Sogyal Rinpoche: Morire – Tonglen

Sogyal Rinpoche: Morire. Consigli del cuore sull’aiuto ai morenti. Dare amore incondizionato. Dire la verità. Paure di morire. Le cose irrisolte. Dire addio. Verso una morte serena. Compassione: La gemma che esaudisce i desideri. La storia del tonglen e il potere della compassione. Come risvegliare l’amore e la compassione. Amore-benevolenza: dissuggellare la fonte. Compassione: considerare se stessi uguali agli altri. Compassione: mettersi al posto degli altri. Usare un amico per generare compassione. Come meditare sulla compassione. Come dirigere la compassione. Gli stadi del tonglen. Preliminari alla pratica del tonglen. Tonglen ambientale. Tonglen per se stessi. Tonglen in una situazione reale. Tonglen per gli altri. La pratica essenziale del tonglen. Tonglen per i morenti. Il santo segreto.


Morire: Consigli del cuore sull’aiuto ai morenti

Emily, una donna verso la settantina, stava morendo di cancro al seno in un ospizio che conosco. La figlia andava a trovarla in ospedale tutti i giorni, e il loro sembrava un buon rapporto. Ma, dopo le visite della figlia, Emily quasi sempre rimaneva a piangere da sola. Dopo un po’ divenne chiaro che il motivo era che la figlia rifiutava di accettare l’ineluttabilità della sua morte, passando tutto il tempo della visita a spingerla a ‘pensare positivamente’ nella speranza che ciò potesse aiutarla a guarire. Emily era costretta a tenersi dentro tutti i pensieri, le paure profonde, il panico e il dolore senza poterne parlare ad altri, senza nessuno che l’aiutasse a vederli da vicino, nessuno che l’aiutasse a capire la sua vita, a trovare un senso risanante nella propria morte.

La cosa più importante della vita è stabilire con gli altri una comunicazione sincera e libera da paure, ed Emily mi fece capire come sia ancora più importante per i morenti.

Spesso una persona morente è riservata e insicura, ignara delle vostre intenzioni quando andate a trovarla per la prima volta. Perciò non sperate che accada qualcosa di straordinario. Siate naturali e rilassati, siate voi stessi. Spesso i morenti non dicono quello che vorrebbero, e chi gli sta vicino non sa cosa dire o cosa fare. È molto difficile scoprire che cosa vorrebbero esprimere o cosa cercano di nascondere. A volte non lo sanno neppure. La primissima cosa da fare è quindi allentare qualunque tensione nell’aria, nel modo che vi risulta più facile e naturale.

Una volta stabilita una base di fiducia l’atmosfera si rilassa da sé, consentendo al morente di far emergere ciò di cui vuole davvero parlare. Incoraggiatelo con calore a sentirsi libero di esprimere pensieri, paure ed emozioni sul morire e sulla morte. Esprimere apertamente e sinceramente le proprie emozioni è vitale per ogni trasformazione, per armonizzarsi con la vita o morire una buona morte. Perciò dovete dare al morente tutta la libertà, permettendogli di dire tutto ciò che vuole.

Quando finalmente è in grado di comunicare i sentimenti più intimi, non interrompete, non negate e non minimizzate ciò che vi sta dicendo. I malati terminali e i morenti sono in condizione di estrema vulnerabilità, e dovete fare appello a tutta la vostra abilità, sensibilità, calore e compassione per lasciarli liberi di aprirsi. Imparate ad ascoltare, a recepire in silenzio: un silenzio aperto e tranquillo che comunica accettazione. Rilassatevi, mettetevi a vostro agio. Sedete accanto all’amico o al parente che muore come se non aveste niente di più importante e di più bello da fare.

Ho imparato che, nelle situazioni più gravi, sono essenziali due cose: il buon senso e l’umorismo. L’umorismo è uno splendido modo per alleggerire l’atmosfera, per aiutare a collocare la morte nella sua vera prospettiva universale e spezzare l’eccessiva serietà e pesantezza della situazione. Fate appello al vostro umorismo con tutto il tatto e l’abilità possibile.

Sempre l’esperienza mi ha insegnato a non prendere niente sul personale. Quando meno ve lo aspettate, i morenti possono usarvi come bersaglio della loro rabbia e delle loro critiche. Elisabeth Kubler-Ross avverte che ira e biasimo possono essere scagliati in ogni direzione, sparati spesso a casaccio contro l’ambiente circostante. Non immaginate che questa rabbia sia diretta personalmente contro di voi. Comprendendo che la causa è il dolore e la paura, non reagirete in modi negativi per il rapporto.

Potreste provare la tentazione di usare il morente per le vostre prediche, per trasmettergli la vostra personale formula spirituale. Evitatelo nel modo più assoluto, soprattutto se sospettate che non è questo che il morente vuole!

Nessuno vuole essere ‘salvato’ dalle credenze di un altro. Ricordate che il vostro compito non è di convertire, ma di aiutare la persona che vi sta di fronte a entrare in contatto con la forza, la fiducia, la fede e la spiritualità dentro di sé, di qualunque segno siano. Ovviamente, se la persona è aperta alla spiritualità e desidera conoscere la vostra opinione al proposito, non tiratevi indietro.

Non aspettatevi troppo da voi stessi, non pretendete risultati miracolosi o di ‘salvare’. Ne sareste immancabilmente delusi. Le persone muoiono così come hanno vissuto, come sono. Per stabilire una vera comunicazione dovete sforzarvi risolutamente di collocare il morente nel quadro della sua vita, del suo carattere, del suo retroterra e della sua storia, per accettarlo senza riserve. Non angosciatevi se la vostra assistenza non sembra produrre effetti, e se il morente non risponde. Non possiamo sapere quali saranno i risultati più profondi delle nostre attenzioni.

Dare amore incondizionato

Il morente ha bisogno che gli si mostri amore incondizionato, libero da aspettative. Non crediate di dover essere degli ‘esperti’. Siate naturali, siate voi stessi, amici veri, e il morente sentirà che gli siete davvero vicini, che comunicate con lui con sincerità e in assoluta uguaglianza, come un essere umano verso un altro essere umano.

Anche se dico di ‘dare amore incondizionato’, non è sempre facile. Il nostro rapporto precedente con la persona che muore può essere stato doloroso, forse proviamo sensi di colpa nei suoi confronti, oppure rabbia e risentimento per qualcosa che ci ha fatto.

Vorrei suggerirvi due semplici modi per esprimere l’amore che avete dentro di voi. Sia io sia i miei studenti che si dedicano ai morenti ne abbiamo verificato l’efficacia. Primo, considerate la persona che vi sta di fronte come un altro voi stesso, con gli stessi bisogni, lo stesso desiderio di essere felice e di non soffrire, la stessa solitudine, la stessa paura dell’ignoto, le stesse segrete tristezze, lo stesso tacito senso di impotenza. Se ci riuscite, scoprirete che il vostro cuore si aprirà e che tra voi ci sarà amore.

Il secondo modo, ancora più efficace, è mettervi risolutamente e realisticamente al suo posto. Immaginate di essere voi in quel letto, in attesa della vostra stessa morte. Immaginatevi sofferenti, soli. E chiedetevi: di che cosa ho più bisogno? Che cosa voglio davvero? Cosa vorrei dall’amico che mi siede vicino?

Se fate queste due pratiche, scoprirete che la persona morente vuole esattamente ciò che voi volete: essere amati e accettati.

Ho anche imparato che i malati gravi desiderano essere toccati, vogliono essere trattati come persone vive e non come infermi. Un grandissimo aiuto è accarezzargli le mani, guardarli negli occhi, massaggiarli dolcemente o tenerli tra le braccia, respirare tranquillamente con il ritmo del loro respiro. Il corpo ha un suo linguaggio d’amore: usatelo senza paura e scoprirete di dare conforto e consolazione.

Spesso dimentichiamo che i morenti stanno perdendo tutto il loro mondo: la casa, il lavoro, i rapporti umani, il corpo e la mente: stanno perdendo ogni cosa. Tutte le perdite che abbiamo subito in vita si sommano nell’immensa perdita della morte. Come potrebbe quindi una persona morente non essere a volte triste, piena di rabbia o in preda al panico? Elisabeth Kubler-Ross identifica cinque stadi nel processo del venire a patti con la morte: rifiuto, rabbia, patteggiamento, depressione e accettazione. Non sono passaggi obbligati e non si presentano necessariamente in quest’ordine; per alcuni la via all’accettazione sarà lunga e difficile, altri potrebbero non raggiungerla mai. La nostra cultura non educa a vedere nella giusta prospettiva i pensieri, le emozioni e le esperienze, così che molte persone, trovandosi di fronte alla morte, alla sfida ultima, si scoprono ingannati dalla loro stessa ignoranza, si sentono terribilmente frustrati e adirati, soprattutto per il fatto che nessuno sembra volerli comprendere né capire i loro bisogni più profondi. Cicely Saunders, pioniera dell’assistenza ai morenti in Inghilterra, scrive: “Una volta chiesi a un uomo che sapeva di stare morendo che cosa desiderasse di più da quelli che lo assistevano.

Rispose: ‘Qualcuno che cerchi di capirmi’. Capire totalmente un altro è impossibile, ma non dimentico che non pretendeva un risultato: voleva solo che qualcuno ci tenesse tanto da provare”.

È essenziale volergli bene abbastanza per provare, assicurando il morente che qualunque suo sentimento, la rabbia, la frustrazione, sono reazioni normali.

Morire porta a galla molte emozioni rimosse: tristezza, amarezze, chiusure, sensi di colpa, persino invidia per la salute degli altri. Aiutate il morente a non rimuovere queste emozioni. Quando si alzano le ondate del dolore e dell’angoscia, siategli vicini. Con l’accettazione, il tempo e una comprensione paziente, queste emozioni lentamente si placano e lo riportano a quella base di serenità, calma ed equilibrio che è più profondamente e veramente sua.

Non cercate di essere troppo saggi, non andate in cerca di parole profonde. Non sentitevi in obbligo di fare o dire qualcosa per migliorare la situazione. Siate semplicemente presenti il più possibile. Se siete sopraffatti dall’ansia e dalla paura e non sapete come fare, ammettetelo apertamente e chiedete voi aiuto alla persona che muore. Questa sincerità vi farà sentire più vicini, favorirà una comunicazione più libera. A volte i morenti sanno meglio di noi come venire aiutati: dobbiamo imparare ad applicare la loro saggezza, a lasciare che ci trasmettano ciò che sanno. Cicely Saunders ci ricorda che nell’assistenza ai morenti non siamo solo noi che diamo. “Presto o tardi, chi lavora con i morenti si accorge di ricevere più di quanto dà: capacità di sopportare, coraggio e spesso umorismo. Dobbiamo ammetterlo…”. Riconoscerne il coraggio può spesso ispirare il morente.

Un altro aiuto mi è venuto dal ricordarmi che la persona che mi sta di fronte è sempre, in qualche modo, intrinsecamente buona. Di fronte a un momento di rabbia o a qualunque altra emozione, per terribili e sconvolgenti che siano, mettere a fuoco la bontà intrinseca vi ridarà il controllo e la prospettiva giusta per continuare a dare aiuto. In un litigio con un amico, non dimentichiamo le sue parti migliori. Fate lo stesso con il morente, e non giudicatelo in base alle emozioni che emergono. La vostra accettazione condurrà l’altro a essere disinibito come ha bisogno di essere. Trattatelo come se fosse sempre come a volte è capace di essere: aperto, amorevole e generoso.

A un livello più profondo, spirituale, trovo estremamente utile ricordare che il morente ha la natura di buddha, che lo sappia o no; ha il potenziale per essere perfettamente illuminata. Più si avvicina alla morte, più la possibilità aumenta. Per questo merita ancora più attenzione e rispetto.

Dire la verità

Spesso mi viene chiesto: “Bisogna dire la verità a una persona che sta morendo?”. Rispondo sempre: “Sì. Con tutta la calma, la dolcezza, la sensibilità e l’abilità possibile”. In anni e anni di assistenza ai malati e ai morenti mi sono trovato a condividere questa osservazione di Elisabeth Kubler-Ross: “Tutti, o quasi tutti sanno di stare morendo. Lo capiscono da un’attenzione diversa, dal mutato atteggiamento nei loro confronti, dalle voci sommesse, dal tentativo di non fare rumore, dal dolore sul viso di un parente o di un membro della famiglia teso e buio che non riesce a nascondere i suoi veri sentimenti”.

Nella mia esperienza ho constatato che molto spesso le persone sanno per istinto che stanno per morire, ma aspettano che gli altri, i medici o i loro cari, glielo confermino. Se non accade pensano che il motivo è che i familiari non possono sopportare la cosa, e quindi nemmeno il morente ne parla. Questa mancanza di sincerità fa sentire il malato ancora più isolato e ansioso.

Ritengo essenziale dire ai morenti la verità: almeno questo lo meritano. Se non lo sanno, come possono prepararsi alla morte? Come possono concludere in modo vero i rapporti che hanno intessuto in vita? Come possono occuparsi delle disposizioni pratiche che sta a loro decidere? Come possono pensare alle necessità di chi gli sopravvive?

Dal mio punto di vista di praticante spirituale credo che morire sia una grande opportunità per venire a patti con tutta la propria vita. Ho visto moltissime persone approfittare di questa opportunità, e nel modo più incoraggiante, per cambiare se stessi e avvicinarsi alla propria intima verità. Quindi, se cogliamo la prima occasione per dire la verità con dolcezza e sensibilità, in realtà stiamo offrendo loro la possibilità di prepararsi, di trovare la forza necessaria in se stessi e di scoprire il significato della loro vita.

Suor Brigida, un’infermiera cattolica che lavorava in un reparto per malattie terminali in Irlanda, mi raccontò questa storia. Il signor Murphy aveva sessant’anni quando il medico disse a lui e alla moglie che non gli restava molto da vivere. L’indomani la moglie andò a trovarlo in ospedale, e parlarono e piansero tutto il giorno. Suor Brigida si accorse dei due anziani coniugi che parlavano e scoppiavano frequentemente in lacrime e, dopo tre giorni della stessa scena, si chiese se dovesse intervenire. Invece, il giorno seguente, i coniugi Murphy apparvero improvvisamente tranquilli e in pace, si tenevano per mano e si facevano tenerezze reciproche.

Suor Brigida fermò in corridoio la signora Murphy e le chiese che cos’era successo per cambiare radicalmente il loro atteggiamento. La donna le raccontò che, dopo la notizia della morte, avevano ripercorso gli anni vissuti insieme, passando in rassegna i ricordi. Erano sposati da quasi quarant’anni, e li addolorava profondamente pensare e parlare di tutto ciò che non avrebbero più potuto fare insieme. Il marito aveva fatto testamento e aveva scritto i suoi ultimi consigli ai figli, già adulti. Tutto era molto triste perché era così difficile dovere lasciar andare, ma avevano continuato perché il signor Murphy voleva finire bene la sua vita

Suor Brigida mi disse che nelle successive tre settimane, prima della morte del signor Murphy, i due coniugi irradiavano pace e una semplice, meravigliosa atmosfera di amore. Dopo la morte del marito, la signora continuò a recarsi all’ospedale per assistere i malati, rivelandosi un grande aiuto per tutti.

Questo caso mi conferma l’importanza di dire appena possibile la verità ai morenti, e la validità del guardare in faccia il dolore della perdita. I signori Murphy sapevano di essere sul punto di perdere molte cose ma, affrontando insieme le perdite e il dolore, trovarono ciò che non potevano perdere: l’amore profondo che sarebbe sopravvissuto alla morte di uno di loro.

Paure di morire

Sono certo che la signora Murphy poté aiutare il marito perché aveva affrontato anche la propria paura della morte. Non potete aiutare i morenti finché non vi siete resi conto che la loro paura vi turba e porta a galla i vostri timori più angoscianti. Lavorare con i morenti è come guardarvi nello specchio limpido e impietoso della vostra stessa realtà, dove vedete riflessa la nuda faccia del vostro panico e del vostro terrore del dolore. Se non guardate in faccia la paura e non la accettate in voi stessi, come potreste tollerarla sul viso di chi vi sta di fronte? Se volete imparare ad aiutare chi muore, dovete esaminare ogni vostra reazione. Tutte le vostre reazioni si rifletteranno infatti in quelle del morente, contribuendo enormemente ad aiutarlo o danneggiarlo.

Guardare apertamente le vostre paure vi aiuterà inoltre nel cammino verso la maturità. A volte penso che niente, più del lavoro con i morenti, accelera la nostra crescita di esseri umani. Avere cura di chi muore è in sé una profonda contemplazione e una riflessione sulla nostra morte. È un modo per affrontarla e lavorarci. Lavorando con i morenti potete arrivare a una sorta di decisione, alla chiara comprensione della cosa più importante nella vita. Imparare a dare vero aiuto a chi muore vuol dire cominciare a perdere la paura e ad assumerci la responsabilità della nostra morte, a scoprire in noi stessi le avvisaglie di una compassione infinita e mai sospettata prima.

Essere consapevoli delle vostre paure vi aiuterà enormemente a essere consapevoli delle paure di chi sta morendo ora. Sentite nel profondo di che cosa si tratta: paura di un dolore sempre più forte e incontrollabile, paura di soffrire, paura dell’umiliazione, paura della dipendenza, paura di aver vissuto inutilmente, paura della separazione dalle persone care, paura di perdere il controllo, paura di perdere il rispetto. E, forse, la più grande in assoluto è la paura di provare paura, che diventa sempre più forte quanto più la fuggiamo.

Quando avete paura, di solito vi sentite isolati e soli. Avendo vicino qualcuno che vi parla delle sue paure capite che la paura è universale, e la vostra paura personale perderà di mordente perché verrà riportata al più grande quadro umano e universale. Ciò vi mette in grado di essere più comprensivi e compassionevoli, e di affrontare le vostre paure in modo più positivo e stimolante.

Continuando a vedere le vostre paure e ad accettarle, diverrete sempre più sensibili a quelle di chi vi sta di fronte, e scoprirete di sviluppare l’intelligenza e l’intuizione necessarie per aiutare l’altro a portare allo scoperto le sue paure, affrontarle e dissolverle in modo abile. Scoprirete che affrontare le vostre paure non solo vi renderà più compassionevoli, coraggiosi e chiari, ma che vi renderà più abili. Questa abilità vi aprirà ai molti modi per aiutare i morenti a capire e ad affrontare se stessi.

Una delle paure più facili da dissolvere è quella dell’ansietà verso il dolore che si accompagna al morire. Mi piacerebbe pensare che tutti ora sanno che è un dolore inutile. La sofferenza fisica può essere ridotta al minimo, perché nella morte ce n’è già abbastanza. Uno studio condotto al St. Christopher’s Hospice di Londra, che conosco bene e dove alcuni miei studenti sono morti, ha rivelato che, con le attenzioni giuste, il novantotto per cento dei pazienti può morire in modo sereno. L’hospice movement (il movimento per l’assistenza ai malati terminali e ai morenti) ha sperimentato molti modi per alleviare il dolore con varie combinazioni di medicinali, non necessariamente narcotici. I maestri buddisti parlano della necessità di morire in lucidità di coscienza, mantenendo una serena e chiara padronanza mentale. Tenere il dolore sotto controllo senza oscurare la coscienza è il primo requisito, e oggi è possibile. Tutti hanno diritto a questa forma semplice di aiuto nel momento più difficile del passaggio.

Le cose irrisolte

Un’altra ansia che affligge i morenti riguarda spesso le molte cose che si lasciano senza poterle finire. I maestri ci ricordano di morire con serenità, ‘senza afferrarci, senza desideri e attaccamenti’. Ma ciò non è possibile se non si sono messe in ordine, per quanto è possibile, le cose non terminate.

Avrete spesso modo di notare che molti si afferrano alla vita, e hanno paura di lasciar andare e morire, perché non hanno accettato quel che sono stati e che hanno fatto. Se si muore nutrendo sensi di colpa o sentimenti negativi verso qualcuno, chi sopravvive soffre ancora di più.

A volte mi chiedono: “Non è troppo tardi per guarire una ferita passata? Non c’è stata troppa sofferenza tra me e l’amico o il parente che sta morendo per poterla risanare?”. Io credo, e l’esperienza me lo conferma, che non è mai troppo tardi. Anche dopo dolori e maltrattamenti enormi, si può trovare il modo di perdonare. Il momento della morte ha una grandiosità, una solennità e un alone di irreversibilità che induce a rivedere i propri atteggiamenti, a essere più aperti e pronti a perdonare ciò che prima non si poteva tollerare. Nell’attimo finale, gli errori di una vita si possono cancellare.

Io e i miei studenti che lavorano con i morenti abbiamo trovato assai utile un metodo per aiutare a concludere le cose irrisolte. È stato formulato in base alla pratica buddhista del ‘rendersi uguale e mettersi al posto degli altri’ e alla tecnica Gestalt da Christine Longaker, una delle mie prime studentesse che si occupò della morte e del morire dopo la morte del marito per leucemia. In genere le cose irrisolte sono il prodotto di un blocco nella comunicazione. Se siamo stati feriti ci teniamo sulla difensiva, mettendoci nella posizione di chi ha ragione e rifiutando ciecamente di considerare il punto di vista dell’altro. Questo atteggiamento non solo è inutile, ma congela ogni possibilità di vera comunicazione. Utilizzando questa tecnica, muovete dalla precisa motivazione di voler portare alla luce i vostri pensieri e sentimenti negativi per capirli, lavorarci, chiarirli e infine lasciarli andare.

Visualizzate davanti a voi la persona con cui avete difficoltà. Vedetela con l’occhio della mente nello stesso identico modo in cui la vedete di solito. Ora pensate che avvenga un reale cambiamento che rende l’altro molto più aperto e ricettivo ad ascoltarvi, molto più disponibile a una sincera condivisione per risolvere le difficoltà tra di voi. Visualizzatelo chiaramente in questo nuovo stato di apertura. Ciò consentirà anche a voi di sentirvi più aperti nei suoi confronti. Ora, nel profondo del cuore, sentite che cosa vorreste davvero dirgli. Esponete a lui o a lei tutto il problema, esprimete i vostri sentimenti al riguardo, le vostre difficoltà, le ferite, i rimpianti. Dite tutto ciò che prima non avevate mai avuto il coraggio di esprimere.

Prendete un foglio e scrivete tutto quel che direste. Appena finito, cominciate a scrivere immediatamente quella che potrebbe essere la risposta dell’altro. Non interrompetevi per pensare a cosa avrebbe detto di solito: ricordate che ora, secondo la vostra visualizzazione, l’altro vi ha ascoltato davvero ed è più aperto. Scrivete ciò che sentite spontaneamente consentendo all’altro (sempre nella vostra mente) di esprimere senza reticenze il suo punto di vista.

Interrogatevi per scoprire se c’è qualcos’altro che vorreste dire, altre ferite o delusioni che vi siete tenuti dentro senza mai esprimerle. Scrivetelo e, anche questa volta senza stacco, scrivete la risposta che vi aspettereste, così come vi viene in mente. Continuate questo dialogo finché sentite di non stare nascondendo nient’altro, e che nient’altro rimane da dire.

Per verificare se siete realmente pronti a chiudere il dialogo, chiedetevi in profondità se siete disposti a lasciar andare sinceramente il passato, se siete disposti, soddisfatti delle comprensioni e del risanamento che il dialogo scritto vi ha portato, a perdonare l’altro o a sentire che anche lui è pronto a perdonarvi. Fatto ciò, ricordatevi di scrivere qualunque sentimento di amore o di stima che ancora non abbiate espresso, e finite dicendo addio.

Visualizzate la persona che si gira e se ne va. Anche se dovete lasciarla andare, ricordate che potete tenere sempre nel cuore il suo amore e il calore dei ricordi degli aspetti migliori del vostro rapporto.

Per ottenere una riconciliazione con il passato ancora più chiara, leggete il dialogo a un amico oppure leggetelo a voce alta a casa vostra. Leggendolo a voce alta noterete un cambiamento in voi, come se aveste realmente comunicato con l’altro e risolto realmente tutte le difficoltà del passato. Dopo di che saprete lasciar andare con più facilità e sarete in grado di esprimere direttamente all’altro i vostri problemi. Se lasciate andare veramente, vi sarà un sottile cambiamento nell’alchimia dei rapporti con l’altra persona e spesso la tensione che perdurava si dissolve. Potrebbe addirittura succedere, sorprendentemente, che diventiate i migliori amici. Non dimenticate le parole di un famoso maestro tibetano, Tzong Khapa: “Un amico si può trasformare in nemico, e quindi un nemico si può trasformare in amico”.

DIRE ADDIO

Lasciar andare le vecchie tensioni non basta: dovete imparare a lasciar andare la persona che muore. Se siete attaccati e vi aggrappate al morente, gli darete un dolore inutile e gli renderete estremamente difficile staccarsi e morire serenamente.

A volte una persona può vivere settimane o mesi in più della prognosi medica, con terribili dolori fisici. Christine Longaker ha scoperto che, in questi casi, per poter lasciar andare e morire serenamente occorre udire due esplicite assicurazioni verbali da parte dei propri cari. Il morente deve ricevere in primo luogo il permesso di morire e, in secondo luogo, l’assicurazione che non deve preoccuparsi per loro dopo la sua scomparsa.

Quando mi chiedono qual è il modo migliore per dare il permesso di morire, rispondo di immaginare di essere accanto al letto del morente e di dire con profonda e sincera tenerezza: “Sono qui con te e ti amo. Stai morendo, ma è un fatto naturale. Tutti moriamo. Vorrei che tu rimanessi con me, ma non voglio assolutamente che continui a soffrire. Il tempo che abbiamo passato insieme, l’avrò sempre nel cuore. Ti prego di non aggrapparti più alla vita. Lascia andare. Ti do con tutto il cuore il permesso di morire. Non sei solo, né ora né mai. Hai tutto il mio amore”.

Una mia studentessa che lavora in un ospizio mi ha raccontato di un’anziana signora scozzese, Maggie, che andava a trovare quando il marito, ormai prossimo a morire, era già entrato in coma. Maggie era sconsolata perché non gli aveva mai espresso tutto il suo amore e non aveva potuto dirgli addio, e ora era troppo tardi. La mia studentessa la incoraggiò dicendo che, anche se il marito apparentemente non reagiva, forse era ancora in grado di sentire. Aveva letto di molte persone che pur sembrando incoscienti, percepivano quel che avveniva. Le consigliò di stare vicino al marito e di comunicargli tutto ciò che aveva da dirgli. Maggie non ci aveva pensato, ma lo fece e si mise a parlare al marito dei momenti belli passati insieme, di come avrebbe sentito la sua mancanza e di quanto lo amava. Alla fine, dopo avergli detto addio, aggiunse: “Per me è duro restare senza di te, ma non voglio vederti soffrire ancora. E’ giusto che ora mi lasci”. Quando finì di parlare, il marito emise un lungo sospiro e morì serenamente.

Tutti devono imparare a lasciar andare: non solo chi muore ma tutti i suoi familiari. Ciascun membro della famiglia può avere un livello di accettazione diverso, e questo va tenuto in conto. Uno dei migliori risultati dell’hospice movement è aver riconosciuto l’importanza dell’aiuto dato ai familiari nell’affrontare il dolore e l’insicurezza riguardo al futuro. Molti familiari fanno resistenza a staccarsi dalla persona morente, pensando che sia un tradimento o una dimostrazione di poco affetto. A costoro, Christine Longaker suggerisce di immaginarsi al posto della persona morente: “Immaginate di essere sul ponte di una nave in partenza. A terra, amici e parenti sventolano i fazzoletti per salutarvi. Dovete partire per forza, e la nave si sta già muovendo. In che modo vorreste che i vostri cari vi salutassero? Quale sarebbe il miglior aiuto per il vostro viaggio?”.

Anche un semplice suggerimento come questo può fare molto per aiutare ciascun membro della famiglia ad affrontare a modo suo la tristezza dell’addio.

Spesso mi viene chiesto: “Cosa devo dire a mio figlio se un membro della famiglia muore?”. Rispondo di dire la verità, con grande dolcezza. Non portate i bambini a pensare che la morte sia qualcosa di insolito o di terribile.

Fateli partecipare, per quanto è possibile, alla vita di un parente vicino alla morte e rispondete con sincerità alle domande che vi rivolgeranno.

L’innocenza e i modi diretti dei bambini possono dare dolcezza, leggerezza e a volte umorismo al dolore del morire. Stimolateli a pregare per il morente, per sentire che stanno facendo davvero qualcosa per dare aiuto. Dopo la morte, riservate ai bambini un’attenzione e un affetto particolari.

VERSO UNA MORTE SERENA

Ripensando al Tibet e alle morti di cui fui testimone laggiù, mi colpisce il ricordo della calma e dell’armonia che circondavano i morenti. Purtroppo è un ambiente che manca del tutto in Occidente, ma vent’anni di esperienza mi hanno insegnato che con un po’ d’immaginazione è possibile ricrearlo. Sono convinto che, dove sia possibile, le persone debbano morire a casa, perché è a casa che ci sentiamo più a nostro agio. La morte serena, che i maestri buddhisti ci ricordano sempre, è più facile in un ambiente familiare. Ma anche in ospedale i parenti possono fare molto per renderla più facile e ispiratrice possibile: piante, fiori, dipinti, fotografie delle persone care, disegni fatti dai figli e dai nipoti, nastri di musica e, se si può, cibo preparato a casa. Si può chiedere il permesso di portare ogni tanto i bambini e, per i parenti, di passare la notte con il malato.

Se il morente è buddhista o se comunque pratica una religione, potete costruire un piccolo altare con immagini ispiratrici. Ricordo un mio studente, Reiner, che stava morendo in una stanza privata all’ospedale di Monaco. Gli avevano costruito un altare con le immagini dei suoi maestri. Ne fui commosso, e sentii quanto quell’atmosfera lo aiutava. Il Buddhismo consiglia di costruire un altare e di portarvi offerte quando una persona sta morendo. La devozione e la serenità di Reiner mi fecero capire la forza, l’ispirazione che il morente può trarne per fare della sua morte un momento sacro.

Quando la morte è prossima, vi suggerisco di chiedere al personale medico di disturbare il meno possibile il morente e di sospendere le analisi. Quando mi chiedono la mia opinione sui reparti di terapia intensiva, sono costretto a rispondere che stare in un reparto di rianimazione rende molto difficile morire serenamente e seguire una pratica spirituale al momento della morte. Il morente non dispone di uno spazio privato, è circondato da macchine e quando il respiro si ferma o il cuore cessa di battere scattano i tentativi per rianimarlo. Inoltre non c’è modo di lasciare tranquillo il corpo per un certo periodo di tempo dopo la morte, come invece consigliano i maestri.

Se possibile mettetevi d’accordo con i medici perché vi avvertano quando il processo diventa irreversibile e, se la persona è d’accordo, chiedete di trasferire il morente in una stanza privata con le apparecchiature scollegate. Accertatevi che il personale conosca e rispetti i desideri del morente, specie se non vuole i tentativi di rianimazione, e che sia disponibile a lasciare tranquillo il cadavere il più a lungo possibile. Ovviamente in un ospedale moderno non si può lasciare il cadavere tre giorni com’era usanza in Tibet, ma si deve fare di tutto per dare al morente ogni supporto di tranquillità e di silenzio che lo aiutino a iniziare il viaggio nel dopo morte.

Accertatevi anche che, negli ultimi istanti di vita, siano sospese tutte le iniezioni e ogni sorta di trattamenti invadenti. Possono produrre dolore, rabbia e irritazione, mentre è assolutamente essenziale che, nei momenti che precedono la morte, la mente sia nel massimo stato di calma, come spiegherò meglio in seguito.

La maggior parte delle persone muore in stato di incoscienza. Dalle esperienze di pre-morte abbiamo imparato che persone in coma o in punto di morte possono essere molto più consapevoli dell’ambiente esterno di quanto supponiamo. I resoconti delle esperienze di pre-morte parlano di esperienze di uscita dal corpo che testimoniano una sorprendente coscienza dei particolari dell’ambiente e, in alcuni casi, addirittura di altre stanze dell’ospedale.

Ciò dimostra l’importanza di parlare spesso e positivamente a una persona in coma o in punto di morte. L’attenzione consapevole, attenta e attivamente amorevole per il morente deve continuare fino agli ultimi istanti di vita e, come dirò in seguito, anche dopo.

Spero che questo libro possa convincere i medici di tutto il mondo a considerare con la massima serietà la necessità di permettere al paziente di morire in silenzio e serenità. Desidero fare appello alla buona volontà della professione medica perché senta l’esigenza di rendere il momento del trapasso il più facile, sereno e indolore possibile. Una morte serena è un diritto umano, forse ancora più essenziale del diritto di voto o di avere giustizia. Un diritto da cui, come insistono tutte le religioni, dipende in larga misura il benessere e il futuro spirituale del morente.

Non c’è carità più grande che aiutare una persona a morire bene.

Compassione:

La gemma che esaudisce i desideri.

Prendervi cura dei morenti vi rende intensamente consapevoli non solo della loro mortalità, ma anche della vostra. Sovrapponiamo alla cruda conoscenza della nostra morte tanti veli e tante illusioni che, quando veniamo messi di fronte al fatto che stiamo morendo e che tutti gli esseri stanno morendo con noi, iniziamo a provare il senso bruciante e straziante della fragilità e della preziosità di ogni momento della vita e di ogni essere vivente. Da ciò cresce una profonda, limpida, infinita compassione per tutti gli esseri. Poco prima di essere decapitato, Thomas More scrisse queste parole: “Tutti andiamo verso l’esecuzione, sulla stessa carretta. Come potrei odiare qualcuno o volergli del male?”. Sentire la pienezza della vostra mortalità e aprirle completamente il cuore fa crescere in voi quella compassione universale e priva di paura che nutre tutti coloro che desiderano davvero essere d’aiuto agli altri.

Tutto ciò che ho detto sinora sull’assistenza ai morenti si può riassumere in due parole: amore e compassione. Che cos’è la compassione? Non solo comprensione e interessamento per chi soffre, non solo un calore per la persona che vi sta di fronte, non solo un acuto riconoscimento dei suoi bisogni e sofferenze, ma la determinazione continua e pragmatica di fare tutto ciò che è possibile e necessario per alleviare la sofferenza.

La compassione non è vera se non è attiva. Avalokiteshvara, il Buddha della compassione, è rappresentato nell’iconografia tibetana con mille occhi che vedono il dolore in ogni angolo dell’universo e con mille braccia per portare aiuto in tutti gli angoli dell’universo.

LA LOGICA DELLA COMPASSIONE

Tutti conosciamo almeno in parte i benefici della compassione, ma la forza particolare degli insegnamenti buddhisti sta nel dimostrare la ‘logica’ della compassione. Una volta capita, questa logica rende la vostra pratica della compassione a un tempo più urgente e più universale, più stabile e fondata, perché si basa sulla chiarezza di un ragionamento la cui verità si fa tanto più visibile quanto più la mettete in pratica e verificate.

Possiamo dire che la compassione è meravigliosa, credendoci a metà. Ma, in realtà, le nostre azioni sono profondamente non compassionevoli, portano a noi e agli altri per lo più angoscia e frustrazione, e non la felicità che tutti cerchiamo.

Non è assurdo che tutti vogliamo la felicità, e che il nostro modo di agire e di sentire non serva che ad allontanarcene? Quale prova migliore che la nostra opinione sulla vera felicità, e su come ottenerla, è radicalmente sbagliata?

Che cosa immaginiamo che ci renderà felici? Un astuto, intraprendente egoismo votato all’interesse personale; quell’egoistica protezione dell’io che, come ben sappiamo, può renderci estremamente brutali. Vero è invece il contrario. Se li vediamo nella loro realtà, l’attaccamento all’io e l’affetto egoistico si rivelano h radice del male fatto agli altri, e quindi di tutto il male fatto a noi stessi.

Ogni cosa negativa fatta o pensata è prodotta in ultima analisi dal nostro attaccamento a un falso sé, dalle tenere cure che gli prodighiamo facendone l’elemento più caro e più importante della nostra vita. Tutti i pensieri negativi, le emozioni, i desideri e le azioni che sono la causa del nostro cattivo karma sono generati dall’attaccamento all’io e dall’affetto egoistico. Sono l’oscuro ma potente magnete che, vita dopo vita, attira su di noi ogni ostacolo, ogni disgrazia, ogni angoscia e ogni disastro, rivelandosi la causa radice di tutte le sofferenze del samsara.

Quando abbiamo realmente capito la legge del karma in tutto il suo crudo potere e le sue complesse risonanze nell’arco di molte vite; quando abbiamo visto come l’attaccamento all’io e l’affetto egoistico, vita dopo vita, ci imprigionano in una rete di ignoranza che sembra intrappolarci sempre più strettamente; quando abbiamo compreso davvero la natura dannosa e catastrofica dell’agire della mente dominata dall’attaccamento all’io, esaminandone la modalità d’azione nei luoghi più reconditi; quando ci siamo resi conto di come la nostra mente ordinaria e le nostre azioni siano determinate, delimitate e oscurate dall’attaccamento all’io, e come questo ci rende di fatto impossibile scoprire il cuore dell’amore incondizionato bloccando le sorgenti del vero amore e della vera compassione, viene il momento in cui capiamo, con estrema, intensa chiarezza, le parole di Shantideva: se tutti i mali le paure e le sofferenze del mondo nascono dall’attaccamento all’io, che bisogno ho di questo grande spirito maligno?

Allora nasce in noi la decisione di distruggere questo spirito maligno, il nostro peggiore nemico. La sua morte rimuove la causa di tutta la nostra sofferenza, facendo splendere la spaziosità e la generosità dinamica della nostra vera natura.

In questa guerra contro il peggiore nemico, l’attaccamento all’io e l’affetto egoistico, non abbiamo alleato più grande della pratica della compassione. È la compassione, il dedicarsi agli altri, prendere su di noi le sofferenze degli altri invece di badare solo a noi stessi che, mano nella mano con la saggezza del non io, distrugge nel modo più efficace e radicale il vecchio attaccamento a un falso sé che è stato la causa del nostro interminabile vagare nel samsara. Ecco il motivo per cui, nella nostra tradizione consideriamo la compassione come la scaturigine e l’essenza dell’illuminazione, il cuore dell’attività illuminata. Ancora Shantideva dice: C’è bisogno di aggiungere altro? Lo sciocco lavora per il proprio bene i buddha lavorano per il bene degli altri. Considerate la differenza tra i due. Se non scambio la mia felicità con la sofferenza degli altri non otterrò la buddhità e neanche nel samsara avrò alcuna vera gioia.

Realizzare ciò che chiamo la saggezza della compassione significa vederne con perfetta chiarezza i benefici, assieme ai danni che provoca il suo contrario. Dobbiamo fare una netta distinzione tra interesse egoico e interesse ultimo, perché tutta la sofferenza viene dal confondere l’uno con l’altro. Continuiamo testardamente a credere che avere a cuore se stessi sia la massima sicurezza, mentre è vero il contrario. L’attaccamento all’io genera l’affetto egoistico, che a sua volta genera il rifiuto radicato del danno e della sofferenza. Ma danno e sofferenza non hanno realtà oggettiva: ciò che gli conferisce esistenza e potere è la nostra avversione. Comprendendolo, comprendete anche che di fatto è la nostra avversione ad attirare su di tutte le negatività e gli ostacoli, stipando l’esistenza di ansia, aspettative e paure. Fiaccate l’avversione assottigliando la mente egoica e il suo attaccamento a un sé inesistente, e avrete eliminato la presa che gli ostacoli e le negatività esercitano su di voi. Infatti, come potete scagliarvi contro qualcuno o qualcosa che semplicemente non esiste.

La compassione è quindi la miglior protezione. Inoltre, come hanno sempre saputo i grandi maestri del passato, è la fonte della guarigione.

Immaginate di essere malati di cancro o di AIDS. Se, oltre al vostro male prendete su di voi, con mente colma di compassione, quello di tutti coloro che soffrono della vostra stessa malattia, purificherete al di là di ogni dubbio il karma negativo passato che costituisce la causa, presente e futura, del protrarsi della vostra sofferenza.

In Tibet ricordo di aver sentito di molte persone che, alla notizia di avere contratto una malattia mortale, davano via tutto ciò che possedevano e prendevano dimora in un cimitero. Là seguivano la pratica di prendere su di sé la sofferenza degli altri, ma la cosa sorprendente è che, invece di morire, ritornavano a casa completamente guariti.

L’esperienza mi ha insegnato che lavorare con i morenti è un’occasione diretta di praticare la compassione in azione, nelle circostanze in cui ce n’è più bisogno.

La vostra compassione fa del bene al morente in almeno tre modi. Primo, poiché apre il vostro cuore, vi è più facile dare alle persone che muoiono l’amore incondizionato di cui ho parlato, e di cui hanno tanto bisogno. A livello più profondo, spirituale, ho constatato che incarnare la compassione, e agire motivati dal suo cuore, crea un’atmosfera che ispira il morente a percepire la dimensione spirituale, spingendolo a volte a intraprendere una pratica spirituale. A livello ancora più profondo, con una pratica costante della compassione verso i morenti e con l’esempio a fare altrettanto, non solo potrete guarirli spiritualmente ma forse anche fisicamente. E, con meraviglia, scoprirete voi stessi ciò che i maestri spirituali conoscono bene, che il potere della compassione non ha limiti.

Uno dei maggiori santi buddisti fu Asanga, vissuto in India nel IV secolo. Si era recato in ritiro solitario sulle montagne, concentrando tutta la sua meditazione sul Buddha Maitreya, nella fervida speranza di essere benedetto dalla sua visione e di riceverne insegnamenti.

Per sei anni meditò in condizioni di vita molto dure, ma non ebbe neppure un sogno propizio. Scoraggiato, pensò che il desiderio di incontrare il Buddha Maitreya non si sarebbe mai avverato e abbandonò il ritiro, lasciando l’eremitaggio. Non aveva fatto molta strada quando vide un uomo che sfregava un’enorme sbarra di ferro con una striscia di seta. Gli si avvicinò e gli chiese cosa facesse. “Mi serve un ago” rispose l’uomo, “e intendo ricavarlo da questa sbarra di ferro”. Asanga lo fissò interdetto: anche se avesse insistito per cent’anni, che cosa avrebbe ottenuto? Disse a se stesso: “Quanti fastidi gli uomini si procurano da sé per cose decisamente assurde. Tu, che ti dedichi a qualcosa di ben più valido, a una pratica spirituale, non ci metti altrettanto impegno”. Girò su se stesso e tornò all’eremo.

Passarono altri tre anni, senza il minimo segno da parte del Buddha Maitreya.

“Ora” pensò Asanga, “so per certo che non ci riuscirò mai”. Se ne andò una seconda volta e dopo poco s’imbatté, a una curva della strada, in un macigno tanto alto che sembrava toccare il cielo. Alla base del macigno un uomo era intento a sfregarlo con una piuma bagnata d’acqua. “Che cosa fai?”, lo interrogò Asanga.

“Questo macigno” rispose l’uomo, “è così alto che impedisce al sole di arrivare alla mia casa, perciò cerco di toglierlo di mezzo”. Stupefatto dall’infaticabile energia di quell’uomo, e vergognandosi per il suo scarso impegno, Asanga ritornò indietro.

Trascorsero altri tre anni, anche questi senza nessun sogno favorevole. Decise, una volta per tutte, che era inutile e lasciò l’eremo per sempre. Era pomeriggio quando s’imbatté in un cane sul ciglio della strada. L’animale aveva solo le zampe anteriori. La parte posteriore del corpo, ormai in decomposizione, era coperta di vermi. Nonostante le patetiche condizioni, il cane cercava di azzannare i passanti trascinandosi penosamente sulle due zampe sane.

Asanga fu sopraffatto da un irresistibile sentimento di compassione. Si tagliò un pezzo di carne dal corpo e lo diede al cane perché mangiasse. Poi si chinò per togliere i vermi che gli rodevano il corpo, ma di colpo si rese conto che se avesse usato le dita li avrebbe schiacciati e decise che l’unico modo era toglierli con la lingua. Asanga si mise in ginocchio, guardò quella massa fremente e suppurante, e chiuse gli occhi. Si piegò ancora un po’, tirò fuori la lingua e… si accorse che la lingua toccava la terra. Apri gli occhi: il cane era sparito e al suo posto stava il Buddha Maitreya, circondato da una fulgida aura luminosa.

“Finalmente!”, esclamò Asanga. “Perché non mi eri mai apparso prima?”. Maitreya disse dolcemente: “Non è vero che non ti sono mai apparso. Sono stato con te tutto il tempo, ma il tuo karma negativo e i tuoi oscuramenti ti impedivano di vedermi. Dodici anni di pratica le hanno in parte dissolte, permettendoti almeno di vedere quel cane. Allora, grazie alla tua compassione sincera e genuina, tutti gli oscuramenti sono stati spazzati via e ora mi vedi con i tuoi occhi. Se non credi che ciò è quanto è successo, prendimi sulle spalle e chiedi se qualcun altro mi vede”.

Asanga si caricò Maitreya sulla spalla destra, si recò al mercato e chiedeva a tutti: “Che cos’ho sulla spalla?”. “Niente”, rispondevano tutti e se ne andavano di fretta. Ma un’anziana donna, il cui karma era in parte purificato, rispose: “Sulla spalla hai il cadavere decomposto di un vecchio cane, nient’altro”. Asanga comprese l’infinito potere della compassione che aveva purificato e trasformato il suo karma, rendendolo un recipiente adatto a ricevere la visione e l’insegnamento di Maitreya. Il Buddha Maitreya, il cui nome significa ‘gentilezza amorevole’, lo trasportò in un regno celeste dove gli diede vari sublimi insegnamenti che sono tra i più importanti di tutto il Buddhismo.

La storia del tonglen e il potere della compassione

Spesso gli studenti mi chiedono: “La sofferenza di un amico, di un parente mi turba molto. Voglio davvero aiutarlo, ma non sento abbastanza amore per farlo. La compassione che vorrei trasmettergli è bloccata. Che posso fare?”. Non abbiamo tutti provato l’accorata frustrazione di non trovare nel nostro cuore abbastanza amore e compassione per chi soffre, e quindi la forza necessaria per aiutarli?

Uno dei pregi del Buddhismo è l’aver sviluppato uno spiegamento di pratiche utili in situazioni come questa, capaci davvero di nutrirvi e di darvi la forza, la gioiosa creatività e l’entusiasmo per purificare la mente e sbloccare il cuore, facendo che le energie risananti della saggezza e della compassione influenzino e trasformino la situazione. Tra tutte le pratiche che conosco, quella del Tonglen, che in tibetano significa dare e ricevere’, è una delle più utili e potenti. Quando siete chiusi in voi stessi, il Tonglen vi apre alla verità della sofferenza altrui; quando avete il cuore bloccato, distrugge le forze ostruenti; quando vi sentite estraniati dalla persona che soffre davanti a voi, quando vi sentite amareggiati e disperati, vi aiuta a trovare e a esprimere l’amorevole, comunicativa radiosità della vostra vera natura. Non conosco pratica altrettanto efficace per distruggere l’attaccamento all’io, l’affetto accecante per se stessi e l’egoismo, che sono la radice di tutta la sofferenza e della nostra durezza.

Uno dei massimi maestri di Tonglen fu Geshe Chekhawa, vissuto in Tibet nell’XI secolo. Era un dotto, esperto in varie forme di meditazione. Un giorno, mentre si trovava nella stanza del suo maestro, vide un libro aperto su questi versi:

Dai agli altri ogni profitto e guadagno, prendi su te stesso ogni perdita e insuccesso.

L’immensa, indicibile compassione di questi due versi lo sbalordì, e si mise in viaggio per conoscere il maestro che li aveva scritti. Un giorno incontrò un lebbroso, il quale gli disse che quel maestro era morto. Ma Geshe Chekhawa perseverò e i suoi sforzi furono premiati quando trovò il discepolo principale del maestro defunto. Geshe Chekhawa gli chiese: “Quale importanza assegni agli insegnamenti contenuti in questi due versi?”. “Che tu lo voglia o no” rispose il discepolo, “devi praticare questo insegnamento se vuoi ottenere la buddhità”.

Questa risposta lo stupì quasi quanto la lettura dei versi. Rimase con il discepolo per dodici anni, per studiare l’insegnamento e concentrarsi sul Tonglen, che ne costituisce l’applicazione pratica. Durante tutti quegli anni, Geshe Chekhawa dovette affrontare molte prove: difficoltà, critiche, privazioni e maltrattamenti. Ma l’insegnamento era così efficace e la sua perseveranza così forte che in sei anni aveva completamente sradicato ogni attaccamento all’io e affetto egoistico. La pratica del Tonglen l’aveva trasformato in un maestro di compassione.

All’inizio Geshe Chekhawa lo insegnò a pochi discepoli, ritenendo che poteva rivelarsi utile solo per chi lo praticasse con grande fede. Poi lo insegnò a un gruppo di lebbrosi. A quei tempi la lebbra era frequente in Tibet e i medici non sapevano come curarla. Con la pratica del Tonglen molti guarirono. La notizia si diffuse rapidamente e altri lebbrosi vennero da Geshe Chekhawa, trasformando la sua casa in una specie di ospedale.

Ma Geshe Chekhawa non si decise a fame un insegnamento pubblico finché non ne vide gli effetti sul fratello, uno scettico inveterato che derideva qualunque forma di pratica spirituale. Costui, vedendo i risultati ottenuti dai lebbrosi, non poté fare a meno di esserne impressionato e di provare interesse. Un giorno si nascose dietro la porta per ascoltare gli insegnamenti e iniziò a praticarli in segreto. Quando Geshe Chekhawa si accorse che l’animo duro del fratello incominciava ad ammorbidirsi, indovinò che cos’era accaduto. Pensò che, se la pratica aveva funzionato trasformando il fratello, poteva trasformare chiunque, e si decise a insegnare pubblicamente il Tonglen. Da parte sua, non smise mai di praticarlo. Verso la fine della vita disse agli studenti che aveva a lungo pregato con fervore per rinascere nei regni infernali in modo da essere di aiuto agli esseri che vi soffrivano. Purtroppo, continuò, aveva fatto di recente sogni che indicavano con chiarezza che sarebbe rinato in uno dei regni dei buddha. Era molto amareggiato e, con le lacrime agli occhi, scongiurò gli studenti di pregare i buddha che ciò non accadesse e che il suo struggente desiderio di aiutare gli esseri infernali venisse esaudito.

Come risvegliare l’amore e la compassione

Prima di poter praticare il Tonglen dovete essere in grado di risvegliare la compassione dentro di voi. È più difficile di quanto si creda, perché la sorgente dell’amore e della compassione ci è spesso nascosta e non vi abbiamo accesso immediato. Per fortuna l’allenamento mentale alla compassione buddhista conosce vari metodi per aiutarci a risvegliare il nostro amore nascosto. Sono numerosissimi. Ne ho scelti alcuni e li ho ordinati in modo che risultino di massimo beneficio alle persone del mondo moderno.

    Amore-benevolenza: dissuggellare la fonte

È il metodo per scoprire e destare l’amore che non pensiamo di avere in noi. Andate indietro con la memoria e ricreate, o quasi visualizzate una forma d’amore che avete ricevuto e che vi ha toccati profondamente, forse nell’infanzia. Tradizionalmente viene indicata la madre e la sua dedizione per noi; ma, se vi crea dei problemi, potete pensare a uno dei nonni o a qualunque persona che vi ha dato un affetto profondo. Ricreate nella memoria un momento speciale in cui vi è stato dimostrato amore e in cui lo avete percepito intensamente.

Lasciate che la sensazione di quel momento riemerga nel vostro cuore colmandovi di gratitudine. Il vostro amore fluirà spontaneamente verso la persona che l’ha suscitato. Riuscirete a ricordare che, anche se pensate di non essere stati mai amati come desideravate, almeno una volta lo siete stati. Riscoprirlo vi farà sentire di essere ancora degni di amore e realmente amabili, come quella persona vi dimostrò un tempo.

Lasciate che il vostro cuore si apra e che l’amore fluisca, ed estendetelo a tutti gli esseri. Iniziate dalle persone che vi sono vicine, poi allargatelo agli amici e ai conoscenti, ai vicini di casa, agli sconosciuti, e anche a coloro che non amate e con cui avete problemi, a chi considerate vostro ‘nemico’ e infine all’intero universo. Lasciate che l’amore si espanda senza confini. L’equanimità è uno dei quattro aspetti essenziali, assieme all’amore-benevolenza, alla compassione e alla gioia, di ciò che gli insegnamenti descrivono come la completa aspirazione della compassione La visione equanime, che abbraccia tutto ed è priva di preconcetti, è il punto di partenza e il fondamento del sentiero della compassione.

Scoprirete che questa pratica dissuggella la fonte dell’amore, e che lo schiudersi dell’amore-benevolenza stimolerà la nascita della compassione. In uno degli insegnamenti dati ad Asanga, Maitreya dice: “L’acqua della compassione scorre nel canale dell’amore-benevolenza”.

    Compassione: considerare se stessi uguali agli altri.

Come ho detto nel capitolo precedente, un mezzo efficace per destare la compassione è considerare gli altri perfettamente identici a sé. “In fin dei conti” insegna il Dalai Lama, “gli esseri umani sono tutti uguali, fatti di carne, ossa e sangue. Tutti desideriamo la felicità e vogliamo evitare la sofferenza. Inoltre abbiamo tutti uguale diritto a essere felici. In altre parole, è essenziale riconoscere l’uguaglianza degli esseri umani”.

Se, per esempio, avete problemi con una persona cara: la madre o il padre, il marito o la moglie, il partner o un amico. Quanto è utile e rivelatore considerare l’altro non nel suo ‘ruolo’ di madre, padre o marito, ma semplicemente come un altro ‘voi’, un altro essere umano con i vostri stessi sentimenti, lo stesso desiderio di felicità, la stessa paura della sofferenza! Considerare l’altro una persona reale, esattamente come voi, aprirà il vostro cuore nei suoi confronti e farà scattare nuove intuizioni sul modo di dare aiuto.

Considerare gli altri perfettamente uguali a voi vi aiuterà a sviluppare apertura nei vostri rapporti, che riveleranno un nuovo, più ricco significato. Immaginate che le nazioni e le società incomincino a considerarsi su questa base di uguaglianza: assisteremmo alla nascita di una solida base per la pace sulla terra e per una felice coesistenza dei popoli.

    Compassione: mettersi al posto degli altri

Se una persona soffre e non sapete come aiutarla, mettetevi risolutamente al suo posto. Immaginate con la massima immedesimazione come stareste se doveste provare lo stesso dolore. Chiedetevi: “Come mi sentirei? Come vorrei essere trattato dai miei amici? Di che cosa avrei più bisogno?”.

Mettendovi al posto degli altri state automaticamente trasferendo il vostro affetto dal suo oggetto usuale, voi stessi, agli altri. Questo è un metodo estremamente potente per allentare la presa dell’affetto accecante e dell’attaccamento per l’io, liberando il cuore della compassione.

    Usare un amico per generare compassione.

Un altro metodo toccante per generare compassione verso una persona sofferente consiste nell’immaginare al suo posto un vostro caro amico, o una persona che amate profondamente.

Immaginate vostro fratello, vostra figlia, un genitore o un amico in quella stessa situazione dolorosa. Il vostro cuore si aprirà spontaneamente e si risveglierà la compassione: che altro desiderate se non liberarlo dal dolore? Ora prendete la compassione che si è liberata nel vostro cuore e trasferitela alla persona che nella realtà ha bisogno del vostro aiuto. Vi Scoprirete spontaneamente indotti ad aiutare e capaci di dirigere la vostra compassione più facilmente.

A volte mi chiedono: “Se faccio così, la situazione negativa si rifletterà sull’amico o il parente di cui uso l’immagine?”. Al contrario! Pensare a qualcuno con amore e compassione non potrà che essere di beneficio, contribuendo alla guarigione di qualunque dolore e sofferenza hanno provato in passato, stanno provando adesso o debbano provare in futuro. Essere lo strumento della vostra nascente compassione, anche se per un solo istante, darà loro grandissimi meriti e benefici. Sono stati, anche se in parte, responsabili dell’apertura del vostro cuore; vi hanno messo in grado di aiutare con la vostra compassione una persona malata o morente, e quindi usufruiranno naturalmente del merito così prodotto.

Potete anche dedicare mentalmente il merito all’amico o alla persona cara che ha contribuito ad aprirvi il cuore. Potete augurargli ogni bene e pregare che in futuro sia libero dalla sofferenza. Gli sarete grati e, se gli farete sapere che ha contribuito a destare la vostra compassione, e gli comunicherete la vostra gratitudine, anch’egli sentirà ispirazione e gratitudine.

Quindi, domande come: “Mettere un amico o una persona cara al posto di un malato o di un morente, lo potrebbe danneggiare?” rivelano che non abbiano ancora compreso quanto sia potente e miracoloso l’operare della compassione. È una benedizione, e guarisce tutte le persone coinvolte: il soggetto della compassione, l’oggetto della compassione e la persona tramite cui la compassione viene generata. Come Shakespeare fa dire a Porzia nel Mercante di Venezia: La natura della clemenza è di non esser forzata. Essa scende dolcemente come la soave pioggia dal cielo sul terreno sottostante, ed è due volte benefica. Fa felice colui che la dispensa e colui che la riceve…

La compassione è la gemma che esaudisce tutti i desideri, la cui luce risanante splende in tutte le direzioni.

Al proposito c’è una bellissima storia, che amo molto, una delle vite precedenti del Buddha prima dell’illuminazione. Un imperatore aveva tre figli di cui l’ultimo, chiamato Mahasattva, era il Buddha. Era un bambino di natura dolce e compassionevole, e considerava tutte le cose viventi come SUOI figli. Un giorno l’imperatore e la corte si recarono per una scampagnata nella foresta. I tre principi si allontanarono per giocare nei boschi e si imbatterono in una tigre che aveva appena partorito, così esausta e affamata che era sul punto di divorare i suoi piccoli. Mahasattva chiese ai fratelli: “Di che cosa ha bisogno la tigre per riprendersi?”.

“Di carne fresca o sangue”, risposero.

“Chi darebbe la propria carne e il proprio sangue per sfamarla, salvando la vita a lei e ai suoi piccoli?”.

“Chi appunto potrebbe farlo?”, dissero i fratelli.

Mahasattva, commosso dalla situazione disperata dell’animale e dei cuccioli, pensò: “Da così lungo tempo, esistenza dopo esistenza, vago nel samsara e, a causa del mio desiderio, della mia ira e della mia ignoranza, ho fatto ben poco per aiutare gli altri. Ecco una grande occasione”.

I principi stavano ormai tornando indietro, quando Mahasattva disse: “Andate pure avanti, vi raggiungerò”. Ritornò silenziosamente dalla tigre e le si stese davanti, offrendo se stesso come cibo. La tigre lo guardò: era così debole che non riusciva neppure ad aprire la bocca. Il principe prese un bastone appuntito e si fece una profonda ferita. Il sangue sgorgò, la tigre lo lambì e, con quel po’ di forze, poté aprire la bocca e divorare Mahasattva.

Mahasattva aveva donato il proprio corpo per salvare i piccoli della tigre e, grazie al merito di questo gesto di compassione, rinacque in un regno celeste per progredire verso l’illuminazione e la nascita come Buddha. Ma non aveva solo favorito se stesso, perché il potere della compassione aveva purificato il karma della tigre e dei cuccioli, compreso ogni debito karmico contratto con lui per averli salvati. Essendo tanto forte, quell’atto compassionevole aveva creato un legame karmico tra loro, destinato a continuare nel futuro. Si dice che la tigre e i cuccioli che ricevettero il corpo di Mahasattva rinacquero come i primi cinque discepoli del Buddha, i primi a riceverne l’insegnamento dopo l’illuminazione. Che prospettiva spalanca questa storia sull’enorme e misterioso potere della compassione!

    Come meditare sulla compassione

Come ho detto, risvegliare il potere della compassione non è sempre facile. Personalmente ritengo che i modi più semplici siano i migliori e più efficaci. Ogni giorno la vita ci offre innumerevoli occasioni per aprire il cuore, se siamo disposti a raccoglierle. Un’anziana signora che cammina per strada con aspetto triste e abbandonato, le gambe gonfie e due grandi borse di plastica della spesa che fatica a portare… un anziano signore male in arnese che barcolla davanti a voi nella coda all’ufficio postale… un ragazzo con le stampelle che deve attraversare la strada, spaventato dal traffico pomeridiano… un cane sanguinante investito da un’automobile… una ragazza sola che singhiozza disperatamente nella metropolitana… Accendete il televisore, e forse la prima immagine è una donna china sul corpo del figlio assassinato a Beirut… una vecchia che a Mosca indica tutto il suo cibo per oggi, un piatto di minestra, e non sa se domani potrà procurarsene un altro… un bambino romeno malato di AIDS che vi guarda con occhi svuotati di ogni espressione…

Ognuna di queste immagini può aprirvi gli occhi del cuore alla realtà della grande sofferenza del mondo. Lasciate che lo faccia. Non sprecate l’amore e la pena che queste immagini sanno evocare. Quando sentite la compassione sgorgare in voi non spazzatela via, non infischiatevene per ritornare il più in fretta possibile ‘normali’, non abbiate paura né imbarazzo per i vostri sentimenti, non fatevene allontanare dalla distrazione, non lasciate che si perdano nell’apatia. Siate vulnerabili. Cogliete questo improvviso, luminoso sgorgare della compassione; concentratevi su questo, scendete in profondità nel vostro cuore e meditate su di esso, ampliatelo, nutritelo, approfonditelo. Capirete quanto siete stati ciechi alla sofferenza, come il dolore che state provando o vedendo in questo momento non sia che una minuscola parte del dolore del mondo. Tutti gli esseri soffrono ovunque. Lasciate che il vostro cuore vada verso tutti loro con spontanea e infinita compassione, e indirizzate questa compassione, unendola alla benedizione di tutti i Buddha, all’alleviamento di ogni sofferenza.

La compassione è molto più grande e nobile della pietà. La pietà nasce dalla paura, da un senso di arroganza e di condiscendenza che a volte scivola nell’autocompiacimento del tipo: “Meno male che non è toccato a me”. Come scrive Stephen Levine: “Quando viene in contatto con il dolore altrui, la paura diventa pietà ma l’amore diventa compassione”. Educarsi alla compassione significa sapere che tutti gli esseri sono uguali e che soffrono nello stesso modo, significa rispettare chi soffre e riconoscere che non siamo diversi né superiori a nessuno.

Così, la risposta spontanea alla sofferenza non sarà più semplice pietà ma profonda compassione. Provate per chi soffre rispetto e gratitudine, perché ora sapete che chiunque stimoli la vostra compassione con la sua sofferenza vi sta facendo il più grande dei doni: vi sta aiutando a sviluppare quella qualità di cui avete maggior bisogno per progredire verso l’illuminazione. Per questo in Tibet diciamo che il mendicante che vi chiede l’elemosina o la donna anziana e malata la cui vista vi stringe il cuore possono essere Buddha travestiti che si manifestano sul vostro cammino per aiutarvi a crescere nella compassione e quindi ad avvicinarvi alla buddhità.

    Come dirigere la compassione

Meditare profondamente sulla compassione farà sorgere in voi la forte determinazione ad alleviare la sofferenza di tutti gli esseri, e una profonda responsabilità verso questo nobile scopo. Ci sono due modi per dirigere mentalmente la compassione e renderla attiva.

Il primo è pregare, dal profondo del cuore, i buddha e gli esseri illuminati perché tutti i vostri pensieri, parole e azioni siano unicamente di beneficio agli esseri e rechino loro felicità. Come si esprime una grande preghiera: “Benedicimi perché io sia utile”. Pregate di poter fare il bene di tutti coloro che vengono in contatto con voi, aiutandoli a trasformare a loro sofferenza e la loro vita.

Il secondo, quello universale, è finalizzare la compassione che nutrite per tutti gli esseri dedicando le azioni positive e la pratica spirituale al loro benessere e, specialmente, alla loro illuminazione. Meditando profondamente sulla compassione si fa strada in voi la comprensione che l’unico modo di dare vero aiuto è diventare illuminati. Di qui sorge un senso di determinazione e di responsabilità universale, assieme al desiderio compassionevole di ottenere l’illuminazione per il bene degli altri.

In sanscrito questo desiderio compassionevole si chiama bodhicitta, dove bodhi è la nostra essenza illuminata e citta è il cuore. Potremmo tradurlo con il ‘cuore della mente illuminata’. Risvegliare e sviluppare il cuore della mente illuminata significa portare gradualmente a maturazione il seme della nostra natura di buddha, il seme che alla fine, quando la pratica della compassione è diventata perfetta e universale, sboccerà trionfalmente nella buddhità. Il bodhicitta è quindi la fonte, la sorgente e la radice di tutto il sentiero spirituale. Ecco perché nella nostra tradizione preghiamo insistentemente:

Coloro che non hanno ancora generato il prezioso bodhicitta, possano risvegliarlo; coloro che l’hanno già risvegliato, possano non diminuirlo ma sempre più rafforzarlo.

È perché Shantideva può elogiare il bodhicitta con tanta gioia: È il supremo elisir che sconfigge la sovranità della morte. L’inesauribile tesoro che elimina la povertà del mondo. La suprema medicina che lenisce l’infermità del mondo. L’albero che dà riparo a tutti gli esseri vaganti e spossati sul sentiero dell’esistenza condizionata. Il ponte universale che porta alla libertà da infelici rinascite. La luna nascente della mente che dissipa il tormento dei concetti perturbanti. È il grande sole che finalmente rimuove l’oscura ignoranza del mondo.

Gli stadi del tonglen

Dopo avervi introdotti ai metodi per risvegliare la compassione, alla sua importanza e al suo potere, posso trasmettervi più efficacemente la nobile pratica del Tonglen. Ora siete infatti in possesso della motivazione, della comprensione e degli strumenti per praticare in vista del massimo beneficio vostro e altrui. Anche se il Tonglen è una pratica buddhista, tutti, assolutamente tutti, possono seguirla. Anche se non avete alcun tipo di fede religiosa, provate ugualmente. Il Tonglen è efficacissimo.

Nei suoi termini essenziali, la pratica Tonglen del prendere e dare consiste nel prendere su di il dolore e la sofferenza altrui, e nel dare agli altri la vostra felicità, benessere e pace mentale. Come il metodo meditativo di cui ho già parlato, il Tonglen utilizza il respiro. Scrive Geshe Chekhawa: “La pratica del prendere e dare è ritmica, e il ritmo segue quello del respiro”.

So per esperienza personale quanto sia difficile prendere su di la sofferenza altrui, soprattutto il dolore dei malati e dei morenti, senza prima avere costruito in noi stessi la forza e la fiducia della compassione. Proprio questa forza e questa fiducia conferiscono alla vostra pratica il potere di trasformare la sofferenza degli altri.

Perciò raccomando sempre di incominciare la pratica del Tonglen da se stessi. Prima di inviarli agli altri dovete scoprire, risvegliare, approfondire e rafforzare l’amore e la compassione in voi stessi, guarendovi dalle resistenze, dal dolore, l’ira o la paura che ostacolerebbero una pratica sincera.

Con gli anni abbiamo sviluppato una forma di Tonglen che miei studenti trovano efficace e terapeutica. Si articola in quattro stadi.

Preliminari alla pratica del tonglen

Il preliminare migliore per questa, e per ogni altra forma di Tonglen, consiste nell’evocare la natura della mente e nel dimorarvi. Dimorando nella natura della mente e vedendo direttamente tutte le cose ‘vuote’, illusorie e simili a un sogno, siete nello stato detto di ‘bodhicitta assoluto’ o ‘definitivo’, che è il vero cuore della mente illuminata. Gli insegnamenti paragonano il bodhicitta assoluto a un tesoro inesauribile di generosità. A sua volta la compassione, compresa nel suo senso più profondo, è vista come la naturale radiosità della natura della mente, gli abili mezzi che nascono dal cuore della saggezza.

Sedetevi e riportate la mente a casa. Lasciate che i pensieri si acquietino, senza alimentarli seguirli. Se preferite, chiudete gli occhi. Quando vi sentite calmi e concentrati, ponetevi delicatamente in uno stato di attenzione e iniziate la pratica.

    Tonglen ambientale

Tutti conosciamo la presa che esercitano su di noi l’umore e l’atmosfera mentale. Sedete in compagnia della mente e avvertitene l’umore e l’atmosfera. Se l’umore è cupo e l’atmosfera buia, durante l’inspirazione assorbite mentalmente tutto ciò che è negativo. Poi, durante l’espirazione emettete calma, chiarezza e gioia in modo da purificare e risanare l’ambiente mentale. Questo è il motivo per cui chiamo il primo stadio ‘Tonglen ambientale’.

    Tonglen per se stessi

Dividetevi in due parti: A e B. A rappresenta la vostra parte integrata, compassionevole, calma e amorevole; un vero amico ricettivo e aperto nei vostri confronti, che non vi giudica quali che siano i vostri sbagli o difetti.

  1. è la vostra parte ferita, incompresa e frustrata, amareggiata o arrabbiata, quella che ha subito maltrattamenti infantili, che ha sofferto nei rapporti o subito ingiustizie sociali.

Inspirando, immaginate che A spalanca il suo cuore e, con calore e compassione, accetta e abbraccia tutta la sofferenza, il dolore, le ferite e le negatività di B. Toccata, anche la parte B apre il proprio cuore, e tutto il dolore e la sofferenza si sciolgono nell’abbraccio compassionevole Espirando, immaginate che A trasmetta a B il potere risanante dell’amore, calore, fiducia, benessere, sicurezza, felicità e gioia.

    Tonglen in una situazione reale

Immaginate con vividezza una situazione in cui avete agito male, per la quale vi sentite in colpa e il cui solo ricordo vi fa trasalire.

Inspirando, accettate la piena responsabilità del vostro comportamento in quella situazione, senza alcun tentativo di giustificarvi. Riconoscete il vostro errore e chiedete perdono di tutto cuore. Espirando, emettete riconciliazione, perdono, guarigione e comprensione.

Inspirate colpa ed espirate scioglimento del male provocato. Inspirate responsabilità ed espirate guarigione, perdono e riconciliazione.

Questo esercizio è molto potente, e potrà darvi il coraggio di cercare la persona verso cui avete agito male, la forza e la volontà di parlarle di persona e di chiederle perdono dal profondo del cuore.

    Tonglen per gli altri

Pensate a una persona che vi è molto cara, in particolare qualcuno che sta soffrendo Inspirando, immaginate di assorbire in voi, con compassione, tutta la sua sofferenza e il suo dolore. Espirando, inviatele un flusso di calore, guarigione, amore, gioia e felicità.

Ora, esattamente come nella pratica dell’amore-benevolenza, allargate gradatamente il raggio della compassione raggiungendo prima le persone care, poi persone indifferenti, le persone con cui avete difficoltà e problemi, e infine persone che giudicate mostruose e malvagie. Lasciate che la vostra compassione diventi universale, accogliendo nel suo abbraccio tutti gli esseri senzienti e tutti gli esseri senza distinzione.

Gli esseri senzienti sono incalcolabili come lo spazio: possano tutti realizzare senza sforzo la natura della mente.

Possano tutti gli esseri dei sei reami, ciascuno dei quali è stato in una vita precedente mio padre o mia madre, raggiungere la base della perfezione primordiale.

Questi costituiscono le pratiche preliminari complete del Tonglen vero e proprio che, come vedremo, comporta un processo di visualizzazione molto più ricco. I preliminari modificano l’atteggiamento della mente e del cuore; vi preparano, vi aprono e vi stimolano. Non solo vi mettono in grado, di per se stessi, di guarire l’ambiente mentale, la sofferenza e il dolore del passato, e di aiutare con la compassione tutti gli esseri senzienti; ma vi avvicinano e vi rendono familiari con la pratica del prendere e dare che trova il suo perfezionamento nella pratica vera e propria del Tonglen.

LA PRATICA ESSENZIALE DEL TONGLEN

Nella pratica del ‘ricevere e dare’ del Tonglen, prendiamo o riceviamo, attraverso la compassione, le più diverse sofferenze fisiche e mentali di tutti gli esseri: paure, frustrazioni, dolore, ira, colpa, amarezza, dubbio e rabbia; e diamo, attraverso l’amore, tutta la nostra felicità, pace mentale, salute, benessere e appagamento.

  1. Prima di iniziare la pratica, sedete tranquillamente e riportate la mente a casa. Poi, utilizzando uno degli esercizi già descritti, quello che avete trovato più efficace e stimolante, meditate profondamente sulla compassione. Invocate la presenza di tutti i buddha, i bodhisattva e gli esseri illuminati perché, grazie alla loro ispirazione e benedizione, nasca compassione nel vostro cuore.

  2. Immaginate di fronte a voi, nel modo più vivido e intenso, una persona cara sofferente. Sentite i vari aspetti del suo dolore e della sua angoscia. Mentre il vostro cuore si apre alla compassione verso quella persona, immaginate che la sua sofferenza prenda la forma di una massa di fumo caldo, nero e fuligginoso.

  3. Inspirando, visualizzate di assorbire il fumo nero e di dissolverlo nel centro stesso dell’attaccamento all’io, nel vostro cuore. il fumo distrugge ogni traccia dell’affetto egoistico, purificando così tutto il vostro karma negativo.

  4. Immaginate che l’affetto egoistico sia stato cancellato, rivelando pienamente il cuore della mente illuminata, il bodhicitta. Espirando, visualizzate di emettere una luce rinfrescante e brillante di pace, gioia, felicità e benessere nei confronti della persona sofferente, purificando con i suoi raggi tutto il suo karma negativo.

Personalmente trovo ispirazione dall’immaginare, come suggerisce Shantideva, che il bodhicitta vi abbia trasformato il cuore, il corpo e tutto l’essere in una lucente gemma che esaudisce i desideri, con il potere di soddisfare i desideri di tutti gli esseri donando esattamente ciò che viene richiesto o desiderato. La vera compassione è la gemma che esaudisce i desideri, perché ha il potere innato di dare a ciascuno ciò di cui ha realmente bisogno, alleviandone la sofferenza e favorendone l’illuminazione.

  1. Nel momento in cui la luce del bodhicitta raggiunge la persona sofferente, è essenziale provare la ferma convinzione che tutto il suo karma negativo è purificato, assieme a una profonda gioia per saperla totalmente liberata da dolore e sofferenza.

Respirando in modo normale continuate questa pratica.

Prendere a oggetto del Tonglen una persona cara aiuta ad allargare gradatamente il raggio della compassione fino a prendere su di la sofferenza e a purificare il karma di tutti gli esseri, dando felicità, benessere gioia e pace mentale a tutti gli esseri. Questo è lo splendido scopo dei Tonglen e, in senso più ampio, dell’intero sentiero della compassione.

Tonglen per i morenti

Credo che ormai siate in grado di capire come questa pratica possa venire usata soprattutto per aiutare i morenti, la grande forza e fiducia che vi comunica nel lavoro di assistenza, e il grande aiuto concreto che può offrire loro.

Vi ho già presentato la pratica essenziale del Tonglen. Sostituite ora l’immagine della persona cara con quella di una persona morente, ripetendo esattamente gli stessi passi. Nel passo numero 3, immaginate che tutti gli aspetti della sofferenza e della paura della persona morente formino una massa di fumo nero e caldo. Inspirando, immaginate allo stesso modo di distruggere l’attaccamento all’io e l’affetto egoistico, purificando tutto il vostro karma negativo.

Ugualmente, espirando, immaginate che la luce emessa dal cuore della vostra mente illuminata colmi ilmorente di pace e benessere, purificandone tutto ilkarma negativo.

Se abbiamo bisogno di compassione in ogni momento della vita, quanto più ne avremo bisogno nel momento della morte! Quale dono più bello e confortante si può fare a una persona morente che comunicarle che stiamo pregando per lei e che, attraverso la nostra pratica, prendiamo su di noi tutta la sua sofferenza purificando il suo karma negativo?

Ma, anche se il morente non sa che praticate per lui, lo state aiutando e lui a sua volta vi aiuta. La persona morente vi sta attivamente aiutando a sviluppare la compassione, e quindi a purificarvi e a guarire. Io considero ogni morente un maestro che dà a tutti coloro che lo aiutano l’opportunità di trasformarsi sviluppando la compassione.

Il santo segreto

Forse vi domandate: “Prendendo su di me il dolore e le sofferenze altrui, rischio di far del male a me stesso?”. Se siete in dubbio e non pensate di avere la forza e il coraggio compassionevole per praticare il Tonglen con tutto il cuore, non preoccupatevi. Limitatevi a immaginare di farlo, dicendovi: “Inspirando, prendo su di me la sofferenza di un amico o degli altri. Espirando, gli felicità e pace”. Potrebbe bastare questo per creare un’atmosfera mentale che vi stimoli a praticare realmente.

Inoltre, sempre se siete in dubbio e non vi sentite in grado di praticare nel modo completo, potreste fare il Tonglen in forma di preghiera, augurandovi in profondità di poter aiutare gli altri. Potete pregare così: “Che io possa essere capace di prendere su di me la sofferenza degli altri, che io possa riuscire a dare agli altri la mia felicità e il mio benessere”. Questa preghiera crea le condizioni favorevoli a risvegliare la vostra capacità di praticare il Tonglen in futuro.

Una cosa dovete tenere per certa. L’unica cosa che il Tonglen può danneggiare è proprio quella che più vi danneggia: l’io, la mente dell’attaccamento e dell’affetto egoistico che è la radice della sofferenza. Praticando il Tonglen il più spesso possibile, la mente che si attacca all’io ne viene sempre più indebolita, mentre la compassione, la vostra vera natura, ha la possibilità di emergere con forza sempre maggiore. Più forte e più ampia è la vostra compassione, più forti e più grandi saranno la vostra sicurezza e assenza di paura. Così la compassione si rivela, ancora una volta, la maggiore risorsa e la protezione più sicura. Come dice Shantideva: Chi vuole rapidamente offrire protezione a se stesso e agli altri, deve praticare questo santo segreto: mettersi al posto degli altri”.

Il santo segreto della pratica del Tonglen è conosciuto dai mistici e i santi di ogni tradizione. Viverlo e incarnarlo, con l’abbandono e il fervore della vera saggezza e della vera compassione, colma la loro vita di gioia. Un esempio contemporaneo di una persona che ha dedicato la vita ai malati e ai morenti, e che emana questa gioia del prendere e dare, è Madre Teresa. Non conosco descrizione più ispiratrice dell’essenza spirituale del Tonglen che queste sue parole:

Tutti desideriamo il paradiso di Dio, ma è in nostro potere essere in paradiso con Lui in questo preciso momento.

Essere felici in Sua compagnia significa infatti:

Amare come Egli ama

Aiutare come Egli aiuta,

Donare come Egli dona,

Servire come Egli serve,

Soccorrere come Egli soccorre,

Essere con Lui ventiquattro ore al giorno,

Toccarlo nel Suo travestimento doloroso.

Un amore altrettanto grande guarì i lebbrosi di Geshe Chekhawa, e forse può guarirci da un male ancora più pericoloso: l’ignoranza che, esistenza dopo esistenza, ci ha impedito di realizzare la natura della mente e quindi di ottenere la liberazione.

Fonte: Il libro tibetano del vivere e del morire. http://www.esonet.org/wp-content/uploads/2013/05/136069562-Il-Libro-Tibetano-del-Vivere-e-del-Morire-Sogyal-Rinpoche.pdf