Rigpa sfolgora naturalmente”. Le pratiche di purificazione, chiamate Ngondro in tibetano, sono state abilmente concepite per determinare una totale trasformazione interiore. Chiamano in causa la totalità dell’essere (corpo, parola e mente) e iniziano da una serie di profonde contemplazioni:
¨ l’unicità della vita umana;
¨ la presenza continua dell’impermanenza e della morte;
¨ l’infallibilità della causa ed effetto in tutte le nostre azioni;
¨ il circolo vizioso di sofferenza e frustrazione, il samsara.
Queste riflessioni ispirano un forte senso di ‘rinuncia’, l’urgente desiderio di uscire dal samsara e di seguire il sentiero della liberazione, che costituisce la base per le pratiche specifiche di:
¨ prendere rifugio nel Buddha, nella verità del suo insegnamento e nell’esempio dei praticanti, risvegliando fiducia e fede nella propria natura di buddha;
¨ generare la compassione (bodhicitta, il cuore della mente illuminata, che spiegherò in dettaglio, educando la mente a lavorare con se stessi, con gli altri e con le difficoltà della vita;
¨ rimuovere gli oscuramenti e le ‘contaminazioni’ attraverso la pratica di purificazione con la visualizzazione e il mantra risananti;
¨ accumulare meriti e saggezza sviluppando la generosità universale e creando circostanze favorevoli.
Tutte queste pratiche si concentrano attorno al Guru Yoga, la pratica essenziale, più toccante e potente, indispensabile per aprire il cuore e la mente alla realizzazione dello stato di Dzogchen.
In terzo luogo, un particolare esame meditativo della natura della mente e dei fenomeni esaurisce l’insaziabile fame della mente per il pensiero e l’indagine, la sua dipendenza da un’eterna concettualizzazione, dall’analisi e dai punti di riferimento, e risveglia una comprensione personale della natura della vacuità.
Non potrò mai sottolineare abbastanza l’importanza dei preliminari, che devono lavorare mano nella mano con sistematicità, ispirando lo studente a risvegliare la natura della mente e rendendolo pronto e predisposto in vista del momento che il maestro sceglierà per rivelargli il volto originario del Rigpa.
Nyoshul Lungtok, che divenne uno dei massimi maestri contemporanei di Dzogchen, seguì il suo maestro Patrul Rinpoche per diciotto anni durante i quali furono praticamente inseparabili. IlSuo studio e la sua pratica erano estremamente diligenti, e aveva accumulato un tesoro di purificazioni, meriti e pratica. Era pronto al riconoscimento del Rigpa, ma non aveva ancora ricevuto l’introduzione definitiva. Una sera famosa Patrul Rinpoche gliela diede. Si trovavano in un eremo sulle montagne sopra il monastero Dzogchen.
Era una notte splendida. Il cielo terso, trapunto di stelle. Il lontano latrare di un cane dal monastero sottostante accentuava il suono della loro solitudine.
Patrul Rinpoche era steso a terra, intento a una particolare pratica Dzogchen, quando chiamò Nyoshul Lungtok e gli disse: “Hai detto di non conoscere ancora l’essenza della mente?”.
Dal tono di voce, Nyoshul Lungtok capì che era un momento speciale e annuì pieno di speranza.
“È una cosa semplicissima”, buttò lì Patrul Rinpoche, e aggiunse: “Figlio mio, vieni qui e stenditi, sii come il tuo vecchio padre”. Nyoshul Lungtok si stese al suo fianco.
“Vedi le stelle nel cielo?”.
“Sì”.
“Senti i cani che abbaiano al monastero?”.
“Sì”.
“Senti che cosa ti sto dicendo?”.
“Sì”.
“Bene, la natura dello Dzogchen è questo. Semplicemente questo”
Nyoshul Lungtok ci racconta che cosa accadde. “In quell’attimo, ebbi la certezza della realizzazione. Mi ero liberato dalle pastoie dell’è e del ‘non è’. Realizzai la saggezza primordiale, la nuda unione di vacuità e consapevolezza intrinseca. Ero stato introdotto a questa realizzazione dalla sua benedizione. Come dice il grande maestro indiano Saraha: Colui nel cui cuore sono entrate le parole del maestro vede la verità come un tesoro sul palmo della mano”.
In quell’attimo tutto andò a posto: era nato il frutto dei lunghi anni di studio, purificazione e pratica di Nyoshul Lungtok. Aveva ottenuto la realizzazione della natura della mente. Le parole pronunciate da Patrul Rinpoche non contenevano niente di straordinario, mistico o esoterico Erano parole comunissime. Ma, al di là delle parole, qualcos’altro venne comunicato: la natura intrinseca di ogni cosa, che è il vero significato dello Dzogchen.
Aveva condotto direttamente Nyoshul Lungtok in quello stato grazie al potere e alla benedizione della propria realizzazione.
Ma i maestri sono molto diversi tra loro, e possono utilizzare una gran varietà di abili mezzi per indurre questo spostamento della coscienza. Patrul Rinpoche fu introdotto alla natura della mente in modo del tutto diverso, da un maestro particolarmente eccentrico chiamato Do Khyentse. Riporto il tradizionale resoconto orale che ho udito raccontare.
Patrul Rinpoche stava seguendo una pratica avanzata di yoga e visualizzazione, quando si trovò bloccato: nessuno dei mandala delle divinità appariva con chiarezza alla sua mente. Un giorno si imbatté in Do Khyentse, che aveva acceso un fuoco all’aperto e sedeva bevendo il tè. In Tibet, quando si incontra un maestro per il quale si nutre grande devozione, ci si prostra a terra in segno di rispetto. Quando Patrul Rinpoche iniziò, da lontano, a prostrarsi, Do Khyentse lo vide e ringhiò minacciosamente: “Ehi tu, vecchio cane! Se hai coraggio, vieni avanti!”. Do Khyentse era una figura davvero impressionante. Sembrava un samurai, con la sua lunga capigliatura, la straordinaria eleganza nel vestire e la passione per gli splendidi cavalli.
Mentre Patrul Rinpoche si avvicinava continuando a prostrarsi, Do Khyentse, che non smetteva di imprecare al suo indirizzo, prese a scagliargli contro dei sassi e via via delle pietre sempre più grosse. Quando infine gli arrivò a tiro, Do Khyentse lo prese a pugni e lo stese a terra.
Quando ritornò in sé, Patrul Rinpoche si scoprì in uno stato di coscienza completamente diverso. I mandala che aveva disperatamente cercato di visualizzare gli apparivano spontaneamente. Le ingiurie e gli insulti di Do Khyentse avevano distrutto gli ultimi residui della mente concettuale, e ogni pietra che l’aveva colpito aveva aperto i centri di energia e i canali sottili del corpo. Per due meravigliose settimane la visione dei mandala non lo abbandonò mai.
Vorrei provare a dirvi com’è la Visione e che cosa si sente quando il Rigpa viene direttamente rivelato, anche se le parole e i concetti sono assolutamente insufficienti.
Dice Dudjom Rinpoche: “È come togliersi un cappuccio dalla testa. Che sollievo, che infinita spaziosità! È la visione suprema: si vede ciò che non si era mai visto”. Quando vedete “ciò che non si era mai visto”, tutto si apre, si espande e diventa limpido, frizzante, traboccante di vita, vivido di meraviglia e di freschezza. È come se il tetto della mente volasse via, come se uno stormo d’uccelli si alzasse improvvisamente in volo dal buio del nido. Tutte le limitazioni svaniscono e, dicono i tibetani, cadono come se un sigillo venisse spezzato.
Immaginate di vivere in una casa in cima a una montagna che, a sua volta, è il tetto del mondo. Improvvisamente la struttura della casa, che impediva la visuale, crolla e potete vedere tutto, fuori e dentro. Ma non c’è un ‘qualcosa’ da vedere. Ciò che avviene non ha agganci con l’esperienza ordinaria: è un vedere perfetto, totale, completo, senza precedenti.
Dudjom Rinpoche dice: “I vostri peggiori nemici, che vi hanno tenuto legati al samsara per innumerevoli vite, dal tempo senza inizio al momento presente, sono l’attaccamento e i suoi oggetti”. Nel momento dell’introduzione e del riconoscimento, “entrambi inceneriscono come piume gettate nel fuoco, senza lasciare traccia”. Sia l’attaccamento sia i suoi oggetti, chi prova attaccamento e la cosa che lo provoca, si liberano totalmente dalle loro stesse basi. Le radici dell’ignoranza e della sofferenza sono recise completamente. Tutte le cose appaiono come riflessi in uno specchio: trasparenti, scintillanti, illusorie e simili a sogni.
Quando arrivate naturalmente a questo stadio della meditazione, ispirati dalla Visione, potete rimanervi a lungo senza distrazione e senza sforzo. Non c’è più qualcosa chiamato ‘meditazione’ da proteggere o sostenere: siete nel flusso naturale della saggezza del Rigpa. In esso capite che è sempre stato così, e che è sempre così. Quando sfolgora la saggezza del Rigpa, svanisce ogni ombra di dubbio. Sorge, senza sforzo e in maniera diretta, una profonda e totale comprensione.
Scoprirete che tutte le immagini e le metafore che ho usato si fondono in un’unica esperienza globale della verità. In questo stato ci sono devozione, compassione, tutte le saggezze, beatitudine, chiarezza e assenza di pensieri, ed esse non sono più distinte l’una dall’altra, ma unificate e interconnesse in un solo sapore. Questo momento è il momento del risveglio. Scaturisce dall’intimo un profondo umorismo, e sorridete divertiti al vedere quanto fossero inadeguati tutti i concetti e le idee che avevate prima sulla natura della mente.
Da ciò sgorga una certezza, una convinzione enorme e incrollabile, e sempre più salda, che ‘è questo’. Non c’è più niente da cercare, niente da
fare oggetto di altre speranze. Questa certezza riguardo la Visione va approfondita mediante successivi barlumi della natura della mente e resa stabile attraverso la disciplina costante della meditazione.
LA MEDITAZIONE
Che cos’è la meditazione nello Dzogchen? Rimanere senza distrazioni nella Visione, dopo esservi stati introdotti. Dudjom Rinpoche la descrive così: “La meditazione consiste nell’essere attenti allo stato di Rigpa, liberi da costruzioni mentali, totalmente rilassati, senza distrazioni e senza attaccamento. Per questo si dice che la meditazione ‘non è sforzarsi, ma assimilarsi in modo naturale a essa'”.
Tutta la meditazione Dzogchen mira a rafforzare e rendere stabile il Rigpa, portandolo alla sua piena maturità. La mente comune, ordinaria, con le sue proiezioni, è estremamente potente. Si ripresenta di continuo e riprende facilmente il sopravvento se siamo disattenti o distratti. Dudjom Rinpoche diceva: “Attualmente, il nostro Rigpa è come un neonato in balia dei forti pensieri che si lanciano sul campo di battaglia della mente”. Mi piace usare l’espressione di ‘fare da babysitter’ al nostro Rigpa, nell’ambiente protetto della meditazione.
Se la meditazione è semplicemente continuare nel fluire del Rigpa dopo l’introduzione, come sappiamo quando è il Rigpa e quando non lo è? Ho posto questa domanda a Dilgo Khyentse Rinpoche, che mi ha risposto con la sua tipica semplicità: “Se sei in uno stato inalterato, quello è il Rigpa”. Se non costringiamo né manipoliamo la mente in alcun modo, ma rimaniamo in uno stato inalterato di pura e originaria consapevolezza, questo è il Rigpa. Se da parte nostra c’è costrizione, manipolazione o attaccamento, non lo è. Il Rigpa è uno stato in cui non c’è più nessun dubbio. In realtà non c’è nessuna mente che possa dubitare: vedete direttamente. Se siete in questo stato, una certezza e una fiducia totali e spontanee sorgono assieme al Rigpa, ed è così che sapete di esservi.
Lo Dzogchen è estremamente preciso; infatti, più andate in profondità, più insidiose sono le illusioni che possono presentarsi, poiché è in gioco la conoscenza della realtà assoluta. Anche dopo l’introduzione, il maestro spiega dettagliatamente gli stati che non sono meditazione Dzogchen e che non vanno confusi con essa. In uno di questi stati, la mente scivola in una terra di nessuno in cui non ci sono pensieri né ricordi; è uno stato torpido, oscuro e insensibile dove siete risospinti nella base della mente ordinaria. In un altro, benché ci sia una certa quiete e una debole chiarezza, è una quiete di tipo stagnante, anch’essa immersa nella mente ordinaria. In un terzo stato, sperimentate un’assenza di pensieri, ma siete disorientati in un vacuo stupore. In un quarto, la mente vaga rincorrendo pensieri e proiezioni. Nessuno di questi stati è vera meditazione, e il praticante deve evitare con destrezza di farsi ingannare.
L’essenza della meditazione Dzogchen è riassunta in questi quattro punti:
¨ Quando l’ultimo pensiero è svanito e il prossimo non è ancora sorto,
in quell’intervallo non c’è forse una coscienza del momento presente, fresca, vergine, immune da concetti seppure sottili come un capello? Non c’è una luminosa, nuda consapevolezza?
Questo è il Rigpa!
¨ Ma non rimane così per sempre, perché un altro pensiero si presenta, vero?
Questo è la radiosità autoriginata di quel Rigpa.
¨ Se non riconoscete il pensiero per ciò che realmente è, nel momento stesso in cui sorge, si trasformerà in un pensiero ordinario, come sempre. Questa è la ‘catena dell’illusione’, la radice del samsara.
¨ Se invece riuscite a riconoscere la vera natura del pensiero nel momento in cui sorge, e lo lasciate senza seguito, tutti i pensieri che sorgono tornano automaticamente a dissolversi nell’ampia spaziosità del Rigpa e si liberano.
Naturalmente, comprendere e realizzare appieno la ricchezza e la maestosità di questi quattro punti, semplici ma profondissimi, richiede un’intera vita di pratica. Qui posso soltanto trasmettervi un assaggio della vastità della meditazione Dzogchen.
L’aspetto più importante è forse il fatto che la meditazione Dzogchen diventa il costante fluire del Rigpa, come un fiume che scorre giorno e notte senza interruzione. Si tratta, certamente, dello stato ideale, in quanto questo dimorare privo di distrazioni nella Visione, una volta avvenuti l’introduzione e il riconoscimento, è la ricompensa di anni di pratica continua.
La meditazione Dzogchen ha uno straordinario potere nell’affrontare le insorgenze mentali, di cui mantiene una prospettiva particolare. Tutto ciò che sorge è visto nella sua vera natura, non separato dal Rigpa e non in antagonismo con esso, ma in sostanza, e questo è importantissimo come nulla di diverso dalla sua ‘radiosità spontanea’, dalla manifestazione della sua stessa energia.
Poniamo che siate in un profondo stato di calma. Spesso non dura a lungo e si produce un pensiero o un moto mentale, come un’onda nell’oceano. Non rifiutate il movimento e non abbarbicatevi alla calma, ma continuate nel fluire della vostra pura presenza. Lo stato pervadente e pacifico della vostra meditazione è il Rigpa, e tutto ciò che sorge non è altro che la spontanea radiosità del Rigpa. Ecco il cuore e la base della pratica Dzogchen. I fenomeni sono immediatamente ricondotti alla loro radice, la base del Rigpa: è come cavalcare un raggio di sole fino alla sua sorgente, il sole. Poiché incarnate la ferma stabilità della Visione, non sarete né ingannati né distratti da ciò che sorge, e non cadrete più in preda all’illusione.
Nell’oceano possono prodursi onde sia altissime sia deboli. Nascono forti emozioni, come l’ira, il desiderio, l’invidia. Il vero praticante non le considera come ostacoli o disturbi, ma come grandi opportunità. Se reagite secondo le tendenze abituali dell’attaccamento e dell’avversione, è segno che non solo ve ne fate distrarre, ma che non avete il riconoscimento e avete perso la base del Rigpa. Reagire così alle emozioni dà loro potere, e ci imprigiona ancora di più nelle catene dell’illusione. Il grande segreto dello Dzogchen è vederle, nel momento stesso in cui si presentano, per quello che sono: vivide, elettriche manifestazioni dell’energia del Rigpa. Imparando gradualmente a vedere così, anche le emozioni più turbolente non potranno impossessarsi di voi e si dissolveranno come onde burrascose che nascono, si sollevano e ricadono nella calma dell’oceano.
Il praticante scopre (e questa è una comprensione davvero rivoluzionaria, dalla sottile portata e dalla forza inestimabile) non solo che le emozioni più violente non lo trascinano necessariamente via e non lo sprofondano nel vortice delle nevrosi, ma che invece può usarle per approfondire, stimolare, rinvigorire, rafforzare e stimolare l’audacia del Rigpa. L’energia burrascosa diventa cibo crudo per l’energia risvegliata del Rigpa. Più forte e ardente l’emozione, più il Rigpa ne viene rinvigorito. Credo che questo metodo unico dello Dzogchen abbia lo straordinario potere di liberare anche i problemi emotivi e psicologici più radicati e inveterati.
Vorrei spiegarvi, nel modo più semplice possibile, come funziona esattamente questo processo. Ci sarà di incalcolabile aiuto più tardi, quando esamineremo che cosa accade al momento della morte.
Lo Dzogchen chiama la natura fondamentale intrinseca di tutto la ‘Luminosità fondamentale’ o ‘Luminosità madre’. Essa pervade la nostra intera esperienza, e costituisce perciò la natura intrinseca anche dei pensieri e delle emozioni che sorgono nella nostra mente, sebbene non ce ne rendiamo conto. Quando il maestro ci introduce alla vera natura della mente, lo stato di Rigpa, è come se ci desse una chiave universale. Nello Dzogchen chiamiamo questa chiave, che ci aprirà la porta della perfetta conoscenza, la ‘Luminosità sentiero’ o ‘Luminosità figlia’. La Luminosità fondamentale e la Luminosità sentiero sono essenzialmente la stessa cosa, e vengono distinte solo per scopi didattici e di pratica. Una volta ottenuta la chiave della Luminosità sentiero attraverso l’introduzione del maestro, possiamo usarla quando vogliamo per aprire la porta sulla natura innata della realtà.
Lo Dzogchen chiama l’apertura della porta l’incontro della Luminosità fondamentale e della Luminosità sentiero o l’incontro delle Luminosità madre e figlia. Si può esprimerlo anche così: non appena nasce un pensiero o un’emozione, la Luminosità sentiero, il Rigpa, li riconosce immediatamente per quello che sono nella loro natura intrinseca, la Luminosità fondamentale.
Nell’attimo del riconoscimento le due luminosità si fondono, e pensieri ed emozioni sono restituiti alla libertà della loro origine.
È essenziale portare a perfezione, in questa stessa vita, la pratica della fusione delle due luminosità e dell’autoliberazione di tutto ciò che si presenta. Infatti al momento della morte la Luminosità fondamentale si rivela a tutti in tutto il suo fulgore, offrendoci l’opportunità della totale liberazione se, e solo se abbiamo imparato a riconoscerla.
Spero che ora vi sia chiaro come l’unione delle luminosità e l’autoliberazione dei pensieri e delle emozioni siano meditazione al livello più profondo. Il termine ‘meditazione’, infatti, non è forse il più appropriato alla pratica dello Dzogchen, in quanto implica meditare ‘su’ qualcosa, mentre nello Dzogchen tutto è sempre e solo Rigpa. Perciò non si pone assolutamente il problema di una meditazione diversa dal semplice dimorare nella pura presenza del Rigpa.
Forse l’unico termine adatto è ‘non meditazione’. In questo stato, dicono i maestri, anche se andate in cerca dell’illusione, non ne troverete nessuna. Se infatti cercate comuni ciottoli in un’isola fatta d’oro e gemme, non ne troverete neppure uno. Quando la Visione è costante, il fluire del Rigpa ininterrotto, la fusione delle due luminosità costante e spontanea, allora ogni possibile illusione è liberata alle sue radici, e tutte le vostre percezioni si presentano, senza alcuna frattura, come Rigpa.
I maestri sottolineano che per rendere stabile la Visione nella meditazione è essenziale innanzitutto compiere questa pratica nell’ambiente speciale di un ritiro, dove sono presenti tutte le condizioni favorevoli. Nelle distrazioni e negli impegni del mondo, per quanto meditiate non sorgerà mai la vera esperienza. Secondo, benché nello Dzogchen non vi sia differenza tra meditazione e vita quotidiana, finché non avrete sviluppato la vera stabilità che viene dal praticare in sessioni specifiche, non potrete integrare la saggezza della meditazione con l’esperienza della vita quotidiana. Terzo, praticando potete riuscire a dimorare nel flusso ininterrotto del Rigpa con la fiducia che vi viene dalla Visione ma, se non siete capaci di mantenere quel flusso in ogni momento e in ogni situazione, fondendo pratica e vita quotidiana, esso non sarà un rimedio quando si presentano circostanze sfavorevoli, e i pensieri e le emozioni vi getteranno di nuovo nell’illusione. C’è una bellissima storia di uno yogi Dzogchen che, benché vivesse in modo molto riservato, era attorniato da uno stuolo di discepoli. Un monaco, che aveva un’opinione esagerata della propria erudizione, era invidioso dello yogi, che sapeva non essere un gran letterato. E pensò: “Come osa, lui che è una persona comunissima, dare insegnamenti? Come osa farsi passare per un maestro? Metterò alla prova la sua conoscenza, lo smaschererò per quel ciarlatano che è e lo umilierò davanti ai suoi discepoli, che diverranno i miei”.
Si recò dallo yogi e gli disse sprezzante: “Ehi, razza di Dzogchenpa, tutto ciò che fate è meditare?”.
La risposta lo prese di sorpresa: “Che cosa c’è su cui meditare?”. “Ah, non mediti neppure!”, ragliò trionfante lo studioso.
“Ma quando mai sono distratto?”, disse lo yogi.
L’AZIONE
Quando diventa una realtà, il dimorare nel flusso del Rigpa inizia a permeare la vita e l’agire quotidiano del praticante, generando una profonda fiducia e stabilità. Dice Dudjom Rinpoche: L’azione è essere attenti a tutti i vostri pensieri, buoni o cattivi; osservare la vera natura di qualunque pensiero sorga senza inseguire il passato né anticipare il futuro, senza alimentare nessun attaccamento alle esperienze gioiose né lasciarsi sopraffare dalle situazioni dolorose. Facendo così, cercate di pervenire, e di rimanere, in uno stato di grande equilibrio dove il buono e il cattivo, la pace e il dolore sono svuotati di ogni vera identità.
Realizzare la Visione trasforma in modo sottile ma totale la vostra visione delle cose. Ho capito sempre meglio che i pensieri e i concetti sono ciò che ci impedisce di rimanere, semplicemente, nell’assoluto. Ora vedo chiaro nelle parole dei maestri: “Sforzatevi di non creare troppa speranza e paura”, le quali non fanno altro che generare chiacchiere mentali. Con la Visione, i pensieri sono visti per ciò che sono davvero: fugaci e trasparenti, soltanto relativi. Vedete attraverso le cose, come con i raggi X. Non vi afferrate a pensieri ed emozioni, né li rifiutate, ma li accogliete tutti nell’ampio abbraccio del Rigpa. Ciò che un tempo prendevate con tanta serietà (ambizioni, progetti, aspettative, dubbi e passioni) smette di tenervi nella sua presa ansiosa. La Visione ve ne ha fatto vedere la futilità e inutilità, generando in voi uno spirito di vera rinuncia.
Rimanere nella chiarezza e nella fiducia del Rigpa permette, in modo naturale e senza sforzo, a tutti i pensieri e le emozioni di liberarsi nella sua ampia distesa. È come scrivere sull’acqua o disegnare nell’aria. Portando a perfezione questa pratica, il karma non ha più modo di accumularsi. In questo stato di abbandono senza scopo né preoccupazioni, che Dudjom Rinpoche chiama ‘nudo agio non inibito’, la legge karmica di causa ed effetto non vi lega più.
Non pensate che sia facile. È già difficile rimanere non distratti nella natura della mente anche solo per un momento, figuriamoci autoliberare un pensiero o un’emozione al suo apparire! Spesso presumiamo che, per il fatto di avere capito qualcosa intellettualmente, o di credere di averlo capito, lo abbiamo anche realizzato in pratica. È una grande illusione. Bisogna avere la maturità che si produce solo con anni di ascolto, contemplazione, riflessione, meditazione e di pratica continua. Non si ripeterà mai abbastanza che la pratica dello Dzogchen esige la guida e le istruzioni di un maestro qualificato.
Altrimenti andiamo incontro a un grave pericolo che è tradizionalmente chiamato ‘perdere l’Azione nella Visione’. Un insegnamento elevato e potente come lo Dzogchen comporta un rischio enorme. Se vi illudete di saper liberare pensieri ed emozioni e credete di agire con la spontaneità di un vero yogi Dzogchen, mentre in realtà non ne siete affatto capaci, non fate altro che caricarvi di enormi quantità di altro karma negativo. Come ricorda Padmasambhava, l’atteggiamento giusto è questo: Anche se la mia Visione è ampia come il cielo, le mie azioni e il mio rispetto per la causa ed effetto sono fini come farina.
I maestri della tradizione Dzogchen avvertono continuamente che, se non abbiamo sviluppato una profonda e accurata familiarità con l’essenza e il metodo dell’autoliberazione mediante una lunga pratica, la meditazione “incrementa soltanto l’illusione”. Anche se può sembrare troppo severo, è così. Solo la costante autoliberazione dei pensieri può metter davvero fine al dominio dell’illusione, impedendovi di precipitare ancora nella sofferenza e nella nevrosi. Senza il metodo dell’autoliberazione non potrete fronteggiare disgrazie e circostanze negative e, anche se meditate, scoprirete che emozioni quali l’ira e il desiderio sono violente come sempre. Il pericolo di altre forme di meditazione che mancano di questo metodo è di diventare simili alla ‘meditazione degli dèi’, smarrendosi anche troppo facilmente in un sontuoso autoassorbimento, una trance passiva o una vuotezza di vario genere, mentre nessuna attacca e dissolve l’illusione alle radici.
Il grande maestro Dzogchen Vimalamitra ha esposto con esattezza i livelli di naturalezza crescente che si accompagnano a questo metodo di liberazione.
Dapprima, quando vi siete impadroniti della pratica, la liberazione si produce simultaneamente con l’insorgenza, come riconoscere un amico nella folla.
Perfezionando e approfondendo la pratica, la liberazione si produce simultaneamente all’insorgere del pensiero e dell’emozione, come un serpente che svolge le sue spire. Nell’ultimo stadio, la liberazione è come un ladro che entra in una casa vuota: tutto ciò che sorge non causa né bene né male a un vero yogi Dzogchen.
Anche nei più grandi yogi, gioia e dolore sorgono come prima. Ma la differenza tra una persona comune e lo yogi è il modo di considerare le emozioni e di reagirvi. La persona comune vi aderisce o le rifiuta istintivamente, creando attaccamento e avversione che risultano nell’accumulo di karma negativo. Lo yogi, invece, percepisce tutto ciò che sorge nel suo stato naturale, originario, senza permettere all’attaccamento di intromettersi nella sua percezione.
Dilgo Khyentse Rinpoche descrive uno yogi che passeggia in giardino: perfettamente sveglio alla magnificenza e alla bellezza dei fiori; ne apprezza la forma, il colore e i profumi. Ma nella sua mente non c’è traccia di attaccamento né di ‘elaborazioni’. Come dice Dudjom Rinpoche: Qualunque percezione si presenti, siate come un bambino che entra in un tempio magnificamente decorato: guarda, ma l’attaccamento non si intromette affatto nella sua percezione. Così mantenete tutto fresco, naturale, vivido e incontaminato. Se lasciate ogni cosa nel suo stato naturale, la sua forma non cambia, il suo colore non appassisce, il suo bagliore non svanisce. Se tutto ciò che appare non viene macchiato dall’attaccamento, tutto ciò che percepite sorge come nuda saggezza del Rigpa, l’indivisibilità di luminosità e vacuità.
La fiducia, l’appagamento, la spaziosa serenità, la forza, il profondo umorismo e la sicurezza che nascono dall’avere realizzato la diretta Visione del Rigpa costituiscono la più grande ricchezza della vita, la felicità definitiva che, una volta raggiunta, niente può distruggere, neppure la morte. Dilgo Khyentse Rinpoche dice: Quando avete la Visione, anche se possono presentarsi le percezioni illusorie del samsara, sarete come il cielo: se appare un arcobaleno, il cielo non è particolarmente lusingato; se appare una nuvola, non ne è particolarmente dispiaciuto. C’è un profondo senso di appagamento. Vedendo la facciata di samsara e nirvana, ve la ridete interiormente. La Visione vi divertirà sempre, con un piccolo sorriso interiore che sprizza in continuazione. E Dudjom Rinpoche: “Avendo purificato la grande illusione, la tenebra del cuore, nasce ininterrotta la luce radiosa del limpido sole”.
Se qualcuno prende seriamente gli insegnamenti di questo libro sullo Dzogchen e il suo messaggio sulla morte, spero che sia ispirato a cercare, trovare e seguire un maestro qualificato, e a impegnarsi in una pratica completa. Nel cuore dello Dzogchen ci sono due pratiche, il Trekcho e il Togal, indispensabili per sviluppare una profonda conoscenza di ciò che avviene negli stati di bardo. In questa sede non posso che accennarvi, perché la loro spiegazione completa può trasmettersi solo da maestro a discepolo, una volta che questi si sia impegnato sinceramente negli insegnamenti e abbia raggiunto un certo grado di sviluppo. Tutto ciò che ho esposto nel presente capitolo è il cuore della pratica del Trekcho.
Trekcho vuol dire sfondare completamente l’illusione, in modo intenso e diretto. Essenzialmente l’illusione viene trafitta dalla forza irresistibile della visione del Rigpa, come un coltello che affonda nel burro o un esperto karateka che spezza una pila di mattoni. Il fantastico edificio dell’illusione precipita di colpo, come se ne aveste fatta esplodere la pietra angolare.
Infranta l’illusione, è messa a nudo la primordiale purezza e la naturale semplicità della natura della mente.
Solo dopo essersi accertato che avete una buona base nella pratica del Trekcho, il maestro vi introdurrà alla pratica avanzata del Togal. I praticanti di Togal lavorano direttamente con la Chiara luce che è intrinseca, ‘spontaneamente presente’ in tutti i fenomeni, utilizzando metodi specifici ed esercizi straordinariamente potenti per scoprirla dentro di sé.
Il Togal ha un carattere di istantaneità, di realizzazione immediata. Invece di percorrere una serie di crinali per arrivare a una lontana cima l’approccio del Togal è paragonabile ad arrivarci d’un balzo. Il Togal consente di realizzare i vari aspetti dell’illuminazione in questa stessa vita, e per questo è considerato il metodo straordinario e unico dello Dzogchen. Il Trekcho è la saggezza dello Dzogchen, mentre il Togal ne costituisce gli abili mezzi. Richiede grande disciplina e, in genere, viene praticato nell’ambito di un ritiro.
Ancora una volta, non sarà mai sottolineato abbastanza che il sentiero dello Dzogchen può essere seguito solo con la guida di un maestro qualificato. Come ha detto il Dalai Lama: “Tenete bene a mente che le pratiche Dzogchen come il Trekcho e il Togal possono essere effettuate solo sotto la guida di un maestro esperto, e solo ricevendo l’ispirazione e la benedizione di una persona vivente che ne ha la realizzazione”.
IL CORPO D’ARCOBALENO
Grazie a queste tecniche avanzate dello Dzogchen, i praticanti esperti possono imprimere alla propria vita un gran finale straordinario e trionfante. Alla morte riassorbono il corpo nell’essenza luminosa degli elementi che lo costituiscono, così che il corpo materiale si dissolve in luce e poi scompare del tutto. Questo processo è noto come ‘corpo d’arcobaleno’ o corpo di luce’, perché la dissoluzione è spesso accompagnata da manifestazioni spontanee di luci e di arcobaleni. Gli antichi Tantra Dzogchen, e gli scritti dei grandi maestri, distinguono varie categorie di questo fenomeno stupefacente e soprannaturale. Un tempo infatti, anche se non costituiva la norma, era abbastanza frequente.
Chi sa di essere prossimo a ottenere il corpo d’arcobaleno chiede di essere lasciato solo e tranquillo in una stanza o in una tenda per sette giorni.
L’ottavo giorno, tutto ciò che resta sono i capelli e le unghie, ovvero le impurità del corpo.
Probabilmente oggi tutto ciò ci sembra incredibile, ma la storia del lignaggio Dzogchen è piena di esempi di persone che hanno ottenuto il corpo d’arcobaleno e, come diceva spesso Dudjom Rinpoche, non si tratta solo di una storia del passato. Tra i molti esempi vorrei citarvi uno dei più recenti, con cui ho una connessione personale. Nel 1952 si verificò un famoso caso di corpo d’arcobaleno nel Tibet orientale, testimoniato da molte persone. La persona che lo ottenne, Sonam Namgyal, era il padre del mio tutore e fratello di Lama Tseten, la cui morte ho descritto in apertura di questo libro.
Era un uomo umile e semplice. Faceva vita nomade incidendo la pietra, su cui scolpiva mantra e testi sacri. Si dice che, in gioventù, fosse stato un cacciatore e che avesse ricevuto insegnamenti da un grande maestro. Nessuno sapeva che fosse un praticante, era un vero ‘yogi nascosto’. Poco tempo prima di morire fu visto salire sulle montagne e rimanere seduto, una figura ritagliata contro il cielo, guardando nello spazio. Invece di cantare le canzoni tradizionali, ne compose e cantò di proprie. Nessuno aveva idea di cosa stesse facendo. Quindi si ammalò, o così parve, ma stranamente diventava sempre più felice. Quando la malattia peggiorò, i familiari chiamarono maestri e medici. Il figlio lo invitò a ricordarsi di tutti gli insegnamenti uditi, ma Sonam Namgyal sorrise e disse: “Ho dimenticato tutto, e comunque non c’è niente da ricordare. Tutto è illusione, ma ho fiducia che tutto sia per il meglio”.
Prima di morire, a settantanove anni, disse: “Tutto ciò che vi chiedo è di non toccare il mio corpo per sette giorni dopo la morte”. I familiari avvolsero il corpo e invitarono monaci e lama a venire a praticare per lui. Trasportandolo in una piccola stanza della casa, non poterono fare a meno di accorgersi che, benché fosse stato di alta statura, riuscirono a farlo entrare con facilità, come se si fosse rimpicciolito. Contemporaneamente, attorno alla casa si manifestò uno straordinario fenomeno luminoso con i colori dell’arcobaleno. Il sesto giorno guardarono nella stanza e videro che il corpo stava diventando sempre più piccolo. L’ottavo giorno, quello stabilito per i funerali, arrivarono gli addetti, rimossero le vesti e trovarono soltanto le unghie e i capelli.
Il mio maestro Jamyang Khyentse volle vederli e appurò che si trattava di un caso di corpo d’arcobaleno.
Fonte: Il libro tibetano del vivere e del morire. http://www.esonet.org/wp-content/uploads/2013/05/136069562-Il-Libro-Tibetano-del-Vivere-e-del-Morire-Sogyal-Rinpoche.pdf