Il Tibet di Chögyal Namkhai Norbu

Chögyal Namkhai Norbu: Cominciò allora a spiegare le più semplici tecniche di rilassamento, la base per ottenere una mente non turbata dal continuo movimento del pensieri.

Il Tibet di Chögyal Namkhai Norbu, di Raimondo Bultrini

Scrittore e giornalista Raimondo Bultrini racconta il suo viaggio con Chögyal Namkhai Norbu, con l’aiuto del suo diario e ricordi, attraverso la Cina e poi in Tibet avvenuto nei primi mesi del 1988.

Per trentatré anni ho voluto raccontare le mie esperienze di viaggio con Chögyal Namkhai Norbu agli altri suoi studenti. Avevo già scritto un piccolo libro in italiano (In Tibet, Shang Shung Editions) subito dopo essere tornato in Italia nell’inverno del 1988, grazie all’editore della rivista di Merigar che a quel tempo era Cesare Spada. Il libro, che contiene i momenti salienti di questo viaggio, era troppo corto e troppo fresco per poter dare la profondità e il fascino dei dettagli di una esperienza unica e ora irripetibile. Negli anni seguenti ho trascritto, dando loro la forma di un resoconto di viaggio, gli appunti del mio diario dal giorno in cui Rinpoche arrivò a Beijing a metà febbraio del 1988, invitato a dare una serie di conferenze per l’Istituto Nazionale delle Minoranze che ci avrebbe portato dalla capitale cinese a Chengdu e da lì al Tibet orientale fino a Lhasa. Ho continuato a trascrivere i miei appunti e impressioni per tutto il turbolento e straordinario pellegrinaggio dalla capitale tibetano verso il monte Kailash, in compagnia di altri settanta studenti, tutti più o meno collegati a diverse comunità Dzogchen in giro per il mondo.

Invecchiato e con la memoria che comincia ad appannarsi la trascrizione del diario è, credo, un documento importante di per sé e, spero, per gli studenti del Maestro, anche se la mia intenzione quando l’ho scritto era quello di rivolgermi a un vasto pubblico. Così molte cose saranno scontate per chi di voi ne leggerà alcuni passaggi.

Oggigiorno la narrazione romanzata della storia mi sembra che manchi di profondità e spero di essere in grado di usarla come base e di ripulirla degli errori grossolani di trascrizione dei nomi, di fatti e circostanze imprecisi. Ciò nonostante  non credo che certe carenze distorcano completamente il significato di quello che ho visto e sentito, spesso dalla voce del Maestro che per molti mesi è stato l’unico interlocutore e interprete di quello che ci accadeva intorno, visto che le uniche parole in tibetano che conoscevamo erano quelle dei mantra, imparate a memoria ma che non sempre collegavamo al loro significato.

Questa prima parte che offro ai lettori del The Mirror con l’umiltà di uno studente culturalmente inadeguato per accompagnare un maestro della conoscenza qual era Rinpoche, non riguarda per ora il viaggio vero e proprio. Rileggendo il mio diario ho trovato la trascrizione di una conferenza che il Maestro tenne a Chengdu a giovani studenti e professori dell’Istituto delle Minoranze con cui vorrei introdurre il senso della “missione” del Professor Norbu in quei mesi ricchi di eventi a cui sono stato fortunato di partecipare.

Molte delle cose scritte saranno note ai lettori e a chiunque abbia letto il mio libro o sentito le parole di Rinpoche. Qui però erano indirizzate a giovani studiosi tibetani e cinesi e ai loro docenti allo scopo di approfondire la storia antica in chiave moderna. Solo andando alla radice – ho sintetizzato il lungo discorso da me trascritto quasi per intero e che potete leggere di seguito – è possibile capire la necessità di preservare la cultura tibetana. Dovete però liberarvi dall’idea di trovare delle risposte, prima ancora di studiare senza pregiudizi, così come ogni ricercatore dovrebbe fare. Un suggerimento pratico è quello di studiare l’inglese, una lingua che dà accesso ad altri tipi di conoscenze che oggigiorno sono necessarie per comprendere il mondo contemporaneo e contrastare la tendenza di riscrivere la storia e trasformare il Tibet in un museo.

Parte 1 Ricerca della cultura tibetana

Nel 1988 durante il suo viaggio in Asia Chögyal Namkhai Norbu fu invitato a dare una serie di conferenze in diversi posti della Cina iniziando da Chengdu, poi nel Tibet orientale per finire a Lhasa. Quello che segue è la traduzione della trascrizione di una conferenza che il Maestro ha dato a Chengdu, nella provincia del Sichuan in Cina, ad un pubblico di giovani e docenti dell’Istituto delle Minoranze. Nella sua conferenza parlò del senso della “missione” da lui portata avanti in quei mesi così pieni di eventi.

Cari professori e studenti,

sono molto contento di essere di nuovo qui con voi dopo tanti anni. Quando ero giovane, se ben ricordo tra il 1953 e il 1954, venni infatti per la prima volta in questa scuola ad insegnare il tibetano e al tempo stesso per apprendere il cinese. Qualcuno lo ricorderà perché vedo tra voi alcuni colleghi conosciuti all’epoca.

Sono passati tanti di quegli anni che gli studenti di allora sono diventati docenti, funzionari, professionisti. Sono contento di essere qui non soltanto per la nostalgia di quegli anni ma anche perché ho notato da parte di tutti, sia professori che allievi, un profondo interesse per la cultura tibetana e per ciò che in Occidente ho avuto personalmente modo di apprendere in tutti questi anni di ricerca.

Sappiamo che la cultura tibetana è così antica da rappresentare di per sé un valore, non solo per il nostro paese e il nostro popolo ma per il mondo intero.

A livello internazionale tutti oggi riconoscono infatti questo valore come contributo per accrescere la conoscenza e la saggezza. La saggezza spirituale in primo luogo ma anche la consapevolezza civile.

Abbiamo attraversato momenti difficili. Io, per esempio, trent’anni fa’ sono stato qui. Poi, per varie circostanze, per varie circostanze, come tutti sanno, sono uscito dal Tibet e ho raggiunto l’India. Non avevo la minima idea di andarmene definitivamente e di lasciare il mio paese ma la nostra vita dipende anche dalle circostanze.

So che c’è un giudizio negativo nei confronti di quanti sono andati via. Per quanto mi riguarda, ripeto, la verità dei fatti è ben diversa. Ciò che è avvenuto non era nelle mie intenzioni, non immaginavo nemmeno che avrei studiato all’estero e che avrei contribuito così alla salvaguardia della mia cultura. Ma, come si dice in tibetano, “la causa negativa porta anche la fortuna”. Siccome in quell’anno, il 1959, lo stesso governo tibetano aveva abbandonato il paese, non potevo più tornare indietro. Decisi quindi di lasciare anche l’India e cercare un luogo dover poter studiare e fare qualcosa di utile.

Fu così che raggiunsi l’Italia. Lì c’era un famoso studioso, Giuseppe Tucci https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Tucci, uno dei primi che si fosse interessato alla cultura tibetana divulgandola nel mondo occidentale. Mi invitò per una collaborazione di due anni, io accettai e partii per il nuovo paese.

Per mia fortuna quel professore possedeva, nell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente da lui fondato, una tra le più grandi collezioni di testi tibetani al mondo, forse la più grande. Così ebbi modo di leggere, studiare molto e collaborare con il professor Tucci. Naturalmente nei primi anni non leggevo altro che il tibetano. Non conoscevo l’italiano e quel poco di inglese imparato in India non mi serviva, perché in Italia ben pochi parlavano questa lingua.

Come ben sapete noi tibetani incontriamo parecchie difficoltà nello studio della altre lingue. Prima di tutto la struttura stessa della nostra lingua è completamente diversa da quello di ogni altra. Inoltre in Tibet non c’era nessuna opportunità di studiare le lingue straniere.

A tutt’oggi, a tanta distanza di tempo, non esiste per esempio un dizionario tibetano-italiano, bisogna usarne uno dall’inglese. Così, con un certo sacrificio, ho imparato l’italiano. Certamente lo studio di una lingua straniera non può limitarsi all’apprendimento di un linguaggio ma serve a comprendere il modo di vivere del paese, la sua cultura, le sue conoscenze e abitudini, completamente diverse. Magari che vive sempre in uno stesso paese non si rende conto di tutto questo ma conoscere altre lingue è importantissimo e perciò oggi tutti lo studiano, per sviluppare la comunicazione, approfondire la conoscenza della realtà.

Quindi io ho imparato molto leggendo da un lato numerosi libri tibetani, dall’altro vedendo il mondo dell’Occidente, il modo di pensare, di studiare, di fare la ricerca. E così per la prima cosa mi sono reso conto dell’importanza della cultura. Prima infatti non avevo le idee molto chiare su questo. Pensavo che per un paese fosse fondamentale lo sviluppo economia, la forza militare e l’organizzazione di governo ma poi osservando meglio la vita e lo sviluppo dei paesi occidentali ho capito che, seppure indispensabili, lo sviluppo economico e militare non avevano per l’individuo la stessa importanza della cultura.

Ho visto che in Occidente la scuola elementare è obbligatoria per tutti i cittadini e si può dire che al giorno d’oggi non c’è quasi più nessuno che non abbia frequentato le elementari. In Italia, per esempio, non soltanto le elementari ma anche le scuole medie sono obbligatorie. Questo vuol dire che in Occidente tutti sanno almeno leggere, scrivere e di conseguenza hanno maggiori capacità di ragionamento, di comprensione intellettuale.

Ecco, questa dell’istruzione è la base stessa dello sviluppo della cultura. E poi, andando più a fondo, mi sono reso conto che il valore di ogni cultura è legato alla storia di un paese, di un popolo, alle sue origini. Su questo ho riflettuto molto.

Io ho vissuto ormai più di metà della mia vita in Occidente ed è probabile che continuerò a viverci ancora. Ma sono nato e ho studiato in Tibet, così ho sentimenti e legami molto vivi e forti con la cultura del mio paese. Se rischiasse di andare perduta non se sarei soltanto dispiaciuto ma farei qualunque cosa in mio potere per salvarla. E questo non soltanto io ma di sicuro tutti i tibetani, ovunque si trovino, in India, in Tibet, in Cina. Ovunque tutti nutrono questo sentimento di riconoscenza.

Però certamente nutrire un sentimento non basta. In qualche modo bisogna agire in pratica, fare qualcosa per divulgare e diffondere questa conoscenza ma soprattutto comprenderne bene il valore. Così ho capito che dovevo risalire alle origini della cultura tibetana e scoprire il valore reale. Dopo due anni di lavoro con il professor Tucci, l’Università Orientale di Napoli mi offriva una cattedra di letteratura tibetana. Così, mentre svolgevo il mio nuovo lavoro cercavo di seguire anche l’attività didattica e le conferenze degli altri professori. Questo confronto mi è servito molto e ho riflettuto sul fatto che la maggior parte dei testi tibetani, almeno quelli più accreditati, sono buddhisti. Ma noi sappiamo che prima dell’avvento del Buddhismo in Tibet esisteva il Bönpo, la cultura delle origini, e che dopo l’ VIII secolo d.C. questa è stata trascurata. È nell’ordine naturale delle cose, quando in un paese sorge qualcosa di nuovo, tutto ciò che esisteva prima viene considerato privo di valore. Succede spesso. In Tibet è stato così. Per questo motivo nello studio della nostra storia si risale fino a Songtsen Gampo e non oltre. Le origini della cultura tibetana vengono fatte risalire di conseguenza all’India e anche in parte alla Cina per scienze come la medicina e l’astrologia, ignorando totalmente tutto ciò che c’era in Tibet prima di  Songtsen Gampo.

Ma vediamo le cose con ordine, a cominciare dall’origine del popolo tibetano. I libri di storia di cui stiamo parlando dicono che Songtsen Gampo è una emanazione di Avalokiteśvara. Poiché Avalokiteśvara è un Bodhisattva, mosso quindi dalla compassione, sarebbe stato lui a portare la luce in Tibet, un paese buio e senza cultura, senza spiritualità, insomma un luogo abitato da selvaggi.

Alcuni testi narrano addirittura che, quando Buddha Sakyamuni viveva in India, più di 2.500 anni or sono, in Tibet non c’erano ancora esseri umani. Un Bodhisattva, probabilmente lo stesso Avalokiteśvara, stando di fronte a Buddha vide una luce espandersi dalla sua fronte in direzione del Paese delle Nevi. Al Bodhisattva che gli chiedeva spiegazioni di quella visione il Buddha rispose: “È un segno dell’avvenire, Una tua emanazione genererà la popolazione del Tibet che successivamente seguirà il mio insegnamento e si diffonderà la luce nel paese.”

Fu così che, secondo questi testi, Songtsen Gampo, come emanazione di Avalokiteśvara, invitò i maestri buddhisti dall’India e dalla Cina, portando finalmente in Tibet una civiltà perfetta. E questo è anche il motivo della grande devozione che i tibetani devono nutrire per il re–bodhisattva e i suoi discepoli.

Ma la verità non è proprio quella descritta dai libri. Lasciamo a chi crede in queste cose la questione se Songtsen Gampo fosse o meno una emanazione di Avalokiteśvara ma dal punto vista storico non è stato cero questo il motivo principale cha ha spinto Songtsen Gampo a introdurre le conoscenze indiane e cinesi in Tibet.

Prima di lui ci sono stati almeno una trentina di re del Tibet, a cominciare dal primo, Odepujal (Myaktri Tsampo) che, vissuto più o meno al tempo di Buddha Sakyamuni, non regnò certamente su terrori privi di esseri umani e dal tempo di quel re fino a Songtsen Gampo tutti i sovrani e il popolo hanno seguito e praticato la religione Bön. Quindi non era nemmeno un paese buio come dicono, ma c’era una cultura, una conoscenza spirituale.

Inoltre, anteriormente all tempo di Odepujal, esisteva nei territori dell’odierno Tibet occidentale un regno famoso chiamato Shang Shung. Era questo il regno originario del popolo tibetano, con la capitale vicino al monte Kailash, diviso in tre aree, Shang Shung interno, centrale ed esterno. Lo Shang Shung centrale corrispondeva alla regione del Kailash, dove ha sempre avuto sede la capitale, quello esterno agli attuali Tibet centrale e orientale mentre lo Shang Shung interno comprendeva vasti territori intorno alla catena del Karakorum, comprese alcune regioni dell’ex Unione Sovietica, dell’Afghanistan, del Pakistan. Un impero, dunque, che fu vasto e potente.

Quanto al Tibet, ai suoi inizi era un piccolo regno tributario dello Shang Shung. In tempi nei quali i metodi di governo non erano quelli di oggi, una simile condizione comportava al massimo di dover fare riferimento a quella lontana autorità che inviava di tanto in tanto dei suoi rappresentanti ed esigeva il pagamento di qualche tributo.

Lo Shang Shung, storicamente, ovvero risalendo a più di 3.890 anni fa, era anche la patria del Bön. Il maestro delle origini di questa religione si chiamava Tonpa Shenrap e il suo principale sostenitore era un potente sovrano della Shang Shung, re Triwer (*).

La storia tibetana comincia a quei tempi. Vi sono infatti testimonianze scritte degli eventi e dall’epoca sappiamo che sul trono dello Shang Shung si sono avvicendati 18 famosi re. Poi è nato il Tibet che, seppure con un nuovo nome e altri re, era pur sempre dipendente dallo Shang Shung, non solo perché le origini culturali erano le stesse, cioè il Bön. Dovunque ci fosse il Bön c’era in qualche modo anche il potere dello Shang Shung. Fu così che, dopo sette dinastie tibetane, alcuni re iniziarono a voler porre sotto controllo il potere dei sacerdoti Bönpo.

In particolare l’ottavo re del Tibet, Drigum (*), scese in campo contro questi sacerdoti uccidendone molti e distruggendo i monasteri ma il paese, tutto il popolo era radicato nell’antica religione, fedele ai suoi rappresentanti. Il re fu assassinato da un ministro prima che avesse avuto il tempo di portare a termine il suo progetto. Alla fine le cose tornarono come prima.

Altri re tentarono senza successo di sradicare il Bön, finché non si giunse ai tempi del famoso re Songtsen Gampo. Era un re di grande intelligenza. Stabilì subito una serie di alleanze dinastiche chiedendo ed ottenendo come mogli prima una principessa dello Shang Shung, poi una del Nepal – un regno, all’epoca, prezioso ponte di comunicazione con l’India – e infine una cinese.

Il disegno di Songtsen Gampo non era certamente solo quello di prendere delle mogli o di allacciare relazioni diplomatiche ma quello di importare dai loro paesi d’origine le conoscenze che avrebbero permesso di creare la nuova cultura tibetana.

Nella versione buddhista della storia, che è poi quella ufficiale, prima di Songtsen Gampo in Tibet non esisteva la scrittura. Così un giorno il re mandò un suo ministro in India per imparare il sanscrito e al suo ritorno cambiarono sia il sistema di scrittura che la grammatica. Da qui la considerazione di Songtsen Gampo come salvatore del Tibet e portare di civiltà ma la verità non è esattamente questa.

Un sistema di scrittura esisteva ed era già in uso da tempo in tutto lo Shang Shung, Tibet compreso, ma il re volle creare un alfabeto che appartenesse interamente al suo regno Oggi si usa in Tibet una scrittura in stampatello chiamata Uchen mentre la scrittura antica derivante dallo Shang Shung, viene utilizzata come corsivo.

Ecco quindi chiarito che, sebbene esistesse già una scrittura, i buddhisti hanno preferito lasciare intendere che fosse stato proprio un re della loro religione a inventarne una e a donarla ai tibetani. In questo modo Songtsen Gampo è comunque riuscito nei suoi scopi. Ha portato il Buddhismo nel paese invitando maestri dalla Cina e dall’India, creando così una nuova cultura che prendeva il posto dell’antica.

Questa scelta ha contribuito certamente in maniera determinante a sviluppare e completare la cultura tibetana, ma avendo attribuito tutti i meriti all’India e alla Cina si è commesso l’errore di ignorare il valore della tradizionale originaria Bön.

Fu comunque proprio Songtsen Gampo a tenere sotto controllo per primo il potere dei sacerdoti Bönpo mentre più tardi uno dei suoi successori, Trison Detseng (*), invitò il grande maestro Padmasambhava e il dotto Sataraskita, per costruire il tempo di Samie, eliminando gran parte della tradizione Bön dell’epoca. Trison era riuscito positivamente in questa sua impresa perché non aveva soltanto distrutto, ma sostituito gradualmente, costruito e sviluppato la nuova cultura buddhista.

L’epoca di Sogtsen Gampo fu infine segnata da un altro importante evento storico, la fine dello Shang Shung. Venne infatti annesso al Tibet dopo che Songtsen Gampo ne ebbe ucciso il re. E dell’ex potente impero non restò più nemmeno il nome.

Questa è la storia che spiega perché Sogtsen Gampo ha portato il Buddhismo in Tibet. Non perché non esistesse già una religione o perché il paese era al buio, abitato da selvaggi. C’era piuttosto un preciso motivo politico.

Penso che sia molto importante per tutti noi, interessati alla cultura tibetana comprendere bene tutto questo. Perché una cultura come la nostra, che può far risalire le sue origini a più di 3.890 anni fa, ha storicamente un valore non inferiore a quello di culture come l’indiana o la cinese. Non può essere ignorata la storia di una nazione esistita sulla Terra per così lungo tempo poiché rappresenta un tesoro mondiale.

Se non comprendiamo tutto questo, la gente continuerà a prendere in considerazione solo gli aspetti folcloristici delle nazionalità di minoranza e dei ceppi etnici, senza considerare il valore della loro cultura. Non può essere così. Una conoscenza profonda, esistita 4.000 mila anni fa, che ancora vive e viene trasmessa è una cosa grandiosa, importante, non può andare persa.

Esistono molte culture sulla terra e certamente tutte hanno il loro valore particolare e vanno salvaguardate. Ma quante di queste culture custodiscono in sé valori universali?

Prendiamo ad esempio, in Tibet, le teorie sull’origine dell’uomo. Molti studiosi tibetani quando parlano delle origini sostengono che, secondo l’antico Bön, tutto sarebbe sorto dall’uovo cosmico. Altri studiosi ridono di questa teoria, la ritengono una sciocchezza, altri ancora sostengono che il principio dell’uovo cosmico non è originario del Bön ma preso a prestito più tardi dell’induismo e dello shivaismo.

Se è uno studio a sostenere certe tesi, tutti sono subito pronti a credergli. Perché? Perché si pensa che il Tibet sia un paesino che può avere, sì, una sua cultura, ma non certo la storia e il valore delle conoscenze acquisite da altre nazioni più antiche e importanti. Fosse quindi anche la più originale tra le tradizioni dalla cultura tibetana, questi studiosi si domandano sempre, da dove viene? Dalla Cina o dall’India?

Torniamo all’esempio di prima. A pensarci bene se anche fosse vero che la teoria dell’uovo cosmico proviene dallo shivaismo, c’è sempre da domandarsi l’origine dello shivaismo stesso, che nei testi sacri di questa religione si colloca sul monte Kailash. Ma dov’è il monte Kailash? È in Tibet, non vero in India. Più precisamente è il cuore dell’antico regno dello Shang Shung, patria del Bön. Ecco quindi che lo shivaismo, e tutte le sue teorie, vengono dal Bön e non viceversa.

Naturalmente questo è solo un esempio. Ma basta rifletterci e se ne troveranno molti altri di casi analoghi. Se non si ragiona non si dà alcuna importanza a questi aspetti, legati soltanto alla conoscenza di nozioni generali, ma soprattutto ai valori dell’esistenza. Prendiamo un altro esempio. Si dice che, come esseri umani, noi abbiamo un livello fisico, ma anche uno mentale. Quello mentale è più profondo, più difficile da comprendere.

Su questo aspetto, nella tradizione del Bön è esistito anche l’insegnamento Dzogchen, un termine usato anticamente per definire il Bön della mente pura. È un insegnamento così importante che anche nel Buddhismo, nel tantrismo, la finalità della conoscenza è considerata Dzogchen. Se 3.000 anni fa, dunque, già esisteva un interesse così profondo verso la natura della mente umana. Paragonabile a una filosofia, si può comprendere meglio il grande valore di questa cultura.

Ma la cultura di un paese è legata al popolo. Se il popolo non l’applica e non vive di questa cultura, se esiste soltanto come conoscenza intellettuale, si può intuire che, più o meno, è una cultura morta. Dico questo a voi studenti perché siete venuti qui da diverse zone del Tibet centrale e orientale, dallo Qinqai, dal Kansu, dallo Yunnan, proprio per approfondire questi aspetti della nostra cultura che spero svilupperete con lo studio, la ricerca. È molto importante fare questa ricerca con la mente libera. Sapere che cosa vuol dire questo? Che un ricercatore non deve appartenere necessariamente o essere contrario a una religione, oppure ritenersi ateo, materialista.

Se qualcuno è condizionato da questi limiti non sta ricercando seriamente. Fare ricerca non vuol dire limitare se stessi, o cercare di approfondire gli aspetti che giustificano una sua ideologia già prefissata.

Mi è capitato di vedere, alcuni anni fa, molti libri tibetani stampati in Cina e in Tibet, in particolare testi di scuole buddhiste. Da qualche parte ha sempre trovato scritto: “È stato deciso di stampare questo libro anche se non segue i principi del materialismo…”. È come stabilire ufficialmente che tutti devono seguire il punto di vista del materialismo.

Sul livello politico non saprei che cosa dire, magari può avere una giustificazione ma questo non può essere l’approccio di chi vuole fare ricerca. Ricerca vuol dire leggere, studiare qualsiasi cosa, sia essa Bönpo, o buddhista, o rituale. Non è importante da dove viene se contribuisce a scoprire qual è la verità e nel mondo occidentale molto veri ricercatori hanno raggiunto risultati importanti applicando questo metodo, senza porsi dei limiti. Così spero facciate anche voi.

Il valore dell’uomo è quello di essere libero, ed, essendo libero, si applica, cerca, distingue tra buono e cattivo. Chi sa fare ricerca probabilmente sa trovare anche la propria identità di individuo, finalmente.

Spero che sappiate proseguire su questo livello, studiare e approfondire. Con questo augurio ci salutiamo e spero di incontrare nuovamente tutti voi.

https://it.melong.com/chogyal-namkhai-norbu-a-chengdu-1988/

Il Tibet di Chögyal Namkhai Norbu – Parte 2

Da unico testimone occidentale di tutti gli 8 mesi del viaggio di Choegyal Namkhai Norbu tra Cina e Tibet nel 1988, ho sempre sentito il dovere di raccontare quantomeno i passaggi che ritengo siano più significativi di quell’esperienza unica e irripetibile. È un dovere verso quanti, non solo i più giovani, conoscono poco questo importante periodo nella vita del maestro. Ogni giornata potrebbe prendere da sola lo spazio di un lungo articolo e mi perdonerete se le cause personali accumulate mi hanno impedito di dedicarmi completamente a un riassunto più dettagliato. Ma qui vorrei il più possibile condensare il senso di quel percorso che preparato in dettaglio nei mesi precedenti.

Rimpoche aveva appena concluso un tour di seminari e ritiri in varie parti dell’emisfero orientale e avrebbe interrotto per quel periodo tra Cina e Tibet i ritmi imposti dalle continue richieste di praticanti da tutto il mondo che lo invitavano ad insegnare lo dzog chen. In Cina, dove non esisteva ancora un gakyil della comunità, i suoi libri sul bon e l’antico Tibet erano già pietre miliari della storiografia tibetana. Nei mesi che ho avuto la fortuna di condividere a suo stretto contatto ho potuto osservare il passaggio del maestro dalla dimensione della cultura occidentale dell’Italia di quegli anni – con una popolazione quasi equivalente di cattolici conservatori e comunisti – a un mondo di tradizioni dove tutti seguono il Buddhismo Vajrayana e in gran parte vedevano Rimpoche come fonte di benedizione ben più che di sapienza. Rimpoche ribalterà quel punto di vista in diverse occasioni parlando a nomadi, pastori e contadini, ma anche a professionisti e politici, dei metodi di autoliberazione che attraverso il guru yoga di unione con i propri maestri rende indivisibile il praticante dalla fonte della massima benedizione possibile, lo stato di contemplazione.

In ogni caso Rimpoche era consapevole di non poter deludere quanti si avvicinavano con la testa china per farsi imporre le mani dal guru identificato come intermediario della divinità stessa. “Qui è diverso. Che altro posso fare se qualcuno va dietro alle forme? Almeno posso recitare per loro un mantra” disse un giorno sorridendo quando gli chiesi perché non avesse mai adottato quel gesto in occidente. Aveva appena finito di toccare centinaia di teste, recitare altrettanti mantra e stava donando innumerevoli oggetti di protezione a quanti ne avevano fatto richiesta soffiando su di essi sillabe sacre, il maestro notò la mia attenzione curiosa e poteva leggermi nei pensieri come un libro aperto. Allora raccontò di quando molti anni prima a Torino durante un ritiro gli capitò di incontrare un occidentale che voleva essere in tutto e per tutto tibetano. “Avevo appena finito di parlare del guru yoga – raccontò – e suonammo una A prima di dedicare i nostri meriti. Alla fine un uomo si avvicina al mio posto e con rispetto mi chiese se poteva avere una benedizione. Gli dissi che l’aveva già ricevuta con la pratica dell’unione, ma lui insisteva e allora chiesi che tipo di benedizione volesse. “Non so, faccia qualcosa, mi tocchi…” Ridemmo a lungo e la scena mi tornerà in mente spesso vista l’intensità antica della relazione maestro devoto ben oltre il contatto fisico e mistico.

In gran parte Rimpoche ha indossato la stessa giacca a vento rossa e si è vestito con gli eleganti indumenti religiosi solo quando gli chiedevano di guidare cerimonie e iniziazioni rituali. C’è anche una foto con un elegante abito pesante di velluto che arrivava ai piedi sottilmente ricamato di motivi tibetani e Rimpoche disse che era la veste di antenati aristocratici che furono consiglieri di re.

Personalmente non avevo mai visto il maestro indossare gli abiti sacri sacri in occidente, e non credo lo abbia mai fatto, ma in quei mesi – oltre alla foto con la chugkpa amaranto – mi capiterà in almeno due speciali occasioni di scattargli delle foto negli abiti del rito. La prima volta trasmise con un mantello ricamato di rosso a trame dorate e una camicia gialla appartenuti allo zio Khyentse Wangchuk un’iniziazione a più di mille nomadi dell’area attorno al monastero di Galenteen. Eravamo sotto un enorme tendone bianco aperto ai lati e adattato a gompa con centinaia di uomini, donne con turchesi nei capelli e bambini sul prato gremito anche di cavalli e cavalieri, monaci addetti all’incenso del sang il cui fumo odoroso di cipresso avvolgeva ogni cosa.

La seconda occasione fu il rito per consacrare gli stupa nel villaggio del suo maestro Changchub Dorje, durante il quale indossava un mantello di tonalità rossa con fasce azzurre sul quale erano stampati i saggi del lignaggio. In tutte queste occasioni la cerimonia assumeva forme esteriormente molto diverse da quelle che avevo praticato a Merigar e nei Gar occidentali. Difficile descrivere l’intensità delle emozioni scatenate credo anche nel Maestro dalla magia di quei momenti, tra sguardi attenti di volti dai tratti etnici immutati da tempo immemorabile, la musica dei lunghi corni e il cupo rimbombo dei grandi tamburi, la nuvola odorosa piacevole all’olfatto usata per la purificazione anche tra gli indiani d’America, come mi disse Rimpoche che aveva assistito tra i Navaho a riti simili al sang tibetano: “Molti mi scambiavano per uno di loro e chiedevano da quale tribù venissi”.

La sua spedizione cominciata in Cina da accademico, giunto sugli altipiani orientali e occidentali si è alternata su tre livelli, quello già detto della venerazione, di yogi-pellegrino verso i luoghi dei suoi mentori e maestri (compreso il sacro monte Kailash in compagnia di una settantina di studenti come me giunti da tutto il mondo) e infine un livello più politico, quello dei delicati rapporti con le autorità cinesi. Fu nella prima e seconda parte del viaggio (descritte a sommi capi in un piccolo libro della Shang Shung uscito poco dopo il nostro ritorno in Italia) che nacque il nucleo dei progetti di A.S.I.A. affidati ad Andrea dell’Angelo, il quale tornò con il Maestro e Giovanni Boni negli stessi luoghi per avviare i lavori.

Nell’approccio con i funzionari che avrebbero dovuto sostenere i progetti futuri, Rinpoche fu favorito dalle cause che aveva già seminato in gioventù. A introdurlo presso governatori locali e capi del partito tibetani e cinesi furono infatti studiosi e professori delle principali università di studi tibetologici che erano stati suoi studenti o lo avevano conosciuto negli anni ’50 come rappresentante dei monasteri tibetani. Nel 1953 fu invitato dalla Gioventù comunista cinese a visitare Chengdu – che sarà una delle nostre tappe – e Chongqin, poi gli chiesero di insegnare la lingua tibetana a Menyag e per tre anni fino al 1957 fu docente alla South-western University for Minorities di Chengdu dove a sua volta studiò cinese classico e mongolo. Fu in questo periodo che Rinpoche incontrò Kangkar Rinpoche, una figura molto importante per la sua formazione anche umana, tanto che passando vicino al suo monastero Rimpoche fece acquistare a tutti noi delle coperte fabbricate per finanziare gli yogi che ne continuano il lignaggio.

L’incontro che segnò la svolta per Chögyal Namkhai Norbu avvenne nel 1955 quando aveva ancora 17 anni e viveva a Chengdu. Un sogno lo portò dal suo Maestro radice Rigdzin Changchub Dorje a Khadogar o Nyaglagar oltre il confine del Tibet centrale, dove ci recheremo all’inizio dell’estate.

Le aperture cinesi

A curare per noi il rilascio di tutte le autorizzazioni e visti compreso il mio in quanto assistente di Rimpoche fu proprio uno di quegli studenti assidui frequentatori delle sue lezioni a Chengdu e altri centri della provincia, divenuto un importante funzionario della Regione autonomia tibetana a Pechino. Ne incontreremo molti di ex allievi a Chengdu e a Kangding, importante città a maggioranza tibetana con un rinomato centro universitario tecnologicamente avanzato. Qui l’accoglienza nell’ateneo tecnologicamente più avanzato del Sichuan fu tale che il nostro gruppo venne fatto passare tra due ali di studenti con le katà bianche tradizionali e il fiocco rosso dei “pionieri” comunisti, insegnanti e gente del posto sventolavano bandiere buddhiste (è vietato il tradizionale leone delle nevi) e quelle rosse della Cina.

I capi politici e gli amministratori, in linea con il nuovo corso più aperto e tollerante del partito, non vedevano più come un pericolo l’idea di preservare – come proponeva loro Rimpoche – l’antica cultura dei tibetani. Anche i tulku, i cosiddetti “Buddha viventi” secondo la definizione cinese, erano stati in un certo modo “riabilitati” dopo gli eccessi dell’esercito e le persecuzioni della rivoluzione culturale (negli anni ‘90 una legge affidò poi la loro selezione al partito che ipotecò la scelta stessa delle reincarnazioni principali come il Dalai e il Panchen lama).

Rimpoche parlò spesso di questa antica istituzione iniziata da un maestro Kajugpa nel XIII secolo (e “copiata da tutte le altre scuole”, disse) verso la quale era piuttosto critico per l’uso troppo distorto del titolo e l’eccessivo potere materiale delle istituzioni che contano sulla fama del tulku. Anticipava quello che dirà lo stesso Dalai lama molti anni dopo: “Man mano che l’era degenerata avanza, aumentano i riconoscimenti di reincarnazioni di importanti lama. Per qualche motivo politico sono stati riconosciuti un incredibile numero di persone con criteri inappropriati e discutibili, e questo ha enormemente danneggiato il Dharma”. La prova è, scrive, che la Cina ha creato delle speciali commissioni politiche per gli affari religiosi con il potere di “certificare i Buddha viventi”, come il partito chiama le presunte “reincarnazioni“. Nel 2017 sul New York Times Sua Santità usò parole ancora più chiare e inequivocabili su come impedirà ai cinesi ogni possibile stratagemma per sostituirlo: “Tutte le istituzioni religiose, tra cui il Dalai Lama, si sono sviluppate in circostanze feudali – disse – corrotte da sistemi gerarchici, e hanno cominciato a discriminare tra uomini e donne; sono giunti (perfino) a compromessi culturali con leggi simili alla Sharia e al sistema delle caste”. “Pertanto (con me), l’istituzione del Dalai Lama, con orgoglio, volontariamente, si è conclusa”.

Rimpoche aveva spiegato più volte a me e altri compagni di viaggio che la fama e il prestigio del titolo tra le popolazioni tibetane non sempre corrispondeva alle qualità di lama e abati dagli abiti pomposi, titolari di labrang – le proprietà dei monasteri – i cui amministratori o Geko erano spesso in guerra con altri per l’influenza sui villaggi e entrate più larghe. Lo stesso zio Khyentse e il suo precedessore dovettero subire campagne di discredito dei grandi monasteri e dei loro stessi Geko per la loro opposizione al circuito del dharma business e i lunghi periodi passati negli eremi a praticare.

Rimpoche tornò nel suo paese 34 anni fa con l’intento, realizzato, di porre in quell’anno le basi delle attività di A.S.I.A. ma capì che esistevano le condizioni per la nascita della comunità Dzogchen cinese, oggi parte integrante di quella internazionale. A diversi livelli dell’amministrazione pubblica da Pechino a Chengdu, da Qamdo a Derghe in molti vollero sostenere le sue idee per una integrazione tra due mondi apparentemente tanto separati come Tibet e Cina. Rimpoche rese chiaro a tutti che i due vicini, seppure divisi dalla politica avevano a lungo avuto intensi interscambi culturali e religiosi, fin da quando il Buddhismo si diffuse dall’India anche in Cina attraverso i primi pellegrini. Ricordò che molti imperatori si convertirono al Vajrayana e – come avevano fatto i potenti khan mongoli – ricevettero numerosi insegnamenti spirituali da diversi Dalai lama.

Il maestro disse fin dal suo arrivo a Pechino che intendeva aprire scuole e creare servizi comunitari specialmente per i nomadi, ma anche avviare seminari per monaci di tradizioni tradizionalmente neglette. Sapeva che non sarebbe stato facile ma quel periodo storico era forse l’unica finestra aperta dentro la grande muraglia dell’ideologia cinese. Infatti dopo Tien an Mien la Cina tornò a chiudersi e trasformo’ radicalmente il panorama e lo stile di vita di gran parte della popolazione. È stato un merito di A.S.I.A. quello di poter concludere i suoi progetti evitando la sorte di altre onlus internazionali indipendenti costrette a lasciare il paese, senza abbandonare mai l’idea originaria di portare sostegno a comunità vittime “collaterali” di un progresso che stava stravolgendo – oltre all’ambiente sul tetto del modo – sistemi antichi ed efficienti di sussistenza delle tribù, specialmente nomadi.

Rimpoche parlava spesso in viaggio dell’importanza di questi pastori erranti nella cultura tibetana (scrisse un libro interamente dedicato a loro) e della loro relazione con la natura primordiale. Di nomadi ne incontreremo a centinaia sotto le loro tende di stoffa usate durante gli spostamenti brevi, o di lana di yak delle residenze invernali. Il Maestro li intratteneva per ore raccontandogli storie dell’esotico occidente che incantavano grandi e bambini al fuoco delle stufe, e ascoltava i loro racconti chiedendo di spiegargli cos’era successo alle loro vite dopo l’arrivo dei cinesi. Seppe che gli esperimenti delle cooperative di nomadi erano falliti ma che tutti temevano qualche altra iniziativa per limitare la libertà da sempre goduta dalle famiglie di scegliere le pasture per gli animali. (Oggi purtroppo i nomadi vivono in gran parte dentro compound di stile cinese e si sono visti imporre una vita più sedentaria e controllata).

La natura del Tibet

Fu in due occasioni, rimaste impresse nella mia memoria, che Rinpoche spiegò il rapporto tra mistici tibetani e natura, in anni durante i quali le preoccupazioni ambientali non erano ancora il tema del giorno. Un mattino mentre attraversavamo un bosco del Tibet orientale, molto più verde di quello occidentale, disse che ogni albero era per lui un oggetto di contemplazione. Nei miei appunti annotai di avere avuto un flash, immaginai un mondo dove ciascuno viveva in simbiosi con il proprio albero come poteva accadere in una delle tante dimensioni di cui mi parlò il Maestro. Pensai anche al fatto che sotto un banyan si sarebbe illuminato il Buddha, e sotto gli stessi rami uscì dal grembo della madre.

A metà maggio la neve non era ancora sciolta sui prati delle alte quote che si riempivano di fiori gialli e rossi sotto cieli di un azzurro mai visto. Ci fermammo qualche chilometro prima del monastero dello zio abate Khyentse W dove scendemmo dall’auto per seguire a piedi una strada laterale sterrata e qui apparve l’incanto di un laghetto circondato di abeti e ginepro. Rinpoche fissò intensamente i colori e le forme incantevoli dello specchio d’acqua che sembrava un turchese trasparente incastonato tra la neve e il verde intenso degli alberi. Disse di esserci venuto con lo zio abate quando aveva 11 anni, e ne fu talmente incantato che voleva costruirci un monastero. “Da allora – mi disse – ogni volta che la mia mente è disturbata da elementi esterni e da problemi apparentemente irrisolvibili, torno sempre qui, in questo lago”.

Spiegò che quando era piccolo aveva un’idea molto diversa delle priorità essendo stato educato a diventare un maestro e potenziale capo di qualche monastero. Ma l’importanza delle istituzioni religiose divenne relativamente secondaria per Rinpoche quando incontrò il suo Maestro di Dzogchen Changchub Dorje a Khamdogar del quale spero di poter parlare nella seconda parte di questo racconto.

Quella mattina sulle rive del lago della sua infanzia il maestro spiegò la sua nuova idea su come utilizzare quel luogo incantevole. “Se possibile vorrei costruire qui un luogo di pratica che possa essere anche utilizzato dalla nostra gente della comunità internazionale”, disse. Non so se quell’idea ha poi trovato applicazione, ma temo che l’irrigidimento politico e la politicizzazione delle autorità religiose possa avere reso difficile questa parte del programma di Rinpoche.

Per dare un’idea dei cambiamenti avvenuti al tempo del suo arrivo, il Maestro giunse a Pechino da Hong Kong quando mancavano 9 anni al ritorno dell’isola alla Cina, evento che secondo lui poteva cambiare gli assetti di potere anche a Pechino. C’era stata la perestroika con le prime riforme liberali russe e Deng Xiao Ping a Pechino apriva la Cina al mondo, ospitando perfino i primi inviati del “nemico” Dalai lama a Lhasa. Un anno dopo il viaggio del Maestro, la rivolta di Tien an Mien fu di fatto il tentativo di ridimensionare il potere della classe dirigente del nord, di lingua mandarina. Dal mondo degli uomini d’affari e politici del sud tradizionalmente più aperti proveniva un potente simpatizzante degli studenti in rivolta, il segretario generale del partito Zhao Zhiyang, poi allontanato.

Era facile capire come applicando la base dello Dzogchen il maestro agisse secondo le circostanze che imponevano il rispetto delle leggi ma anche delle abitudini dei paesi che incontravamo. Era esteriormente facile per lui, anche se a livello emotivo lo accompagnava un sentimento di enorme tristezza fin da quando per rivedere il suo Tibet aveva dovuto ottenere l’autorizzazione da genti straniere. Il Maestro ha autoliberato col tempo gli ostacoli di passioni profonde e dolorose, perfino il senso di colpa che mi disse di aver provato per aver messo in pericolo la sua famiglia in quanto “Buddha vivente”, quindi nemico del popolo.

Qui vorrei anticipare un altro aspetto importante – di certo lo fu per me – di quel viaggio dell’88. Mentre salivamo in jeep gli altipiani oltre Ya’an per entrare in Tibet, Rimpoche mi chiese che cosa pensassi di Sua Santità. Mi resi conto di non avere una risposta precisa, conoscendo poco gli stessi metodi della sua scuola Gelugpa. Risposi che lo conoscevo più come leader politico che religioso, e allora il maestro mi parlò di una storia che sarebbe diventata la mia ossessione negli anni a venire, anche se in quel momento non mi resi conto della sua importanza per il futuro stesso della cultura tibetana e del suo rappresentante più celebre, l’attuale XIV detentore del titolo di Oceano di saggezza. Spiegò che il movimento anti-settario Rimed nel quale si identificava, aveva fino agli anni ’70 una forte riserva verso una forma di culto delle “Guardie” o protettori alla quale era associato il leader tibetano. Prevedeva infatti la “presa del rifugio” in un essere considerato difensore della pura dottrina Gelugpa contro ogni altra “contaminazione”. Quando i berretti gialli erano al potere “coniavano anche le monete” mi spiegò un giorno il Maestro davanti a un grande monastero della scuola a Derghe, “e non intendevano cedere il potere del loro clero ad altre scuole”.

Solo più tardi seppi che al tempo della sua “iniziazione” al controverso “spirito” il Dalai lama era circondato di tutori e consiglieri che praticavano il culto di un essere gyalpo chiamato Shugden, anche se il protettore ufficiale di tutti i Dalai lama era Palden Lhamo. https://www.sangye.it/wordpress2/?p=2309

Di conseguenza “nessun religioso delle altre tre scuole – mi disse il Maestro – né altri praticanti dello Dzogchen come me avrebbero mai preso iniziazioni dal Dalai Lama”. La causa era proprio quel suo legame con uno “spirito nocivo”, come lo definirà anni dopo il Dalai Lama stesso. https://www.sangye.it/wordpress2/?p=5014 “Ma ora – aggiunse il Maestro – tutto è risolto. https://www.sangye.it/wordpress2/?p=2301 Sua Santità ha capito lo spirito divisivo di quella pratica e ha invitato tutti i tibetani a interromperla. https://www.sangye.it/wordpress2/?p=3212 Ora sono pronto a ricevere un’iniziazione da lui” (cosa che accadrà a Gratz anni dopo, ndr).

Il motivo di quel vecchio conflitto mi risultò sempre più chiaro quando lavorai con il sostegno del Maestro e dello stesso leader tibetano esule al libro sulle conseguenze di quella vicenda per gli eventi storici ancora in corso. La Cina troverà nei lama del culto dei fedeli alleati per la strategia di sostituire alla sua morte il Dalai Lama con un tulku educato dai suoi nemici interni e dai consiglieri del partito. Giunsero anche a finanziare la rumorosa campagna internazionale anti-Dalai Lama accusato da una “coalizione” pro-Shugden di “persecuzione religiosa”, con azioni pubbliche che ebbero vasta eco internazionale e poco effetto pratico.

Ma vorrei tornare ora alle tappe del viaggio da quando lasciammo la capitale cinese Pechino, dove il maestro alloggiava nella casa di Donatella Rossi in un compound per occidentali e io nelle stanze in affitto degli studenti nell’università di Beidà, dove di lì a poco si accenderà il primo focolaio delle rivolte di Tien An Mien che porrà fine all’era più liberale di Deng.
Atterrammo la sera del 2 maggio a Chengdu, capoluogo del Sichuan e ancora oggi porta d’ingresso turistica al Tibet, accolti da una piccola folla di parenti e tibetani avvisati del suo arrivo. Tra loro la sorella del Maestro Sonam Palmo, di poco più anziana e straordinariamente somigliante tranne le lunghe treccine coi turchesi e nastri colorati come un’indiana d’America.

Era giunta da Lhasa con la figlia adottiva Phuntsok, un medico oggi noto a molte persone della comunità e indossava un cappellino di lana marrone, una chupa abbondante e sproporzionata al caldo della pianura cinese dalle cui maniche uscivano i guanti aperti sulle dita che ruotavano lentamente e continuamente un mala. Rimpoche e il suo variopinto corteo – che non mancò di far colpo su un gruppo di turisti giapponesi – incuriosì anche i giovani cinesi alla reception del Minshan hotel, pure abituati alla presenza di tutte le etnie tibetane in città.

In parte il corteo si trasferì – scherzando sugli ascensori ancora inusuali in Tibet – nella stanza messa a disposizione del Maestro e del suo assistente dall’Istituto delle minoranze. Il direttore aveva spedito un’auto all’aeroporto ed era venuto a sincerarsi personalmente che il sapiente venuto dall’Ovest si trovasse a suo agio. Volle anche farci provare subito le specialità super piccanti del Sichuan anche se era già sera tarda. Rimpoche ricordò a cena il suo viaggio negli anni ’50 attraverso questa provincia e lo stato, quando i cinesi non avevano ancora raggiunto gli eccessi della rivoluzione culturale e il maestro accettò di viaggiare in varie città cinesi come rappresentante della gioventù comunista del Tibet. Ricordando quegli anni spiegò al direttore dell’Istituto che per lui è sempre stato importante conoscere come si forma la società di un paese per sapere qual è il modo migliore di comportarsi in ogni circostanza e con rispetto. “Quando giunsi in Italia negli anni ’60 – gli disse – dopo aver appreso le basi della lingua, frequentai sia le sezioni del partito comunista che i circoli parrocchiali cattolici per capire come pensava la gente”.

Al mattino successivo, dopo una brusca sveglia non richiesta del notiziario radio nazionale delle 06.00, Rimpoche mi spiegò che ben pochi degli interlocutori cinesi che avremmo incontrato sapevano distinguere tra religiosi clericali e maestri senza “chiesa” quali sono considerati i praticanti dello dzog chen. Chiesi al Maestro con quale spirito avrebbe attraversato un paese come il suo, dove – nonostante le aperture recenti – la politica del partito sembrava giocare un ruolo sempre più importante di quello della religione in ogni aspetto della società. Rispose che in ogni circostanza è sempre meglio riflettere sulla ragioni che dividono la società e non schierarsi mai completamente con una delle parti perché si può perdere la possibilità di agire per il vantaggio di entrambe. Spiegò che questo insegnamento più pratico che spirituale lo aveva appreso non da uno dei suoi maestri di Dharma, né dagli zii abati yogi, ma da un fratello di suo padre che fu un importante uomo politico e vice presidente di una provincia. “Questo zio – raccontò Rinpoche – mi spiegò che autorità e potere gli venivano dalla sua capacità di esporre le critiche al sistema ma di saper trovare sempre una mediazione. Quando avevo 15 o 16 anni mi disse: “Tu ora sei giovane ma quando crescerai non stare mai completamente da una parte o dall’altra”.

Il maestro viaggiò nel suo Tibet costellato di ricordi della drammatica sorte di amici di gioventù, maestri, persone care, un padre e un fratello uccisi nei campi di lavoro cinesi, e il misterioso decesso dello zio Khyentse Wangchuk, abate del monastero e leader spirituale del villaggio di Galenteen dove passeremo molte settimane. Khyentse doveva essere linciato e fucilato pubblicamente insieme ad altri tre maestri suoi amici e grandi praticanti nel capoluogo Derghe in quanto “falsi Buddha viventi nemici del popolo” e dimostrare la loro vulnerabilità umana. Ma 3 giorni prima dell’esecuzione l’abate venne trovato senza vita nella posizione meditativa dalle guardie rosse della prigione dov’erano tutti rinchiusi. Non solo, in celle diverse e allo stesso tempo morirono gli altri lama. Nella stessa prigione era costretta a lavori estenuanti la sorella anziana di Rimpoche Jamyang Chodron, una discepola di tutti e tre: il Khyetse, Shechen Rabjam e Drugpa Kuchen. Fu la sola a poterli incontrare, isolati com’erano ta loro, e fu lei a portare agli altri l’unico messaggio del Khyentse, una frase sul Grande simbolo che era stata concordata forse anticipando ciò che sarebbe loro successo, lo stesso trattamento umiliante subito da altri maestri, costretti a percosse, crudeli processi e perfino a farsi cavalcare da invasati con delle redini al collo, esecuzioni sommarie. Sono molti i dettagli delle crudeltà commesse dai cosiddetti burtsonpa (gli attivisti) come vedremo ancora, e li descrive il Maestro nella biografia de La Lampada trasmessa ad Enrico alla quale rimando per chi voglia saperne di più.

Centinaia di maestri e discepoli vennero torturati ferocemente davanti a folle eccitate dal sangue e dalla violenza sui “controrivoluzionari”, una “evidente manifestazione di gyalpo – mi disse il maestro – che si nutre della rabbia e delle provocazioni dell’uomo all’ordine della natura primordiale”. Il mondo seppe solo più tardi il clima di terrore che si era creato in ogni famiglia spesso divisa tra figli di opposte posizioni sull’indipendenza dalla Cina e la fedeltà alla religione degli avi.

Rinpoche stesso, nel Sikkim indiano dal ‘56 senza più collegamenti con il Tibet occupato, mi disse che fino al ’79 non riuscì in generale a sapere niente della sorte dei suoi parenti. Ma all’inizio degli anni ’70 “la notizia della morte di Khyentse Wangchuk – spiegò – mi giunse in modo del tutto inatteso. Un maestro a capo della scuola Sakyapa mi scrisse per dirmi che aveva avuto la visione dello zio reincarnato in mio figlio Yeshe, così venni a sapere che era morto”. Durante il soggiorno a Galenteen racconterà altri dettagli, tra i quali la morte innaturale di due degli accusatori di suo zio davanti al “tribunale del popolo”. Ma rimando ancora a La Lampada, e racconterò più avanti solo un aneddoto personale interessante che riguarda altre due figure di ex “rivoluzionarie” torturatrici ancora in vita. https://it.melong.com/il-tibet-di-chogyal-namkhai-norbu-parte-2/?fbclid=IwAR2Bg8WNjL2DWi2qN9B8Qq2JiKjmjqVj4CGdTQj0hI0IR-7Qok1PGGuapZc

Il Tibet di Chögyal Namkhai Norbu – Parte 3

Di ritorno in Asia dai ritiri in Giappone e Australia Rimpoche era passato da Hong Kong dove lo aveva molto colpito l’opulenza e la frenesia affaristica dell’isola che costituiva un modello della futura Cina, in attesa che scadesse nel ‘97 dopo 156 anni di governatorato la concessione al governo britannico con il ritorno sotto le leggi di Pechino. Il Maestro si domandava se per il Tibet fosse possibile seguire lo stesso modello previsto a Hong Kong di “Un paese due sistemi”, ma temeva l’impatto tra la sua gente di un modello di sviluppo industriale e commerciale basato sullo sfruttamento di ambiente e risorse.

La stessa mattina cominciata con la rumorosa radio-sveglia dell’albergo, un pezzo del corteo che ci aveva accolto all’arrivo sedeva sul pavimento nella nostra stanza e in quella di Sonam Palmo e Phuntsok. Avevano aperto per la colazione grandi sacchi di tela riempiti di tsampa e Rimpoche riassaporò con gioia quel gusto d’infanzia mostrandomi come mischiare la farina d’orzo col tè al burro versato dai grandi termos cinesi nella ciotola di legno che mi regalarono i suoi parenti da portare con me per tutto il viaggio nello stile dei nomadi. Ovunque vadano i pastori di yak e dri (le femmine) ne portano una con sé per ricevere l’offerta di tè delle varie famiglie che incontreranno nelle loro tende bianche durante gli spostamenti estivi delle mandrie sugli altipiani e in quelle nere di pelo animale che li difendono dall’inverno himalayano.

Quella tazza dove si mischia tsampa e tè è un oggetto prezioso e tradizionalmente ogni tibetano ne porta una racchiusa in una tasca della chuba. Quella di Rimpoche era trasportata dalla sorella o dalla nipote e la mia stava infilata dentro la tasca interna di una giacca a vento e sarà preziosa lungo gran parte del percorso nelle aree meno abitate degli altipiani, assieme alla carne di yak secca che i parenti del Maestro avevano stagionato all’aperto nell’aria rarefatta delle montagne. Fu solo un assaggio, perché a pranzo Rimpoche era stato invitato dalle autorità del Sichuan a un pasto con banchetto zeppo di portate e dovette onorare mangiando il più possibile tra molti boccali di birra cinese. Era il primo incontro ravvicinato con le autorità statali che avrebbero dovuto dare il loro parere decisivo alle sue proposte di collaborazione pratica sul campo. Rallegrati da pietanze e bevande che comprendevano potenti liquori cinesi si spinsero a interrogare il Maestro sui suoi rapporti con il Dalai Lama e Rimpoche con franchezza disse che il leader in esilio non è un nemico della Cina come molti vogliono fare intendere, e spiegò loro il significato dei 5 punti politici dell’accordo proposto alla Cina da Sua Santità.

Gli disse che ognuno di questi punti è in linea con la Costituzione stessa delle Nazioni Unite, accettata anche dal partito comunista cinese, e che gli argomenti esposti andrebbero discussi invece di rifiutarli a priori. Ne potevano trarre giovamento tutti, aggiunse, e neanche la Cina poteva ignorare la necessità di una reale autonomia non solo per i tibetani ma anche per tutte le altre minoranze etniche. Concluse la conversazione – che si protrasse con diversi kampè/ brindisi – dicendo che tra le sue principali intenzioni c’era quella di preservare la cultura e la lingua tibetana prima che le rapide trasformazioni la distruggano. Come avemmo modo di constatare nel corso del viaggio, stava infatti iniziando una colonizzazione dall’esito oggi sotto gli occhi di tutti. Bastavano a capirlo le immagini degli alberi tagliati trasportati da enormi Tir cinesi che incontravamo lungo le strade di confine e le centinaia di tronchi visti fluttuare lungo i fiumi scesi dall’Himalaya destinati alle grandi segherie cinesi.

Quella dell’88 fu la prima vera immersione piena di Rimpoche nei luoghi d’origine e della sua formazione di “tulku” o reincarnato. Al Maestro fu facile comprendere ciò che stava avvenendo in un paese che aveva lasciato prima della piena occupazione militare cinese trent’anni prima, mentre io potevo solo contare sulle mie letture di storia e sull’esperienza di due viaggi, uno giornalistico effettuati nei due anni precedenti a Pechino tra gli intellettuali e un altro come assistente di un gruppo in visita alle località turistiche del sud, sempre accompagnato da guide ufficiali.

Non sempre il Maestro aveva tempo di tradurre o parlarmi del tipo di persone e luoghi che incontravamo, ma fece del suo meglio usando la comune lingua italiana, oltre a cercare di insegnarmi le basi del tibetano grazie a un gioco per bambini, una serie di caratteri con la translitterazione occidentale di consonanti e vocali. Scrisse a mano una serie di bigliettini ripiegati con cura e messi in un borsellino tibetano e mi invitò a estrarne di tanto in tanto uno e memorizzarlo. Non feci ahimè molti progressi e questo isolamento linguistico pesò spesso sul mio umore, escluso dal percepire fino in fondo l’intensità del dialogo che si svolgeva quasi quotidianamente davanti ai miei occhi tra il Maestro e le migliaia di tibetani che venivano a incontrarlo dovunque ci trovassimo.

Lo precedeva la fama ancora viva dei suoi predecessori e maestri, ma anche come visto la stima degli studiosi del Tibet antico. A volte folle incalcolabili si radunavano fuori dalle case, dai monasteri o dalle tende che ci ospitavano per vederlo e sentirlo parlare, in gran parte per ricevere quantomeno una benedizione. Rimpoche ascoltava tutti e per chi lo richiedeva creava lì per lì piccoli oggetti di protezione, il più delle volte utilizzando le stesse kata ricevute come tradizionale offerta della ”mente pura”.

Un giorno, osservando dei nomadi al pascolo e scene di vita reale immutate nel tempo, Rimpoche ricordò una cosa che ci aveva colpito all’università delle minoranze di Pechino. Negli annessi locali dell’Istituto Nazionale dei Popoli Etnici c’era un piccolo museo dove tibetani, mongoli, uiguri e altre popolazioni antiche erano raffigurati con immagini e statue-manichini abbigliate coi loro costumi tradizionali con sullo sfondo un modello di una loro abitazione tipica. “È quello che rischia la cultura tibetana – commentò – ricordo di un popolo estinto come quelli dei vichingi e degli antichi egizi”. Rimpoche disse però che la fede nella religione e negli antichi insegnamenti non sarebbe scomparsa tanto presto tra la gente, visto che è rimasta pressoché immutata nei decenni di dominio comunista tra una vasta maggioranza dei suoi connazionali. Lo preoccupava più la sorte del movimento Rimed di unità tra tutte le scuole tibetane e l’aumento dei falsi maestri del Dharma business, capaci – disse – di dividere la comunità dei praticanti e contaminare tradizioni e lignaggi antichi di secoli se non millenni, sia dentro che fuori dal Tibet.

Il potere politico e il popolo

Dopo diversi giorni di viaggio da Chengdu – capitale del Sichuan e punto di partenza delle comitive per il Tibet – raggiungemmo Derghe, capoluogo dell’omonima provincia dove Rimpoche è nato nel villaggio di Geug l’8 dicembre 1938 e ha studiato presso i maestri di varie scuole. Avevo lasciato il lavoro da giornalista del quotidiano del partito comunista italiano per seguirlo in quello che sentivo come un viaggio di svolta anche “ideologica”, ma fui piacevolmente colpito dal fatto che le stesse autorità rosse cinesi condividevano la stima verso il Maestro degli stessi studiosi e accademici. Il ricevimento di Rimpoche nella stamperia di testi buddhisti più antica di Derghe fu l’anticipo di ciò che ci attendeva in altri villaggi e province. Sembrava una scena uscita da un altro tempo, se non fosse stato per la giacca a vento del maestro decisamente in contrasto con gli abbigliamenti dei tibetani locali e le tonache amaranto dei religiosi che lo circondavano. File di monaci e genti comuni con le mani giunte erano allineate lungo l’intero percorso mentre sul tetto suonavano i lunghi corni rituali e nell’aria si diffondeva l’odore del sang di cipresso misto ad altre erbe aromatiche.

Rimpoche mi spiegò che parte della libreria era stata distrutta e abbandonata durante la rivoluzione culturale, così come il monastero di Derghe Gonchen di tradizione Sakyapa dal quale dipendeva la stampa dei manoscritti. Qui avevano studiato e insegnato molti dei suoi zii e maestri, salvo sfuggire alle sue regole ferree e “commerciali” di cui tornerò a parlare. La stamperia ha mantenuto la sua fama e ora stava per essere restaurata con soddisfazione di pellegrini, studiosi e monasteri che commissionavano i testi dei canoni buddhisti e molti altri insegnamenti conservati clandestinamente durante la rivoluzione culturale, con matrici lignee spesso antiche di secoli. Quello stesso giorno nel salone delle assemblee del municipio di Derghe il Maestro era atteso dagli amministratori per un saluto ufficiale, ma si rivelò un lungo e informale incontro con quei funzionari che volevano sapere le sue sincere impressioni sul Tibet dopo tanti anni. “Avete fatto bene a ricostruire monasteri, librerie e templi – disse loro – ma sarebbe meglio ammettere in primo luogo che non aveva senso distruggerli. Penso che adesso sia importante creare le condizioni perché non si torni a distruggere facendo qualcosa insieme. Ma bisogna stare attenti a non mischiare le due culture. Per esempio tra gli amministratori della città ci sono oggi molti tibetani, ma negli uffici cinesi non possono continuare a parlare la loro lingua. Molto è già andato perso, e molto si perderà se una delle due culture si sovrappone o mischia all’altra”.

Il nostro gruppo con in testa Rimpoche era stato fatto sedere vicino al sindaco e ai suoi consiglieri, accomodati in stile cinese sui divani disposti uno di fronte all’altro e divisi da un tavolo con le tazze del tè coperte da un tappo per mantenere il calore. Lungo una delle pareti erano appesi in fila i ritratti dei padri del comunismo da Marx a Engels seguiti da Mao e Deng Xiao Ping, l’uomo delle riforme economiche e delle prime aperture al mondo. Dall’altra, probabilmente solo per quell’occasione, erano state affisse figure delle divinità buddhiste.

Namkhai Norbu si rese presto conto di aver colpito la sua audience – non volava una mosca – su un punto sensibile del rapporto tra potere politico e popolazione. Doveva aver previsto questa circostanza perché accennò lì per la prima volta il suo progetto ai responsabili delle decisioni: costruire delle scuole per tibetani e in tibetano nelle aree dove è cresciuto e ha studiato a sua volta. Dopo l’incontro, un alto funzionario del governo locale che negli anni cinesi era stato suo amico ci invitò a bere del vino a casa di una famiglia contadina e promise solennemente di dare una mano al Maestro per rendere pratiche le sue idee. Restò sorpreso quando la venditrice di vino chiese davanti a lui una benedizione al Lama venuto da lontano e il Maestro lanciò del riso nella stanza.

La sera di quel giorno intenso Rimpoche tornò in stanza soddisfatto delle promesse che aveva ricevuto anche da altri leader ma stanco, e gli impegni non erano finiti. Ho già detto che Rimpoche accettò il trattamento da “lama” consapevole della necessità di non deludere genti tradizionaliste compresi i suoi stessi parenti che lo hanno chiamato Rimpoche fin dal giorno del riconoscimento. Saputo infatti dell’arrivo di un tulku importante che fu discepolo di molti grandi Lama del monastero Sakyapa di Derghe Ganchen, folle di tibetani vennero a chiedere una benedizione affollando in silenzio anche il corridoio, sotto gli occhi increduli dei clienti cinesi. Accadrà molto spesso a ogni tappa del viaggio e il piccolo album di foto che Rimpoche portava con sé donato da vari praticanti occidentali con le sue immagini fu presto esaurito.

La presenza dei cinesi diventerà sempre più rara addentrandoci nel Tibet orientale a quel tempo ancora in parte incontaminato e senza troppi coloni, che erano raccolti solo nelle valli più miti, come i cercatori d’oro che incontravamo chinati con i loro setacci lungo i corsi d’acqua alla ricerca di pepite e sabbie aurifere.

Al termine della faticosa giornata cominciata con la prematura sveglia e finita con la stanza affollata, Rimpoche fu così gentile da raccontarmi una storiella che collegai all’uomo torinese in cerca di benedizione corporale, un nostro fratello né tibetano né più nemmeno occidentale. “C’era una volta un pipistrello che voleva far credere agli uccelli di essere della loro specie. Vedete? Ho le ali, vado su e giù e dove voglio. Gli uccelli lo credettero e lo fecero volare con loro. Un giorno incontra dei topi e dice: Vedete? Sono proprio come voi. Guardate il muso, i denti. Ma venne il tempo che gli uccelli e i topi si ritrovarono nello stesso luogo dove tutti si accorsero che non era né topo né uccello e lui restò solo”. “Ora dormiamo”. Rimpoche spense la luce e, prima di coricarsi, mi ricordò un impegno importante. “Domani bisogna cambiare soldi”.

Quella con la valuta era una delicata operazione in un paese dove gli stranieri possono usare solo i FEC – check emessi dal governo a tasso elevato – che sono pressoché sconosciuti nelle regioni dove ci saremmo recati, dove si usavano solo i remimbi o yuan. A Chengdu erano giunti da vari continenti l’americano Alex Siedlecki (intenzionato a fare un documentario e attuale direttore del Museo di Arcidosso) Ady della comunità greca, giunta da Atene solo per incontrare il Maestro, Keng e Cheh (oggi insegnante di yantra e istruttore del SMS) da Singapore. Keng e Cheh come vedremo ci raggiungeranno successivamente anche nel Derghe e la loro presenza a Chengdu si rivelò provvidenziale per le traduzioni con i membri della gang di cambiamoneta. Ci fecero attendere in una camera d’albergo la telefonata che annunciava l’arrivo del drappello di uomini con il contante infilato sotto le giacche e dentro le borse. Fumavano ed erano molto nervosi perché volevano approfittare di noi, ma finimmo per concludere una buona transazione anche se riuscirono a rifilarci anche un pacco di banconote false. I pacchi di yuan erano così tanti che Rimpoche li lanciò in aria gridando “siamo ricchi!”

Infatti, se non fossero stati destinati a tutte le donazioni fatte nei luoghi sacri e in quelli non proprio profani dei villaggi dove sarebbero sorte scuole e ospedali, avrebbe fatto ricca più di una famiglia tibetana per il resto della vita.

Verso l’altipiano

L’11 maggio, un mercoledì lasciammo il gruppo degli stranieri che non avevano potuto ottenere i permessi e iniziammo tra villaggi cinesi allora poverissimi il tragitto verso l’altipiano tibetano. C’era un blocco stradale all’inizio della prima strada d’accesso ai monti Qionglai e sostammo una notte nella cinese Ya‘an, dove il Maestro era già stato quando venne eletto come delegato dei monasteri del Tibet orientale per partecipare alla cerimonia d’inaugurazione dell’autostrada Chengdu Lhasa. Disse che a quel tempo l’idea di portare un pò di progresso a un paese isolato per millenni contagiava molti giovani e che anche il Dalai Lama tentava di ottenere un accordo con le autorità comuniste per una forma di sviluppo controllato, come quello che esporrà di nuovo molti decenni dopo nei suoi 5 punti di pace.

Mentre attendevamo inutilmente l’apertura della strada avevamo notato una vecchia contadina che vendeva uova sode da un cesto di vimini. Rimpoche ne comprò per tutta la comitiva e presto giunsero altre contadine senza la stessa fortuna perché rientrammo in città per attendere la riapertura del mattino. La vicenda delle uova fece tornare in mente al Maestro quello che era accaduto all’arrivo delle prime truppe cinesi nel Tibet orientale. “All’inizio i soldati erano molto gentili, per esempio compravano le uova a un prezzo anche superiore al loro valore e si facevano ben accogliere dalla gente aggiustando strade e pagando il cibo in preziosi yuan. Purtroppo quel periodo non durò a lungo e presto mostrarono un volto molto più duro e si fecero odiare da tanti”.

Attraversati i primi rilievi della catena tibetana giungemmo a Kanding dove Rimpoche aveva molte conoscenze tra i suoi ex studenti cinesi e tibetani degli anni ‘50. Prima degli incontri ufficiali, vennero a prenderci per andare alle terme d’acqua sulfurea dove da giovane il Maestro amava immergersi quasi ogni giorno tra una lezione e l’altra, un godimento unico per tutti noi. In quei giorni i professori della locale università organizzarono affollate conferenze e aiutarono a organizzare i nostri spostamenti nel “vero” Tibet. Il mattino della partenza, il 14 maggio, Rimpoche ebbe un sogno. Eravamo giunti in un paese di montagna dove la gente parlava una lingua sconosciuta. Io guidavo la vettura con la quale avevamo viaggiato fin lì e nel sogno immaginò di essersi allontanato a piedi dallo slargo dove eravamo posteggiati. Al ritorno non trovò più né l’auto né il gruppo e iniziò a cercarci chiedendo indicazioni ad alcune persone che però non lo capivano. A un certo punto imboccò un sentiero con diversi sipari e si ritrovò in un paese bellissimo. “Mi ero dimenticato di essermi perso” disse divertito.

Nella dimensione reale la jeep prese a salire tra panorami che mutavano radicalmente man mano che incontravamo le prime abitazioni in stile tibetano e i primi yak. Oltre la città di Garze già a maggioranza tibetana affronteremo il passo più alto di tutti, il Chola Shan. Rimpoche mi disse che per costruire quella strada che sfiora i 6.000 metri morirono molti operai sia cinesi che tibetani e ora molte delle risorse dal Tibet viaggiavano su autotreni attraverso quel serpente d’asfalto che vedremo snodarsi attraverso tornanti incantevoli e valli visibili sotto di noi attraverso larghi strapiombi.

C’erano tutti i segni della proliferazione di opere pubbliche sempre più mastodontiche e invasive che avrebbero snaturato per sempre il panorama tibetano e non facevamo che incontrare autotreni e camion con rimorchi carichi di legname specialmente di pino e abete sottratto a monte. Oggi tutti sappiamo gli effetti di quel disboscamento, comprese le alluvioni nelle città cinesi sempre più violente anche a causa dello scioglimento dei grandi ghiacciai per l’effetto serra.

Il Maestro osservava tutto con occhi severi e lungo il tragitto della nostra jeep carica di persone e bagagli mi raccontò una storia paradossale che era capitata ai vecchi amministratori locali di un villaggio del Derghe prima dell’occupazione. Disse che una compagnia famosa in Giappone per i suoi stuzzicadenti morbidi e resistenti aveva offerto di acquistare certi alberi della loro foresta per produrli in loco, utilizzando solo il nucleo del tronco e buttando il resto. Per fortuna i capi locali capirono che in cambio di qualche yen non valeva la pena distruggere un ambiente poi difficile da ricostruire. Ma da più di 60 anni ormai le decisioni non spettano più alle genti tibetane e gli scempi continuano.

La antica storia di Galenteen o Galingteng

Prima di raggiungere Galenteen dove avremmo fatto base per numerose spedizioni nelle aree più remote e sacre del pellegrinaggio, Rimpoche mi raccontò dello zio abate Khyentse Wangchuk, considerato reincarnazione del Maestro dei Maestri Chökyi Wangpo, entrambi tertön (scopritori di tesori spirituali nascosti) e yogi popolari in tutto il Tibet dell’Est e oltre. Restarono chiusi per anni in ritiro solitario in eremi e grotte su picchi che il Maestro mi indicava fermando l’auto per offrire kata in direzione dei luoghi dove ricevette da loro insegnamenti preziosi, e dove praticò a sua volta tra insenature nascoste delle montagne. Ci eravamo già inoltrati nel Derghe da qualche ora quando, all’altezza di un incrocio di tre vallate sormontate da vette impervie, offrì dei fiori gialli che crescevano in quella stagione e somigliavano a tulipani. Si rivolse a una montagna dalla punta arrotondata, dove – mi disse – praticò d’estate e d’inverno un altro zio, lo yogi Togden Ugyen Tendzin, che raggiunse lo stato del corpo di luce, a quanto pare lasciando con un palmo di naso le guardie comuniste che sorvegliavano la sua casa di ritiro.

Nella biografia del Togden magistralmente tradotta da Adriano Clemente ho ritrovato un dettaglio significativo per capire con quale determinazione questi maestri perseguissero la via dell’Ati. Conoscevo la leggenda di Milarepa che gettò il suo unico possedimento, una ciotola per mangiare le ortiche selvatiche, e Rimpoche racconterà ne “Il corpo di luce” la storia di quando una ricca famiglia locale offrì al Togden un abito di pelle di pecora foderata di pelliccia per i suoi gelidi eremitaggi e lui la barattò con una certa iscrizione sacra su pietra per la protezione degli esseri.

Quei luoghi impervi protetti talvolta solo da assi di legno erano per il giovane Norbu e lo zio anche palestre di Yantra yoga, che il Togden aveva appreso da Adzom Drugpa in quanto uno dei discepoli più vicini. Chi conosce la storia dei lignaggi sa che Drugpa è stata la precedente incarnazione di Namkhai Norbu. Proprio allo zio Togden furono affidati dal Lama morente lo scialle a strisce bianche e rosse, il campanello e il Vajra destinati al suo successore. Tentando di immaginare questo rapporto di Maestro e discepolo alternato attraverso numerose generazioni di saggi, osservavo in lontananza dalla strada i loro luoghi di ritiro ma non potevo capire – ignorando gran parte delle vicende rese pubbliche dal Maestro nelle sue dettagliate biografie – nemmeno il ruolo storico che svolsero al loro tempo questi lignaggi dei tulku di monasteri anche importanti, che rompevano apertamente regole imposte dalle proprie stesse amministrazioni. Molto yogi consapevoli delle degenerazioni causate dai soldi si rifiutavano di elargire a comando un tot di insegnamenti e benedizioni al giorno a monaci e devoti.

Comprendevo però appieno il privilegio di studiare con un praticante della via di autoliberazione discepolo diretto di questi tulku solitari, che spesso trasmettevano da bocca a orecchio le istruzioni solo ad uno studente. Devo premettere che mai una volta Rimpoche ha pronunciato per il mio solo udito mantra speciali, tranne l’invocazione di Manjushri “Om arapatza nadi hum phet” dopo che gli avevo chiesto come potessi aumentare la mia scarsa intelligenza. (“Puoi provare”, disse sorridendo). Ma lo stargli accanto, osservarlo nei suoi gesti ordinari e negli straordinari effetti dell’energia che trasmetteva attorno, era un insegnamento costante e non scritto. Durante le lunghe conversazioni in tibetano e cinese con gente comune, alti lama, funzionari politici e intellettuali, la sua voce era per le mie orecchie come un mantra che talvolta diventava una ninna nanna e mi appisolavo in pubblico, con grande imbarazzo di Rimpoche. A proposito di presenza nella contemplazione….

Ci fermammo in due tappe a Galenteen e non conoscevo la biografia del Khyentse già scritta due anni prima dal Maestro, poi da lui aggiornata e tradotta nel ’99 da Enrico dell’Angelo con il titolo La lampada che rischiara le menti ristrette. Scoprirò quindi solo più tardi il senso di molte cose che in quei giorni Rimpoche mi disse ma non capii, o non memorizzai subito nel bloc notes, ma sono tornate vivide grazie a esperti tibetologi come Enrico e Adriano Clemente che hanno trascritto con precisione le storie narrate loro dalla stessa fonte su quegli yogi fuori dal comune e sui luoghi dove nacquero.

Percepii comunque con tutti i sensi la devozione colorata e intensa dei cavalieri nomadi scesi nella strada provinciale da Galenteen a darci il benvenuto offrendo il primo impatto visivo con le genti delle valli isolate. C’erano uomini dall’aspetto primordiale abbigliati di pelli, volti colore di certe sabbie rosse degli altipiani e capelli cresciuti senza aver mai visto una spazzola e spesso neanche acqua. Ci cavalcavano al fianco fieri e felici come bambini gridando mantra propiziatori, agitavano e lanciavano nell’aria kata muovendosi di qua e di là sul dorso del loro animale come nei film degli indiani d’America, circondati di vette innevate e l’aria rarefatta come cristallo.

I nomadi del distretto di Changra dove lo zio abate costruì il monastero attorno al quale si svolge ancora oggi la vita religiosa dei suoi discepoli, avevano raggiunto la strada che collega la valle al capoluogo Derghe per dare ricevimento degno al celebre nipote del loro maestro, l’uomo che ha dato i natali a un altro successore del lignaggio, suo figlio Yeshe Silvano Namkhai, riconosciuto dallo stesso Karmapa come tulku di Khyentse Wangchuk. Yeshe visiterà il monastero e i villaggi molti anni dopo, accolto con festeggiamenti perfino più lunghi ed elaborati di quelli che Galenteen aveva organizzato per il periodo di permanenza del Maestro.

Nella ripida salita la nostra jeep guidata da un autista tibetano stupito a sua volta dell’accoglienza, i loro animali ci superarono in velocità con un corteo che sembrava non avere fine di uomini dai lunghi capelli intrecciati di corde rosse dell’etnia kham e di altri gruppi di ceppo tibetano. Sostammo in una radura verdissima dove un folto gruppo di monaci aveva acceso le erbe del sang e ci venne offerto un piatto di dolci e caramelle assieme al tè al burro che dividemmo con frotte di bambini accompagnati da donne abbigliate in abiti tradizionali con piccoli e grandi turchesi o altre pietre nei capelli. Finalmente raggiungemmo la prima destinazione del tempio nel cuore del villaggio a proposito del quale Rimpoche aveva avuto già due sogni durante il viaggio. Vide le iscrizioni originali, che ritroverà nella realtà, di molto anteriori a quelle delle tre tradizioni scolastiche Sakya, Kajugpa e Nymagpa che si erano alternate in quel luogo di pratica da almeno 11 secoli.

Galenteen o Galingteng venne fondato dal leggendario Lhalung Palgyi Dorje, discepolo diretto di Padmasambava, considerato un eroe perché uccise con uno stratagemma geniale il re Langdarma divenuto acerrimo nemico del buddhismo Vajrayana. Galing e la valle di Lhalung furono per molti anni il suo rifugio sicuro dai soldati del re che lo cercarono ovunque, e qui si dice ottenne in solitudine il corpo di luce.

Rimpoche mi raccontò i dettagli mentre attraversavamo la valle che prende il nome proprio da quel famoso discepolo del grande esorcista dell’ottavo secolo responsabile della diffusione del Buddhismo tantrico in Tibet e diventerà la base di alcuni dei progetti di ASIA. “Si dice che Palgy Dorje – spiegò – aveva imbrattato il suo cavallo bianco con del carbone e indossò un mantello nero a due facce per raggiungere l’accampamento del re nel Tibet occidentale. Appena scoccata la freccia al cuore del sovrano attraversò un fiume dove lavò il cavallo e ribaltò la giacca sfuggendo alle ricerche dei soldati che cercavano un cavaliere nero, dirigendosi poi proprio in questa valle”.

Visiteremo presto Lhalung, distante parecchie ore a cavallo dalla residenza dello zio Khyentse. La famiglia di Rimpoche ed io eravamo ospiti della casa su due piani con le finestre e i pavimenti in legno costruita mezzo secolo prima per l’abate che da lì si spostava in ritiro anche in località più vicine come quella di Giawo e altre, vicine ai luoghi dove visse Palgyi Dorje. Una di queste grotte o eremo fu visitata dal maestro nei giorni seguenti assieme a Cheh durante la sua permanenza a Galen. La casa residenziale del Khyentse era un alloggio semplice e come il resto del villaggio non aveva elettricità, così che dipendevamo da candele di fabbricazione cinese purtroppo di cattiva qualità che bruciavano di lato e in fretta lasciandoci presto al buio.

La parola Galen vuol dire “togliere la sella”, ma si riferisce anche alla sillaba del nome di famiglia di un altro saggio celeberrimo che vi si fermò all’inizio del XIV secolo di nome Ga Anyen Tampa, discepolo diretto di Sakya Pandita e maestro spirituale di un imperatore mongolo. Fu qui che Ga “tolse la sella” per fermarsi a lungo prima di tornare a corte. Ma è al discepolo di Padmasambava che si deve la nascita del gar, o luogo spirituale noto col suo nome, affidato per molti anni prima della rivoluzione alla guida del Khyentse che aveva predetto i fatti a venire a causa del clima di divisione che si andava creando tra gli stessi amministratori del suo labrang e in molte famiglie.

Nella stanza rivestita di legno con la stufa di terracotta della casa di Chokyi Wangchuk giunse – oltre a Cheh – anche il suo connazionale di Singapore Keng Leick (esistono suoi video su youtoube). Rimpoche sedeva spesso sul letto a parlare con noi continuando a preparare medicine e pillole di chudlen, oppure a lavorare le sciarpe kata e cordini di protezione che avrebbe distribuito alle centinaia di persone attese ogni giorno nella casa, sempre affollata per sentirlo parlare o ricevere benedizioni. Le kata sembravano prendere vita sotto le sue dita dopo averle intrecciate e autenticate con un mantra prima di distribuirle alla fila di persone in attesa. Molti ne chiedevano una anche per i figli (nelle zone nomadi ne avevano una media dai 3 ai 5), per gli yak o i cavalli, perfino per “proteggere” le nuove macchine che erano state inventate per cagliare più facilmente il latte.

Tranne la settimana di influenza che debilitò il maestro costringendolo a restare il più del tempo a letto, a Galenteen le giornate si susseguivano placidamente con visite di gente comune e autorità, insegnamenti del maestro ai nomadi e passeggiate lungo il fiume. Spesso mi recavo a ridosso del tempio dove gli abitanti avevano raccolto insieme le pietre scolpite coi volti delle divinità e le sillabe dei mantra che erano state rubate durate la rivoluzione culturale, un luogo di pace e silenzio. Il villaggio si animò alla vigilia di una grande cerimonia di iniziazione della Lunga Vita di Avalokitesvara e i prati attorno alla casa del Khyentse si riempirono di tende. C’era un affollamento mai visto prima e giunsero venditori ambulanti, yogi solitari, monaci e monache usciti dai loro ritiri e perfino un paio di camion, uno con l’accensione a manovella e l’altro carico di birre che vennero letteralmente saccheggiate.

Rimpoche preparò assieme alle protezioni centinaia di medicine del chülen da distribuire durante l’iniziazione e le autenticò. Al mattino successivo nell’area attorno alla tenda-gönpa che avrebbe ospitato gli officianti del rito giunsero altre centinaia di persone e ne potei calcolai a spanna più di 1.500 considerando che alla sera le pillole del chülen erano andate esaurite. Venivano da villaggi lontani anche tre giorni a cavallo, richiamati dalla notizia propagata in poco tempo di valle in valle della cerimonia nel luogo sacro del venerato Khyentse celebrata dal nipote prediletto. Presto cominciarono le danze di leoni delle nevi, i cori e canti tradizionali religiosi e – più popolari di tutte – le canzoni folcloristiche basate sulla vita del “Re Artù” tibetano, il principe Gesar considerato emanazione di Padmasambhava. Ne registrai alcune ma temo siano andate perse. Rimpoche ne conosceva diverse a memoria come tutti i bambini tibetani, ma crescendo ha riletto da studioso gran parte dei 50 volumi delle sue storie trascritte. Quella sua conoscenza dei canti e le danze tradizionali porterà per quanto credo alla contagiosa passione per la khaita.

Pensando alla gran quantità di materiale letterario e storico che aveva raccolto negli anni, quella sera Rimpoche mi parlò di una tecnologia che diventerà più sofisticata, pratica e diffusa vent’anni dopo. Avrebbe voluto catalogare e riprodurre in microfilm – disse – i tanti libri antichi ricevuti in dono e quelli della biblioteca Shang Shung di Merigar. Intuiva che presto sarebbe stata un’operazione più facile, come avverrà, non con le pellicole, ma grazie agli scanner dell’era digitale appena agli inizi. Al mattino, durante una danza delle maschere di Yamantaka per propiziare la classe di esseri Tsen signori celesti di Galen, giunsero diverse jeep con le autorità politiche del capoluogo Derghe, e non era appropriato proseguire con quella parte della cerimonia religiosa.

Il loro arrivo del resto era molto importante per il villaggio e furono invitati a una grande colazione sotto una delle tende più belle dell’accampamento. I boss dissero che avevano già discusso nel consiglio del distretto che comprendeva Colondon (o Korondo, nella Valle sacra di Lhalungar dove ci recheremo presto) le sue proposte di scuole, ospedali e servizi sociali per i nomadi e le avevano trovate “fantastiche”, come mi tradurrà soddisfatto Rimpoche confermando le aspettative del clima conviviale di quell’incontro al quale parteciparono i monaci e il capo del monastero.

Dopo una nuova serie di danze basate sul mito della rivalità tra un re buono e uno cattivo condotte dai monaci con impressionanti maschere di cartapesta, iniziò la cerimonia vera e propria e Rimpoche si cambiò d’abito per indossare le vesti rituali del suo zio Abate, come ho già raccontato. Finita la prima parte delle consacrazioni nella tenda-gompa sempre più circondata di persone, il locale lama che assisteva il maestro girò tra la folla toccando tutti sulla testa con l’immagine di Avalokiteshvara mentre i monaci distribuivano le pillole del chülen agli adulti. Lo stesso affollamento ci fu il giorno dopo anche se stavolta il rito era anticipato da una gara di cavalli, una vera passione popolare. Rimpoche era stato fatto salire su uno dei campioni che avrebbe poi vinto la prima corsa e l’eccitazione della gente attorno che voleva toccarlo lo fece imbizzarrire, per fortuna senza conseguenze. Il percorso delle gare passava sotto alla nostra finestra e ci furono anche una corsa podistica e una di biciclette, vecchi modelli cinesi pesanti. Infine si disputarono le finali con i cavalli vincenti. Alla fine Rimpoche conterà 7 vittorie dei cavalieri locali (sono famosi in tutta la regione disse) e due dei forestieri. “Qui c’è un’antica tradizione e i fantini sono molto forti” disse con orgoglio.

Nei giorni successivi il maestro decise di trasmettere a monaci e laici che ne fecero richiesta il “lung” del libro dei tun, le pratiche spirituali della comunità, e durante l’intera recitazione un vecchio lama che era contemporaneo del Khyentse mi tenne strette le mani sorridendo con gli occhi ammalati di cataratta. Nelle settimane precedenti, approfittando della permanenza di Cheh, Rimpoche fece insegnare ai presenti l’armonia del canto del Vajra e ai monaci gli 8 movimenti dello yantra, sebbene impacciati nei loro lunghi abiti religiosi. Al termine delle cerimonie e della festa per l’iniziazione di Avalokiteshvara Rimpoche trasmise a una cinquantina di anziani la pratica del Powa e al termine una vecchissima donna in lacrime gli dirà che prima di morire avrebbe voluto vedere a Galenteen suo figlio Yeshe, incarnazione di Khyense Wanghuk del quale era stata discepola fin da bambina. https://it.melong.com/il-tibet-di-chogyal-namkhai-norbu-parte-3/

Il Tibet di Chögyal Namkhai Norbu – Parte 4

Il mattino scelto per la partenza verso il luogo del celebre terma scoperto da Khyentse presso la roccia di Yedzong, era nuvoloso e prometteva pioggia. Sotto alla casa era già arrivato a prelevarci un gruppo di monaci e laici tra i quali molti dei cavalieri che avevano vinto le corse di galoppo. Dovevamo prendere la direzione nord verso la regione dello Qinghai e Rimpoche venne fatto salire su un cavallo dalle bardature eleganti mentre a me ne verrà offerto più d’uno lungo il tragitto, in una gara tra i nostri accompagnatori per dimostrarmi la supremazia delle loro cavalcature. A un trivio di mulattiere vedemmo per la prima volta la cima della montagna formata da una grande pietra bianca circondata di abeti dove si dice visse a lungo Lhalung Palgy Dorje, di fronte a un’altra vetta più bassa dove si recava spesso in ritiro lo zio Khyentse. Il maestro mi disse che erano luoghi sacri dell’azione di numerose divinità e avrebbe voluto costruire alla base di entrambe due residenze per i ritiri spirituali. Lungo il fiume vedemmo gruppi di cercatori d’oro cinesi che continuavano a rastrellare la sabbia sotto una pioggia che si fece incessante e ci fermammo a mangiare sotto una delle tende di un accampamento dei nomadi che nonostante l’acqua era riuscita ad accendere diversi bracieri per il cibo e il sang in onore del lama.

Attraversammo a cavallo parecchi fiumi e torrenti dove seguii i consigli del maestro di non sbilanciarmi e mantenere la presenza dell’acqua che scorre a valle per evitare un capitombolo. Dopo sette ore raggiungemmo la prima mèta, ai piedi della roccia sacra chiamata Yedzog o Badzong in una piccola valle nascosta da alcuni rilievi e nota come “Montagna del cappello interno”, dove un sogno delle dakini condusse Khyentse Wangchuk a scoprire il terma contenuto dentro un oggetto dalla forma di “uovo di gru” nascosto nelle rocce in un punto piuttosto alto. Rimpoche aveva partecipato nel lontano 1951 alla spedizione per il ritrovamento, dopo aver saputo dalla bocca dello zio i dettagli dei sogni (descritti nella biografia de La Lampada) e insistito per andarci insieme. Anche il nostro gruppo fu accompagnato da centinaia di persone che affollarono quel 15 di giugno la valle alla base della roccia, un’intera giornata di cavallo da Galen.

I monaci prepararono il nostro accampamento sotto la pioggia e fu difficile vedere la forma delle cime delle montagne proprio sopra di noi. Fummo ospitati nel frattempo dentro le tende dei nomadi circondate da mandrie muggenti di yak e monaci ai quali il maestro insegno’ i rituali che avrebbe eseguito il giorno dopo nel luogo del terma. A sera la nostra tenda fu pronta e potemmo dormire, nonostante la tempesta incessante, sui giacigli di frasche che isolavano dal suolo bagnato i nostri materassi fatti con i tappeti delle selle. Provavo un senso di enorme gratitudine per quell’ospitalità e la calda giacca di pecora di cui si era privato uno di loro. Dissi al maestro che avevo pena per i nostri accompagnatori sdraiati sulla nuda terra all’ingresso della tenda con un solo tappeto e una coperta. Rimpoche disse che si trattava di gente molto forte e devota e che sarebbero rimasti tutta la notte a proteggerci dai cani e dagli animali selvaggi.

Mi spiegò quella sera che sopra di noi, come vedrò meglio con la luce del giorno, c’era una grotta visitata e “potenziata” da Guru Rimpoche (Padmasambhava) e – di fronte – il luogo del terma indicato dalle dakini a suo zio nel sogno come il Palazzo delle Tre Radici. Disse che aveva nella parte superiore la forma di una lettera A tibetana e all’interno una striscia di roccia bianca luminosa dove era celato il contenitore con cinque cicli di istruzioni segrete.

Ignoravo in gran parte il significato profondo di quelle informazioni ma chiesi al maestro come potevo connettermi all’energia di quei luoghi, e predisporre la mia mente a percepirne la natura divina. Mi disse di rilassarmi e restare all’ascolto in silenzio lasciando i pensieri svanire da dove vengono. Come ho già scritto nel primo resoconto del viaggio, restai in una veglia vigile dove ogni suono sembrava trasformarsi in mantra: la pioggia che batteva sulla tela della tenda e sul terreno molle, lo scorrere del fiume sotto di noi, i tuoni lontani, i campanelli dei cavalli legati e quelli liberi nel pascolo, il respiro regolare del maestro che si era addormentato e quella notte sogno’ – come mi disse – l’”energia delle guardie locali”.
Al mattino la pioggia era cessata e il maestro, dopo aver scritto due pagine di appunti sul sogno del quale non mi parlo’ come solitamente fece in altre occasioni, salì con un gruppo dei nostri accompagnatori nel punto più vicino alla roccia dove suo zio scoprì il terma di Yedzong. Nei miei appunti parlo della mia tristezza per aver già perso quel frammento di stato contemplativo seguito al consiglio di Rimpoche. La magia della notte era passata e una pioggia fitta batteva sulla tenda dove ero rimasto da solo a osservare i miei pensieri. A farmi uscire all’aperto fu l’odore sempre inebriante del sang e il suono di corni cimbali e tamburi che annunciavano alle “guardie” locali l’arrivo del maestro nel luogo del terma scoperto 37 anni prima da suo zio alla presenza di una moltitudine di tibetani. La voce della presenza di Rimpoche, che in quel momento si trovava all’altezza della grotta circondata di bandierine tibetane sotto al luogo terma, si era sparsa negli accampamenti di tende nomadi del circondario e molti giunsero anche quel giorno piovoso di giugno. Conoscevano la fama del luogo e il ruolo che ebbe nel ritrovamento un Norbu 13enne, entusiasta di poter partecipare a una spedizione così importante con il venerato fratello di sua madre. Lo zio gli aveva mostrato anche i rotoli con le sillabe ricevute in sogno, le stesse ritrovate dentro la roccia nel contenitore lucente e ovale dove era preservato il testo che successivamente svanì. La scomparsa avvenne nel piccolo altare dentro la stanza del Khyentse, la stessa dove avevo dormito molte notti, ignaro dei fatti, in un lettino di fianco a Rimpoche. “Mio zio disse che furono le dakini a decidere di non rivelare il contenuto perché i tempi non erano maturi e c’era troppa turbolenza nell’energia dei luoghi e della gente”.

La mattina della prevista partenza per la grotta dove visse in ritiro Lhalun Palgyi Dorje sembrava addirittura più piovosa delle precedenti ed ero un po’ preoccupato. Rimpoche prese allora le due pagine di appunti scritte all’alba e condusse da solo con il supporto di un monaco un rito alle “guardie” locali, le stesse sognate evidentemente la notte precedente. Quando al termine diede l’ordine alla carovana di procedere la pioggia non era ancora finita e il maestro decise di non raggiungere la vetta di Lhalung, ma promise che avremmo visto presto un altro luogo speciale. C’era solo il problema di un cavallo che aveva una pietra nello zoccolo e assistemmo alla delicata opera di estrazione con un coltello mentre l’animale veniva legato per non farlo muovere. “I nomadi amano i loro cavalli come membri della famiglia” commento’ il maestro.

Finalmente il tempo miglioro’ e attraversammo un panorama di boschi incantato e pieno di odori intensi di piante selvatiche finché i cavalli non presero a correre attratti dalla vasta pianura che cominciava a distendersi davanti a noi. Era la Valle di Lhalung dove gli antichi re del Derghe fino ai tempi della rivoluzione venivano a passare i mesi d’estate attratti dalla sua rara bellezza e dalle gare equestri senza paragoni. “Il posto più bello del regno”, disse uno di loro, come mi racconto’ Rimpoche. Quattro o cinque giovani si esibirono in una gara cavalcando le loro bestie a pelo con acrobazie degne di stupire chiunque. Dormimmo in una tenda a ridosso del bosco e dopo la visita a una famiglia che offrì la colazione, Rimpoche recito’ dei mantra alla base delle rocce che stavamo per scalare attraverso un terreno fangoso e sotto una pioggia più leggera ma insistente. Giunti in cima il sole apparve tra le nuvole e illumino’ la valle sacra di Lhalung e – davanti a noi ben visibile – la montagna di Lhalung Palgyi in cima alla quale c’era un grande abete circondato da un prato fiorito come l’intera distesa d’erba più sotto.

Al ritorno in discesa i cavalli scivolavano nel fango e il sentiero era stretto, notammo attorno una pianta di rabarbaro e un prato di erbe regpà – se ho trascritto bene – un incrocio tra cipolla e aglio. Qui Rimpoche indico’ uno dei luoghi di ritiro perché – disse – vi aveva scoperto i resti di un tempio Bon con dei mantra scolpiti, e avrebbe voluto permettere a dei monaci di questa importante religione pre-buddhista di praticare i loro “protettori”, che sono stati in gran parte integrati da maestri come Padmasambhava e i suoi discepoli nel pantheon del Buddhismo Vajrayana.

Nelle istruzioni che mi dettò quel giorno – riportate in dettaglio nel libretto “In Tibet” pubblicato al termine del viaggio – c’erano alcune indicazioni storiche e mistiche sul luogo noto come Paese di Suko nella Valle del Su (potrebbero essere solo trascrizioni fonetiche), a un’altezza di 3800 metri. L’intera regione – disse – era nota come Paese Waja, o Continente della stirpe Waja, al cui centro si trovava Galen. La montagna dove si rifugio’ Lhalung Palgyi dopo l’assassinio del re era consacrata a Vajrapani, la divinità originaria, a Manjushri e Vajrapani nelle loro manifestazioni pacifiche e feroci. In una grotta di questo rilievo lo yogi ottenne il corpo di luce, lo stesso luogo dove Khyentse Wangchuck scoprì l’immagine di Vajrapani che – dopo la scomparsa del terma di Yedzong – dono’ per sicurezza al nipote Norbu.

Altri rilievi e valli più piccole attorno a noi avevano nomi esotici come le due principali, la Valle del Sole e la Valle del Cielo. Una era chiamata “la foresta delle sentinelle” dalla forma triangolare “di un’aquila che plana”, un’altra la “Montagna della Valle del cielo” formata da piccoli sassi rotondi, un’altra più semplicemente “Il Belvedere”, la cui forma – mi fece scrivere il maestro – “rappresenta l’ottenimento dell’azione di potere” e vorrebbe costruire qui un collegio di studi e pratica da chiamare Odzel o della Luce raggiante per 25 persone. Presso i ruscelli dove l’acqua fredda si unisce alle sorgenti calde del sottosuolo Rimpoche pensa di finanziare una turbina per fornire elettricità al collegio e ai nomadi così che non geli d’inverno, una delle varie opere pubbliche che nella sua idea integreranno scuole religiose e classi per i figli dei pastori. “Ora crescono come alberi”, disse il maestro, “senza alcuna educazione”.

Negli appunti i progetti trascritti sono molti e non so quanti abbiano trovato realizzazione visti i limiti d’intervento imposti dalle autorità specialmente nei momenti di maggiore tensione politica. Nella Valle del Sole ad esempio il maestro voleva creare una casa di ritiro per 4 soli praticanti dello dzogchen da istruire alle pratiche del trechod e todgal in quel luogo solitario e generalmente assolato dove abbondano acqua e legna. Vicino all’eremo dove lo zio pratico’ le manifestazioni pacifiche e feroci avrebbe voluto creare un altro luogo di ritiro per altri 4 praticanti del chod, mentre vicino alla residenza estiva dei re pensava di riaprire un monastero di monache già esistente ai tempi di Lhalun Palgyi e ormai completamente distrutto. Tutte le nuove strutture avrebbero dovuto far parte – spiego’ – del Collegio di pratica disseminato ai margini della “Valle più bella del Derghe”.

Rientrammo a Galenteen completamente bagnati e senza forze. Dimenticai la candela accesa e mi sveglio’ il bagliore della fiamma che sfrigolava nella cera squagliata. “Candele cinesi” commento’ Rimpoche prima di addormentarsi. Al mattino mi recai a lavare i nostri panni nel fiume e al ritorno trovai centinaia di piccoli nastri preparati dal maestro che era già intento a riparare il Namkha di un nomade che si era rotto. Restai a osservarlo a lungo per la maestria con cui muoveva sempre le mani finché non giunsero, per chiedere uno di questi nastri di “protezione”, due boss funzionari locali che offrirono una donazione di 10 yuan, circa un dollaro e mezzo.

Il mattino successivo, era il 20 giugno, Rimpoche si fece portare carta e penna e scrisse senza interruzione un’invocazione a Lhalung Palgyi Dorje e la storia del monastero di Galen come l’aveva ricevuto più volte in sogno durante il viaggio, prima ancora di entrare nel territorio del Tibet.

Fu dopo l’iniziazione di Avalokitesvara della quale ho già parlato che partimmo per un’altra spedizione importante alle origini del lignaggio di famiglie che hanno fatto la storia di queste regioni fin da tempi remoti. Stavamo per recarci nella loro culla, l’antico regno dei Wagmo dove ebbe i natali il maestro discendente da uno dei rami di questa stirpe aristcratica, in una località nota come Geug. Ma prima devo introdurre persone e luoghi, sempre grazie a La Lampada e alla biografia del maestro su Ugyen Tendzin, a sua volta vissuto in lunghi ritiri negli stessi eremi e grotte di Lhalungar.

Il continente degli Wango

La parola Wa di Wangpo e Wangchuk, nel dialetto locale significa “la gobba” (notai divertito l’analogia col soprannome dato a tutti i parenti del mio nonno materno di “paggioni”) e derivava dal nome dato al rampollo di una famiglia chiamata Wamgo Tsan originaria di un piccolo borgo – dove poi sorse Geug – con tre sole persone, una coppia e la loro figlia che coltivavano la terra e allevavano capre. E’ una storia lunga raccontata ne La Lampada ma per farla breve dalla figlia nacque un bambino dalle doti di forza e intelligenza sovrannaturali, tanto che lo chiamarono Wamgo figlio divino. Aveva una piccola gobba sulla nuca e venne mitizzato per aver sconfitto armate tibetane nemiche e mongoli, ottenendo in dono dai re del Derghe la valle di Geug per sé e i suoi discendenti, pratica interrotta dall’occupazione cinese.

È tra questi eredi degli Wamgo che nacque – come predetto prima di morire da Chokyi Wangpo – lo zio Khyentse, nella stessa valle nascosta tra le vette della catena di monti a strapiombo sul fiume Yangtse che fu culla di numerosi maestri compreso Namkhai Norbu. Quando giunse il giorno della partenza per il villaggio di Geug il maestro era ancora indisposto con i postumi dell’influenza che lo avevano tenuto chiuso parecchi giorni nella stanza di Galenteen, mitigata da una cerimonia del sang per le “guardie” locali che condusse lui stesso. Disse che molte negatività del passato ancora pesavano su tutta quell’area, dove perfino famiglie di devoti furono impossessate di fervore rivoluzionario e costrinsero lo zio Khyentse – che accetto’ senza battere ciglio – e la sua sorella maggiore Jamyang Chodron, una rinomata poetessa allevata alla corte del re, discepola come visto di Khyentse Wangchuck e altri grandi maestri, a torture come dover bere l’urina dei “rivoluzionari”. Jamyang passo’ 20 anni in gran parte a lavori forzati e routine di pulizia delle celle in condizioni indicibili tra il ’59 e il ’79 (Rimpoche la incontrerà credo nel 1982 raccogliendo sue sconvolgenti testimonianze riferite ne La Lampada). Invece Sonam Palmo – mi racc0nto’ il maestro – “era stata più fortunata perché le avevano assegnato maiali e polli da allevare e li moltiplicò in quantità soddisfacente per i cinesi, che in cambio le fecero la vita meno dura”. Anche a Lhasa dove si trasferì anni dopo le sue rendite venivano dagli allevamenti, in particolare di mucche.

Un giorno Rimpoche mi indico’ tra gli abitanti che si affollavano attorno alla casa due anziane che si tenevano a distanza e sembravano non avere il coraggio di avvicinarsi. Riconobbi le donne che spesso mi seguivano durante le passeggiate e meditazioni attorno al luogo dove la gente del posto aveva raccolto una gran quantità di pietre scolpite con figure di maestri e divinità tra le quali sventolavano lungta scolorite dal vento. Un giorno – dopo molti tentativi precedenti e timorosi – si avvicinarono così tanto che toccai le loro teste per allontanarle e raccontai l’episodio al maestro che non ne fu affatto contento. “Quelle donne così pie furono due delle peggiori aguzzine tra gli attivisti. Avevano ricevuto numerosi insegnamenti e iniziazioni da mio zio, poi lo perseguitarono per salvare sé stesse e fecero lo stesso con molti altri praticanti. Mia sorella fu uno di loro, e non accetto’ di perdonarle quando anni dopo torno’ a Galenteen e le trovo’ imploranti ed emarginate dall’intera comunità”. “Sanno che a me non possono avvicinarsi – aggiunse – Noi non possiamo fare niente per loro perché non si cambia con un nostro perdono il karma di aver infranto in questo modo il rapporto sacro di samaya col proprio maestro. Non credo che serva niente se tu tocchi la testa, solo a farle credere che in qualche modo hanno avuto un contatto con qualcuno della famiglia delle loro vittime”. Fu uno dei pochi rimbrotti diretti che ho ricevuto, ma ho conosciuto abbastanza il volto severo di Rimpoche da non invidiare Fabio Andrico, suo più assiduo accompagnatore in giro per il mondo. Va da sé che si tratto’ soprattutto di prove di presenza al cospetto di un maestro di vita esigente con i suoi studenti come con i suoi stessi figli.

Spedizione da Galenteen a Geug (Gheogh)

Fui dispiaciuto che Rimpoche non fosse con noi nel gruppo dei parenti in visita ai familiari superstiti di Geug, ormai semi-isolati dal resto del mondo. L’influenza era riaffiorata e gli fu consigliato di accettare l’ospitalità e le cure dei suoi familiari nella valle subito al di là del fiume Yangtse, in territorio del Tibet centrale. Dopo un trasferimento in auto fino al confine tra Tibet orientale e Tibet centrale il maestro proseguì quindi assieme a Phuntsok oltre il ponte sul grande fiume in quel tratto non ancora al massimo dell’estensione che avrà più a valle. Sarà Sonam Palmo a guidare me e la carovana di parenti e conoscenti saliti a piedi o a dorso di cavalli e muli lungo ripidi sentieri pietrosi che ci porterà – senza di lui – al suo villaggio d’origine. Appena scesi di cavallo Sonam Palmo mi tenne le mani senza parole se non quelle dei suoi sentimenti di nostalgia più volte manifestati nell’emozionante immersione nei luoghi della propria infanzia e di quella del fratello tulku. Furono anche per me due giorni intensi di meraviglia e tristezza in quell’avamposto umano abbarbicato sulla montagna con una storia così ricca di figure ormai leggendarie anche se realmente esistite e di miracoli raccontati di bocca in bocca, fino all’epoca di quelle tragedie che furono l’occupazione e la follia della rivoluzione culturale.

Ormai prossimi al villaggio Sonam Palmo mi indicò una roccia arrotondata come un cranio bianco spuntato tra boschi di abeti che non avevano conosciuto ancora le motoseghe cinesi e formavano una massa scura e uniforme alla base della vetta. La gente del posto riponeva incrollabile devozione in quel posto della “guardia” Godrang e Sonam lanciò assieme agli altri del nostro gruppo sciarpe augurali gridando invocazioni prima di riprendere il cammino con i cavalli sempre più stanchi. Mi offrii di proseguire a piedi visto che ero il più pesante di tutti, ma non potei percorrere che poche centinaia di metri per via dell’altitudine superiore a quella di Galenteen che rendeva la salita ancora più impervia.

Giunti poco prima del borgo Sonam Palmo fece fermare i cavalli per indicarmi un posto particolare, certa che potevo capire. “Rimpoche” si limito’ a dire indicando sé stessa e con la mano a circolo l’ampio perimetro con poche pietre rimaste di quella che era la loro casa di famiglia, nota nella zona come la casa dei Norsang. Erano ancora visibili tratti di muro non più alti di venti centimetri e ovunque l’erba da pascolo li ricopriva. C’erano due ruderi con i mattoni più alti, davanti a uno di questi Sonam Palmo mi fece capire prostrandosi che era il luogo esatto dove la loro madre Yeshe Chodron aveva dato alla luce il piccolo tulku. “Rimpoche” disse ancora Sonam Palmo facendo il gesto del cullare un bebè. Poi si asciugò una lacrima di commozione e prese dal taschino della chugkpa una scatolina di tabacco che amava sniffare, una volta tanto senza i rimbrotti del fratello che la disapprovava.

Incontrammo numerosi eredi delle famiglie che videro nascere il maestro e ricordavano le storie delle nascite miracolose dello zio e del suo predecessore Chokyi Wangpo, tutti collegati al lato materno del lignaggio. Ma erano ancora in vita i testimoni dell’arrivo a Geug dello zio paterno Togden Ugyen con l’annuncio che quel bambino era la reincarnazione del suo maestro Adzam Drugpa, morto un anno e mezzo prima lasciando indicazioni che corrispondevano alle caratteristiche del figlio dei suoi parenti da parte di padre. Drugpa gli era anche apparso in sogno, disse, proprio nella casa dei Norsang, e dopo essersi prostrato il Togden lo vide rimpicciolire nel corpo di Yeshe Chodron. Fu lui – lo yogi passato alla storia per la realizzazione del corpo di arcobaleno – a riferire nelle sue memorie raccolte da Rimpoche la fioritura in quel freddo dicembre della pianta di rosa canina, considerata ancora una vera reliquia dagli abitanti di Geug in gran parte imparentati con i Norsang. Sonam Palmo me la fece notare a ridosso dei resti della ex dimora e potei fotografarla nella sua stagione di fioritura naturale di fine maggio.

In una delle poche case del borgo viveva la famiglia estesa dei figli di uno zio che venne ucciso dai burtsonpa fanatici perché era un “latifondista”. Uno di questi cugini del maestro viveva da allora paralizzato con disturbi psichici e non mi fu permesso di visitarlo per timore che si agitasse alla presenza di un estraneo, ma vidi Sonam Palmo tornare dalla visita con gli occhi umidi, come le accadrà spesso in quei giorni che furono per lei un tuffo dentro ricordi straordinari e intensa sofferenza. Con commozione struggente abbraccio’ un altro cugino, un uomo più anziano di lei e malfermo sulle gambe che non vedeva dai giorni terribili della rivoluzione. Con lui – una delle ormai poche persone che ricordavano i giorni della nascita e del riconoscimento da parte dello zio – passeremo molte ore a camminare nei prati fioriti con i suoi nipotini che correvano all’impazzata e poi tornavano di tanto in tanto ad abbracciare le gambe del vecchio nonno posando per la macchina fotografica.
Nella stanza dove eravamo ospiti stesero a terra per noi due stuoie dove passammo la notte e al mattino visitammo la parte alta del villaggio dalla quale si poteva vedere chiaramente la montagna guardiana di Godrang. Il cielo alternava sole e nubi scure e con coincidenza sospetta l’acqua scendeva con grossi chicchi di grandine ogni volta che per fotografarla tiravo fuori la videocamera affidatami dal maestro, finché a un certo punto Sonam Palmo mi fece segno di offrire il mio rispetto e chiudere la camera in borsa. La pioggia pesante cessò.
Rimpoché lasciò Geug già all’età di 5 anni dopo essere stato riconosciuto da molti altri maestri tra i quali il Karmapa che lo ritenne una delle tre incarnazioni del Dharmaraja bhutanese, (lo Shabdrung). Andò a studiare nel castello del re di Derghe che gli impedì di andare in Bhutan per i rischi che poteva correre in un paese dove la “guerra dei tulku” e la situazione politica potevano assumere risvolti pericolosi, visto che due predecessori erano già stati uccisi in passato. Anche la famiglia si trasferì presto a valle poco al di là del fiume Yangtse che a quel tempo divideva – a est del Fiume Azzurro – la parte sotto controllo cinese da quella occidentale rimasta sotto l’amministrazione tibetana di Lhasa, quindi del Dalai lama. È qui, nel villaggio di Kuantò (spelling fonetico) che ci riunimmo con il maestro e Puntsok, rimasta ad assisterlo e curarlo assieme agli altri parenti da una fortissima tosse ormai quasi passata.
Si concludono così le due parti del viaggio dedicate ai maestri che furono anche parenti di Norbu Rimpoche. Addentrandoci a cavallo nelle valli prive di strade percorribili in direzione del capoluogo Qamdo o Chamdo (dentro la cosiddetta “Regione autonoma”) deviammo ancora più all’interno verso il villaggio di Changchub Dorje a Khamdogar. Spero di potere presto descrivere questa esperienza che mi porto’ a conoscere la comunità di contadini-yogi creata dal maestro del maestro del quale vidi il corpo conservato sotto sale prima della consacrazione degli stupa che conterranno le reliquie. Qui mi limiterò a trascrivere un passo da uno dei canti poetici più belli composti da Rimpoche per quei discepoli del suo guru radice, praticanti dalle conoscenze già profonde dello dzogchen.

L’esperienza è come il fiore d’estate nella pianura;
non lasciarti ingannare da bellezza e colore.
Ogni cosa è retta dall’umido calore,
simile allo stato del rigpa
diverse le forme diversi i colori
unico il calore che tutto governa”.

Possa il racconto di questo viaggio essere di beneficio a chi legge.

Nota del redattore: la poesia è tratta da Advice for Three Students of My Master ed è la terza canzone Advice to Lama Pema Loden, Shang Shung Publications. https://it.melong.com/il-tibet-di-chogyal-namkhai-norbu-part-4/

Il Tibet di Chögyal Namkhai Norbu – Parte 5

Raimondo Bultrini continua il suo viaggio con Chögyal Namkhai Norbu nel 1988 che ha come destinazione il villaggio natale del Maestro Radice di Rinpoche, Rigzin Changchub Dorje.

Le puntate precedenti pubblicate sul Mirror del viaggio compiuto accompagnando Choegyal Namkhai Norbu Rinpoche in Tibet nel 1988, erano una sintesi dei diari e dei testi elaborati nei mesi e anni successivi al nostro ritorno in Occidente. Questa e le altre puntate sono invece la trascrizione più o meno esatta del lungo racconto inedito trascritto al termine di una delle tappe più significative di quel pellegrinaggio a Khamdogar, o Nyaglagar, il villaggio dove visse negli ultimi decenni della sua lunga vita il maestro radice di Namkhai Norbu, il grande yogi Changchub Dorje (1826-1961?).

Fu studente di Adzam Drugpa (consederato la reincarnazione precedente di Norbu Rinpoche), di Nyagla Pema Düddul, Shardz Tashi Gyaltsen, e Drubwang Shakya Shri. Secondo un testo che Nina Robinson ha scritto su Namkhai Norbu, https://melong.com/our-masters-masters-rigdzin-changchub-dorje/, Changchub Dorje “nacque nel villaggio Dhakhe, nel distretto Nyagrong, nel sud-est del Kham. Sua madre, Bochung (bo chung), era originaria del Dege e fu discepola di Gyalwa Changchub (rgyal ba byang chub), uno yogi del Khrom, di alta realizzazione. Fondò una comunità di praticanti per lo più laici in una remota valle del Konjo, nella parte orientale del Dege. Era conosciuta, e lo è tutt’ora, come Nyaglagar, o Khamdogar. Fu nel 1955 che Chögyal Namkhai Norbu incontrò Rigdzin Changchub Dorje, in seguito ad un sogno.

La prima volta che incontrai il mio Maestro Changchub Dorje – parole di Norbu Rinpoche – fui letteralmente sorpreso del suo aspetto e di come viveva, simile a quella di un qualunque contadino. Indossava abiti di pelle di pecora molto spessi e pantaloni di pelle di pecora grandi e spessi perché in quel paese faceva freddo. Fino ad allora avevo conosciuto solo maestri vestiti molto elegantemente. Non avevo mai visto o incontrato maestri che avevano quell’aspetto. L’unica differenza nel suo aspetto rispetto a un normale uomo del villaggio era che aveva i capelli lunghi raccolti in cima alla testa, e indossava orecchini e una collana di conchiglie.”

Il mio racconto dei giorni passati insieme a Rinpoche 33 anni dopo quella sua straordinaria esperienza a Nyaglagar è rimasto a lungo in un cassetto per il mio timore – non ancora sopito – di imprecisioni e superficialità nel descrivere l’intensità e profondità del rapporto tra Rinpoche e il maestro che lo introdusse allo Dzogchen, e la straordinarietà di un luogo remoto del Tibet letteralmente trasformato da Rigzin Changchub Dorje in una comunità di praticanti credo unica al mondo. Il mio tentativo è stato quello di descrivere fatti e circostanze con la semplicità di un cronista, la mia professione per decenni, e mi attribuisco ogni errore di interpretazione delle stesse spiegazioni ricevute da Chögyal Namkhai Norbu in quei giorni e mesi di straordinario percorso a ritroso nel tempo.

Raggiunta finalmente la strada nazionale, un giovane accompagnatore mi offre la sua bicicletta per arrivare al villaggio di Kuantò dall’altra parte del fiume. C’é da attraversare un posto di blocco sul ponte che separa il Sichuan dalla regione autonoma. Un soldato tibetano con un vecchio mitra in spalla guarda il mio passaporto e il permesso , mentre intorno a noi si forma un gruppetto di curiosi. II ponte è abbastanza lungo e su entrambi i lati ci sono garitte militari che sembrano vuote.

Si arriva in poco tempo a Kuantò dove – come al solito – le case cinesi sono isolate e cinte da cancelli, e quelle tibetane allineate una accanto all’ altra lungo le rive del fiume.

Passando in mezzo alla solita folla curiosa, tra stradine fangose e tratti di villaggio dall’aspetto africano, arriviamo nella casa che ha ospitato in questi due giorni Rinpoche e Puntsok. Namkhai Norbu è ancora malato, la tosse gli impedisce quasi di respirare. Io invece adesso mi sento bene, forte e finalmente un po’ tranquillo. É l’idea stessa di trovarmi in viaggio, l’attesa di raggiungere un luogo di cui non immagino nemmeno i contorni a eccitare la mente e il corpo. Forse il continuo movimento fisico impedisce ai pensieri di raccogliersi troppo a lungo sullo stesso punto, sull’ansia di vivere che non sono riuscito a sciogliere nelle mie faticose meditazioni.

Spero di potermi lavare nel fiume, ma devo rinunciare anche stavolta perché c’é poco tempo. É già quasi un mese che non faccio un bagno completo, anche se a queste quote le conseguenze non sono poi per fortuna così terribili. Ripartiamo il giorno dopo l’arrivo attraversando paesaggi di valli strette come ferite nei fianchi dei monti fino a quando non si aprono quasi all’improvviso pianure sconfinate che finiscono con catene nevose. Stiamo viaggiando ormai sopra i 5000 metri sul passo del No—là, dove spiccano nella neve le tende nere dei nomadi. Namkhai Norbu racconta di aver attraversato molte volte questo passo, ma in ben altre condizioni, con giorni e giorni di cammino a cavallo.

Scendendo sull’altro versante l’inverno sembra finire all’improvviso, ma tra i colori dell’erba primaverile spiccano ancora chiazze di neve e ghiaccio. Proprio dal bianco di una campagna gelata si stagliano le figure di due uomini che camminano facendo prostrazioni. Vanno a Lhasa, e arriveranno distrutti, allo stremo delle forze, se saranno in grado di resistere.

Perché lo fanno? L’unica cosa certa è che la fede è più forte della loro stessa vita. Hanno l’intenzione di arrivare nella città santa, e s’inginocchiano pregando su ogni sasso della strada. Per loro ogni metro in più sulla via è un offerta alle divinità, ai maestri, all’Insegnamento. Nessun conforto materiale, un’auto per arrivare prima, ricchezze, niente importante della purificazione di un viaggio così sacro e sofferto. Meta finale è la realizzazione.

Chiedo al Maestro se questo sacrificio servirà davvero a qualcosa. “Con un’intenzione così forte – risponde – otterranno senz’altro ciò che vogliono”. Resto a lungo in silenzio mentre vedo scomparire in lontananza i due pellegrini che ora sono fermi a osservarci. Anche io – nonostante le diverse tappe del percorso sto andando a Lhasa. Ma c’è una bella differenza tra il loro travagliato cammino e il mio facile viaggio a bordo di jeep e aerei.

Gli animali degli altipiani

Attraversiamo il capoluogo, Jonda, dove vivono molti cinesi. E altri ne incontriamo ammassati sui camion, diretti verso qualche cava, o lungo la strada in costruzione. Bastano pochi chilometri dal capoluogo per non incontrare più anima viva. L’erba diventa color verde muschio e la terra è rossa. Sembrano i colori di una savana, solo più intensi, mentre il posto dell’uomo è preso da ogni sorta di animali selvaggi.

A cento metri da noi corre un lupo, che si ferma quando blocchiamo la jeep per fotografarlo. Ci osserva pochi secondi poi scarta e fugge. Due enormi avvoltoi si alzano in volo mentre ovunque, da una buca all’altra del terreno, corrono i piccoli avra, specie di topi che spesso trasportano sul dorso minuscoli uccelli, gli atakayu. Quando gli avra entrano nelle buche, l’uccello cade.

Osservo la scena con la sensazione che possa nascondere un significato. Restando presenti, attimo dopo attimo, possiamo cavalcare il tempo, senza rincorrerlo né anticiparlo. Ogni distrazione di indugio nei ricordi, di speranza o paura per il futuro, ci fa seguire la sorte di questo minuscolo uccello.

Gli avra hanno anche un altra caratteristica utilizzata dai tibetani per i loro simbolici aneddoti morali. Questo topo accumula infatti in estate molta paglia per cibarsi nella stagione fredda, e con grande fatica ne ammucchia in quantità enormi rispetto alle sue dimensioni. Spesso, però, altri animali più grandi, scoperte le tane, con pochi bocconi divorano tutte le sue riserve. Il piccolo roditore rappresenta così l’inutilità dello sforzo di accumulare ricchezze per sé stessi con cupidigia quando il caso può toglierci tutto.

Infine gli avra – che vivono in perfetta simbiosi con gli atakayu, tanto da farsi addirittura trasportare in volo se necessario sono anche famosi per la rete delle loro gallerie simili a quelle delle talpe. Ci sono zone tanto infestate dagli avra da restarne completamente brulle.

Ma i veri padroni di questi luoghi sembrano in realtà i corvi. Ce ne sono ovunque, grandissimi. Anche questi uccelli hanno per i tibetani un altro significato simbolico oltre quello apparente: sono la manifestazione della protettrice 
Ekajati, un entità femminile che tutela l’Insegnamento volando circondata da fiamme da un punto all’altro del cielo. Ha un occhio solo che simboleggia la visione non duale, e per avere un idea della sua forma i tibetani adornano gli altari con le piume di pavone: l’occhio è il cerchio colorato e concentrico.

I pochi nomadi che incontriamo hanno l’aspetto selvaggio. I capelli delle donne e dei bambini sono lunghi e dritti, rivolti in ogni direzione, mentre la pelle ha il colore rosso della terra. Dopo una mezza giornata di viaggio in jeep raggiungiamo un villaggio di semi nomadi che vivono in case di pietra rossa al termine della strada battuta.

Un uomo dai capelli lunghi raccolti ordinatamente sulla nuca ci viene incontro per accompagnarci, austero, verso una tenda bianca dai disegni ricamati, dove gruppi di monaci, bambini e curiosi sono la ad attenderci. II nostro accompagnatore si chiama Karwang, è uno dei nipoti di Changchub Dorje, il lama fondatore del villaggio di Khamdogar.

Per raggiungere il villaggio che il maestro di Namkhai Norbu chiamò anche Nyaglagar dobbiamo viaggiare ancora tre ore a cavallo attraverso torrenti, discese ripide, sentieri strettissimi, poiché manca strada e nemmeno la jeep potrebbe farcela. Per questo Karwang e i monaci sono giunti all’appuntamento con un giorno di anticipo e le cavalcature per tutti.

Intorno alla tenda da viaggio, dove sostiamo in cerchio per il rituale tè al burro, sono legati quelli che saranno i nostri cavalli più un paio di muli per i bagagli.
 Attraversiamo cosi, in carovana, un altro tratto di paradiso che non ha mai conosciuto automobili, né occidentali.

Camminare a cavallo in luoghi come questi offre certamente una sensazione totalmente nuova di armonia con la natura, ma anche di irrealtà. Adesso non è tanto fantastico ciò che sto vedendo e toccando, quanto il pensiero di un mondo dove esistono fumi di industrie, missili, stress, traffico.

I rari villaggi lungo la strada sono fatti di case in pietra all’aspetto di piccoli castelli addossati alle rocce. Seguiamo il percorso di un fiume trasparente come vetro, dove l’acqua corre tanto regolarmente da sembrare una lastra immobile che lascia riflettere luce sui sassi nel fondo.

Come sempre il paesaggio cambia a ogni curva. Posso contemplare ogni cosa perché un giovane monaco tiene abilmente le redini del mio cavallo, lasciandomi libero di godere il paesaggio. Anche qui, fin da piccoli, i Khampa imparano a cavalcare ancor prima di saper stare fermi sulle loro gambe, e il giovane monaco scudiero sorride per il mio buffo stile di trotto.

Lungo questo percorso non ci sono tende di nomadi, ma case sparse, dalle quali escono uomini e donne che ci vengono incontro. Qualcuno intuisce che dev’esserci un grande lama, e si avvicina a capo scoperto per ottenere una benedizione. A poca strada da Nyaglagar due segni di buon auspicio annunciano l’arrivo della nostra comitiva. Un’aquila gira in tondo sopra le nostre teste e un cuculo canta ininterrottamente da qualche parte della valle. Il canto del cuculo in particolare è considerato uno dei segni più fausti.

A Nyaglagar

I suoni bassi dei lunghi corni e dei tamburi, gli acuti delle conchiglie e delle trombette giungono sempre più forti man mano che ci avviciniamo al villaggio, mentre le punte delle colonne di fumo del sang compaiono qua e là oltre l’ultima gola che nasconde la vallette di Nyaglagar. Anche qui offerta di erbe aromatiche sacre diffonde nell’area un odore dolce e acre mentre tutti i sensi possono concentrarsi in un’una, fantastica sensazione contemplativa. La valle si apre dietro l’ultima curva mostrando un triangolo formato da un fiume, una foresta di abeti, una montagna. Il cielo è di un azzurro cristallino appena chiazzato da sbuffi di nuvole leggere e sembra anch’esso delimitato dallo stesso triangolo di questa valle.

Provo subito una sensazione molto diversa rispetto a Galen. La natura sembra accoglierci con il suo umore migliore, un buon clima, colori intensi. Al villaggio si entra attraverso un ponte di legno dove c’é un vero e proprio comitato di accoglienza. Namkhai Norbu riceve gli omaggi delle kata e viene fatto salire su un altro cavallo. Ora la musica dei monaci che suonano sul tetto del tempio è più fragorosa. Lungo la strada di terra battuta che porta al nucleo centrale del villaggio sono allineati grandissimi chorten bianchi, sopravvissuti alla Rivoluzione culturale. Due templi quasi interi e le rovine di altri distrutti per gli anni di abbandono forzato, delimitano insieme ai chorten il perimetro di Nyaglagar, cinquanta case e decine di grotte naturali dove ancora oggi vivono yogi ed eremiti praticanti dello Dzogchen.
 Con la piccola telecamera cerco di riprendere tutto il sorprendente spettacolo che ci riserva l’accoglienza del villaggio, la folla che segue il cavallo di Rinpoche e che fa largo per lasciarci passare, curiosa e sorridente.

Finalmente eccoci arrivati in questo luogo, forse la più attesa di tutte le mete. Ho sentito cosi tanto parlare di Nyaglagar e del mitico Changchub Dorje, che ho la sensazione eccitante di poter toccare un sogno. Ed effettivamente la storia dei maestri e dei discepoli legati a Nyaglagar sembra nascere tutta dai sogni. 
Namkhai Norbu era poco più di un ragazzo quando raccontò ai suoi genitori la visione di un villaggio del Tibet dove viveva un uomo sulla cui casa in stile cinese campeggiava il mantra di Padmasambhava. Dalle descrizioni di un viaggiatore amico del padre, che parlava di un grande medico molto conosciuto al di là dello Yangtse, riconobbe l’uomo e il villaggio del sogno, e chiese al padre di accompagnarlo fin li.

C’é solo qualche abitazione in più rispetto ad allora, il 1956. Per il resto nulla è cambiato, nemmeno la casa del lama fondatore: gli stessi oggetti, le stesse stanze spoglie, lo stesso bianco dei muri. Anche i vecchi eremiti sono scesi dalle grotte sopra al villaggio per vedere il lama giunto dall’Occidente, e qualcuno riconosce il tulku diciottenne che fu discepolo del grande maestro, più di trent’anni prima.
II corteo delle visite comincia appena mettiamo piede nella sala del tempio dove alloggeremo per un paio di settimane.

Insieme a Sonam Palmo e Puntsok sediamo sui tappeti che saranno i nostri giacigli mentre a lama Norbu è riservato un grande letto sul fondo della stanza, davanti a un piccolo altare circondato da 108 nicchie con altrettante statue di Padmasambhava. I visitatori offrono sciarpe bianche e s’inginocchiano davanti al lama nel solito, lento rituale. Aspettano dietro la porta il loro turno e qualcuno fa prostrazioni lungo il tragitto fino al letto-trono del lama, ornato di sete colorate
Devo faticare non poco per dire “no” a tutte le persone che continuamente mi offrono tè al burro, tsampa, carne secca, biscotti, caramelle, riso con carne. Ho imparato a dire “Basta, grazie”: qualche volta, ma non sempre, è la frase magica per interrompere il flusso del cibo.

Sonam Palmo è dispiaciuta con me perché rifiuto troppo spesso le offerte. So che può sembrare un comportamento offensivo, ma non riesco davvero a mangiare e bere tutto ciò che mi arriva davanti e l’insistenza di Sonam Palmo per la prima volta mi irrita, come succede ai bambini costretti a qualcosa di seccante. La tsampa è difficile da imporre a chi non è abituato perché, soprattutto nei primi giorni gonfia lo stomaco ed è poco digeribile. Per non parlare delle radici del to-mà, che sono così ruvide da trovare difficile accesso attraverso l’esofago. L’ unico modo di farle giungere a destinazione velocemente è quello di condirle con lo yogurt. Ma è buona regola mangiarne almeno metà con tsampa secca e burro, un impasto micidiale. Va detto che questo piatto è considerato una vera prelibatezza, e sicuramente dopo un lungo periodo di allenamento può essere apprezzato nel suo giusto sapore. 
Per fortuna a Nyaglagar, in fatto di cibo, non c’é che l’imbarazzo della scelta, perché il corteo di persone giunte per rendere omaggio al discepolo di Changchub Dorje è formato da contadini e pastori, e nessuno entra a mani vuote.

Facce sorprese o intimidite, uomini, donne e vecchi di un eta incalcolabile, tutti con il loro mala in mano recitano mantra avvicinandosi al letto di Namkhai Norbu. Il lama sembra non avere espressione, e davanti ai miei occhi la sua figura si è ormai trasformata in quella di un re venerato da frotte di sudditi.

Terminato il corteo restano nella grande stanza illuminata dalle candele i monaci e i capi di questa comunità di tre, quattrocento anime. Siedono ai piedi del letto del lama, che parla in continuazione. Colgo al volo nomi di luoghi: America, Australia, Giappone, Europa, Italia. Anche qui Namkhai Norbu sta evidentemente parlando del misterioso Occidente e dei paesi dove ha viaggiato prima di arrivare in questo regno del Dharma.

Cerco di rilassarmi in attesa della notte, quando saremo di nuovo soli nella stanza. Mi portano molte coperte e capisco che è ormai giunta l’ora. Infatti, arretrando chini per non mancare di rispetto al lama voltandogli le spalle gli ospiti ci lasciano. Ma dopo la mezzanotte suonano due volte le lunghe trombe cupe e comincia il lento, costante, battere del tamburo per il rito notturno delle divinità guardiane, chiamate a proteggere il sonno del villaggio e dei nuovi ospiti.

Prima dell’alba ci sveglia di nuovo il suono basso e profondo dei corni, per ricordare a tutti la presenza del lama che fu discepolo della grande anima di Nyaglagar. Mi è difficile ritenere eccessiva tanta considerazione, ascoltando la storia di Changchub Dorje cosi come l’ha descritta Rinpoche, e cosi come ne parlano, continuamente, gli abitanti di Nyaglagar. https://it.melong.com/il-tibet-di-chogyal-namkhai-norbu-parte-5/

Il Tibet di Chögyal Namkhai Norbu – Parte 6

Il Maestro del Maestro

Raimondo Bultrini continua il resoconto del suo viaggio con Chögyal Namkhai Norbu in Tibet nel 1988. Siamo appena arrivati a Nyaglagar, residenza del Maestro radice di Rinpoche. Disse di avere 72 anni quando giunse per la prima volta nella regione del Gonjo. Qui per tre anni visse in un monastero, prima di incontrare la sua prima moglie. Con lei si trasferì, forse intorno al 1920 (spesso i tibetani hanno un concetto assai approssimativo del tempo) in questa valle.

Ebbe poi quattro figli e un’altra moglie. Il più grande, Jurmed Gyaltsen, è morto prima della Rivoluzione culturale, la seconda, Atalamo, alla quale furono attribuite grandi realizzazioni spirituali, è vissuta fino a pochi anni fa, il terzo, monaco e studioso, mori giovane dopo il rientro da un lungo viaggio in Tibet occidentale. All’ultimo figlio, Mikyod, nato dal secondo matrimonio, è toccata la sorte più crudele: ucciso dai rivoluzionari.

I suoi tre nipoti, che oggi hanno tra i 30 ed i 40 anni, sono nati dalla seconda figlia e da Mykyod. Ma i l mistero dell’età di Changchub Dorje è solo un aspetto della complessa figura di questo capo villaggio al quale si attribuiscono le capacità di realizzati ben più famosi, come Milarepa. In particolare Changchub Dorje era considerato un grande medico, in grado di conoscere le proprietà curative di ogni erba e minerale di queste zone. Fu molto probabilmente per le speciali caratteristiche di Nyaglagar, che il lama decise di interrompere il suo pellegrinaggio e costruire la casa sotto queste montagne dove ci sono ovunque grotte naturali, l’acqua è in abbondanza, la vegetazione ricca e il terreno fertile.

Scopri subito un terma, un tesoro di grande valore in una delle grotte che s’incuneano fin dentro il cuore della montagna che sovrasta il Villaggio. È una terra rossa argillosa che a contatto con il sole solidifica rapidamente.

Cominciò a saperla usare per fare oggetti di protezione come lo zaza (*) che mi regalò Namkhai Norbu a Galen – e, unita all’infinita varietà di piante che crescono spontaneamente, per i suoi famosi farmaci.

Changchub Dorje non aveva mal studiato medicina, ne trattati di filosofia buddhista. Ma aveva dettato al suoi discepoli – tra i quali Namkhai Norbu, per molti mesi suo assistente – centinala di pagine, raccolte in decine di volumi. “Era in grado, interrompendosi per delle ore quando visitava i malati – ricorda Rinpoche – di riprendere a dettare dallo stesso punto. Quando rileggevo gli appunti ero sorpreso di non trovare nessuna ripetizione, nè salto logico.”

Abituato in collegio ad analizzare e discutere, immagazzinare informazioni e trasformarle in concetti filosofici, Namkhai Norbu aveva anche una certa idea della pratica religiosa. Come tutti i tibetani aveva ricevuto delle iniziazioni formali, e, come giovane studioso, conosceva anche a memoria i testi rituali, i mudra, i gesti simbolici, ogni particolare delle cerimonie utilizzate per trasmettere da Maestro a discepolo i segreti dell’Insegnamento.

Changchub Dorje veniva da tutt’altra esperienza. Il suo maestro radice era considerato una specie di pazzo. Aveva vissuto gran parte della vita come eremita ed i suoi discepoli – tra i quali una donna, Ayu Kandro, (*) che visse più di quarant’anni nel buio – ricevevano le trasmissioni in maniera molto semplice, in una grotta, con poche parole, secondo l’uso antico.

Il maestro “pazzo” si chiamava Nyagla Pema Dündul, e non era legato strettamente al soli insegnamenti buddhisti. Buona parte della sua formazione era infatti Bon. Aveva imparato attraverso pratiche molto antiche ad entrare in contatto con gli elementi della natura e a integrare l’esistenza nello stato che i maestri chiamano di “contemplazione”.

Nyagla Pema rappresentava un po’ la sintesi di quelle tradizioni sia del bon che del Buddhismo etichettate sotto il nome Dzogchen, che vuol dire Grande Perfezione, e che indica una condizione dell’individuo, l’esistenza com’è, senza concetti, né Limitazioni.

Quanto Nyagla Pema era selvatico e schivo, tanto era aperto e disponibile Shakya Shri, un altro dei maestri principali di Changchub Dorje. Per questa sua qualità divenne famoso in gran parte del Tibet. Changchub Dorje arrivo a lui seguendo un sogno e ci restò alcuni anni. Appena ricevuti da Sakya Shri gli insegnamenti essenziali sulla natura della mente, Changchub Dorje divenne discepolo di Nyala Rangrik, futuro capo della scuola Nyingmapa, detta la scuola degli antichi, la più legata alla tradizione dell’esorcista Padmasambhava. Nyala Rangrik fu scelto dopo lunghe discussioni all’interno della setta, poiché il lignaggio era stato interrotto nella tormentata epoca del XIII Dalai Lama.

Il corpo d luce

Nyagla Pema Dündul nel frattempo – raccontano i suoi biografi – aveva realizzato il “corpo di luce”, dissolvendo dopo anni di pratica la sua dimensione fisica nella natura degli elementi. I suoi discepoli lo avevano assistito fino al giorno in cui si era ritirato in una piccola tenda chiedendo di non essere disturbato.

Passarono due settimane, mentre strani fenomeni atmosferici avvenivano sulla cima della montagna dove si trovava il maestro. Atteso un periodo ragionevolmente lungo di tempo, tutti andarono a vedere che cosa era successo nella tenda.

Changchub Dorje e gli altri discepoli trovarono soltanto il suo abito, i capelli, le unghie del piedi e delle mani, considerate le uniche impurità del corpo e come tali impossibili da dissolvere.

Questo fenomeno trova molti precedenti nella tradizione mistica tibetana. Secondo i maestri la scomposizione degli elementi avviene attraverso la pratica quotidiana del corpo, della voce e della mente. Ci si abitua a considerare lo stesso nostro corpo fisico e gli oggetti esterni il frutto di un’illusione mentale, senza forma e sostanza, manifestazioni di un karma che – accumulato nelle vite passate – produce nel caso dell’uomo una visione umana, per le divinità, gli animali e gli altri esseri le rispettive dimensioni di esistenza.

Quando la mente giunge alla piena consapevolezza, arriva a scomporre gli elementi nel loro stato naturale, atomo dopo atomo e si dissolve ogni dualismo, ogni differenza tra noi e tutto il resto.

L’impresa riuscì ad un altro maestro del lama di Nyaglagar, vissuto tra il 1859 ed il 1935 praticando lo Dzogchen del Bon: si chiamava Shardza Rinpoche. Secondo altri Lama conosciuta al mio rientro in Occidente, anche Atalamo, la figlia di Changchub Dorje, ottenne il corpo di luce. Ma durante la mia permanenza nel villaggio, né i suol parenti, né Namkhal Norbu, mi dissero nulla a questo proposito.

Ad uno degli zii di Rinpoche, fratello del padre, è attribuita la stessa realizzazione. Si chiamava Togden e aveva vissuto gran parte della sua vita nelle grotte in montagna. La storia che qui riporto fu raccontata ai lama da un ufficiale tibetano che era stato custode di Togden durante la Rivoluzione Culturale, intorno alla metà degli anni ’50.

Lo yogi era stato fatto scendere dalle sue grotte per tenerlo sotto controllo agli arresti domiciliari in una casetta vicino Derghe. Un giorno l’ufficiale entrò nella stanza a controllare il prigioniero e trovo il suo corpo piccolo come quello di un bambino e raggrinzito. Sorpreso dalla scoperta, e soprattutto impaurito dalla inevitabile reazione dei suoi superiori – che potevano accusarlo di complicità nella fuga – corse a chiamare le autorità del capoluogo. Ma qualche giorno più tardi, giunti nella casetta chiusa dall’esterno, i militari scoprirono che del corpo non restavano altro che le impurità.

L’ufficiale riuscì a scappare e non volle più saperne d politica. Si rifugiò in Nepal per ricevere insegnamenti da qualche maestro tibetano esule e qui lo incontrò nell’84 Namkhai Norbu, che così venne a sapere tutto questo.

Un gioco di specchi

Changchub Dorje cominciò a praticare gli insegnamenti dei suoi maestri in molte grotte che fanno parte oggi del villaggio. Giunse qui seguendo quell’intuito particolare che distingue gli uomini capaci di vedere oltre la dimensione fisica. Così sentì che Nyaglagar era un “luogo di potere” e che in questo angolo di Tibet avrebbe potuto continuare a praticare e a mettere a frutto gli insegnamenti ricevuti. Questa scelta provoco grandi cambiamenti, e non solo per se stesso e per i discepoli che lo seguirono.

Comincio a domandarmi se non ci sia una sorta di gioco di specchi nella storia personale di questi maestri. Ognuno di loro ripete in circostanze storiche diverse un’impresa comune, la trasformazione cioè delle realtà con le quali entrano in contatto. Ma non e un cambiamento visibile. I luoghi restano gli stessi, con i loro sassi, gli alberi, i fiumi, le persone non cambiano faccia o carattere.

Non si tratta nemmeno della pur faticosa impresa culturale dei dotti pandit (*) che importano in paesi stranieri nuove idee o forme letterarie. Questo gioco di specchi in Tibet sembra partire proprio da quello che tutti considerano il capostipite del nuovo Insegnamento giunto dall’India, e cioè Padmasambhava. Fu proprio un pandit, Shantarakshita, grande erudito di Nalendra, la più famosa università dell’Oriente buddhista dell’epoca, a consigliare il re Trisong (VIII secolo d.C.) di invitare Padmasambhava in Tibet.

È come al solito per metà la storia e per metà la leggenda a tramandarci avvenimenti così lontani.

In breve Shantarakshita – che per primo fu invitato dal re tibetano a diffondere il principio della compassione buddhista nella Terra delle nevi – venne respinto dalla brutale accoglienza che gli riservarono i bonpo di Lhasa. Continui temporali si scatenavano tra l’altro sul palazzo reale, e, secondo gli sciamani del Bon, la furia degli elementi manifestava chiaramente la rabbia degli dei contro la nuova falsa dottrina.

A ogni buon conto, Shantarakshita fece i bagagli e se ne tornò in India. “Solo un grande esorcista – disse al re – può combattere questi demoni” e fece il nome di Padmasambhava, il quale dimostrò i suoi poteri prima ancora di giungere all’appuntamento con l’ansioso sovrano.

Soggiogò – narrano centinaia di racconti tramandati dalla tradizione orale e scritta – gli spiriti delle acque, del cielo e della terra, che tentarono di creargli mille ostacoli appena valicato il confine himalayano. Per quest’impresa usò la forza della propria mente e una serie di magie paragonabili a formule alchemiche di trasformazione della materia.

Su invito del re creò monasteri, scuole, e formo un gruppo di discepoli fidati che diffusero i suoi insegnamenti in ogni angolo del Tibet. Gli spiriti e le divinità sconfitti nei duelli magici divennero suoi alleati e servirono il Dharma, così che non fu necessario sostituire tutte le precedenti figure create dal Bon. Sul piano spirituale tutto restò perfettamente e apparentemente come prima, anche se su quello mondano la transizione portò persecuzioni e violenze perpetrate in nome della religione.

Lama Changchub Dorje di questa valle è stato il Padmasambhava del XX secolo, così come molti suoi discepoli (tra i quali senz’altro Namkhai Norbu) hanno trasformato a loro volta altre realtà.

All’inizio, il lama di Nyaglagar non aveva alcuna intenzione di diventare una sorta di capo villaggio e passava infatti gran parte del suo tempo nelle grotte. Ma i vecchi e i nuovi discepoli divennero ben presto una comunità numerosa e molti intendevano limitarsi a meditare tranquilli imitando il Maestro, senza curarsi di come fare per sopravvivere. Fu questa la circostanza che spinse lama Changchub Dorje a integrare nella pratica lo spirito degli insegnamenti.

Padmasambhava non si limitò a usare dotte disquisizioni teologiche per trasformare le attitudini religiose del Bon, ma rispecchio la mentalità del suo tempo, combattendo con l’arma degli esorcisti di quel livello, la magia dei tantra superiori. Analogamente il lama di Nyaglagar si trovò a dover sconfiggere la mentalità ed i costumi dei suoi discepoli.

Siccome tutti lo seguivano qualunque cosa facesse, il maestro scese allora nella piccola valle e si mise a coltivare la fertile terra lungo il fiume. Presto gli altri fecero altrettanto e nacque così una specie di comune agricola dove i compiti venivano distribuiti equamente come i profitti. E questo avveniva quando il comunismo non aveva ancora fatto la sua comparsa in Tibet.

I primi insegnamenti

In generale la comunità di Nyaglagar era formata all’inizio da quella povera gente ignorante alla quale i lama abbigliati con ricchi abiti da cerimonia si limitavano a impartire benedizioni recitando tuttalpiù qualche mantra.

Changchub Dorje era cresciuto alla scuola di grandi maestri, ma veniva anche lui da una famiglia umile e sapeva come comportarsi, così che tutti poterono comprendere il suo modo di trasmettere certe conoscenze. Il lama di Nyaglagar spiegò che la religione e la pratica non sono soltanto devozione e preghiera, ma la vita stessa, l’esperienza accumulata senza distrazione giorno dopo giorno.

Cominciò allora a spiegare le più semplici tecniche di rilassamento, la base per ottenere una mente non turbata dal continuo movimento del pensieri. Qualcuno, per mettere in pratica con più facilità le istruzioni, continuò a isolarsi in una delle mille grotte della zona. Ma molti di quelli che compresero il principio dell’integrazione restarono nel villaggio, costruirono case per i nuovi venuti, lavorarono sodo e svilupparono la pratica nei gesti abitudinari.

Controllando la regolarità del respiro, costante profondo, allenavano la concentrazione della mente.

Camminando e sedendo con la schiena dritta permettevano all’energia sottile di fluire liberamente in tutti i canali del corpo. Con cibi e liquidi adatti rinforzavano l’organismo e favorivano la naturale purificazione degli elementi. Sciogliendo le tensioni evitavano di caricare la loro esistenza di negatività.

Questo stato di presenza, di attenzione, poteva continuare anche di notte. Il sonno è simile, per i tibetani, allo stato del bardo, quando tutti i sensi – dopo la morte – si raccolgono nel livello subcosciente e la mente ordinaria, quella che giudica e analizza, non funziona più.

Chi, durante la vita, si è esercitato attraverso il sogno alla presenza delle luci e dei suoni, spiega l’antico Libro tibetano del morti, può riconoscere anche le luci e i suoni del bardo, lo stato che segue il decesso, stadio intermedio tra la morte e la successiva rinascita, e non sarà turbato dalle figure e dalle sensazioni terribili che si presenteranno.

Changchub Dorje era considerato in grado di viaggiare nello stato del bardo. Compariva nel sogno per dare insegnamenti, così come riusciva a manifestarsi e tranquillizzare i suoi discepoli durante i terribili momenti, estremamente coscienti, che seguono il blocco delle funzioni vitali del corpo fisico.

È un fenomeno che potrebbe essere spiegato anche intellettualmente, soprattutto con il sogno. Ognuno ha esperienza delle visioni quando ci si addormenta. Liberati dagli impacci fisici, gli stimoli della vita quotidiana si trasformano in sogni più o meno simbolici che coinvolgono anche altre persone.

Uno studente particolarmente interessato alle lezioni del suo professore potrebbe ad esempio rielaborarle nello stato sottile di coscienza del sogno e comprenderne un significato sfuggito sui banchi di scuola. Il professore stesso potrebbe magari comparire come una figura paterna che prende lo studente per mano e lo accompagna in luoghi sconosciuti.

Un maestro spirituale, come Changchub Dorje, esercita sul suoi discepoli un carisma ancora più potente, e diventa, nella vita ordinaria come in quella del sogno, una guida insostituibile. Quando il maestro non c’é fisicamente, è la forza dell’Insegnamento e del suo esempio a guidare le azioni dei discepoli. In Oriente si parla a questo proposito di mente del Guru, ed e un principio che non trova corrispettivi da noi.
Anche i discepoli di un grande filosofo o letterato si rifanno agli insegnamenti del maestro, ma ne seguono in qualche modo gli schemi logici, i percorsi intellettuali.

Tra maestro e discepolo in Oriente il contatto non avviene soltanto attraverso le lezioni, lo studio o i libri. I tre livelli dell’esistenza secondo il buddismo sono quelli del corpo, della voce e della mente. Così, tra maestro e discepolo, la conoscenza si trasmette da corpo a corpo, da voce a voce, da mente a mente. E un fluire ininterrotto di luci, parole e sensazioni.

Per entrare in contatto con il proprio maestro spirituale, il discepolo usa uno dei metodi appresi: movimenti per il corpo, suoni (mantra) per la voce, visualizzazioni per la mente. È quello che viene detto Guru Yoga: Guru vuol dire “maestro” e yoga “unione”. L’”unione con il maestro” è di fatto la condizione indispensabile per avere accesso alle conoscenze spirituali già acquisite dal Guru, e che nessun libro da solo potrebbe trasformare in esperienza diretta, concreta.

Continua nel numero di marzo 2023 del The Mirror https://it.melong.com/il-tibet-di-chogyal-namkhai-norbu-parte-6/

Il Tibet di Chögyal Namkhai Norbu – Parte 7

Aspettando il miracolo

Raimondo Bultrini e Chögyal Namkhai Norbu passano un po’ di tempo a Nyaglagar, anche noto come Khamdogar, il luogo in cui viveva Changchub Dorje, situato in una remota valle del Konjo, nel Dege orientale, e incontrano i suoi nipoti.

Durante l’intero viaggio elaboro teorie e metto in pratica molti metodi per avere esperienza di queste dimensioni sconosciute. Nyaglagar sembra il luogo ideale per soddisfare la mia voglia di conoscere. Se Changchub Dorje è davvero così potente, dico a me stesso, prima o poi si manifesterà, magari sotto forma di visione, o forse chissà, di vibrazioni. Di notte spero in qualche apparizione nel sonno, di giorno scruto il cielo alla ricerca di segni speciali. Mi trovo nello spirito dell’occidentale che passa dal disincanto laico al dubbio, dallo scetticismo all’attesa del possibile miracolo.

Siccome, naturalmente, non succede niente, cado continuamente in profonde crisi dove metto in discussione tutto me stesso, il vero senso del viaggio, ciò che sto cercando. Generalmente mi capita di trovarmi in questi momenti vicino a Namkhal Norbu, che passa tutto il tempo libero dalle visite e dagli insegnamenti a leggere i testi del suo maestro, a voce bassa, come recitandoli.

A volte ho la sensazione netta che Rinpoche riesca a penetrare nei miei pensieri. Un giorno alza la testa, guardandomi con un sorriso amichevole. “Che cosa c’é?” chiede. Non ho il coraggio di parlare apertamente di tutto: “Pensavo alla fortuna che mi e capitata di poter stare qui – rispondo – ma non riesco a fare niente per meritarla, non parlo la lingua, non capisco ciò che dice questa gente, me ne sto fermo ore senza poter comunicare”. Rinpoche continua a leggere il libro e con una battuta dichiara chiuso l’argomento, liberandomi dal peso di pensieri che non riesco più a controllare: “Chi è fortunato non ha proprio niente da fare”, dice.

Pochi giorni dopo, sopraffatto nuovamente dalla tensione, ho in mente di ribaltare, dopo ore ed ore di solitudine e silenzio, tutto il castello delle mie precedenti teorie sulla saggezza delle filosofie orientali, tutti i miei autoconvincimenti sul potere delle divinità buddhiste, sui principi dell’energia yoga, degli Insegnamenti, sul lama. Penso che in fondo la figura familiare del Cristo è più che sufficiente per soddisfare, quale esempio di uomo compassionevole, tutte le mie esigenze spirituali.

Più medito su questo, e più provo una specie di orgoglio per l’unicità del messaggio cristiano, anche in questi altipiani dove la figura di Gesù è quasi sconosciuta. Seduto sul mio tappeto con una tazza di tè e lo sguardo rivolto alla vallata dove il cielo alterna piogge e schiarate, sento la voce di Rinpoche improvvisa: “Su che cosa stai meditando?” chiede.

Ancora una volta mi sento praticamente nudo, scoperto nei miei pensieri più intimi. Mi sembra impossibile che possa leggerli come un libro aperto, ma è questa la sensazione immediata che non mi era mai capitato di provare e che invece sperimento, precisa, netta, inconfondibile.

È ora di pranzo e veniamo fatti sedere dietro le basse panche dipinte dove si trovano le offerte di cibo. Alle pareti sono appese molte thangka, e alcune riproducono sicuramente il maestro.

Una in particolare colpisce per la sua bellezza. Il fondatore di Nyaglagar è dipinto come uno yogi danzante, e dal suo corpo si dipartono a raggiera fasci di luce colorata dall’intensità ipnotica. Sotto c’è un oggetto che sembra un paralume di carta, ma in realtà è un cilindro che ruota continuamente su sé stesso senza alcun meccanismo. Semplicemente con una piccola spinta iniziale riesce a sfruttare la giusta inclinazione e la velocità acquistata per lungo tempo. Un marchingegno che serve a far ruotare i mantra iscritti all’interno, quindi a far muovere simbolicamente in avanti la “ruota” dell’Insegnamento.

È lo stesso principio del piccoli mulina di preghiera con il mantra OM MANI PADME HUM (*) che i tibetani tengono in mano e che fanno ruotare in senso orario per ore ed ore, oppure di quelli grandissimi dei templi, mossi anche questi dai fedeli. Analogo è il significato delle stesse bandierine da preghiera, esposte al vento per offrire attraverso l’elemento più mobile del creato il beneficio delle parole sacre da diffondere in ogni luogo.

Il cibo nella casa di Palden è abbondante, con molta carne secca che si scioglie quasi in bocca. Comincio a riconoscere i pezzi migliori, evitando così di tagliare quelli che non riesco a masticare. La carne qui è più morbida che a Galen perché siamo più in basso, e il clima è meno secco. Anche il sapore è migliore, ma non si conserva altrettanto a lungo.

Mi rendo conto che con questa alimentazione è quasi impossibile mangiare distrattamente, dimenticando ad esempio che ci si sta nutrendo di un animale. La striscia di carne dura come pietra, infatti, al contatto con la saliva si ammorbidisce e libera il sangue dell’animale. È una sensazione di caldo, di nervi tesi, di vita che torna a fluire in quel pezzetto di yak. I tibetani recitano mentalmente un mantra a beneficio dell’essere che li sta nutrendo, e credono che la giusta intenzione, autenticata dal mantra adatto, produrrà una causa spirituale per una sua prossima, migliore rinascita.

Durante il pranzo, in segno di grande rispetto, viene portata a Namkhai Norbu la “kapala”, la calotta cranica del teschio di Mikyod, il figlio del maestro ucciso dai cinesi. Rinpoche la rigira tra le mani, e mi traduce la storia che gli hanno raccontato i vecchi monaci. Mikyod, che viveva in un villaggio vicino, doveva essere preso dai militari e processato come controrivoluzionario. Ma lui non voleva seguirli per entrare in un campo di concentramento o in carcere, e così scappò verso la foresta inseguito dai cinesi che presero a sparargli contro senza riuscire a colpirlo.
Tuttavia, a un tratto Mikyod decise di fermarsi, si sedette, si tolse dal collo tutte le protezioni e fu ucciso.

I rivoluzionari arrivarono a Nyaglagar da Qamdo, raccontano. Ma il villaggio era troppo distante e faticoso da raggiungere, sia pure a cavallo. Per questo vennero in pochi e se ne andarono quasi subito, senza completare l’opera di distruzione, com’era avvenuto quasi ovunque intorno. Si limitarono ad abbattere le punte dei chorten lasciando intatte le basi, a bruciare qualche tangka e i pochi libri d’Insegnamento rimasti nei monasteri e nelle case. Il grosso dei manoscritti fu infatti nascosto nelle grotte dei dintorni.

Proprio sopra all’abitazione di Palden c’è una delle biblioteche con centinaia di testi ammucchiati uno sull’altro. Ci sono anche gli insegnamenti di Changchub Dorje trascritti da Namkhai Norbu più di trent’anni fa.

Veniamo invitati a salire su una terrazza dove un grande abbaino affrescato con figure di maestri manda fasci di luce nel tempio. Sul muro di una stanzetta quasi completamente buia danzano figure di scheletri e grandi animali feroci. Dev’essere la stanza del chöd, il rito che viene praticato anche nei cimiteri. Osservo le macabre figure della danza e penso che in fondo ogni angolo di questo villaggio, ogni momento trascorso qui sembra imporre una riflessione sulla costante presenza della morte.

Lama Karwang

I nipoti del fondatore di Nyaglagar regalano a Rinpoche molti scritti della biblioteca, e tra questi alcuni piccoli preziosi quaderni. Contengono i consigli che molti lama e yogi hanno ricevuto da Changchub Dorje per migliorare la loro pratica. Vi si spiega come apprendere, sviluppare e stabilizzare la contemplazione.

Un maestro sa esattamente quando lo studente è pronto ad affrontare un certo passaggio nella pratica, anche se apparentemente non esistono segni che dimostrino una realizzazione spirituale. Il nipote più anziano di Changchub Dorje è lama Karwang. Nonostante il relativo potere che gli deriva dall’essere la guida spirituale del villaggio, io vedo l’uomo semplice che sembra quasi camminare in punta di piedi tanto è silenzioso e discreto.

Non mi viene subito in mente, osservandolo, che questa semplicità possa essere il frutto di una lunga pratica interiore. Karwang mi regala una sua fotografia, piccolissima, dove siede a gambe incrociate su un prato, e ne chiede una mia. Osservo a lungo la sua foto, così come spio i suoi movimenti durante le ripetute visite alla nostra stanza, o mentre passeggiamo nelle strade polverose del villaggio.

Vorrei forse scoprire il segreto del suo muoversi leggero, senza mai un movimento brusco, sgraziato, senza un tono di voce troppo alto. Dal suo viso non traspare ansia, né tensione. È serio, oppure allegro, ma mai preoccupato, irato. In fondo, sembra avere le reazioni di un bambino.

Con un’espressione divertita gli piace molto ascoltare le mie letture delle trascrizioni fonetiche del mantra. Spesso chiama i fratelli per assistere al piccolo prodigio di quei segni stranieri che corrispondono al loro alfabeto, e mi invita a ripeterli più volte. Sembra contento di sentirmi parlare tibetano, e non capisce perché, oltre a leggere mantra non imparo anche a conversare.

È un altro dei motivi di rammarico per non essere riuscito a impegnarmi nello studio di questa lingua. Sono sicuro che Karwang avrebbe molte cose da insegnarmi, e spero che un giorno, se le circostanze lo permetteranno, potrà venire in Occidente. Chissà se riuscirebbe a mantenere la stessa serafica calma alle prese con la burocrazia e lo smog, l’orologio e il computer?
Il valore di Karwang, secondo Rinpoche, sta anche nella sua conoscenza dottrinale e spirituale. Il giovane lama ha scritto molti testi, e pare che dimostrino un elevato grado di conoscenza. Non a caso è lui il più rispettato e stimato dei nipoti di Changchub Dorje. Un riconoscimento, questo, che acquista maggiore valore se si considerano le doti non comuni degli altri nipoti. Hanno tutti, infatti, una carica di umanità e di simpatia davvero rare, scherzano con tutti, e sono circondati in ogni momento da frotte di bambini che evidentemente amano giocare con loro.

I Nipoti del Maestro

Il più giovane, Palden, ha 25 anni, un viso largo e fisico robusto. La mia simpatia per lui è legata a un gesto che non avevo mai visto fare in Cina e nemmeno in Tibet: lo vedo prendere la mano della sua giovane moglie. Può sembrare strano che un fatto così normale mi colpisca tanto, ma questa espressione dei sentimenti d’amore, così comune in Occidente, qui mi manca un po’, nonostante la grande dolcezza e affettuosità spontanea dei tibetani.

L’altro nipote, il secondo per età, è Po Jo, figlio di Mikyod. Ha una trentina d’anni, è magro, con due occhi tondi mobilissimi e il mento leggermente rientrante. Il suo aspetto diventa molto buffo quando indossa un cappelletto di lana rotondo che accentua i tratti marcati del viso. La sua casa è forse la più frequentata nei giorni della nostra permanenza, perché qui Namkhai Norbu dà insegnamenti alla gente del villaggio.

Non rispondo subito, nell’imbarazzo e nella sorpresa in cui mi trovo. “Riflettevo sull’orgoglio – mi limito a dire, nascondendo maldestramente tutto il resto – i pensieri vengono uno dietro l’altro. È facile immedesimarsi in quello che passa attraverso la mente”.

L’orgoglio – mi dice Rinpoche – quando è riconosciuto come origine delle emozioni negative, può essere autoliberato, sciogliendo la tensione che ne è la conseguenza. Perché l’orgoglio, come la gelosia, l’invidia, la rabbia e ogni altra passione, quando non è governata dalla presenza, ostacola la conoscenza della vera natura delle cose.”

Ma quando i pensieri disturbano, come mosche che non riesci a scacciare – insisto, ormai fingendo che fosse davvero solo questo l’oggetto delle mie riflessioni – come si fa ad avere questa presenza?”

Da dove vengono i pensieri? E dove vanno? Prova a guardare…”

Non ne ho idea, veramente. Credo che non arrivino da un luogo preciso”.

Non basta analizzare, devi sperimentare in pratica. Solo dopo puoi dire: ah, ecco, ho trovato, oppure no, non ho trovato niente”.

Finisco il mio tè e salgo verso la grotta dove Changchub Dorje dava insegnamenti, e dove scoprii la speciale terra rossa con la quale fabbricava zaza e medicine. Mi fermo davanti ad un trono di pietra usato dal maestro durante gli insegnamenti e cerco di svuotare la mente, lasciandola seguire soltanto il ritmo del respiro.

Teoricamente so che la regola di una buona meditazione è di osservare i pensieri mentre passano, non di eliminarli. Sono come uccelli che non lasciano traccia nel cielo, non bisogna né inseguirli né soffermarsi a guardarli. Il Maestro ha detto di osservare il punto dove nascono e dove spariscono, ma io non mi rendo nemmeno conto del momento in cui finisce un pensiero e ne comincia un altro. Devo concentrarmi meglio. Ecco, un nuovo pensiero passa nella mente, eccone un altro e un altro ancora. Non ho la minima idea di dove vengano, però mi sento molto più rilassato.

Purtroppo, è una sensazione che dura poco. In qualche angolo della mente c’è un pensiero ricorrente, il desiderio di ricevere un segno da questo luogo che tutti dicono magico e pieno di potere.
È un’idea che cresce e si sovrappone alle altre. “Non devo aggravare la situazione – mi dico – devo fare in modo che vada via”. Ma non se ne va, anche quando ho l’impressione di esserci riuscito, dopo un po’ ricompare. Allora comincio a cantare il mantra che proprio Changchub Dorje aveva trasmesso a Namkhai Norbu, il Canto del Vajra insegnato ai monaci di Galen.

Concentro i sensi soltanto sulle vibrazioni che il suono produce all’interno del corpo, e nello spazio interno le tensioni si sciolgono portando la mente in uno stato di fissità dove tutto sembra restare sospeso, immobile.
Improvviso, come un pesce che salta nell’acqua, arriva un pensiero, un rumore. Passa, e per un istante non turba la quiete di questo stato. E’ la sensazione di un attimo, l’esperienza fuggente di qualcosa che potrebbe e dovrebbe protrarsi ogni istante.

Torno indietro passando dalla casa di Palden, il più giovane dei nipoti di Changchub Dorje. L’abitazione è al secondo piano del palazzo dove si trova il grande tempio rimasto quasi intatto. Si sale la solita scala di legno per raggiungere un ballatoio all’aperto con un’unica grande stanza dove trovo Namkhai Norbu insieme a Sonam Palmo, Puntsok e molti membri della famiglia del lama di Nyaglagar.

Non tutti riescono a entrare all’interno, perché la stanza non è grande a sufficienza, con i suoi due angoli per i tappeti delimitati come al solito dalle panche per le offerte ed il cibo, le colonne centrali di legno che dividono ulteriormente lo spazio e il soffitto chiuso da grandi soppalchi dov’é ammassato un po’ di tutto. Il posto d’onore spetta all’altare, dove sono esposte molte fotografie, tra le quali quelle di Namkhai Norbu e di suo figlio Yeshi, spedite evidentemente per posta anni prima, tangka ed immagini sacre, soprattutto di Changchub Dorje.

Sorprendentemente, messa in un angolo, scopro una grande radio stereo cinese. È l’unica casa in tutto il Tibet orientale dove vedo qualcosa del genere. Non è certo strano, perché a due giorni di cavallo ci sono i capoluoghi abitati da molti cinesi. Ma ciò non toglie che nella mia visione bucolica del Tibet questi oggetti, compresi gli orologi che portano al polso alcune khampa e gli stessi nipoti di Changchub Dorje, sembrino appartenere a un altro mondo.

Il figlio di Mikyod è chiaramente innamorato di Puntsok e passa molte ore nella nostra stanza a corteggiarla, senza successo a quanto mi pare di capire. Per lei – e di conseguenza anche per me e Sonam Palmo – Po Jo porta sempre caramelle, dolcini e qualche volta semi d’orzo abbrustoliti. La corteggia raccontando storielle che io non riesco a capire, ma che sicuramente sono comiche perché le due donne ridono molto tra loro.

C’è da dire che Puntsok e Sonam Palmo non hanno bisogno di ascoltare storielle per essere d’umore allegro. Tranne i momenti di commozione per qualche situazione particolare, madre e figlia scherzano spesso, e il loro rapporto è quello di due amiche adolescenti. Camminano sempre mano nella mano, con un’intesa perfetta, tanto che a Chengdu non avevo affatto capito di aver viaggiato per molti giorni insieme alla vera madre di Puntsok, con la quale la mia giovane compagna di viaggio aveva un rapporto assai più formale.

Po Jo si è innamorato subito di questa ragazza, ed è pronto a offrirle la sua casa, una delle più belle del villaggio, la sua radio stereo e quant’altro lei possa desiderare. Ma Puntsok non sembra affatto dell’idea di sposarsi, per di più non ama molto Nyaglagar. Preferisce Galen, e non vede l’ora di tornarci. Così il giovane lama laico deve contentarsi di scherzare con lei, e sopportare la candida ironia di Sonam Palmo. https://it.melong.com/il-tibet-di-chogyal-namkhai-norbu-parte-7/

Il Tibet di Chögyal Namkhai Norbu – Parte 8

Raimondo Bultrini prosegue il racconto dei viaggi e delle esperienze compiute con Chögyal Namkhai Norbu in Tibet nel 1988. Sono nel Degè orientale, a Nyaglagar, la residenza di Changchub Dorje, maestro radice di Rinpoche.

I giorni nel villaggio del maestro di Namkhai Norbu passano veloci. Molta gente viene a visitarci, ma spesso anche noi usciamo a passeggio. In una splendida giornata di sole incamminiamo verso un monastero di monache distrutto da anni. Durante il tragitto fino alle ultime case si forma una gran calca e decine di persone ci seguono in corteo.
Ci sono anche le monache, tra le quali alcune molto vecchie, costrette a vivere tutte insieme in case piccolissime, mentre avrebbero bisogno di isolamento e concentrazione per mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti da Changchub Dorje.
Lungo la strada la processione dei nostri accompagnatori gira intorno a un chorten cantando e danzando avvolta dal fumo di sang, poi supera un ponte di legno miracolosamente sospeso sul fiume che scende a valle.
Giunta in alto, tra gole rocciose come canyon, Namkhai Norbu mi indica un luogo di potere, una piccola grotta sacra al Mamo, una tra le più potenti classi di Yidam protettori. “Qui potresti creare qualche buona causa per gli altri esseri”, mi dice Rinpoche.
Mentre il corteo prosegue verso il monastero, entro nell’incavo dove c’è spazio soltanto per una persona seduta. Mi sento abbastanza orgoglioso. Come se avessi ricevuto un incarico molto importante, il mio primo incarico “spirituale” in Tibet. “Creare una buona causa”, nel gergo buddhista, significa fare una pratica spirituale con l’intenzione di offrire ad altri esseri senzienti l’opportunità di incontrare gli insegnamenti in modo da potersi liberare dal ciclo delle rinascite e quindi dalla sofferenza. Ma davvero la mia pratica può aiutare qualcun altro, addirittura esseri che nemmeno conosco?
Non so perché, però sento che potrebbe essere così. Credo di essere stato “iniziato” a un sentiero che porta verso un’unica direzione, a realizzare la mia vera condizione e natura. “Iniziare” significa proprio cominciare. E da quando ho cominciato questo sentiero ho come la sensazione di mille occhi e mille orecchie che mi osservano e ascoltano. Particolarmente qui, tra queste grotte attraverso le quali anche le montagne sembrano vedere e sentire.
La mia meditazione è un’offerta a queste entità attraverso i sacri suoni dei mantra e i mudra trasmessi da secoli per comunicare in una specie di esperanto multidimensionale, in grado di essere compreso anche dai puri spiriti. Ma ecco come al solito i pensieri, a disturbare e innervosirmi.

L’orgoglio: essere qui, stimato come discepolo di Rinpoche, circondato da affetto e attenzione, corrisponde a un preciso disegno, a una predestinazione? È questa terra a ispirare un significato superiore a ogni evento della vita. Ogni privilegio diventa ai miei occhi l’espressione di un merito acquisito.
L’ignoranza: se davvero così fosse, perché dentro questa grotta ti senti confuso e impotente? Che cosa stai facendo qui? Recito i mantra automaticamente, la mente segue i pensieri, non sono concentrato con tutti i miei sensi sull’essenza di ciò che sto facendo e tutto perde valore.
Sono costretto a uscire dalla grotta ed i pensieri mi accompagnano, ma ora c’è la distrazione del paesaggio che si apre davanti agli occhi. Il fiume solca la valle tra due gole ampie di monti che degradano verso l’orizzonte, e il villaggio termina con piccole coltivazioni su terrazze. Le rocce, rosse come un tramonto, sembrano scolpite per alimentare la fantasia popolare, che anche qui, come Galen, vi vede sembianze di cavallo.
Passeggio insieme al maestro e ai nipoti di Changchub Dorje vicino ai grandi chorten bianchi del villaggio. Qualcuno si avvicina per una benedizione, altri si limitano a sorridere abbassando il capo con le mani giunte davanti al viso, altri ancora mostrano la lingua secondo l’usanza antica sopravvissuta – a quanto pare – dall’era di passaggio tra Buddhismo e bon. Succedeva infatti – raccontano – che i seguaci del bon, nelle fasi dure della persecuzione religiosa, venissero riconosciuti dal palato annerito per via del continuo recitare preghiere e mantra. Bon vuol dire “recitare”, e i fedeli più osservanti non facevano altro dalla mattina alla sera. Così, per dimostrare la propria estraneità alle pratiche dell’antica religione sciamanica, si esibiva la lingua a funzionari e dignitari.

I simboli del lama

Già prima della morte Changchub Dorje era considerato una specie di santo. Ma dopo che ebbe lasciato il suo corpo, nel preciso istante in cui morì insieme alla sua seconda moglie, il maestro di Nyaglagar venne, come diremmo in Occidente, beatificato. I dipinti lo ritraggono quindi nelle vesti simboliche di tutte le divinità del pantheon buddhista, con gli oggetti rituali, le aureole, nelle movenze delle pratiche tantriche, dove ogni gesto ha un significato preciso per gli iniziati al segreti della pratica.
Un gruppo di
thangka è ancora da colorare, ma molte sono già complete, con toni variopinti e luminosi. In generale questa dipinti non ritraggono soltanto una figura. Si tratta sempre di mandala, rappresentazioni che corrispondono a un contesto nello stesso tempo particolare e universale. Il disegno rappresenta sempre l’individuo al centro della condizione relativa di esistenza. Intorno alla divinità, al realizzato, allo Yidam o protettore ruotano quindi figure significative, che appartengono alla stessa classe, famiglia, o che rappresentano diverse manifestazioni dell’essere, pacifiche e terrifiche, gioiose o irate, sedute o danzanti, ferme o in movimento. La prospettiva è sempre frontale, e le figure minori sono disposte a corona intorno a quella principale, ne esaltano l’importanza.
Changchub Dorje è raffigurato in ogni possibile modo, circondato dai figli, praticanti anche loro e principali discepoli del lama, dai suoi maestri, dai suoi contemporanei famosi, e naturalmente dalle divinità. In tutto ho contato almeno un centinaio di 
thangka dedicate al maestro, e non meno numerosi sono gli oggetti rituali e le reliquie più importanti accuratamente conservate.
Insieme a “mala” di ogni grandezza, a contenitori per le medicine, pietre, abiti, e ogni altra cosa con cui avesse avuto contatto, persino gli occhiali, sono conservati il dorje e il phurpa, gli oggetti rituali con i quali è più frequentemente rappresentato nei disegni esoterici, a illustrare le sue principali realizzazioni.
Il dorje rappresenta il principio maschile, lo scettro simbolico del potere di un regno che non declinerà mai, la forza indistruttibile dell’energia primordiale che – come un fulmine – attraversa lo spazio e il tempo. La sua parte superiore e quella inferiore sono identiche, generalmente con cinque raggi e punte: un lato simboleggia la visione samsarica di sofferenza, l’altro la visione nirvanica di felicità. Significa anche spirito e materia, verità assoluta e relativa, ma il valore supremo riferito al dorje è quello della immutabilità della perfetta condizione originaria, a prescindere dal cambiamenti delle circostanze nel tempo.
Al centro dei dieci raggi corrispondenti da una parte alle cinque passioni e dall’altra alle corrispettive saggezze sta una sfera di cinque colori chiamata in tibetano thigle. Da qui partono le visioni e qui si manifestano: è l’energia primordiale che tutto muove, eternamente.
È questo, sicuramente, l’oggetto rituale più importante dell’esoterismo tantrico tibetano. Ha lo stesso significato dell’antichissimo simbolo Bön della svastika, presente in molte altre culture religiose e svilito dal vergognoso sfruttamento che ne ha fatto il regime nazista.
Il
phurpa è un coltello a forma di cuneo con quattro lati. Affonda alle radici dell’attaccamento degli uomini e arriva al centro dell’obiettivo muovendo da tutte le direzioni cardinali. Cosi, con il dorje sulla destra e il phurpa nella sinistra, Changchub Dorje rappresenta la realizzazione di un insegnamento giunto a lui immutato attraverso i millenni.

Tra gli oggetti conservati c’è anche un damaru, il piccolo tamburo rituale a due facce munito di fili alle cui estremità si trovano le palline che percuotono la pelle: il suonatore fa ruotare il polso per dare il ritmo. Sonorità e dimensioni variano a seconda del tipo di pratica. Il damaru più usato da Changchub Dorje è specifico per il Chöd, una delle pratiche più segrete e interessanti del Buddhismo tibetano, divulgata da una maestra vissuta in epoca relativamente recente, Machig Labdrön.
Esistono molti tipi di pratica del Chöd, ma il principio è per tutti lo stesso,
cioè di “tagliare”, come dice la stessa parola tibetana, di recidere alla radice ogni attaccamento, a cominciare da quello verso se stessi, alla propria persona.
Con questa intenzione il praticante del Chöd offre in pasto il suo corpo fisico, la sua mente, ogni sensazione, energia, tutto ciò che possiede a spiriti e divinità. Per invitarli al macabro banchetto usa damaru e trombette ricavate da ossa di animali. Poi utilizza visualizzazioni e mantra in grado di comunicare a questi esseri la sua intenzione e di “autenticare”, di rendere sacro, il proprio sacrificio. Come Buddha offrì il suo corpo in pasto alle tigri per alleviare la loro fame, così il
chödpa mette a disposizione interamente se stesso per il beneficio di tutti gli esseri.
È una pratica che richiede molta concentrazione e che sviluppa il massimo delle sue potenzialità in luoghi particolari, come i cimiteri
tibetani, dove i cadaveri vengono lasciati allo scoperto e abbandonati in pasto agli avvoltoi.
Tutto avviene naturalmente nella visione del
chödpa mentre – tranquillamente seduto – invita spiriti e divinità con i suoni degli strumenti rituali. Sempre nell’immaginazione intorno al suo corpo inizia una danza di mostruose figure fameliche e come se non bastasse la pratica si dovrebbe svolgere idealmente nei cimiteri, in modo da creare le più forti sensazioni possibili. Si segue così il principio tantrico che affida a ogni movimento – sia fisico che psichico o emotivo – una particolare produzione di energia. Questa energia è il combustibile per raggiungere livelli sempre superiori di esperienza.
Vincere la paura della morte, evocandola con gran fracasso di tamburi e campanelli nel bel mezzo di un cimitero, e un sistema sicuramente originale ma difficilmente applicabile in Occidente.

L’unione yab yum

Sono molti gli insegnamenti di cui vengo a conoscenza direttamente o indirettamente, soprattutto qui a Nyaglagar, perché è come trovarsi un po’ alla sorgente delle conoscenze trasmesse da Namkhai Norbu in Occidente attraverso seminari, libri, ritiri spirituali. Lo stesso maestro sembra ritrovare l’antico entusiasmo del discepolo nella lettura del testi che gli eredi di Changchub Dorje gli offrono, tirandoli fuori qua e là, dalle loro case, dalla biblioteca del tempio.
Tra questi c’è un piccolo libretto con la copertina rossa, l’ultimo scritto prima della sua morte. Si chiama “Autoliberazione attraverso le sensazioni”, ed è interamente dedicato alle pratiche sessuali legate al controllo dell’energia psicofisica. Namkhai Norbu dice che è molto interessante, e io sono naturalmente incuriosito, ma devo accontentarmi di sapere che un giorno, forse, sarà tradotto. Il titolo richiama il tipo di insegnamento al quale si
riferisce il testo. Il principio dell’autoliberazione è Dzogchen, lo stato naturale dell’individuo. Non essendo di per sè un metodo, si serve di tutti i metodi.
Quello indicato da Changchub Dorje nel libretto rosso, prima di lasciare questo mondo, si riferisce al sesso, quindi tra i più piacevoli da mettere in pratica (anche se ovviamente il sesso è qui visto solo come uno strumento di realizzazione spirituale). Si tratta con tutta probabilità di tecniche per integrare la forte energia messa in movimento con l’atto sessuale nello stato di contemplazione.
È una caratteristica di molte religioni e filosofie orientali quella di utilizzare questi metodi per raggiungere livelli superiori di conoscenza. Ma molti sentono parlare di Tao del sesso, ad esempio, e pensano che occorre trattenere il seme inibendo l’orgasmo. Qualcuno magari cerca con grande leggerezza, dopo aver sfogliato un libro sull’argomento, di mettere in pratica ciò che ha letto, rischiando così di crearsi seri problemi.
Rinpoche mi spiega che, “Solo anni e anni, di pratica, con un partner affiatato e sotto la guida di un maestro esperto, si
può dominare e concentrare il flusso delle sensazione nel giusto modo”.
L’integrazione nello stato naturale avviene infatti attraverso canali sottili di energia che il praticante deve imparare a riconoscere, istruito e guidato. Il fine non è l’appagamento fisico, ma la realizzazione della cosiddetta
unione di chiarezza e vacuità. È questo il riconoscimento dello stato naturale di ogni individuo.
L’atto sessuale tra uomo e donna viene anche presentato come unione (
yab yum) del principio maschile, il metodo, con quello femminile, l’energia. Il metodo, da solo, non può portare ad alcuna realizzazione, e così l’energia.
Molte figure
yab yum pacifiche e anche terrifiche affrescano le parete del tempio di Nyaglagar, a indicare la natura divina di queste pratiche di cui gli uomini hanno perso la conoscenza.
Tutte le immagini di maestri e Yidam della tradizione figurativa tibetana offrono un’interpretazione visionaria che trascende il solo livello artistico, la rigida ripetizione di forme e gesti. Il tempio è quasi sempre vuoto, e cosa ci rechiamo là spesso insieme a Namkhai Norbu cercando la luce giusta per fotografare i grandi dipinti che riempiono ogni angolo di parete, tutti realizzati durante la vita di Changchub Dorje sulla base delle sue esperienze e visioni.

Un giorno finalmente scopriamo l’ora giusta per le riprese, quando il sole batte trasversalmente dall’apertura superiore illuminando i muri ricchi di colori. Più di tutte colpisce la pittura di Ekajati. Il suo corpo e nero e sinuoso, con le braccia tese e l’unico occhio splendente al centro della fronte. Grande quasi come un uomo, la figura è avvolta dalle fiamme e l’insieme manifesta una vitalità sorprendente.
Guardando questa immagine, tutto il resto sembra entrare in movimento, come una lenta, emozionante danza di mostri proiettata sulle pareti da un’invisibile telecamera. La luce del sole offuscata dalle nuvole va e viene dal soffitto come i fari psichedelici di un locale notturno, ma senza alcuna musica, senza rumore.
Molto più inquietanti sono gli affreschi del piccolo tempio dedicato alle divinità terrifiche, dove le figure dipinte in oro risaltano sullo sfondo nero e sembrano uscire da un incubo. Entro per la prima volta con un gruppo di bambini che indicano l’ingresso, una porta piccolissima dove bisogna abbassarsi per passare, e mi invitano a sedere sul cuscino davanti al leggio e al piccolo altare, come fossero loro i padroni di casa.
Mi guardo un po’ attorno, e presto entra uno dei vecchi monaci che fu discepolo di Changchub Dorje. È l’ora del rito delle divinità guardiane raffigurate così intensamente su questi muri il monaco mi invita a restare. Mi chiede se voglio accompagnarlo usando il tamburo, mentre lui recita il rito suonando il campanello, altro simbolo dell’energia nello stato primordiale. Il tamburo e molto grande, viene percosso con un femore provocando un suono basso e profondo,
sicuramente quello che sentiamo tutte le notti.
Sono presto costretto a interrompere i miei tentativi di indovinare il ritmo, perché – senza comprendere la lingua e momenti di
più intensa invocazione – finisco con il drammatizzare o enfatizzare nel momento sbagliato, e batto magari fiaccamente sul tamburo quando il testo prevede l’ingresso e l’intervento degli spiriti invocati.
Molte pratiche religiose somigliano ai rituali sciamanici, perché ne sono senza alcun dubbio figlie. La ricerca del rapporto con il mondo dello spirito nasce da un’esigenza forte e profondamente umana di capire, al di là dell’apparenza. Per i tibetani il dialogo con quelle
entità che non vediamo materialmente ma che sono in contatto con noi nelle mille forme visibili e invisibili, deve avere un suo linguaggio, i suoi codici d’accesso nella natura stessa.
Se un cane vuole comunicare con noi, usa particolari forme d’espressione. Così noi utilizziamo parole, gesti, disegni e, soprattutto, la mente, sia per trasmettere che per ricevere messaggi. I mantra, le invocazioni, i riti, sono frutto dell’esperienza antica di molti uomini che prima di noi hanno sentito la stessa esigenza di comunicazione. E che ingiustamente o superficialmente sono stati giudicati per molti anni stregoni, o sciamani in senso dispregiativo, sia dagli occidentali che dagli stessi buddhisti.
In epoche ormai remote, questo è vero, con grande ignoranza e scarsa considerazione della vita in molte parti del mondo, Tibet compreso, si compivano sacrifici animali e
d umani (e ancora oggi, per fortuna raramente, in qualche angolo del mondo se ne compiono). Ma poi si è pensato che gli stessi risultati, per ottenere il favore del cielo, potevano essere raggiunti usando simbolicamente immagini, statue, come ha insegnato Shenrab Miwoche, riformatore del Bön tibetano.
Proseguendo nel cammino della conoscenza, lentamente, l’umanità potrebbe scoprire che non serve nessun canto, nessuna preghiera, ma un reale stato di contemplazione per ottenere la pace con gli esseri di tutte le dimensioni. https://it.melong.com/il-tibet-di-chogyal-namkhai-norbu-parte-8/

Consacrazione dei chorten

Raimondo Bultrini continua a raccontare i suoi viaggi e le sue esperienze con Chögyal Namkhai Norbu in Tibet nel 1988. A Nyaglagar, residenza del maestro radice di Rinpoche, Changchub Dorje, il Maestro guida una puja per consacrare i chorten e Raimondo cerca la grotta di uno dei sogni di Rinpoche.

La visita di Namkhai Norbu a Nyaglagar è un avvenimento eccezionale per molti motivi. Primo
tra tutti il ruolo che riveste la figura di un “reincarnato” nella cultura del popolo tibetano. Il “tulku” è un po’ parente della divinità stessa, e la sua sola presenza benedice luoghi e persone. Inoltre
a Nyaglagar Namkhai Norbu fu uno dei discepoli più importanti del lama fondatore.
Per questo gli chiedono di consacrare con una lunga cerimonia tutti i chorten e i luoghi di culto.
La forma e il rituale hanno la loro importanza, perché di fatto sono stati invitati in casa degli ospiti, anche se invisibili. È buona regola quindi offrire nel modo dovuto dolci, liquori, cibo.
Così la cerimonia è anticipata da una puja, un banchetto che – vista l’eccezionalità dei convitati – segue modalità un po’ particolari. La puja è un altro rituale caratteristico delle religioni orientali, durante il quale le offerte sono presentate dapprima alle divinità e agli esseri superiori, poi a se stessi, infine agli esseri inferiori e a tutti gli altri che si intende beneficiare.
Trent’anni dopo, a Namkhai Norbu sono offerti i panni e gli oggetti del suo maestro per guidare
la grande puja che inizia al mattino presto nel tempio. Le visite nella nostra stanza diventano
così più frequenti e veloci.
I preparativi avvengono tutti nel tempo. Su di un altare illuminato da centinaia di lampade al burro sono già pronte le offerte dei 
torma, impasti modellati di tsampa, burro e zucchero a forma di cono, al quali si aggiungono piccole palline di solo burro, che conferiscono ai torma delle forme da bambole. Sostituiscono simbolicamente le vittime dapprima umane poi animali che venivano offerte anticamente alle divinità. C’è anche del semplice cibo, riso, carne, dolce,
liquori.
Tutto viene autenticato dai mantra all’inizio della cerimonia, ma io non vi partecipo. Namkhai Norbu è categorico: “La tua presenza è inutile, non sai nemmeno leggere i testi”. In questo caso i rituali sono fondamentali, perché le offerte vengono destinate attraverso i gesti e le intenzioni a esseri che non possono goderne nella loro forma materiale.

Un paragone molto azzardato può essere fatto con il cibo il vino della liturgia cristiana, ma solo come principio di trasformazione, di transustanziazione dalla offerta materiale. E questo richiede pratiche precise, formule di comunicazione tra esseri che parlano lingue differenti.

Quando giungo al tempio un’ala di folla che non ha trovato spazio all’interno si apre per farmi accomodare nella grande sala degli affreschi. L’interno ha completamente cambiato fisionomia
rispetto ai giorni precedenti; da una parte siedono monaca e praticanti, dall’altra le donne
raccolte intorno alla vedova del figlio di Changchub Dorje, a Sonam Palmo e Phuntsog.
Cantano salmodiando con toni bassi, interrotti da acuti di trombette e conchiglie, rulli di damaru e tamburi. Ogni tanto Rinpoche, assistito da Karwang, asperge le offerte di vino dolcissimo che viene poi distribuito nella sala. Tutti bevono un sorso e versano il resto sul capo.

Intendono nutrire cosa corpo e mente con il nettare della purificazione, precedentemente offerto alle divinità.

A un tratto la cerimonia s’interrompe e nel tempio c’è un gran trambusto. Namkhai Norbu, Karwang e gli altri lama si stanno cambiando d’abito è giunto il momento centrale della giornata.
La processione degli officianti sta uscendo per consacrare chorten e templi. Con la telecamera
riprendo la folla che si è già riversata all’aperto e scatto anche qualche foto. Molti sono i bambini, naturalmente curiosi, che vogliono vedere la telecamera e la macchina fotografica, ma, rispettosi, non toccano nulla. Uno di loro, che si è offerto di orgoglioso con la mia borsa a aiutarmi, gira tracolla e mi segue ovunque silenzioso.
Intanto, dalla porta del tempio escono in fila i monaci e i lama, compiono un giro in senso orario intorno all’edificio e lo stesso faranno con tutti i chorten, disseminati lungo il perimetro del villaggio. La gente si accalca nelle strade, sale sulle collinette di terra, riscende verso il flume, segue il corteo e lo precede. Questa cerimonia ha qualche vaga esteriore somiglianza con la processione cristiana, ma tutto intorno è Tibet e buddismo: il suono dei corni e dei tamburi, il forno dove bruciano con i cipressi le offerte di cibo della ganapuja e quelle portate dalle case della gente. Davanti a ogni chorten il corteo si ferma mentre i lama lanciano chicchi di riso e acqua cantando mantra. Io corro lungo le stradine strette per giungere in anticipo sugli altri e filmare con la telecamera, sempre seguito dal ragazzino con la borsa delle macchine fotografiche a tracolla. Non ho quasi più forze quando c’è l’ultima sosta davanti al chorten più grande, dove probabilmente saranno deposte in futuro le reliquie di Changchub Dorje.

Comincia un lungo canto accompagnato dal suono degli strumenti. Rinpoche si trova ormai al centro del gruppo degli officianti. Nella mano sinistra tiene un campanello, con la destra muove un dorje con gesti ripetuti, lenti, ellittici. Il canto monocorde e basso è trasportato dal vento dell’altopiano, mentre il pubblico assiste in piedi, serio e assorto, ma anche incuriosito e divertito da questa giornata fuori dall’ordinario che il villaggio sta vivendo.
Al ritorno nel tempio la ganapuja riprende e tutti siedono nuovamente ai propri posti. È il momento dell’offerta del cibo, che rappresenta l’esperienza dei sensi. In un’unica ciotola vengono accomunati sapori dolci e salati, acri e piccanti: la scelta significa che le diverse esperienze dei sensi hanno un unico valore per chi conserva la presenza dello stato di contemplazione.
Uno dei giovani monaci incaricati di distribuire le ciotole, ne offre una anche a quattro personaggi appoggiati alla porta del tempio che non sembrano avere affatto l’aria di abitanti del villaggio. Hanno volti di tibetani ma vestono all’occidentale, e la loro presenza è strana in questi luoghi dove si arriva solo a cavallo. Sono poliziotti spediti da Qamdo, il capoluogo distante un paio di giorni da qui, per controllare i nostri permessi. Evidentemente qualche segnalazione è giunta al loro comando. Hanno modi sgarbati e arroganti, e soprattutto il più anziano insiste molto sul fatto che il mio permesso non è valido.

Namkhai Norbu, pur mantenendo uno sguardo freddo, senza espressione, e visibilmente irato.
Quando li sente parlare in lingua mandarina gli chiede: “Ma voi non siete tibetani?” I poliziotti rispondono di sì, poi cercano di giustificarsi con delle scuse: “Pensavamo che lei non comprendesse il dialetto di Lhasa”. E lui: “In ogni caso si può intuire che capisco meglio il dialetto di Lhasa del cinese”.

L’incontro, mentre i monaci servono dolci e cibo agli indesiderati visitatori, si conclude senza alcun problema per il mio soggiorno e la puja riprende regolarmente. Sono sempre più colpito dalla gentilezza di tutti, anche nei confronti dei poliziotti, rappresentata di un potere qui praticamente invisibile, ma che è legato soprattutto al ricordo delle inutili violenze della Rivoluzione.
Raccontano che in quegli anni, poiché i cinesi non avevano abbastanza munizioni, facevano affluire nella zona di Qamdo un gran numero di prigioniera tibetani e poi li facevano sdraiare al
suolo lungo la strada su due file parallele con le teste allineate, in modo che le ruote del camion potessero passarci sopra.
Sempre provo un certo imbarazzo a sentire questo tipo di racconti e più di una volta mi è capitato di restare incredulo. Come quando mi raccontavano che ai familiari dei detenuti fucilati venivano chiesti i soldi dei proiettili usati dal plotone d’esecuzione se volevano riavere indietro il corpo. Solo dopo la strage di Tienanmen ho scoperto – e con me tutto il mondo – che questa usanza è ancora oggi in vigore.
Dicono che Nyaglagar usci quasi indenne dalle vicende dei vent’anni di terrore, grazie all’impronta profeticamente ​​”socialista” del suo fondatore. Lo stesso Changchub Dorje contribuiva alle attività del villaggio con il suo lavoro di medico, che lo aveva reso famoso in gran parte del Tibet, e possedeva un carisma che non lasciava indifferenti neppure i nemici della religione. Sarebbe bastata l’accusa di uno dei tibetani della zona passati al nuovo regime
per condannarlo a morte. Ma il lama visse molto a lungo, oltre 130 anni, secondo i calcoli dei discepoli più anziani. E quando i cinesi vollero processarlo, nessuno parlò contro da lui.

Il sogno del Thögal

Man mano che vengo a sapere i particolari della vita di quest’uomo così longevo e fuori dalla norma, vorrei conoscere tutto di lui, oltre a coltivare il solito segreto desiderio di vedermelo comparire davanti da un momento all’altro.
Quando per la prima volta entriamo nella casa dove aveva vissuto Changchub Dorje siamo seguiti da un nutrito gruppo di persone. Il nipote Karwang ci indica due grandi casse di legno dentro una stanza buia. Pare che qui sia conservato il corpo sotto sale del maestro. Tutti sono in raccoglimento, mentre io resto un po’ deluso. Mi aspettavo prodigi, e invece non succede un bel nulla.

Non smetto però di sperare che – dopo avermi visto nella sua stanza – Changchub Dorje comparirà in qualche mio sogno. Invece mi aspetta una notte di febbre, freddo, diarrea. Uno dei monaci che studiarono medicina con il lama mi tocca la fronte e controlla il polso. Poi torna con una decina di microscopiche pillole da masticare e bere con acqua calda. Mi addormento
subito. E al mattino la febbre non c’è più.
L’eventualità che un maestro come Changchub Dorje compaia nel sogno non è solo una mia
idea stimolata dai racconti dei suoi vecchi discepoli. Lo stesso Namkhai Norbu deve ai sogni
le svolte storiche della sua vita. La prima volta fu quando vide il maestro e il suo villaggio con
tanta dovizia di particolari da riconoscerli nella descrizione del viaggiatore che tornava proprio
da Nyaglagar, convincendosi a mettersi in viaggio per venire qui. Accadde la stessa cosa molti anni dopo, quando Rinpoche si era ormai stabilito in Occidente.
Insegnava già il tibetano agli studenti dell’università di Napoli e stava per sposarsi con Rosa, una giovanissima ragazza italiana conosciuta a Roma. Molti studenti gli erano affezionati e da tempo insistevano perché – al di là dei normali corsi dell’università – Namkhai Norbu trasmettesse anche gli insegnamenti che aveva ricevuto in Tibet.
Il giovane lama-professore non osava però andare incontro al rischio di parlare del Dharma a persone tra le quali ve ne fosse anche una sola non realmente interessata, e non si sentiva mai pronto. Nei suoi sogni, che corrispondevano anche a desideri profondi e naturali, tornava spesso in Tibet, quella terra che la politica gli impediva fisicamente di rivedere. Non di rado la mente viaggiava verso Nyaglagar, uno degli ultimi luoghi visitati prima di lasciare il paese  delle nevi.
Namkhai Norbu era uno di quei discepoli in grado di praticare anche senza doversi sedere in meditazione. Applicava quindi normalmente il 
tregchöd, un termine che significa “tagliare ciò che lega”. Quando le tensioni si accumulano dentro, spiegano i maestri, sono come tanti bastoncini che una corda tiene legati insieme saldamente. Tagliando la corda il fascio si scioglie. Con anni di esperienza, Namkhal Norbu era riuscito a integrare pienamente questa pratica nella sua vita quotidiana. Ma il momento del ‘salto’ alle pratiche più avanzate sembrava
ancora lontano.
Una notte, tornando nel sogno a Nyaglagar, incontrò Changchub Dorje. Il suo vecchio maestro
gli fece qualche domanda sulla vita in Occidente, poi chiese come procedeva la pratica del
thögal, che vuol dire “sorpassare ciò che è sopra a tutto”, cioè oltre l’ordinario controllo della mente e dei sensi. Insegnamento avanzato e tra i più segreti, richiede un perfetto controllo della propria condizione di corpo, voce e mente: quindi un tregchöd ben stabilito.
Changchub Dorje aveva già introdotto il giovane tulku a thögal durante la sua presenza fisica a Nyaglagar. Ma quando senti che Namkhai Norbu non aveva fatto nessun progresso in quella direzione, lo invito a recarsi immediatamente da un famoso maestro, Jigme Lingpa. Namkhai Norbu ne fu piuttosto sorpreso, perché Jigme Lingpa era vissuto più di due secoli prima. Ma, conoscendo la severità di Changchub Dorje, che non amava vedere messi in discussione i suoi consigli, il discepolo preferì non contraddirlo. Si avviò così senza indugi verso il luogo indicato, proprio al di sopra del villaggio di Nyaglagar, arrampicandosi su rocce levigate e sulle quali erano scolpiti proprio i versi dei tantra del thögal, la nuova pratica che andava cercando.
Evitando di calpestare le scritte sacre, giunse in cima ed entrò in una grotta secondo le indicazioni del maestro. Li, con sua grande sorpresa, c’era solo un bambino dai lunghi capelli che cominciò subito a leggere il testo su un piccolo rotolo di papiro: la pratica dellequattro luci del 
thögal. Questo e altri sogni furono determinanti per il praticante esule in Italia. Si sentì finalmente certo del fatto suo e sicuro di non insegnare al suoi studenti cose slegate dalla
propria diretta esperienza.
È un po’ qui il senso della trasmissione di una conoscenza. “Se cerchiamo di capire com’é fatto un oggetto al centro di una stanza buia – mi spiega Namkhai Norbu – possiamo ascoltare molti discorsi fatti per descriverlo. Ci diranno che è tondo o quadrato, alto o basso, opaco o trasparente. Ma solo con l’esperienza diretta possiamo sapere davvero cos’è. Il maestro è colui che accende per un istante la luce nella stanza e ci permette di vedere da soli, come un flash, che cosa è realmente quell’oggetto.”

Alla ricerca della grotta

Chiacchierando con i lama di Nyaglagar, Namkhai Norbu racconta anche a loro la storia del sogno. Sentita la descrizione del luogo, tutti sono sicuri che la grotta esiste realmente, e che è
distante solo alcune ore dal villaggio.
Naturalmente mi offro subito di andare, ma Rinpoche pensa che sia troppo rischioso. Per raggiungerla occorre usare una scala di legno molto alta e appoggiata a una roccia su uno strapiombo. Le scale tibetane non hanno pioli dove posare comodamente i piedi, ma semplici incavi ricavati nel tronco non più largo di 20, 30 centimetri. Solo dopo due giorni di insistenze da parte ma, vengo autorizzato a cercare la famosa grotta, a piedi e accompagnato da due ragazzi.

Jedup e Tsema Nongro sono buoni scalatori e tengono un passo celere. lo non riesco a stargli
dietro, ma si fermano spesso ad aspettarmi. Per quattro ore camminiamo in salita prima di
raggiungere una grande cima di roccia dove sono appoggiate non una ma due pericolose scale di legno. Namkhal Norbu ha potuto raggiungere questo posto in sogno, io invece devo
arrampicarmi con il mio corpo fisico, ancora malaticcio.

Prima di raggiungere la grotta, completamente stremato dalla fatica, i due giovani accompagnatori mi indicano un’altra profonda apertura nella roccia dove c’è una statuina di Dolma Tara che si ritiene auto-originata. La sua forma è abbastanza ben modellata e ricoperta
di abiti in seta, come una bambolina. Non posso credere che sia stata scolpita da madre natura, ma la roccia della caverna è così dura che sembra difficile da modellare anche con lo scalpello.
Continuiamo a salire fino alla nostra meta, incontrando altre grotte di varie dimensioni, dove spesso sì formano specchi d’acqua purissima ornati da grandi ninfee galleggianti. C’è un’altra ‘scala’, questa praticamente sospesa nel vuoto, su cui inerpicarsi prima di raggiungere la cima
che ospita la grotta. L’interno della caverna è protetto da un muro di legno, perché negli ultimi anni molti yogi sono rimasti in ritiro qui dentro. C’è un primo anfratto da roccia nuda, poi una nuova porta di legno e la stanza di meditazione con molti oggetti inaspettati: un tavolino, qualche statuina, strumenti rituali.
L’interno della grotta trasmette un’energia fortissima che amplifica il suono degli stessi mantra. I due ragazzi accendono i rami di cipresso dal profumo intenso, e le aquile volano sulla valle, illuminata a tratti dal sole che entra ed esce da nuvole scure che minacciano pioggia. Bisogna
sbrigarsi a scendere, ma restiamo tutti e tre immobili e incantati a guardare il grande precipizio
sotto di noi che prosegue come un’enorme ferita tra le montagne, fino alla valle, oltre il fiume di Nyaglagar.

Al ritorno descrivo ogni dettaglio a Namkhai Norbu, ma non sembra molto interessato alla grotta che ho visitato. È assai più incuriosito da un’apertura rotonda che ho visto sul fianco della montagna vicina, praticamente irraggiungibile a meno di non trasformarsi in aquile. Potrebbe anche essere quello il luogo del sogno, ma fortunatamente non mi chiede se me la sento di tornare.
Il mio lato mistico sta ormai prendendo decisamente il sopravvento e sono proprio ansioso di entrare in contatto diretto con Changchub Dorje. Di mattina presto partiamo con Namkhai Norbu e il solito drappello di persone per un’escursione nel cuore della montagna che sovrasta Nyaglagar.

Giunti alla grotta degli insegnamenti, proseguiamo verso una volta naturale che dà accesso a una fitta rete di cunicoli dove Changchub Dorje scopri la speciale argilla che usava per medicine e oggetti sacri.
Qui Namkhai Norbu m’impedisce di proseguire oltre, con una battuta tagliente. “È inutile che tu mi segua, – dice – tanto la tua è solo curiosità”. Sento nuovamente il mio orgoglio ribollire e mi carico di tensione.

Qual è allora la differenza tra la sincera volontà di conoscere e la curiosità?
Non è un interrogativo di poco conto. Mette in discussione molta parte del mio passato e le mie convinzioni.
È ormai sera, siamo rientrati da qualche ora. Ripenso all’episodio della grotta e ammetto che, sì, ero prima di tutto curioso. Ma sento di aver davvero voglia di capire qual è la chiave che apre la porta del segreti di questo luogo. Con questo desiderio mi addormento, ascoltando nuovamente il suono dei lunghi corni che si diffonde cupo tutt’intorno.

https://it.melong.com/il-tibet-di-chogyal-namkhai-norbu-parte-9/?fbclid=IwAR17zE_hc3i89nKWkKXHq6bQM4M-1AFpg18iKYrwMGK1mpwF2uZgq9Ib3vU

Parte 1: Chögyal Namkhai Norbu a Chengdu, 1988

Parte 2: Il Tibet di Chögyal Namkhai Norbu

Parte 3: Verso Derghe
Parte 4:
Da Galenteen alla valle Lhalung
Parte 5:
Sulla strada per Nyaglagar
Parte 6:
Il Maestro del Maestro

Video: Chögyal Namkhai Norbu in Tibet, 1988